Restano solo due strade: l’assalto a Mediobanca o la conta in assemblea

Nelle grandi partite finanziarie italiane l’aspetto personale è sempre determinante, per questo spesso somigliano a lotte di potere in cui il destino delle aziende resta in secondo piano. Quella per la conquista delle Generali è plasticamente rappresentata dall’anagrafica dei due assaltatori: 86 anni Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, 78 anni Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore romano alla testa di un impero oggi tanto imprenditoriale quanto finanziario. Non si tratta, però, solo delle bizze di ricchi uomini anziani annoiati, ci sono anche i soldi: oggi il gap di valore in Borsa delle Generali rispetto ad Axa e Allianz, principali competitor, è molto superiore a 15 anni fa. L’amministratore delegato Philippe Donnet, a Trieste da un decennio, l’ha gestita per sei anni distribuendo ricchi dividendi agli azionisti, come si è sempre fatto. Recuperare il terreno perso con Allianz, che capitalizza quasi due volte e mezzo Generali, è impresa ardua. Donnet però ci ha messo del suo: gran parte delle operazioni le ha fatte coi rivali francesi di Axa, alimentando le voci complottiste del manager francese che lavora per regalare il gruppo ai concorrenti d’Oltralpe, poi si è lanciato nella insensata conquista di Cattolica, utile solo ad aiutare Intesa – e il suo advisor Mediobanca – a conquistare Ubi, di cui Cattolica era azionista.

Ma il lato “umano” non va sottovalutato: a muovere Del Vecchio è davvero la rivalsa per lo smacco subito dai soci dello Ieo (l’Istituto oncologico europeo fondato da Umberto Veronesi), guidati da Mediobanca, che nel 2018 rigettarono la sua proposta di realizzare una nuova “Città della Salute”. Caltagirone si è messo in scia, nella speranza di vedersi riconosciuto quel ruolo che la finanza milanese, nonostante i soldi, non gli ha mai tributato. I due vogliono Donnet fuori ad aprile. Insieme hanno siglato un patto di consultazione che, con la torinese Fondazione Crt, controlla quasi il 13% di Trieste. Mediobanca, primo azionista col 13%, lo difende per difendere la poltrona del suo ad, Alberto Nagel, che oggi è accerchiato. In pochi mesi Del Vecchio è salito al 19% in Mediobanca, diventandone il primo azionista. Nei giorni scorsi Nagel ha reagito facendosi prestare il 4,3% dei diritti di voto delle Generali fino all’assemblea di primavera. Un gesto disperato, mai visto nella settantennale storia dell’ex salotto finanziario italiano: i titoli li presta la francese Bnp Paribas, che ha in deposito azioni dei clienti, tra cui proprio Axa.

La mossa e il carattere dei personaggi dice che pareggio non può esserci. Due sono le alternative. La prima è che i due assaltatori presentino una lista alternativa a quella del cda uscente e vadano alla conta in assemblea. A quel punto la partita sarà in mano ai fondi istituzionali, che vanno convinti, roba a cui Del Vecchio non è abituato e col rischio di una spaccatura dagli esiti imprevedibili. L’altra è che Del Vecchio lanci l’assalto a Mediobanca. Ai tempi del fondatore Enrico Cuccia era il crocevia del capitalismo di relazione, dove capitalisti senza capitali governavano il sistema industriale e finanziario italiano, oggi è una media banca europea. Cuccia le azioni le pesava mentre Nagel se le fa prestare ma la mossa conferma che senza la partecipazione in Generali, che vale metà degli utili, Mediobanca non va lontano. Il patto di sindacato che ha presidiato la banca per anni ha perso le grandi famiglie, dai Berlusconi ai Benetton (azionisti anche di Generali e pronti ad aiutare i due assalitori) e oggi resiste al 10% grazie all’ingresso di Monge & C, leader del cibo per animali domestici. Il presunto asse con l’ad di Intesa SanPaolo, Carlo Messina, si è dissolto dopo la presa di Ubi.

Otto anni fa, l’ex presidente di Generali Cesare Geronzi, cacciato nel 2011 da Nagel, accusò Mediobanca di aver frenato le ambizioni delle Generali perché gli azionisti non avevano risorse sufficienti. Oggi i secondi si ribellano. La partita è aperta.

Generali: ecco cosa c’è dietro la guerra di Calta&Del Vecchio

Da mesi rullano i tamburi: ciò che resta del capitalismo italiano va alla guerra per il controllo delle Assicurazioni Generali. Di là, arroccati in difesa, la controllante Mediobanca e i suoi vassalli, di qua, all’attacco, alcuni azionisti forti della compagnia – e anche della banca fondata da Cuccia – come Caltagirone e Del Vecchio, con i Benetton in mezzo e, per ora, “neutrali”. A far gola sono i 497 miliardi di investimenti del Leone che a fine giugno, da solo, valeva metà dei mille dell’intero settore italiano.

Il casus belli è la gestione: chi prenderà il timone alla prossima assemblea degli azionisti cambierà la rotta del gruppo. Del Vecchio e Caltagirone vogliono una grande acquisizione che riporti Generali alle dimensioni dei concorrenti, la tedesca Allianz, la francese Axa e la svizzera Zurich, in vent’anni cresciuti molto più della società italiana. Per questo intendono cacciare l’amministratore delegato Philippe Donnet che sinora, invece, ha realizzato operazioni medio-piccole, come quella su Cattolica la cui Opa parte oggi.

Sulla gestione ordinaria, però, poco si può contestare all’ad: sono stati centrati e superati gli obiettivi dei due piani industriali proposti da Donnet, in carica dal 17 marzo 2016, che peraltro erano sempre stati approvati all’unanimità dai consiglieri di amministrazione, anche da quelli indicati da Del Vecchio e Caltagirone. Piani che hanno consentito elevati ritorni sul capitale e pagato ricchi dividendi, a spese però di un alto indebitamento. Rispetto ai carrarmati stranieri, oggi Generali è dunque una leggera granturismo lanciata in pista a 270 chilometri all’ora rispetto ai 240 previsti e c’è chi rinfaccia al guidatore che potrebbe volare fino a 300.

