“Silvio fake”: le foto ridicole degli 85 anni. Qualcuno glielo dica

Come è possibile che un uomo generoso come Silvio Berlusconi non abbia intorno nessuno che gli dica la verità? Perché nessuno gli suggerisce che le foto uscite in occasione del suo 85esimo compleanno sono talmente ritoccate (male) da risultare ridicole? Perché chi gli vuole bene lo abbandona così maldestramente al pubblico ludibrio? Domande che resteranno ovviamente senza risposta. Come Nosferatu non è Dracula – il vampiro del film di Murnau è la versione fake di quello scritto da Bram Stoker (tanto che il conte Dracula diventa il conte Orlok, per sfuggire ai diritti d’autore) – così Silvio Berlusconi non è più Silvio Berlusconi, almeno nelle ultime due foto uscite, bensì, nella migliore delle ipotesi, un collage di pezzi di Berlusconi.

La prima l’ha pubblicata sui social la sua fidanzata Marta Fascina, con tanto di didascalia “Buon compleanno amore mio!”, seguita da tre cuoricini. In quella foto si è abusato oltremodo (e maldestramente, come mai) di Photoshop: proporzioni, dettagli, contorni, tutto è finto oltre ogni limite. Che Berlusconi diffidasse della verità e del vero lo sapevamo da tempo – fin da quando si favoleggiava di un collant sulle telecamere per ammorbidirne l’immagine – però almeno una volta il risultato era soddisfacente, ora è un disastro. Analizziamola bene perché, come si dice, le diable est dans les détails – il diavolo è nei dettagli. Cominciamo dalle proporzioni: la testa dell’ex Cavaliere è fuori dimensione con tutto il resto, dalla mano che saluta fino al viso di Marta Fascina, evidentemente troppo piccolo il primo rispetto ai due riferimenti citati. Poi, il vestito: ma come, un maestro di eleganza come Caraceni gli ha confezionato un bellissimo abito doppiopetto e lui lo “spezza” con pantaloni della tuta? Perché, guardando con attenzione, quello sono: senza stiratura, flosci, di un altro colore. Impossibile. E poi i dettagli: la giacca cade come fosse appesa, il bottone più basso del doppiopetto è (quasi) sparito così come la tasca. Per non parlare della manica: non c’è quasi la cucitura con la spalla, sembra un tutt’uno vagamente surreale. La testa microcefala di Berlusconi è – senza dubbio presa da una foto di qualche tempo fa – scontornata male, troppo levigata, con gli occhi a pinces e talmente decontestualizzata da ricordare quasi un’icona bizantina.

Così come quell’altra foto: postata sul suo profilo Instagram, sempre in compagnia della fidanzata Marta, ma qui c’è anche il nipote Silvio – figlio di Marina – che festeggiava il suo 17esimo compleanno nello stesso giorno del nonno. Anche qui la foto è stranissima: B. sembra il suo cartonato, i profili sono evidentemente scontornati, le proporzioni peggio che nella precedente. Inspiegabile. Ma, evidentemente, la distanza dalla verità è la cifra dei collaboratori che gli stanno intorno. Se così fosse caro Presidente, per i suoi prossimi compleanni (gliene auguriamo altri 100) se vuole ritoccare una foto la mandi a noi, abbiamo grafici bravissimi. Le promettiamo che saranno più leali dei suoi. Ancora buon compleanno.

Pizzino del “barone nero” a Lega e FdI: “Valgo il 5%”

Non è facile quantificare il peso elettorale di Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone nero” coinvolto nell’inchiesta di Fanpage sui presunti finanziamenti irregolari a Fratelli d’Italia. Lui però, nelle ore successive allo scandalo, ci tiene a puntualizzare di non essere uno qualunque, spedendo un “pizzino” a Giorgia Meloni e Matteo Salvini: “Sono indipendente, ma nessuno faccia finta di non conoscermi – scrive su Instagram pubblicando le foto coi due leader – Il 5 per cento di voti della destra radicale fa gola a tutti ed è indispensabile per vincere”.

La percentuale appare un po’ eccessiva, ma di certo Jonghi Lavarini sa come muovere migliaia di voti tra Milano e dintorni. Lo sa bene Carlo Fidanza, eurodeputato appena autosospeso che lo ha coccolato per la campagna elettorale delle Amministrative milanesi. Ma lo sanno bene anche dentro la Lega, di cui Jonghi Lavarini è stato sostenitore a fasi alterne.

Sulla capacità attrattiva del Barone nero non deve ingannare la mancata elezione alla Camera nel 2018. Candidato con FdI in uno dei collegi plurinominali della periferia milanese, il suo listino bloccato è andato a un soffio dalla soglia di sbarramento (3,99 per cento), più o meno in linea con la forza di allora del partito in città.

Più indicativi sono i dati sulle elezioni europee, dato che, a differenza del Rosatellum, quel sistema elettorale consente di indicare le preferenze.

