“Stupisce e addolora che, come riportato sul Fatto Quotidiano, un uomo delle istituzioni a Vico Equense, in provincia di Napoli, definisca sbagliato intitolare una piazza a una vittima innocente della mafia. A prescindere da chi sia la vittima. Questa volta è toccato a Giancarlo, pochi mesi fa a Falcone e Borsellino”. Lo afferma in una nota Paolo Siani, fratello di Giancarlo, il cronista de Il Mattino ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. Siani si riferisce alle dichiarazioni dell’ex sindaco del comune in provincia di Napoli, Benedetto Migliaccio, che in una intervista di qualche giorno fa trasmessa dal canale YouTube del settimanale Agorà Penisola Sorrentina, rilanciata ieri sul Fatto Quotidiano, definiva un errore accostare il nome di Siani alla piazza principale del comune di Vico Equense. “Per fortuna – prosegue Siani – la stragrande maggioranza delle cittadine e dei cittadini la pensa molto diversamente. E allora noi ci rivolgiamo ai ragazzi: non ascoltate queste parole, approfondite le storie delle vittime innocenti”.
Mottarone, il teste: “Cavo usurato fin dal 1997”
Un cavo che si è usurato a causa di manovre poco pertinenti durante l’installazione del 1997. Potrebbe essere questa una delle circostanze che hanno contribuito all’incidente del 23 maggio alla funivia del Mottarone costato la vita a 14 persone. Questo, almeno, è quanto si ricava da una delle ultime testimonianze raccolte dalla Procura di Verbania e consegnate al tribunale del riesame di Torino. Ad adombrare la possibilità, davanti agli inquirenti, è stato un dipendente ascoltato il 23 settembre in un breve passaggio della sua deposizione. Lo scorso 23 maggio si spezzò una fune traente dell’impianto. Il pm Olimpia Bossi ha contestato a tre indagati (uno dei quali, il caposervizio Gabriele Tadini, agli arresti domiciliari, gli altri due a piede libero) la rimozione volontaria di cautele contro gli incidenti, ma solo perché quel giorno il sistema frenante della cabina era stato bloccato con uno strumento chiamato in gergo “forchettone”.
Sulle cause della rottura del cavo (così come su diversi altri aspetti) è in corso una perizia.
Il quadro patacca da 4mila euro cash Sgarbi: “Crosta”
C’era fermento a Cagliari la sera del 31 agosto 2021: la buona società dell’Isola, col presidente Christian Solinas e il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu in testa, si era messa in fila di buon’ora per assistere alla conferenza di Vittorio Sgarbi: “La bellezza, da Caravaggio ai giorni nostri”, al Parco della Musica. Un’attesa per nulla vana, visto che il critico quella sera aveva dato spettacolo. In particolare, quando aveva demolito uno dei due dipinti, raffigurante Sant’Antioco, che qualcuno dell’organizzazione (la Città metropolitana di Cagliari, che aveva pagato per le due serate 44.835 euro) gli aveva fatto trovare sul palco. Pessima idea, visto che a Sgarbi quel quadro proprio non era piaciuto. Alla domanda della conduttrice sul “misterioso dipinto” “appena ritrovato” e in via di restauro, attribuito “secondo alcuni esperti” al Maestro di Castelsardo, Sgarbi aveva risposto: “C’è certezza che non è del Maestro di Castelsardo”. “Era solo un’ipotesi”, aveva ribattuto lei con un sorriso forzato, e Sgarbi, implacabile: “È l’ipotesi di un coglione”. E giù risate fragorose del pubblico. Il critico aveva anche invitato il proprietario a non pulire neanche la tela e ad affidarla all’oblio. Morale? Apoteosi in sala e valore commerciale del dipinto azzerato (se invece fosse piaciuto, grazie alla expertise di Sgarbi, la quotazione sarebbe andata alle stelle).
A sganasciarsi, in prima fila, anche il governatore Solinas, che però aveva molto poco da ridere, visto che la “crosta” è sua. Una verità che Il Fatto è in grado di svelare, rispondendo a chi si era chiesto chi fosse il proprietario. L’ultimo passaggio di mano verificato e testimoniato della tela, infatti, risale a novembre 2018, quando Solinas lo acquista da un rigattiere, pagandolo 4 mila euro cash (nella foto il “contratto”). Un segreto serbato dalla Città metropolitana per oltre un mese. Persino ieri la conduttrice della serata, Manuela Salis, ha glissato sui nomi dei proprietari delle tele, limitandosi a dire che “i loro nomi non sono una notizia” e che sono “di due collezioni private”. Ha anche spiegato che la scelta delle tele era dovuta al fatto che “di quadri di Sant’Antioco (patrono della Sardegna, ndr) ce ne sono pochissimi” in giro.