Fondata nell’allora asburgica Trieste il 26 dicembre 1831, l’assicurazione ha spesso dettato la linea durante le svolte del settore: l’introduzione della previdenza integrativa, la riforma della Rc auto, le liberalizzazioni di Bersani, le norme sui requisiti patrimoniali – con le direttive europee Solvency 1 e 2, della quale la lobby continentale chiede una revisione meno onerosa -, la proposta di copertura obbligatoria degli immobili contro le calamità naturali. Ma ha dovuto anche fare i conti con la grande crisi del 2007, le tensioni sui titoli di Stato del 2011, la pandemia che ha pesato sul primo semestre 2020.

Secondo Prometeia, l’anno scorso la raccolta Vita nazionale è calata (-1,8%), ma Generali Italia è tra le quattro compagnie che l’hanno aumentata: col 17,3% dei premi Vita nazionali il gruppo svetta davanti a Intesa (14,9%), Poste (14,7%) e Allianz (10,7%) e crescerà ancora grazie alla conquista di Cattolica. Nei Danni, nel 2020, Generali era seconda in Italia ma in crescita con il 13% dopo UnipolSai (17,8% ma in calo) e Allianz (11,3%, in calo): con il 4,5% di Cattolica, Generali tallonerà il leader. A livello globale, nel 2020 il gruppo ha visto però la raccolta totale calare dell’1,2% per la frenata dei prodotti di risparmio in Italia e Francia non compensata dall’aumento del Vita, mentre nei Danni l’andamento è stato positivo. Tra i concorrenti, la raccolta totale di Axa è calata del 6%, mentre quella di Allianz è rimasta stabile. In un anno difficile per il Covid, Generali ha visto un calo dell’utile per la diminuzione del ritorno sugli investimenti, ma la sua redditività è rimasta più alta di quella di Axa e seconda solo ad Allianz.

D’altra parte, se si guarda ai trend del settore in Italia rispetto a quelli esteri, la diffusione del ramo Danni in Italia è ancora molto inferiore a quella di altri Paesi europei, specie sui rischi per la salute e le catastrofi naturali. Invece gli investimenti in polizze Vita delle famiglie italiane superano il 18% dei 4.800 miliardi di risparmio nazionale e sono quasi raddoppiati dal 2007. Un dato molto superiore al 14,2% medio di Francia, Spagna, Regno Unito, Germania e Olanda.

La raccolta premi in Italia è stabile tra i 130 e 140 miliardi l’anno, dei quali tra 100 e 115 nel Vita. Le compagnie nazionali sono fortemente solvibili, quasi 2,5 volte il minimo normativo e più della media europea. La redditività è nella media Ue, con un utile netto di settore nel 2020 di 8,6 miliardi, in linea con il 2019 nonostante il Covid. Sul fronte degli investimenti, i titoli di Stato (italiani ed esteri) in mano alle compagnie l’anno scorso sfioravano i 450 miliardi, dei quali circa 345 miliardi in bond nazionali, un sesto di quelli in circolazione. Generali da sola ne ha una sessantina di miliardi.

Il Leone è leader in Europa per raccolta premi (70,7 miliardi lordi). Il suo risultato operativo consolidato nel 2020 è stato di 5,2 miliardi (5,19 nel 2019), pari al 21,2% del fatturato 2019 e al 18,4% di quello 2020, con un capitale regolamentare stabile al 224%, oltre due volte i minimi normativi. Le relazioni sindacali sono ottime, i dipendenti del gruppo a fine giugno erano 71.860. Il titolo è passato da un multiplo prezzo/utile di poco più di 8 volte nel 2016 all’attuale 10,2.

Nei cinque esercizi della gestione Donnet, Generali ha versato agli azionisti 7,1 miliardi di dividendi. Dalla presentazione del piano 2016-2018 a oggi, il Leone ha garantito agli azionisti un ritorno totale pari al 113%, rispetto al 93% di Zurich, 63% di Allianz e 39% di Axa. La redditività è favorita da un’alta leva finanziaria che potrebbe essere ridotta anche mediante un aumento di capitale, ma nel regno della rendita immaginiamoci se gli azionisti vogliono mettere mano al portafoglio, mentre i concorrenti invece investono per crescere.

Se si guarda alla capitalizzazione di Borsa nel 2020 solo Allianz valeva di più sul mercato rispetto ai massimi pre-crisi del 2007 (82,7 miliardi, +23,4%), mentre Axa segnava -15,7% (47,2 miliardi) e Generali addirittura -48,3% (22,5 miliardi). Di certo l’alto livello del debito ha pesato, come pure la scarsa presenza nell’asset management, sul quale però ora si punta con forza: i capitali gestiti totali erano 672,4 miliardi a fine 2020 (+5,7%). Dall’ingresso in carica di Donnet, il titolo in Borsa ha guadagnato il 34,7% e il 29% solo quest’anno – grazie ai venti di guerra e agli acquisti di Del Vecchio e Caltagirone – e oggi tratta a 18,4 euro circa dopo il crollo per la pandemia al minimo di 10,735 euro del 19 marzo 2020. La flessione dell’azione dai massimi storici non è però tutta colpa del management: pesano la crisi del sistema Paese e la marginalizzazione di Piazza Affari rispetto alle grandi Borse mondiali. Dopo la semestrale, gli analisti hanno posto i target price tra 19 e 21 euro. Secondo Credit Suisse, Generali scambia a un multiplo prezzo/utile atteso al 2022 di 9,8 volte, in linea coi concorrenti, ma offre una generazione di capitale operativo più alta: eppure gli analisti preferiscono i titoli di Axa, Allianz e Zurich per le migliori prospettive di crescita.

