Nelle grandi partite finanziarie italiane l’aspetto personale è sempre determinante, per questo spesso somigliano a lotte di potere in cui il destino delle aziende resta in secondo piano. Quella per la conquista delle Generali è plasticamente rappresentata dall’anagrafica dei due assaltatori: 86 anni Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, 78 anni Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore romano alla testa di un impero oggi tanto imprenditoriale quanto finanziario. Non si tratta, però, solo delle bizze di ricchi uomini anziani annoiati, ci sono anche i soldi: oggi il gap di valore in Borsa delle Generali rispetto ad Axa e Allianz, principali competitor, è molto superiore a 15 anni fa. L’amministratore delegato Philippe Donnet, a Trieste da un decennio, l’ha gestita per sei anni distribuendo ricchi dividendi agli azionisti, come si è sempre fatto. Recuperare il terreno perso con Allianz, che capitalizza quasi due volte e mezzo Generali, è impresa ardua. Donnet però ci ha messo del suo: gran parte delle operazioni le ha fatte coi rivali francesi di Axa, alimentando le voci complottiste del manager francese che lavora per regalare il gruppo ai concorrenti d’Oltralpe, poi si è lanciato nella insensata conquista di Cattolica, utile solo ad aiutare Intesa – e il suo advisor Mediobanca – a conquistare Ubi, di cui Cattolica era azionista.
Ma il lato “umano” non va sottovalutato: a muovere Del Vecchio è davvero la rivalsa per lo smacco subito dai soci dello Ieo (l’Istituto oncologico europeo fondato da Umberto Veronesi), guidati da Mediobanca, che nel 2018 rigettarono la sua proposta di realizzare una nuova “Città della Salute”. Caltagirone si è messo in scia, nella speranza di vedersi riconosciuto quel ruolo che la finanza milanese, nonostante i soldi, non gli ha mai tributato. I due vogliono Donnet fuori ad aprile. Insieme hanno siglato un patto di consultazione che, con la torinese Fondazione Crt, controlla quasi il 13% di Trieste. Mediobanca, primo azionista col 13%, lo difende per difendere la poltrona del suo ad, Alberto Nagel, che oggi è accerchiato. In pochi mesi Del Vecchio è salito al 19% in Mediobanca, diventandone il primo azionista. Nei giorni scorsi Nagel ha reagito facendosi prestare il 4,3% dei diritti di voto delle Generali fino all’assemblea di primavera. Un gesto disperato, mai visto nella settantennale storia dell’ex salotto finanziario italiano: i titoli li presta la francese Bnp Paribas, che ha in deposito azioni dei clienti, tra cui proprio Axa.
La mossa e il carattere dei personaggi dice che pareggio non può esserci. Due sono le alternative. La prima è che i due assaltatori presentino una lista alternativa a quella del cda uscente e vadano alla conta in assemblea. A quel punto la partita sarà in mano ai fondi istituzionali, che vanno convinti, roba a cui Del Vecchio non è abituato e col rischio di una spaccatura dagli esiti imprevedibili. L’altra è che Del Vecchio lanci l’assalto a Mediobanca. Ai tempi del fondatore Enrico Cuccia era il crocevia del capitalismo di relazione, dove capitalisti senza capitali governavano il sistema industriale e finanziario italiano, oggi è una media banca europea. Cuccia le azioni le pesava mentre Nagel se le fa prestare ma la mossa conferma che senza la partecipazione in Generali, che vale metà degli utili, Mediobanca non va lontano. Il patto di sindacato che ha presidiato la banca per anni ha perso le grandi famiglie, dai Berlusconi ai Benetton (azionisti anche di Generali e pronti ad aiutare i due assalitori) e oggi resiste al 10% grazie all’ingresso di Monge & C, leader del cibo per animali domestici. Il presunto asse con l’ad di Intesa SanPaolo, Carlo Messina, si è dissolto dopo la presa di Ubi.
Otto anni fa, l’ex presidente di Generali Cesare Geronzi, cacciato nel 2011 da Nagel, accusò Mediobanca di aver frenato le ambizioni delle Generali perché gli azionisti non avevano risorse sufficienti. Oggi i secondi si ribellano. La partita è aperta.