“Era una crosta emozionale”, spiega Sgarbi raggiunto dal Fatto, “che ha il valore di un santino. Non certo una cosa di cui compiacersi. Mi avevano invitato a parlare di Caravaggio”, ha aggiunto, “ma sembrava un tema troppo universale. È stata una sorpresa trovare quel quadro e non sapevo assolutamente che fosse di Solinas! Non fatemi parlare male del governatore, però una crosta è una crosta…”.
Ma chi ha ideato una manifestazione pagata con i soldi pubblici nella quale si espone (in segreto) un quadro del presidente della Regione? Il cervello dell’evento è Francesco Magi, consigliere della Città Metropolitana di Cagliari, delegato alla Cultura. Ma Magi è anche consulente personale di Solinas. Un incarico remunerato da Regione Sardegna: 6 mila euro al mese per 5 anni. Per Solinas, Magi è amico fidato, irrinunciabile, tanto che per averlo nominato suo consulente, il presidente è finito indagato per abuso d’ufficio. Secondo il pm Andrea Vacca, infatti, Magi non avrebbe avuto i titoli per quella carica. Un legame che non è stato intaccato neanche dalla condanna per danno erariale (deve restituire 73.500 euro) inflitta a Magi a gennaio 2021 per lo scandalo “Affittopoli”. I fatti risalgono agli anni in cui Magi, da presidente (designato dal Psd’Az) della società regionale “SardegnaIt”, aveva affittato 5 piani delle Torri di Santa Gilla, di proprietà dell’editore de L’Unione sarda, Sergio Zuncheddu. Per la Corte, Magi avrebbe tenuto una “condotta omissiva gravemente colposa nell’operazione di acquisizione in affitto dell’edificio”.
Ecco “Solinas real estate”: quattro Sassi e begli affari
Santa Barbara è un villaggio fantasma. La chiesetta del XIII secolo l’hanno abbandonata anche i frati. Una facciata bianca con quattro archetti, un muro di marmo scrostato e una porta di legno sbarrata con un vecchio chiavistello. Non c’è nessuno, né in preghiera, né in visita, solo un gatto randagio che gira intorno a una ciotola vuota.
A fianco, ecco le pietre dello scandalo. O meglio, il grande affare di Christian Solinas, il presidente della Sardegna. L’abbiamo raccontato giorni fa: la sua porzione di abbazia, avuta quasi in regalo dai frati minori, è stata rivenduta a 550 mila euro a un munifico imprenditore locale. Solo che è un mucchio di macerie. Il “cantiere” è coperto pietosamente da una staccionata di pannelli di legno e di amianto. I lavori sembrano fermi da tempo, le impalcature sono arrugginite, attorno ai pali di metallo c’è una ragnatela di reti stracciate. Dentro, solo una base di cemento e mura diroccate.
Santa Barbara è una frazione di Capoterra, arrampicata su una collina a mezz’ora da Cagliari. Per arrivarci serve un navigatore paziente e un’automobile robusta: l’ultimo chilometro di strada è sterrato, una faticosa arrampicata sui sassi. A destinazione, il deserto: chi investirebbe oltre mezzo milione in un villaggio da fumetto di Dylan Dog? Bussando alle case si incontra un solo residente. “Cosa ci faccio qui? L’eremita”. Non dice nemmeno il nome di battesimo, ma racconta un pezzetto della sua storia: “Ho fatto il poliziotto e ho girato l’Italia per lavoro, da due anni sono venuto quassù a farmi i fatti miei. Siamo io e le mie galline. Qui viviamo in pochissimi, ogni tanto nei fine settimana qualcuno sale da Cagliari”. E Solinas? “Mai visto”. Però indica il “cantiere” accanto alla chiesa. Gli chiediamo se sa quanto siano costati quei ruderi, annuisce e ride forte. “Lasciamo stare…”.
Quei ruderi, appunto, sono diventati proprietà di Christian Solinas nel 2002 senza tirare fuori un euro: nell’atto notarile si legge solo il valore stimato, 35 mila euro. Solinas si era impegnato a ristrutturarli e a garantire ai frati un diritto di “servitù”: la possibilità di usare quel pezzetto dell’abbazia nel tempo libero. Dopo vent’anni, il miracolo: Solinas vende per 550 mila euro a un imprenditore cagliaritano. Roberto Zedda è l’editore della tv locale YouTg.net e il fondatore di Arionline, che ha fornito alla Regione termometri elettronici e termoscanner durante l’emergenza Covid.