Dopo il piano di cessioni di business non performanti del 2017-2018, il Leone è tornato a comprare: dal 2018 ha già speso 2,1 miliardi in 11 acquisizioni, ai quali ora si sommeranno altri 1,2 per Cattolica. Sono state tutte, però, operazioni minori: il grande colpo è mancato. L’effetto di queste operazioni non ha esaltato i mercati e la capitalizzazione non ne ha sinora goduto. Ma ora Del Vecchio e Caltagirone vogliono cambiare. Secondo alcuni analisti, senza Mediobanca al comando Generali potrebbe prendersi il controllo di UniCredit (dove guarda caso Del Vecchio è azionista) e realizzare la più grande società di bancassicurazione d’Europa, a guida italiana e con ritorni assai più alti per gli investitori, grazie al fatto che la vendita di polizze allo sportello, col contratto di lavoro dei dipendenti bancari, ha costi di distribuzione molto inferiori rispetto a quelli delle reti degli agenti assicurativi. Ma lo scontro sulla governance è un rischio: con i capponi di Renzo che si scannano tra loro, il Leone ora potrebbe anche finire nel mirino di qualche cacciatore estero.

Le vite che sogno. Quella voglia pazza di aprire un ferramenta (o diventare regina d’Inghilterra)

Epoi ci sono le vite che non hai mai vissuto e all’improvviso ti viene voglia di viverle! Cose che non avresti mai pensato di fare le hai evidentemente depositate nella mente e sono rimaste lì, irrealizzate, pronte a emergere all’improvviso nei momenti meno prevedibili.

Tempo fa, mi sono svegliata con un’ irresistibile voglia di aprire un negozio di ferramenta. Non un grande negozio, una botteghina provvista di tutto: chiodi, viti, cacciaviti, martelli, forbici, cesoie, catene, e all’improvviso, mi sono resa conto che quella era la cosa che avrei sempre voluto fare. Quello era il senso della mia vita, ero felice e non so il perché. Non ho mai avuto un particolare interesse per i negozi di ferramenta, e soprattutto non sono scontenta della mia vita, ma evidentemente in qualche angolo recondito della mia testa, vivono sogni e fantasie che non riesco a dominare. Ben presto la fantasticheria è cambiata, mi sono di colpo immaginata a bordo di un razzo, in partenza per lo spazio, con tre astronauti russi noiosissimi, chiusa in una terribile tuta ermetica, con un immediato e irrefrenabile bisogno di fare la pipì. Bisogno impossibile da realizzare se non dopo ore di lavoro tra ganci, gancetti e cerniere, che anche la più volenterosa delle vesciche non ce la può fare.

Abbandonato il sogno dell’astronauta, l’elenco delle vite non realizzate è continuato inesorabilmente. Mi sono svegliata con una gran voglia di: apicultrice, raccoglitrice di palline da golf, corridora automobilistica, capitana di nave, pompiera, spazzacamina, trapezista e infine dopo tanto sognare ho trovato la mia vera vocazione “regina”! Non importa di quale Paese, l’importante che tutti mi chiamino… “regina”, anzi “sua maestà” e si inchinino davanti a me e mi riveriscano continuamente. Bello! Sì, ce la posso fare. Magari ci sarà un po’ da aspettare, ma prima o poi Elisabetta dovrà andare in pensione.

 

L’età dell’economia di chi si dimette

C’è un tema nel dibattito estero sul lavoro nell’epoca post-Covid di cui quasi non c’è traccia nel dibattito italiano: il fatto che in molti Paesi ricchi i lavoratori si stanno dimettendo “in massa”.

Secondo una sintesi del ministero del Lavoro Usa, negli Stati Uniti 4 milioni di persone hanno lasciato il lavoro solo nel mese di aprile, e i sondaggi (come quello di Microsoft su più di 30mila lavoratori globali) mostrano che il 40% dei lavoratori starebbe pensando di dimettersi entro la fine dell’anno. In linea con un recente studio sui lavoratori nel Regno Unito e in Irlanda, che mostra come il 38% degli intervistati sia intenzionato a lasciare il lavoro nei prossimi sei mesi o anno.

Qualcuno l’ha chiamata la Quitting economy, “l’economia delle dimissioni” o The Great Resignation: un fenomeno venuto alla luce dopo la pandemia, ma le cui radici vanno rivenute molto prima. Come ha scritto sul New York Times Jonathan Malesic lo scorso 23 settembre, l’insoddisfazione diffusa e il burnout sono il tratto distintivo del lavoro contemporaneo da prima della pandemia. Non a caso nella Quitting economy, il tema ricorrente è la cultura tossica che caratterizza il lavoro contemporaneo. Il fatto, cioè, che il mercato del lavoro sia afflitto strutturalmente da salari troppo bassi e da una mole di lavoro troppo elevata, oltre alla scarsa sicurezza del lavoro e sul lavoro e alla scarsa equità.

Ciò che colpisce non è tanto che all’estero si discuta di questo, ma che in Italia non se ne parli quasi affatto. Nel nostro Paese, i dati dell’Osservatorio sul precariato Inps relativi al primo trimestre 2021 mostrano che le cessazioni per dimissioni costituiscono la tipologia di cessazioni che ha conosciuto l’incremento più consistente nell’ultimo anno (+91%). Nella relazione annuale sulle dimissioni e risoluzioni consensuali pubblicata dall’Ispettorato del lavoro il 22 settembre scorso, inoltre, si evidenzia come il 77% delle dimissioni consensuali riguardi lavoratrici con un’età compresa tra i 29 e i 44 anni, a indicare quanto le donne, in Italia, siano ancora troppo spesso “costrette” a dare le dimissioni “volontarie” a causa della difficoltà di conciliare lavoro e figli.

