In questi tempi grami in cui si risentono i miasmi della destra fascista sotto la maschera del sovranismo, c’è una domanda secca che non lascia scampo: “Riuscireste voi a dialogare con un nazista? Con colui cioè che partecipa di un universo semantico opposto al vostro? Noi no, confessiamo la debolezza”. Una debolezza, si faccia attenzione, non dovuta alla volontà, ma perché manca un vocabolario comune.
A porre il quesito e a rispondere è Gaetano Pecora, brillante accademico dell’Università del Sannio e della Luiss nonché efficace studioso della laicità. E lo fa, Pecora, lungo il percorso agile e denso allo stesso tempo del suo ultimo saggio dedicato a Norberto Bobbio (1909-2004), gigante del pensiero diventato un classico: Il lumicino della ragione. La lezione laica di Norberto Bobbio (Donzelli, 191 pagine, 18 euro). Il filosofo, giurista e politologo fu uomo di “fatti” e del dialogo, senza avere mai téma di avventurarsi in ostiche terre di confine. Pecora esplora meticolosamente un’attività durata settant’anni, dal 1934 alla morte, informata sì al dubbio ma che ha sentieri molteplici e sovente frastagliati, che possono deviare dalla strada maestra.
Per tornare appunto al dialogo e alla domanda sul nazista. Bobbio affrontò la ragione argomentativa di Perelman e la dottrina dell’assunzione (di valori) del suo caro Kelsen. La prima che conduce a una concezione flessibile della ragione, la seconda a una rigida e forte. E la via dell’argomentazione può risultare impraticabile per l’assenza di una lingua comune: “Quando l’argomentazione sarebbe necessaria perché l’altro è veramente e propriamente… l’altro, non è possibile; e quando è possibile, non è più necessaria perché l’altro ha già cessato di essere altro e si è commutato in un nostro consanguineo”.
Sembra di assistere a uno dei tanti e vacui talk della televisione di oggi. Battute a parte e per rimanere seri, Pecora viviseziona i temi del pensiero bobbiano: la tolleranza, la morale, l’empirismo tipico del filosofo, la neutralità logica, l’emotivismo e il relativismo che si oppone al diritto naturale. In ogni caso, Bobbio rifiutò sempre di essere incasellato tra gli atei, anche perché “il laico/laicista (per Pecora, laicista non è una bestemmia, ndr) non difende necessariamente lo Stato dalla Chiesa: no, egli difende lo Stato dalla Chiesa quando la Chiesa è sopraffattrice; e salvaguarda la Chiesa dallo Stato quando lo Stato è usurpatore”. Altrimenti si rischierebbe una Statolatria senza tolleranza. L’esempio della scuola pubblica, per esempio, e la questione francese del divieto alle studentesse islamiche di portare il velo, decisione che fece epoca e venne accolta con tripudio dai liberali di destra. Le parole sono di Bobbio (1985): “Scuola libera, sia detto una volta per sempre, non vuole dire scuola indifferente. (…). Il principio etico su cui fonda la libertà nella scuola è la tolleranza”. La tolleranza e il dubbio non formano in Bobbio un lume assolutista della ragione, semmai un lumicino mai fideistico, immagine che il filosofo riprendeva da Locke. Una fiammella che ravvivava il suo laicismo, la sua sapienza laica. E senza alcuna arroganza intellettuale.