Nel 2014 Jonghi Lavarini dichiara di sostenere quattro candidati leghisti: Gianluca Buonanno, Mario Borghezio, Flavio Tosi e Angelo Ciocca. La Lega ottiene solo 5 seggi, 3 dei quali vanno proprio agli uomini di Jonghi Lavarini (diventeranno 4 quando Ciocca sostituirà il defunto Buonanno). Nel 2019 il Barone nero intensifica i rapporti proprio con Ciocca, partecipando a diversi eventi elettorali tra Milano e Pavia. Le cose vanno alla grande. Nel Nord Ovest Ciocca è il re delle preferenze dietro a Salvini, raccogliendo 89.752 voti. Il doppio di Silvia Sardone, la seconda eletta. Interessante sarà perciò vedere quante preferenze prenderanno a Milano la candidata Chiara Valcepina e gli altri “protetti” di Jonghi Lavarini, anche se da FdI – come prevedibile – minimizzano: “Non credo possa vantare grandi percentuali”, ci dice un candidato meloniano estraneo al suo giro.

Altra questione è invece la capacità di portare fondi. Oggi Jonghi Lavarini giura che a Milano “nessuno ha dato né ricevuto soldi” e che la storiaccia del presunto finanziamento in nero sia frutto del “taglia e cuci” di Fanpage. Cinque anni fa, il Barone nero lamentava pubblicamente di “non avere soldi per una campagna elettorale”. Chissà che nel tempo non abbia capito a chi rivolgersi.

I fascisti sostenuti da Emiliano aggrediscono un 5S

Pugni, inseguimenti e insulti omofobi. Non ci sono stati solo i comizi finali nelle ultime ore di campagna elettorale: venerdì sera tra Nardò (Lecce) e Afragola (Napoli) ci sono stati casi anche di violenza fisica e verbale. Il fatto più grave è avvenuto nella città pugliese dove il sindaco di destra Pippi Mellone (nella foto), vicino a CasaPound e sostenuto da Lega, FdI ma anche dal governatore Michele Emiliano, ha finito così il suo comizio in piazza Salandra: “Vi invito ad abbandonare la piazza per evitare brutti incontri con chi rappresenta il male della città. Li asfalteremo”. A quel punto nella piazza del centro sono arrivati i sostenitori del candidato di Pd e M5S Carlo Falangone e ad avere la peggio è stato il candidato pentastellato Tiziano De Pirro: è stato insultato e preso a pugni da un sostenitore di Mellone vicino all’estrema destra. Risultato: un dito fratturato e un controllo dall’otorino per l’udito. Ma i sostenitori di Mellone che erano in piazza non si sono fermati: hanno rivolto insulti omofobi agli elettori di Falangone. Anche ad Afragola la deputata del M5S Iolanda Di Stasio ha denunciato ai carabinieri due aggressioni nei confronti di Salvatore Iavarone (Europa Verde) e Francesco Zanfardino (Pd) che venerdì notte è stato inseguito e gli sono state tagliate le ruote della macchina. Nei giorni scorsi a San Nicandro Garganico (Foggia) è stata imbrattata la sede del candidato sindaco del M5S Matteo Vocale. “Recrudescenze di odio e intolleranza di questo tipo sono non solo dannose ma pericolose” dice Giuseppe Conte mentre Luigi Di Maio chiede una “condanna ferma da tutte le forze politiche”. A proposito di toni intolleranti, a Carbone (Potenza) si candida Saverio Siorini che nell’agosto 2017, commentando un caso di violenza sessuale accaduto a Rimini, si era augurato che anche Laura Boldrini venisse stuprata. “Ma alla Boldrini e alle donne del Pd, quando dovrà succedere?” era stato il commento del segretario leghista di San Giovanni Rotondo. Poi è stato espulso e oggi si candida con il movimento “L’Altra Italia”.

Bernardo, Michetti&C. La saga di gaffe e lapsus

Cani testimonial, vip arruolati in lista, campioni di gaffe catapultati sul palco. Le Amministrative offrono sempre un affresco esilarante della politica. In queste settimane, oltre al campionario illustrato qui a fianco, ne abbiamo viste tante. A Milano Luca Bernardo, pediatra prestato al centrodestra, ha fatto notizia per l’abitudine di portare con sé la pistola in ospedale. Dopo le prime smentite, s’è arreso: “La porto per difendermi, ma non in corsia”. Un lapsus di Giuseppe Conte ha invece trasformato Layla Pavone, candidata 5S a Milano, in Layla Romano, che i soliti beninformati sostengono essere una escort. Ben più aulico Beppe Grillo, che almeno ha raffigurato Virginia Raggi con posa e abiti da gladiatrice. Ma a Roma s’è visto di peggio. Pippo Franco s’è offerto per fare l’assessore alla Cultura di Enrico Michetti, stesso ruolo che però pare già assegnato a Vittorio Sgarbi. Intanto Michetti fuggiva da ogni confronto elettorale, preferendo discutere di Ottaviano Augusto più che di trasporti e rifiuti. A Bologna la Sardina Mattia Santori (Pd) ha organizzato “il nascondino più grande di sempre”, coinvolgendo decine di bambini in piazza per dimostrar loro che “esistono zone in cui si può girare, parlare, scoprire, parlare coi commercianti”. Come dimenticare poi il candidato della destra a Torino, Paolo Damilano, lanciarsi in un endorsement per Sala anziché per Bernardo: “Non me ne voglia, ma se vincesse Sala… lui è manager, quando parliamo non c’è bisogno di spiegarci”. A Napoli Hugo Maradona, fratello di Diego, è candidato con Catello Maresca. Con molte perplessità da parte di Diego junior, il figlio dell’eterno Diez: “Io sono di sinistra. Nessuno si permetta di utilizzare l’immagine di mio padre”.