Se facciamo eccezione per questo dato, il dibattito italiano di questi giorni si concentra su temi assai diversi. Nelle ultime settimane, è stata tanta la fretta di parlare di ripresa che si è perso di vista il problema principale del mercato del lavoro in Italia: ovvero il fatto che il mercato occupazionale italiano sia sempre più dequalificato e precario, e a tal punto poco tutelato che in molti casi è difficile dire di no anche quando sarebbe necessario.

Di recente sono state dette alcune cose importanti sul mercato del lavoro italiano. I dati Istat, per esempio, hanno mostrato che l’aumento degli occupati sottende una trasformazione qualitativa del mercato occupazionale, che si estrinseca in un aumento sostanziale di contratti a termine, come se il vero effetto della pandemia in Italia fosse una ulteriore precarizzazione del lavoro e quasi una sostituzione dei contratti a tempo indeterminato con contratti a termine. Di fatto, al netto dell’entusiasmo per la ripresa del mercato del lavoro dopo mesi di stallo, i nuovi ingressi nel mercato del lavoro riguardano principalmente personale a termine e lavoro dequalificato.

Questo è ancora più interessante alla luce del ritornello estivo per il quale il problema del mercato del lavoro italiano è la mancanza di competenze. La verità è che la mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro dipende dal fatto che i lavoratori sono più qualificati di quanto il mercato italiano richieda. I dati Unioncamere Anpal, ad esempio, dicono chiaramente che per il 36% dei 1.2 milioni di posti da coprire subito non sarà necessario un titolo di studio, per il 21% servirà una qualifica professionale, per il 31% servirà il diploma e solo per il 10% servirà la laurea.

Per quanto da anni si senta dire che l’elevata disoccupazione in Italia dipende dall’incapacità del sistema d’istruzione di offrire ai giovani le competenze necessarie per accedere al mercato del lavoro, la verità è che i lavoratori sono spesso sovra-qualificati per il mercato del lavoro italiano. Il dato è importante per varie ragioni, prima tra tutte la paradossale situazione per cui, nonostante il calo demografico che si registra in Italia e nonostante il triste traguardo che porta il Paese a essere penultimo in Europa per quota di laureati (solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni si laurea, dicono i dati Istat), i pochi laureati che ci sono sono di più di quelli che il mercato riesce ad assorbire. Non è un caso che molti preferiscano cercare lavoro all’estero, date le limitate prospettive occupazionali e la bassa remunerazione.

L’Italia, ricordava con una punta d’orgoglio agli investitori stranieri Matteo Renzi qualche anno fa, ha “i salari più bassi d’Europa”. Ma lungi da essere una soluzione questo è esattamente il problema. L’impressione è che si stia sottovalutando la gravità delle condizioni del mercato del lavoro italiano.

Mentre, infatti, il dibattito si è soffermato per tutta l’estate sul problema inesistente di giovani che non vogliono lavorare perché incompetenti o svogliati, l’Italia è sempre di più una fabbrica di precarietà e di lavoro povero. Nella fase post-pandemica, tali problematiche stanno sono esacerbate da salari sempre più bassi e dal processo di deindustrializzazione in corso.

La vera urgenza, in questo contesto, è implementare quel sistema di tutele spesso demonizzato nel dibattito pubblico, a partire dal reddito di cittadinanza e dal salario minimo. È intollerabile, come ha detto il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che nel mercato del lavoro italiano ci siano due milioni di lavoratori che vengono pagati 6 euro lordi l’ora, come è intollerabile che per molte donne, giovani e migranti vi siano offerte di lavoro con paghe orarie anche molto più basse di così.

Si parla spesso di libertà, quando si parla di mercato del lavoro, ma un mercato del lavoro è realmente libero solo quando ai lavoratori hanno la possibilità di dire di no. Il futuro del lavoro è lavorare meno, scriveva Jonathan Malesic sul New York Times

Forse è tempo che anche in Italia si inizi a guardare al futuro, per evitare che il mercato del lavoro rimanga arroccato su dinamiche di sfruttamento sempre più anacronistiche.

 

La battaglia. C’è del genio nella distruzione militare. La guerra è un’opera d’arte (e seme del progresso)

Ci sono due rivelazioni, in questo ultimo e denso libro di Giovanni Verusio: la prima è che una battaglia è tutta la guerra e l’intera civiltà di un’epoca. La seconda è che una battaglia è come una cattedrale: una grande opera.

Verusio, noto avvocato internazionale, come scrittore ha già meritato attenzione con il bellissimo Le vite di Gustav (un bambino ebreo scampa alla Shoah diventando un nobile fiorentino). Stavolta sceglie gli episodi di alcune battaglie del mondo moderno e contemporaneo, a rappresentazione di un’epoca in tutti i suoi aspetti e del confronto di civiltà fra le due parti combattenti (Giovanni Verusio, Sui campi di battaglia, prefazione di Corrado Augias). Ad una prima lettura i racconti da libro d’avventure (ricco, caldo, dettagliato), con cui Verusio esamina gli scontri militari, si presentano al lettore come variazioni sul tema di un’epoca, di cui sceglie un solo episodio o tutta la condotta militare di un Paese in un dato periodo. Ma poiché la qualità del libro è di farsi seguire, il lettore scopre che una battaglia contiene tutta una guerra; e ne svela il senso, lo stato morale e culturale che ha portato al conflitto. Ma ogni battaglia o frammento di guerra è anche un’opera d’arte, popolata da personaggi unici e azioni straordinarie: come un accurato e abile intarsio di bravura, talenti e violenza, tutti in grado estremo.