La vicenda l’ha ricostruita Andrea Sparaciari sul Fatto: il 4 novembre 2020 Zedda firma il contratto preliminare e versa 200 mila euro di caparra con due assegni circolari, impegnandosi ad aggiungerne altri 50 mila entro dieci giorni. Misteriosamente, le parti non arrivano alla firma del rogito, prevista il 30 giugno 2021. Solinas ha replicato alla nostra inchiesta dicendo di aver “differito di tre mesi”, su richiesta di Zedda, la stipula dell’atto definitivo: la nuova scadenza era il 30 settembre. A oggi non risultano nuove trascrizioni o iscrizioni: questi muri rotti sono costati 250 mila euro a un imprenditore che lavora con la Regione, pagati al presidente della stessa, senza passaggi di proprietà.
Per proseguire nei luoghi della “Solinas immobiliare” bisogna lasciarsi alle spalle Santa Barbara e attraversare Capoterra, cittadella di 20 mila abitanti sui colli che dominano Cagliari. Qui c’è l’altro affare, i 40 ettari “venduti” nel 2013 a un altro imprenditore sardo, Antonello Pinna. Era il 2013, Solinas si era appena dimesso da assessore regionale ai Trasporti e gli aveva ceduto la proprietà per 400 mila euro. Di nuovo un’operazione fortunatissima: quei terreni – come ha scoperto Sardinia Post – erano stati venduti come zona edificabile (C3), ma sei mesi prima avevano cambiato destinazione in zona agricola. E di nuovo la stessa coincidenza: 200 mila euro versati al preliminare e poi il buio, mistero, nessun rogito. Solinas ha detto di aver restituito la caparra agli eredi di Pinna dopo la sua morte, ma l’imprenditore è deceduto nell’aprile del 2016 e il termine ultimo del rogito era scaduto nel 2013.
“Mi sconvolge l’impunità, la mancanza di vergogna”. Parla Mario Guerrini, storico giornalista Rai, per anni voce del servizio pubblico in Sardegna. Ora segue le vicende dell’isola con un “Osservatorio” quotidiano su Facebook attorno cui ha raccolto migliaia di lettori. “Solinas non si imbarazza di nulla, lo fa alla luce del sole. La stampa locale tace, i tg regionali muti, ne scrive solo il Fatto”.
Scesi dalle colline, siamo in città. Guerrini ci accompagna al Poetto, la spiaggia dove i cagliaritani ignorano l’autunno. Salendo, si costeggia la salina del parco nazionale Molentargius: ci sono i fenicotteri rosa, Cagliari è uno spettacolo. L’ultima tappa del Solinas estate tour è a un centinaio di metri dall’area protetta: c’è la nuova casa del governatore. Ripartiamo dal via: il 4 novembre 2020 Solinas prende 200 mila euro da Zedda per i ruderi, un mese dopo firma un preliminare per l’acquisto di una villa di 543 metri quadri su quattro piani, più ampio giardino. Costo totale, 1 milione e 100mila euro. 850 mila euro sono concessi in mutuo dal Banco di Sardegna, l’istituto che accidentalmente svolge il servizio di tesoreria per la Regione presieduta dal mutuatario. Accanto alla casa, altri privati stanno costruendo una palazzina di tre piani, l’intera vicenda è finita in un fascicolo della Procura di Cagliari.
“In origine la villa di Solinas e il terreno del nuovo palazzo erano nello stesso lotto – spiega Stefano Deliperi, responsabile del Gruppo di intervento giuridico -, non si è capito bene come e perché i proprietari, la famiglia di costruttori Ciani, abbiano deciso di dividere a metà tra due acquirenti diversi”. Questa zona a ridosso del Poetto, nonostante i vincoli ambientali, è “un’area calda dal punto di vista della speculazione immboliare”, aggiunge Deliperi. “C’è un vincolo paesaggistico specifico, ma si ferma agli argini delle saline. Grazie a qualche leggina regionale – e nonostante contestazioni e ricorsi – questa è zona B, c’è un indice volumetrico alto: 5 metri cubi per metro quadro. Insomma, pare assurdo, ma si costruisce alla grande”.
Pure sul prezzo si mugugna: “L’ha pagata 2 mila euro al metro quadro, escluso il giardino – ragiona un vicino, l’ingegner Sandro Mazzella – e le assicuro che non è un prezzo di mercato per una villa del genere, in questo quartiere”. Minuzie, per gli standard della Solinas immobiliare.
“Riforma, a rischio la memoria dei processi”
“Non sono mai stato convinto che la deindicizzazione delle notizie in rete sia la soluzione giusta per risolvere i problemi della corretta informazione e del diritto all’oblio”. Eugenio Albamonte è segretario di Area democratica per la giustizia, il gruppo più progressista della magistratura associata.
Un articolo della legge Cartabia prevede che chi è assolto o prescritto o improcedibile possa pretendere che la propria vicenda giudiziaria sia deindicizzata in Rete, dunque introvabile dai motori di ricerca.
Non credo sia una soluzione giusta. Oggi non è ancora diffusa la consapevolezza che progressivamente le fonti digitali sostituiranno quasi completamente le fonti cartacee. Dunque ciò che è in Rete sarà ciò che esiste. E ciò che non si troverà in Rete sarà ciò che non esiste. Non si può dunque agire oggi con disinvoltura sul tema della indicizzazione, senza capire che cosa sarà utile sapere domani.
Un giudice potrà obbligare mezzi d’informazione e archivi a rendere invisibili e introvabili alcune informazioni.
È l’altro aspetto che mi lascia perplesso: dalla delega, sembra di capire che dovrà essere un giudice a decidere che cosa deindicizzare, il giudice della sentenza d’assoluzione o uno successivo da cui presentarsi con la sentenza già emessa. Quello che mi domando è: ma è mai possibile che fra le tante funzioni di supplenza che nel tempo la politica ha deciso di caricare sulla magistratura, ora si debba aggiungere anche quella di riscrivere la storia? È una responsabilità enorme. Addirittura prevedere per legge che un giudice debba decidere che cosa deve essere conosciuto e cosa non debba essere conosciuto.
Esistono a suo avviso strade alternative a quella proposta dall’articolo 25 della legge Cartabia?
Io credo che la strada sia non eliminare, ma garantire che nei motori di ricerca si trovi la completezza dell’informazione. C’è un problema, in Rete: chi cerca un nome, una notizia, può trovare soltanto notizie – diciamo così – intermedie ed è così difficile ricostruire come sia finita una vicenda. Allora quello che bisognerebbe fare, anziché rimuovere le notizie, è fare in modo che vengano proposte in modo completo, magari indicizzandole a partire dalla fine, in ordine cronologico inverso, a partire dalle più recenti. E poi andando indietro potrei ricostruire tutta la vicenda. Quindi aggiungere, non togliere, indicizzando in modo più completo le notizie. Altrimenti la deindicizzazione diventa una censura mascherata.
Avete appena concluso il congresso di Area, che l’ha ricandidata segretario. In un momento difficile per la magistratura, assediata dagli scandali.
Il congresso di Area di Cagliari è stato per noi importante, la prima occasione per confrontarci e discutere con serenità e tempo a disposizione sui problemi della magistratura dopo la vicenda dell’Hotel Champagne, lo scandalo Palamara e altri casi che hanno scosso la magistratura italiana. È stata l’occasione per ragionare su alcuni comportamenti della politica e dell’informazione, ma anche di una parte della magistratura, che ha responsabilità serie per eccesso di carrierismo.
Alla Leopolda Renzi inscena l’auto-assoluzione per Open
Pronto come sempre a saltare sul cavallo delle notizie del giorno, con riferimento all’inchiesta di Fanpage.it sui presunti finanziamenti in nero della campagna elettorale di Fratelli d’Italia a Milano, Matteo Renzi comunica che alla Leopolda di novembre ci sarà una mostra che racconterà le indagini della Procura di Firenze sui finanziamenti -che i pm ritengono i parte illeciti – della fondazione Open. E vien da pensare che sarà l’evento clou della kermesse. È però lo stesso Matteo Renzi che quasi un anno fa diede notizia dell’apertura di un sito internet, www.guerraarenzi.it, “per seguire in maniera trasparente le accuse, le indagini e i processi”. Così scrisse nella newsletter Enews, ma se clicchi sul dominio si apre una pagina sostanzialmente vuota, c’è solo la promessa di dare informazioni che ancora non ci sono.
Allora viene il dubbio che anche quello fatto ieri mattina a Parma alla presentazione del suo libro Controcorrente, durante un’intervista della giornalista Claudia Fusani, possa restare un annuncio senza seguito. Queste le parole del leader di Italia Viva secondo il resoconto delle agenzie: “Alla Leopolda ci sarà una mostra su Open, chi verrà il 19-20-21 novembre vedrà una mostra su quella vicenda. Ci sarà un processo e noi lo racconteremo: si tratta di bonifici regolarmente trasferiti e vedendo le ‘lavatrici del nero’ di questi giorni poi…”. Quindi il consueto accenno alla persecuzione giudiziaria di cui sarebbe stato vittima: “Ieri circa 150 poliziotti sono stati mandati a cercare Messina Denaro, la Procura di Firenze ha mandato 300 finanzieri a perquisire le case di persone non indagate, anche la Cassazione ha detto che è stata un’azione inutile. Hanno usato il doppio delle forze dell’ordine previste per un boss della mafia… Questa vicenda è uno scandalo politico, chi verrà alla Leopolda e vedrà la mostra lo capirà. Non ci toglieranno il sorriso, questo processo lo vivremo alla luce del sole, chiedo solo alla stampa la stessa rilevanza per le future assoluzioni che hanno dato alle inchieste”.