Verusio ha scelto alcune vicende belliche senza badare alla loro notorietà, ma piuttosto al tipo di intarsio con cui l’evento è stato costruito; trovando sempre, anche nella barbarie della distruzione, la finezza intellettuale che l’artista intende dare alla sua opera. Niente accade per caso o per sbaglio, nelle battaglie-guerre di Verusio. Tutto è frutto di un calcolo e di un istinto che sono propri del tipo di artista che per Verusio è lo stratega di battaglie (che in questo libro hanno sempre la dignità di guerre).

Guerra, nel libro, non è il contrario di pace ma una modalità di esistenza che pone il prevalere come fine e la distruzione come mezzo. Non è né buona né cattiva, ma la variazione più importante in un mondo che altrimenti sarebbe fermo e senza volto. Non c’è giudizio. C’è visione e revisione dei fatti che si muovono tra la psicologia individuale e la corrente della storia, tra popoli e persone, tra sbalzi d’umore imprevisti nel corso di un’epoca imprevedibile e un cambio di passo degli eventi.

Le battaglie di Verusio sono grandiose opere umane realizzate per incidere lo spazio e il tempo e lasciare segni indelebili. Ma nel mondo in cui viviamo e che Verusio descrive, niente è indelebile. Tanto che le sue storie di guerra, persino per chi ha vissuto un tratto grande dell’ultimo secolo, appaiono nuove, appaiono rivelazioni. E tutto ci dice, in questo mondo che dovrebbe apparire lontano e diverso, che tutto si ripeterà, e lo prenderemo per nuovo.

 

Sui campi di battaglia

Giovanni Verusio

Pagine: 360

Prezzo: 24

Editore: Passigli

Ispezioni. Il “signor nessuno” ceduto a peso d’oro: e un bel giorno la Consob si svegliò

Che la pigrizia e la lentezza della giustizia sportiva e dei suoi organi di controllo siano proverbiali, oltre che croniche (vedi il caso dell’esame-truffa di Suarez all’Università per Stranieri di Perugia: martedì c’è stata a Perugia l’udienza preliminare ma la Procura Figc, a distanza di più di un anno dall’esplosione dello scandalo, ancora non se n’è accorta), è risaputo; non altrettanto chiaro era che la Consob, e cioè l’ente preposto alla vigilanza delle società quotate in Borsa, funzionasse nelle cose del pallone allo stesso modo della Procura Figc: cioè dormendo.

La notizia di questi giorni, resa nota dalla stessa Juventus nella sua relazione finanziaria annuale, è che la Consob ha avviato in data 12 luglio 2021 un’ispezione sulle plusvalenze iscritte a bilancio dal club di Agnelli nel suo ultimo esercizio: 27,8 milioni raggranellati cedendo veri e propri pincopalla che rispondono al nome di Portanova (9,6 milioni) e Petrelli (7,6) al Genoa, Tongya Franco (8) al Marsiglia, Monzialo (2,3) al Lugano e Ocampos (0,3) al Beitar Gerusalemme. Direte: ma come, la Consob avvia un’indagine su questi sconosciuti ceduti a peso d’oro e la si critica? Beh, a dire il vero il sospetto è che l’organo di controllo presieduto da Paolo Savona si sia svegliato con qualche anno di ritardo. Sapete a quanto ammontavano le plusvalenze della Juventus nell’esercizio precedente, il 2019-’20? Tenetevi forte: 166,5 milioni.

Una montagna di soldi per la gran parte finti, a cominciare dai 47 milioni di plusvalenza iscritti a bilancio per la cessione di Pjanic al Barcellona (per 60 milioni più 5 di bonus), soldi in realtà mai entrati in cassa per il contestuale acquisto, dal club catalano, del brasiliano Arthur per 72 milioni più 10 di bonus. In pratica, a due giocatori in evidente declino (Pjanic al Barça ha fatto tappezzeria e oggi sverna in Turchia, Arthur alla Juve è un desaparecido) è stata data una quotazione fuori mercato e lontana da ogni ragionevolezza al solo scopo di consentire un artifizio (leggi trucco) ad un bilancio che altrimenti sarebbe apparso spaventoso (quale poi, alla fine, inevitabilmente si è rivelato essere).

E se è vero che le plusvalenze ammontarono a 166,5 milioni, Pjanic era evidentemente solo la punta dell’iceberg: sotto c’era di tutto, a cominciare da gente mai vista né sentita ceduta al prezzo di gioielli di Cartier come Muratore (6,8 milioni), Moreno (7,6), Pereira (6,82), Mavdidi (4) e ci fermiamo qui perché la Spoon River sarebbe infinita. Né più né meno della lista resa nota nella relazione dell’esercizio ancora precedente, il 2018-’19, che di sole plusvalenze fruttò alla Juventus 126,6 milioni grazie alla gentile intercessione di almeno metà club di serie A: tre dei quali, Sampdoria, Udinese e Genoa, riuscirono nell’impresa di mettere a segno l’acquisto più costoso della loro storia strapagando alla Juventus giovani alle prime esperienze come Audero (plusvalenza per la Juve: 18,993 milioni), Mandragora (plusvalenza 13,662) e persino lo stagionato Sturaro (plusvalenza 13,662), il tutto senza contare i milioni messi a bilancio per le cessioni di Anderson e Tello, Pinelli e Macek, Kameraj e Garcia e altri dimenticabili nomi della premiata scuderia “Carneade, chi era costui?”.

Insomma: correva l’anno 2021 e la Consob si accorse che qualcosa, nei bilanci del più illustre club di serie A, non andava. Il maestro Manzi avrebbe detto: “Non è mai troppo tardi”.