Infatti non c’è solo Open. Le indagini in attesa di assoluzioni, secondo l’ottimistica e rispettabile opinione dell’ex premier che ha sempre respinto le accuse al mittente, sono diverse. I pm fiorentini hanno indagato Renzi per il compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi, molto probabilmente il congresso organizzato dalla Salt il 10 dicembre 2019, quando l’ex premier parlò per mezz’ora su “Il futuro dell’Europa” insieme all’ex ministro delle finanze inglese Philip Hammond. Secondo gli inquirenti sarebbero state emesse fatture per operazioni inesistenti e si lavora intorno a un paio di bonifici compiuti da una srl con sede a Portici.
A Roma, invece, Renzi è indagato per finanziamento illecito per i suoi rapporti economici con l’agente dei vip Lucio Presta, e in particolare per i compensi del documentario “Firenze secondo me”, 700mila euro complessivi versati da Presta a Renzi (tra documentario, cessione dei diritti d’autore, promozione del personaggio e altri due programmi mai realizzati), che secondo la Finanza non erano realmente il corrispettivo per le prestazioni professionali, ma una sorta di dazione necessaria al senatore di Scandicci per acquistare la sua villa di Firenze.
Ma è su Open, la cassaforte del renzismo, che il leader di Italia Viva combatte la madre delle sue battaglie giudiziarie. Con la Cassazione che in un paio di occasioni ha emesso provvedimenti favorevoli alla difesa di un coindagato, l’ex consigliere della Fondazione Marco Carrai, ponendo dubbi sul fatto che si trattasse “di una articolazione del Pd”. Si tratta di annullamenti con rinvio dei decreti di perquisizione di Carrai che Renzi ha preso al balzo per dichiarare chiusa in suo favore una vicenda ancora aperta.
Open è l’inchiesta più delicata, perché figurano indagati Renzi e i suoi più stretti collaboratori dei tempi d’oro da premier e segretario Pd: l’ex ministra Maria Elena Boschi, l’ex ministro Luca Lotti, l’ex presidente di Open Alberto Bianchi. Per questi ultimi due c’è un sottofilone che ipotizza la corruzione insieme all’imprenditore Alfonso Toto e Patrizio Donnini, che per anni con Dotmedia ha partecipato all’organizzazione della Leopolda.
Morisi, Matteo va a caccia della talpa: “Sta al Viminale”
“Attaccano Morisi per attaccare me”. Matteo Salvini non ha più il sospetto di un complotto nei confronti della Lega: ormai è convinto che il caso che ha inguaiato il suo spin doctor per il festino a base di droga del 13 agosto sia scoppiato per colpire il partito alla vigilia del voto. Troppo strani, sostiene, i contorni della vicenda, troppo sospetti i tempi della sua pubblicazione sui giornali. Ma il leader della Lega e i suoi fedelissimi sono anche consapevoli che l’inchiesta potrebbe non finire qui e che nei prossimi giorni potrebbero uscire nuove rivelazioni. E allora vuole capire da dove arrivino le informazioni: una sorta di “contro inchiesta” tutta in salsa leghista. In primis, ha armato la sua “Bestia” che, sebbene orfana di Morisi, sta continuando a usare gli stessi toni di sempre. Fino a oggi però la macchina social della Lega ha deliberatamente evitato di occuparsi del caso Morisi: meglio tacere e non dare troppo risalto al caso. Sui social ufficiali del partito infatti è uscito solo il post di lunedì scorso in cui Salvini difendeva “il suo amico” e annunciava che lo avrebbe “aiutato a rialzarsi”. Poi più niente. Ora non sarà più così: il diktat dato allo staff comunicazione è quello di ribattere colpo su colpo alle accuse degli investigatori e alle notizie che escono sui giornali mettendo in evidenza le presunte contraddizioni. “Dell’inchiesta si parlerà ancora per un po’ – spiega un fedelissimo – quindi non possiamo più fare finta di niente: meglio provare a girare il tutto a nostro favore che sperare che passi la bufera”. E non è un caso che sia stato proprio Salvini ad affrontare l’argomento negli ultimi comizi con toni vittimistici.