 

La spigolatrice sexy e Naomi troppo bella: non siete mai contenti

 

NON CLASSIFICATI

Too good to be true. Leggiamo sul sito di Rep, nelle cronache dalla settimana della moda, che Naomi Campbell è troppo bella, sempre uguale a se stessa nonostante le 51 primavere. “Siamo sicure che questa chimera di bellezza eterna sia un segnale positivo? Che rimanere imbalsamate negli anni 90 sia un messaggio positivo per le donne che invece ogni giorno combattono con la gravità del corpo e dello spirito? Viene in mente Linda Evangelista e la sua figura appesantita da una cura estetica sbagliata, ma anche, semplicemente, dal tempo che passa. Dispiace leggere che ‘è deformata’ per quelle cellule adipose che le sono rimaste appicciate addosso, come a tante donne. Basterebbe anche meno, un altro aggettivo, grazie. E allora viene in mente che il messaggio giusto arrivi da questa normalità, dall’imperfezione di Linda piuttosto che dalla eccezionalità di Naomi”. Ora, Linda Evangelista ha tutto il diritto di chiamare le sue forme come vuole (il suo disagio non è così incomprensibile, visto che è stata una delle donne più belle del mondo). E Naomi Campbell ha tutto il diritto di essere così spudoratamente bella, pur a 51 anni. Fatevene una ragione.

 

Barboni milionari. Kylian Mbappé, giocatore del Psg, è stato pizzicato dalle telecamere di Canal+ al momento della sostituzione durante una partita, mentre se la prendeva con il suo compagno di squadra Neymar che non gli aveva mai “passato la palla”, etichettandolo come “clochard”. Sti francesi sono chic anche quando si insultano (sarà per questo che, a questo giro, nessuno si è indignato).

 

Spigoli sinistri. Per parlare della vicenda della spigolatrice di Sapri – statua cilentana al centro di furibonde polemiche per eccesso di sex appeal – abbiamo deciso di prendere spunto da un’amaca di Rep. Dice Michele Serra che “effettivamente la spigolatrice di Sapri mostra il culo, su questo non c’è dubbio. E dunque vale la critica che quella posta in Sapri a futura memoria dallo scultore Stifano sia una statua “ipersessualizzata” rispetto all’oggetto in questione, che è una contadina meridionale di un paio di secoli fa: molto difficile, secondo qualunque informazione storica e iconografica a nostra disposizione, che mostrasse il culo”. E fin qui siamo alla filologia. Veniamo alla ragion critica. “Ciò che sbalordisce non è la ragione della critica, che non è solo legittima, è anche giusta. È il tono”. I toni delle rimostranze (giunte da quel che resta della sinistra) sono stati per lo più ultimativi e apocalittici. Nel migliore dei casi, per sanare l’onta, la statua andrebbe abbattuta o forse coperta con un burqa. Dice ancora Serra: “Il rischio – altissimo – è che le migliori cause, per fanatismo, per rigidità, per moralismo, per emotività, diventino impopolari e sgradite. Così che qualcuno possa pensare, alla fine, che il contrario di ipersessuale è sessuofobo, e dunque il vero vulnus non siano le chiappe della spigolatrice di Sapri, ma le chiappe in genere”. Tutto vero. Si aggiunga il seguente interrogativo: come si concilia la volontà di oscurare il fondoschiena statuario con la battaglia per la libertà di vestirsi e svestirsi a proprio gusto? Spigolatrice con il burqa, giornaliste mezze nude e soubrette con la farfallina al vento.

 

PROMOSSI

Crozza is back. Maurizio Crozza (tutti i venerdì sera sul canale 9) è tornato e molto in forma. Sempre implacabile, sempre divertente e soprattutto sempre indipendente. Prendiamo quel che ha detto sull’ormai comico dibattito sul certificato verde. “Il green pass dura 12 mesi, ma come mai Pfizer dice che l’efficacia del vaccino si riduce dopo 4 mesi? E la durata del green pass prorogata da 48 a 72 ore che cos’è un condono? È lo Stato che mi fa vacillare, quando chiede il green pass ovunque, ma non per andare a messa, sui treni regionali e sulla metro. Non è che questo green pass è un mezzuccio per far vaccinare tutti?”. I giullari, si sa, tendono a dire la verità (se la rima ci è concessa).

 

Processo Lucano. Quando la professoressa scende dalla cattedra per entrare in campo

I care. Giovanna Procacci è una sociologa milanese sensibile ai temi dell’immigrazione che quattro anni fa, d’istinto, avvertì il processo Lucano come una ferita per la sua coscienza. Da quando i giornali pubblicarono la notizia delle indagini, dei capi di imputazione, dell’arresto, e ventilarono le dimensioni delle pene, scelse di interessarsene. E decise che avrebbe dedicato buona parte del suo tempo, per decenni riservato agli studi e all’insegnamento, a quel che stava accadendo tra Riace e Locri. Fu dunque tra le fondatrici del “Comitato Undici Giugno” (la data annunciata di avvio del processo). Poi nel giugno del ’19 prese l’aereo per Lamezia per presenziare all’apertura del dibattimento a Locri. La caterva di imputazioni appariva già in parte smontata, ma quel che era giunto alla corte la faceva ugualmente pensare a un evento destinato a inscriversi nella storia giudiziaria e civile italiana. Tipo, come è stato ricordato ultimamente, il processo degli anni cinquanta contro Danilo Dolci. “E capii rapidamente che era inutile cercarne il senso, perché quando un processo è politico il senso non ce l’ha”.

Conobbe Mimmo Lucano, conobbe i suoi collaboratori, respirò l’aria che gravava sui protagonisti, e decise che sarebbe tornata regolarmente a Riace per dovere civile. La prima volta che rientrò a Milano fece un dettagliato intervento in pubblico per raccontare ai suoi concittadini quel che stava accadendo a mille chilometri di distanza. Con indignazione, con incredulità. Poi tornò al processo tutte le volta che ha potuto.

“Ho contato undici volte, come se fossi un’inviata speciale di me stessa, perché non mi pagava nessuno. Bisognava pagare i due biglietti aerei, affittare l’auto perché da quelle parti è impossibile fare senza, poi prendere una stanza, a prezzo bassissimo intendiamoci, perché si trattava di fare un’offerta alla casa di turismo solidale organizzata dal gruppo di Lucano. E naturalmente tutto il resto. Ho fatto quello che noi sociologi chiamiamo osservazione partecipante. Non ero certo in prima linea, ma nel clima, nella comunità che si interrogava su come difendere le sue ragioni, questo sì, ci stavo. Sono andata anche quando non c’erano le udienze e non c’era nemmeno Lucano, per vedere e capire il luogo, le persone. Almeno nei limiti imposti dal lock-down, perché se no i viaggi sarebbero stati molti di più, indipendentemente dai costi”.

I care. Racconta la combattiva sociologa che per due anni il processo è come vissuto in una bolla. Lei aveva la sensazione di vivere qualcosa di speciale ma per la stampa “non valeva la pena”. Nella Calabria cenerentola per l’informazione “se andava bene c’erano due giornalisti locali, bravi fra l’altro. Così ho iniziato a scrivere corrispondenze per Pressenza.Com, un’agenzia di stampa del partito umanista. Solo alla fine si è incominciato a vedere a Riace un po’ di giornalisti. Certo, sono stata un’inviata di parte”. Che però, almeno, informava sulle cose che accadevano. Che faceva i suoi resoconti senza condirli di giudizi. Asciutti e al limite dell’incredibile. Fino alla sentenza.

L’ultima corrispondenza che ho ricevuto, il 26 settembre, diceva: “Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano? La difesa restituisce il suo senso all’azione pubblica dell’ex-sindaco”. Vi venivano definite “scioccanti” le richieste dell’accusa, che sfioravano gli otto anni. Vi si poteva leggere un rapporto a misura di informazione vera, cioè introvabile altrove, sulle arringhe difensive di Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, gli avvocati di Lucano.

Alla fine la corte ha quasi raddoppiato le richieste dell’accusa, perché siamo pur sempre la patria del diritto. Ora vedremo se gli avvocati che si dannano nei convegni per i diritti dei mafiosi terranno seminari appassionati sulla sentenza di Locri. Ma questa è un’altra storia.

 

“Reddito di cittadinanza solo ai vaccinati”: ma non erano reclusi sul divano?

 

Un taxi non basta

Irmgard Furchner è una cittadina tedesca che ha deciso di mancare il suo appuntamento con la storia, un appuntamento che la aspetta da oltre 70 anni. La 96enne, residente in una casa di cura di Itzehoe nei pressi di Amburgo, è accusata di favoreggiamento nel massacro di 11mila persone tra il 1943 e il 1945. Nel 1943 l’allora 18enne Furchner lavorava come segretaria e dattilografa di Paul Werner Hoppe, direttore del campo di concentramento di Stutthof, cittadina a pochi chilometri da Danzica nella Polonia occupata. La donna, restia ad accettare un processo finora scampato, ha inviato nei giorni precedenti all’udienza una lettera al tribunale di Itzehoe, allegando certificati medici, per chiedere di essere esonerata: “A causa della mia età e delle mie limitazioni fisiche non vorrei accettare l’appuntamento giudiziario e chiedo comprensione al mio difensore. Vorrei risparmiarmi tanto imbarazzo e di essere messa alla gogna dell’umanità”. Quando la richiesta è stata declinata, l’idea di dover affrontare occhi negli occhi in un’aula di tribunale lo spettro della propria complicità in un massacro così enorme, deve essere apparsa all’anziana imputata talmente insopportabile da spingerla a tentare un’improbabile quanto incompiuta fuga in taxi, facendosi accompagnare in una stazione di metropolitana alla periferia della città. Non c’è voluto poi molto perché la polizia la rintracciasse e la conducesse in commissariato. Ma la domanda è una: davvero evitare lo sguardo del giudice, degli avvocati e dei 12 rappresentanti delle 50 persone che si sono costituite parte civile, avrebbe fatto la differenza quando si è convissuto per un’esistenza intera con un peso tanto enorme? Davvero le asettiche procedure di un’udienza sono più temibili del rimestio costante del pensiero? Probabilmente no. Il fatto è che un taxi che ci allontani da noi stessi nessuno è ancora stato in grado d’inventarlo.

Voto: lo darà la Storia

 

O l’uno o l’altro

Che non si possa dire tutto e il contrario di tutto, con la pretesa, oltretutto, che il ragionamento appaia coerente lo dimostra la richiesta del Codacons di sospendere il reddito di cittadinanza a chi non vuole vaccinarsi: “Perché ricattare solo i lavoratori dipendenti con la sospensione dello stipendio e non altri come i non vaccinati che percepiscono il reddito di cittadinanza?”. Ma se la vulgata politico-mediatica dominante è che i percettori del reddito sono “quelli che stanno sul divano a non fare niente” perché pretendere che si vaccinino? Non si è sempre detto che chi non sta in mezzo agli altri ha il diritto di scegliere in autonomia cosa fare? Persino un virologo come Fabrizio Pregliasco ha indicato la contraddizione intrinseca al ragionamento: “Il percettore di reddito di cittadinanza è di fatto persona che se ne sta a casa: non è bello, perché questo sussidio dovrebbe essere fatto per cercare lavoro, ma di fatto è così. Non c’è quindi un motivo logico o scientifico per cui dovrebbe essere richiesto”. Dunque o l’una o l’altra: o la finiamo di dire che sono tutti cetacei spiaggiati sui divani e li obblighiamo ad aver il green pass in quanto partecipanti alla vita comunitaria, o continuiamo ad offenderli ma almeno non pretendiamo da loro quel che pretendiamo da chi lavora.