Ma il leader della Lega non si ferma qui. I suoi lo definiscono furioso per la fuga di notizie di un’inchiesta di cui lui stesso sapeva ben poco. Sperava che il caso passasse sotto silenzio ma quando la notizia è iniziata a girare nei corridoi di Camera e Senato, ha capito che prima o poi sarebbe uscita. È a quel punto che Morisi si è dimesso. E allora Salvini e i suoi fedelissimi vogliono capire come la notizia sia arrivata ai parlamentari e chi abbia iniziato a mettere in giro la voce di una perquisizione a casa Morisi. I primi sospetti ricadono sui parlamentari veneti del Carroccio che nelle ultime settimane hanno più volte criticato la linea del capo. E che già a fine agosto erano informati dei fatti. Salvini non solo è accerchiato dai nordisti e teme la batosta elettorale, ma sospetta di talpe interne alla Lega. Resta poi, nella cerchia ristretta del segretario, l’ombra del complotto. Ieri sul Giornale i fedelissimi di Salvini hanno fatto filtrare la voce che dietro ai dettagli dell’inchiesta ci sia la “manina” del Viminale e una “vendetta” del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese messa nel mirino dalla Lega sugli sbarchi. Solo sospetti che non trovano conferme ma che mettono in luce, oltre alla dietrologia leghista, un tentativo di appurare se la gola profonda venga dal ministero dell’Interno. Un uomo al Viminale Salvini lo avrebbe anche ed è quel Nicola Molteni che ha pessimi rapporti con Lamorgese attaccandola ogni giorno sugli sbarchi. Difficile che il sottosegretario ne sappia qualcosa. Ma i salviniani insistono: “Ci vogliono colpire, abbiamo dato fastidio a qualcuno”. La ricerca della talpa prosegue.
La vecchia Lega dei 49 milioni regala 100 mila euro a Salvini
Non solo stesso leader, Matteo Salvini, medesima sede, via Bellerio, e identico tesoriere, Giulio Centemero. Ora anche i soldi sono gli stessi. Nel 2020 la Lega Nord ha versato infatti 100 mila euro tondi a Lega Salvini Premier. Il passaggio di denaro è documentato dai rendiconti finanziari del Parlamento. Il problema? Lega Nord ha ancora in carico un debito milionario con lo Stato italiano, quello derivante dalla truffa dei 49 milioni di euro. In altre parole, quei 100 mila euro potevano in teoria essere usati dal vecchio partito per ripagare parte del debito non ancora estinto. Invece, i soldi sono finiti nelle casse di Lega Salvini Premier, al sicuro da eventuali creditori, vale a dire da tutti i cittadini italiani.
Per capire i termini della vicenda bisogna tornare al settembre del 2018, quando Salvini trova una soluzione per restituire i 49 milioni della truffa. L’accordo con la Procura di Genova, mai reso pubblico integralmente, prevede che Lega Nord debba restituire il maltolto a rate, senza interessi: 600 mila euro all’anno. Fatto il conto della serva – e considerando che 3 dei 49 milioni erano già stati sequestrati nel momento della condanna di primo grado – a questi ritmi il debito verrà estinto nel 2095. Sempre che allora la Lega Nord esista ancora. C’è solo una possibilità, affinché lo Stato recuperi il suo credito in anticipo. Lo ha spiegato tre anni fa l’allora procuratore di Genova, Francesco Cozzi. Oltre ai 600 mila euro annui, ha detto il magistrato, “verrà sequestrata l’eccedenza, ossia il cosiddetto avanzo oltre 1,2 milioni di euro, ossia la differenza tra i ricavi dati dalle somme future incassate e le spese”.
Traduzione: nel caso in cui la Lega Nord chiuda il bilancio con un risultato positivo della gestione ordinaria, tutto ciò che eccede 1,2 milioni di euro viene sequestrato. Non è chiaro perché sia stato concesso di mettere da parte 1,2 milioni di euro senza rischiare il sequestro, ma non è questo il punto per comprendere lo strano trasferimento di 100 mila euro da una Lega all’altra. Ciò che conta è che per evitare di restituire allo Stato più di 600 mila euro all’anno, il vecchio Carroccio deve chiudere il bilancio con un saldo tra entrate e uscite inferiore a 1,2 milioni. E infatti, anche nel 2020 è andata così: l’ultima riga del conto economico segna un risultato della gestione caratteristica positivo per 719 mila euro. Poco più del necessario per pagare la rata annuale da 600 mila euro, senza rischiare sequestri. Come se la passa Lega Salvini Premier? Il nuovo partito ha chiuso la gestione caratteristica del 2020 in positivo per 496 mila euro, con un avanzo di esercizio pari a 365 mila euro. Il motivo del successo è presto detto: a partire dal 2018, in concomitanza all’accordo con la Procura di Genova, buona parte delle donazioni che prima affluivano nelle casse di Lega Nord sono state spostate su quelle di Lega Salvini Premier.
Oggi i ricavi della nuova creatura sono cinque volte superiori a quelle del vecchio Carroccio: 8,3 milioni contro 1,6 milioni. Lo sdoppiamento della Lega risale al 10 ottobre del 2017, un mese dopo il sequestro preventivo dei conti del vecchio Carroccio. Quel giorno, a dare i natali alla nuova creatura davanti al notaio Alberto Maria Ciambella c’erano Salvini, Centemero, Roberto Calderoli, Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Fontana. Il gotha della Lega Nord ha insomma creato Lega Salvini Premier. Obiettivo? Lo ha spiegato lo stesso Centemero in una email del gennaio 2017 sequestrata dalla Procura di Milano nell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission. “Ricapitolando la situazione dei veicoli abbiamo: la Lega nord che verrà messa su un binario morto giusto per stare in giudizio fino al terzo grado. La nuova Lega che nascerà per svolgere le attività di partito”, scrive Centemero indirizzando il messaggio a Luca Morisi, Andrea Paganella, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni.