Voto: 2

 

McDonald’s. Il ristorante più uguale degli altri. Hai l’esenzione per il vaccino? Vietato entrare

 

“Il certificato medico vale come green pass, tranne al fast food”

Gentile Selvaggia, mi chiamo Elena, vivo vicino a Milano e ti scrivo per raccontarti la disavventura che è capitata a me e alla mia famiglia il mese scorso sul tema green pass. Premetto che non sono una grande fan del green pass, ma sono vaccinata (da ben prima che fosse introdotto il certificato verde) e sono a favore della vaccinazione. La mia famiglia è composta da me, mia figlia di 3 anni e mia mamma di 75. Mia mamma come me è favorevole alla fiala, anche perché di Covid ci è quasi morta e sfortunatamente il virus le ha lasciato degli strascichi (le chiamano conseguenze da long Covid). Così, quando le vaccinazioni hanno aperto alla sua fascia di età, lei ha preso subito appuntamento, si è presentata al centro per la dose, l’hanno visitata e infine le hanno detto che non poteva vaccinarsi. Quindi le hanno rilasciato un’esenzione per motivi di salute. Secondo la nuova normativa sul green pass l’esenzione per motivi di salute è valida tanto quanto il “lasciapassare”. Tanto è vero che con suddetta esenzione non abbiamo incontrato alcun problema in parchi divertimento, piscine, quasi tutti i ristoranti. E scrivo “quasi tutti” perché è proprio qui che ci è capitato un episodio alquanto spiacevole.

Un sabato sera, usciti dalla piscina, io, mia mamma e la mia bimba decidiamo di fermarci a mangiare qualcosa di veloce. La mia bimba adora gli hamburger e quindi, visto anche il pomeriggio in piscina, decidiamo di fermarci da McDonald’s. Fatto sta che arriviamo al “ristorante”, è piccolo e ha pochi posti a sedere all’aperto, già tutti pieni. Entriamo e presentiamo io il green pass e mia mamma la sua esenzione. Ci viene detto che nei ristoranti McDonald’s le esenzioni non sono considerate valide. Non ci viene permesso di accomodarci all’interno. Protesto, l’esenzione è prevista dalla legge. Faccio chiamare il direttore. Il direttore si rivela più inutile di un due di picche in un giro di bastoni. Non importa che l’esenzione sia valida in termini di legge come un green pass, ci viene detto che “gli ordini dall’altro” sono che nel ristorante possono mangiare solo persone con green pass in senso stretto, e QR code verificabile tramite applicazione. L’esenzione invece viene rilasciata solo cartacea, niente QR code. Per loro dunque l’esenzione non è valida, è solo carta straccia. Non importa cosa dica la legge italiana. Se la direzione McDonald’s non lo ha specificato loro non possono farci entrare. E a nulla valgono le mie proteste. Se vogliamo mangiare dobbiamo sederci all’aperto, oppure andare via col cibo. Allora concludo che quel particolare ristorante, forse, abbia applicato le direttive in maniera troppo rigida. Così per curiosità una settimana fa entro in un altro locale della stessa catena dalla parte opposta di Milano: non volevamo mangiare lì ma ho chiesto se per loro l’esenzione fosse valida per mangiare all’interno. Stessa identica risposta: esenzione non valida nei ristoranti McDonald’s. Scrivo una mail di protesta a McDonald’s Italia che cade nel vuoto.

So che non dovrei farne una questione di principio, in fondo posso mangiare in tanti altri posti più “intelligenti” e che applicano la legge in modo corretto. Ma sono sicura ci siano tante altre persone nella situazione di mia mamma e non lo trovo giusto. Non importa se deciderò di non mettere mai più piede in un McDonald’s in vita mia, quello che è successo non è giusto e non deve ripetersi. Le mie proteste e i miei reclami sono finiti nel nulla, spero che con questa lettera qualcuno si senta in dovere di dare spiegazioni.

Elena

 

Cara Elena, sono certa che l’ufficio stampa di McDonald’s vorrà chiarire il perché di questa decisione che sì, in questo caso trovo decisamente discriminatoria. Detto ciò, ci fa piacere sapere che la catena McDonald’s si preoccupi così tanto della salute dei suoi clienti, diciamo che non ci sembrava il loro tema prioritario, ma la pandemia ci ha fatto scoprire un sacco di cose nuove.

 

“Il mio ex crede nei complotti e mio figlio rischia la stessa fine”

Ciao Selvaggia, ti scrivo con amarezza per la mia situazione familiare, non idilliaca già prima del Covid. Sono divorziata da un uomo poco razionale, con un preoccupante interesse per cure alternative e letture esoteriche. Non che prima delle nozze fosse il fratello mancato di Burioni. Sì, coltivava una bizzarra passione per la cristalloterapia, ma nulla di allarmante. Tranne quando pretese di decidere la data del matrimonio in base ai consigli di un’astrologa. Ma ecco il punto: durante il Covid il mio ex sbrocca. Smette di lavorare (aveva una società di catering) e trascorre tutte le sue giornate sui siti complottisti. Fin qui fatti suoi. Il problema è quando nei fine settimana con nostro figlio di 14 anni lo costringe a partecipare a videochat con altri esaltati per cui il Covid è frutto di una grande forza riequilibratrice e sinergetica (?) del Pianeta. Secondo loro il pianeta deve espellere gli individui meno capaci di sintetizzarsi con le onde buone della Terra e chi è risolto, non ha blocchi interiori, non deve temere nulla. Morale: io temo che mio figlio assorba queste scemenze. Cosa posso fare?

V.

 

Quindi le migliaia di anziani morti sono stati puniti dal Cosmo. Teoria interessante. Ti suggerirei di farlo invitare in una Rsa a dire queste cose. Sono certa che una buona metà dei vecchietti ritroverebbe il vigore necessario per fargli passare la voglia di andar dietro a queste stronzate.