Quasi due anni dopo, quando la Procura di Genova ha avallato la rateizzazione del debito dei 49 milioni, il nuovo partito non è però stato coinvolto nell’accordo. E così oggi può permettersi di incassare legalmente soldi dalla vecchia Lega Nord. Resta una questione di sostanza. Sommando il saldo tra entrate e uscite di Lega Nord e di Lega Salvini Premier, nel 2020 il totale supera seppur di poco 1,2 milioni di euro. È denaro che sarebbe tornato allo Stato, e che invece resta nelle disponibilità dei due partiti.
Rai3 e il pasticciaccio “Hammamet”
Non c’è pace per Franco Di Mare. L’ultima è la decisione di cancellare dal palinsesto Rai la messa in onda di Hammamet, film del 2020 di Gianni Amelio che racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi (interpretato da Pierfrancesco Favino, in foto), ad Hammamet in Tunisia.
Lì Craxi morirà, nel gennaio del 2000, e la pellicola è la cronaca dell’ultimo periodo. Il film doveva andare in onda venerdì, alle 21.20, in prima serata su Rai3. D’improvviso la cancellazione e la decisione, ieri, di rinviarne la messa in onda al 26 novembre. “Si tratta di una normale attività di modulazione del palinsesto”, spiega la Rai. Ma, a quanto si apprende da fonti dell’azienda, la scelta è stata dettata da motivi di opportunità. Dato che “ci troviamo in campagna elettorale, in pieno regime di par condicio, e il film sarebbe andato in onda a due giorni dal voto, si è deciso di rinviare la programmazione di una pellicola così fortemente politica per evitare polemiche”, viene spiegato. Tanto più che candidato a Roma, in una lista a sostegno di Roberto Gualtieri, c’è proprio il figlio del leader socialista, Bobo Craxi.
Polemiche che sono arrivate lo stesso però, e il primo ad arrabbiarsi è proprio Bobo. “Rai3 ha operato un’imbarazzante censura. Il direttore di rete, grillino, pensa di essere al timone dell’Eiar. Ma forse non sa che la censura è una prassi da regime sovietico o franchista – scrive Bobo Craxi sui social –. Si vede che mio padre fa paura anche da morto…”, aggiunge. Poi parla anche la sorella Stefania, che ricorda come sia stata proprio la Rai “a co-produrre questo bellissimo film”.
Sulla vicenda interviene anche il leader del Psi, Riccardo Nencini. “L’Italia rigurgita di saluti fascisti, di gente che inneggia a Hitler, i moralisti della Bestia si scoprono peccatori e la Rai che fa? Censura un bel film”, attacca il senatore, annunciando interrogazioni in Vigilanza. “Si tratta dell’ennesimo caso di sciatteria da parte della tv pubblica”, rincara la dose il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi.
Ma non c’è solo il fantasma di Bettino a turbare il sonno del direttore di Rai3. Per lui sono giorni di fibrillazione. Prima c’è stata la decisione dell’a.d. Carlo Fuortes di riportare in video, a Cartabianca, Mauro Corona, dopo la sua cacciata da parte del direttore di rete, con conseguente braccio di ferro con Bianca Berlinguer, che chiedeva di riaverlo in trasmissione. Poi è arrivata la marcia indietro della Rai sulla querela a Fedez, annunciata proprio da Di Mare in Vigilanza, dopo lo scontro tra l’azienda e il cantante per il tentativo di censura al suo intervento prima del concerto del Primo Maggio 2021. Altro rospo che Di Mare è stato costretto a ingoiare. E questa sera proprio Fedez sarà ospite da Fabio Fazio, su Rai3. A Viale Mazzini già si trema per quel che il cantante potrebbe dire in diretta nel giorno in cui si vota per le Amministrative.
Milano, i signori del cemento votano quasi tutti per Sala
Oggi e domani Milano va alle urne e anche i suoi palazzinari votano. Costruttori, immobiliaristi, fondi, architetti e coop si schierano per la vera sfida, che è soprattutto quella in famiglia tra il sindaco Beppe Sala e l’assessore all’Urbanistica, Pierfrancesco Maran. Lo sanno tutti in città. Dalle Comunali per Palazzo Marino deve uscire un nuovo equilibrio fra il sindaco e la sua lista civica da un lato e l’ariete del Pd milanese. Sono lontani i mesi dei baci e degli abbracci per la conquista delle Olimpiadi invernali del 2026. A poche ore dallo spoglio anche il “partito del mattone”, che pre-pandemia ha promesso 13 miliardi di euro di investimenti nei prossimi 10 anni, si schiera.
L’assessore all’Urbanistica è appoggiato dalle realtà che fanno riferimento all’housing sociale meneghino e al suo semi-monopolista: Redo, emanazione di Cariplo e Cassa depositi e prestiti, guidato da Carlo Cerami e Fabio Carlozzo. Oltre ad avere in portfolio svariati quartieri a prezzi e canoni convenzionati sia in essere (Merezzate, Five Square) che in divenire (Crescenzago, ex Macello), con Redo ci hanno lavorato in tanti in questi anni: dalle cooperative bianche del mondo cattolico (CMB di Carpi) a quelle rosse dell’universo Unipol che ha ereditato l’impero Fonsai dal fallimento Ligresti, fino a costruttori come Mangiavacchi & Pedercini del gruppo bergamasco Percassi.
Maran dovrà far fronte al fuoco, non troppo amico, di altri pezzi del real estate milanese, quelli che non hanno mandato giù la sua battaglia 2020-2021 contro la legge regionale lombarda che regalava volumetrie fino al 25% in più (e non solo) a chi recuperava palazzi dismessi o abbandonati. Tra chi non ha digerito l’affossamento della legge e non vuole più vedere all’Urbanistica l’astro nascente dei dem meneghini, c’è l’avvocato Filippo Oriana, rieletto a luglio 2021 presidente di Aspesi, l’associazione delle società di sviluppo immobiliare.
Idem per Manfredi Catella e il nucleo di persone e professionisti che attorno a lui girano. Grazie a quella legge il numero uno di Coima avrebbe accelerato sul suo nuovo gioiello in Porta Nuova: l’ex Pirellino del Comune di Milano, comprato in asta nel 2019, progettato da Stefano Boeri ed Elizabeth Diller. Mister Porta Nuova sta con Beppe Sala, col quale peraltro condivide i discorsi a base di “green” e “resilienza” che si sposano alla perfezione col nuovo corso del capitalismo milanese – cementiero, ma dicono “sostenibile” – e la presunta affiliazione ai Verdi di Sala. Uno degli avvocati di Catella su varie partite immobiliari, Carolina Romanelli, senior del superstudio di Antonio Belvedere e Guido Inzaghi, è stata nominata da Sala quest’anno nel cda di M4.
Anche Mario Abbadessa di Hines appoggia il sindaco uscente: su Milano, d’altra parte, ha “in cantiere” investimenti pesanti a Bovisa, studentati, l’Ex Trotto, Porta Vittoria, MilanoSesto. Con Sala sta pure Marco Dettori, ex presidente di Assimpredil-Ance, e pure la nuova leader dei costruttori, Regina De Albertis, giovane erede della famiglia che controlla Borio Mangiarotti, intrattiene buoni rapporti con tutti, ma appoggia il sindaco. De Albertis deve però fare i conti con un’associazione spaccata, fatta anche di tante Pmi, che non hanno gradito alcune delibere del centrosinistra per internalizzare servizi del Comune che venivano erogati in appalto.
L’associazionismo cattolico è, ovviamente, inclusivo. Le Acli hanno un uomo nella lista Sala, il loro ex presidente Paolo Petracca: CCL, una coop legata alle Acli, ha finanziato pubblicamente con una donazione da 17mila euro la campagna. Ma qualche “gettone” da 5mila o 1.500 euro è avanzato anche per lo stesso Maran, per il capogruppo Pd in consiglio comunale Filippo Barberis, per la consigliera comunale Natascia Tosoni e per il centrodestra vicino a Maurizio Lupi con Milano Popolare e il consigliere Matteo Forte.
Non graditi alla giunta di Beppe Sala (e viceversa) rimangono invece i membri della famiglia Cabassi, i proprietari del Forum di Assago che hanno presentato al Tar un ricorso contro il quartiere olimpico di Santa Giulia e la nuova Arena per il 2026. Un ricorso che colpisce nella carne viva le ambizioni meneghine e danneggia, per ora nei tempi, la Santa Giulia Spa (Intesa Sanpaolo) ed Esselunga, proprietari delle aree.
E il centrodestra? Il clima lo riassume bene un immobiliarista vicino a quel mondo sin dai tempi di Albertini e Moratti. “Fra amici ci prendiamo in giro: facciamo molte più cose oggi che all’epoca”. Certo, avessero avuto un “loro” uomo su cui puntare come Lupi o lo stesso Gabriele Albertini, sarebbe stata un’altra storia. Al momento chi sta col pediatra Luca Bernardo e la litigiosa coalizione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni è l’impresa Rusconi, costruttori da generazioni. Ma tanto tutti sanno che in Comune resterà Sala…