Al voto: Letta spera nel filotto Meloni può sorpassare Salvini

E ora faranno i conti. Conclusa una campagna elettorale estenuata ed estenuante, l’unico campo di gioco lasciato alla politica dal Migliore e vorace Mario Draghi, i partiti si apprestano a contarsi nelle Comunali, in programma oggi (urne aperte dalle 7 alle 23) e domani (7-15), e nelle Regionali in Calabria. Dagli oltre 12 milioni chiamati al voto si attendono risposte molteplici: sulle nuove giunte nelle cinque principali città, certo, con il centrosinistra a geometrie variabili che sogna il 5 a 0 sul centrodestra, ma anche per gli equilibri interni nei vari partiti, mai così friabili. Proprio ora che la corsa per il Quirinale sta per iniziare.

M5S.Il Movimento che è un perenne ossimoro ha un capo di nome Giuseppe Conte che da settimane riempie le piazze ma che tra un selfie e l’altro ricorda che il M5S alle Amministrative non ha mai ottenuto grandi risultati, “e poi le liste si sono formate quando io non mi ero insediato come leader”, come disse un mesetto fa. Magari teme il vecchio detto “piazze piene, urne vuote”, di certo ha guardato stime e nomi. E poi sente già il rumore dei nemici interni, primi tra tutti quelli che resteranno fuori dalla futura segreteria, di cui non a caso l’avvocato ha rinviato il varo a dopo le Comunali. Nell’attesa è obbligato a vincere a Napoli con il contiano doc Gaetano Manfredi – possibilmente al primo turno – e a prendere una percentuale decorosa a Bologna, così da poter chiedere almeno due assessorati al dem Matteo Lepore. Altrove rischia di non sorridere: e vale pure per Roma, dove Virginia Raggi insegue il miracolo del ballottaggio. Conte la sua parte per lei l’ha fatta, ma se la sindaca non dovesse farcela appoggerà pubblicamente il dem Roberto Gualtieri. Perché a contare “è il percorso”, come ha ricordato ieri: quello con il Pd.

Voto alla campagna del leader: 7

PD.Ha perso chili – sei, pare – e recuperato colore, Enrico Letta, e per un segretario del Pd è già una buona notizia. Impegnato innanzitutto nella partita personale del collegio per la Camera di Siena, in cui ha ammesso di “giocarsi l’osso del collo”, Letta fiuta il successo nelle Amministrative di questa specie di centrosinistra, con Milano, Bologna e Napoli che sembrano blindate e Roma – dove un insuccesso per lui vorrebbe dire apocalisse – che pare a portata di mano. Se si vincesse anche a Torino sarebbe 5 a 0, per giunta con un candidato dem, Stefano Lo Russo. Ma sotto la Mole l’appoggio ufficiale di Conte e del M5S al ballottaggio non dovrebbe arrivare – Lo Russo fece un esposto contro la sindaca Chiara Appendino – e l’uomo del centrodestra Paolo Damilano è forte. Nell’attesa il segretario dem auspica per il secondo turno “convergenze sostanziali” con i 5Stelle, come ha detto al Mattino. Ma per proteggere la coalizione giallorosa da certi dem, gli ex renziani che troppo ex non sono, servono vittorie e accordi.

Voto al leader: 6,5

LEGA.Il Capitano fiuta il vento, con lo sguardo di chi teme di ritrovarsi un ufficiale come tanti altri. Non più capace di radunare folle come ai tempi gialloverdi, bersaglio frequente di quel Giancarlo Giorgetti che magari non vuole abbatterlo ma renderlo docile e composto quello sì, eccome, Matteo Salvini ha girato l’Italia dicendo tutto e il suo contrario, come certi centravanti che le provano tutte ma il gol non riescono più a farlo. Il caso di Luca Morisi è il meteorite che aggiunge danni e certifica la fine della Bestia, la sua macchina di propaganda; la grottesca campagna a Milano del “suo” candidato Luca Bernardo è lo specchio fedele della situazione (e non è un caso se dopo 30 anni il capo non si è ricandidato nella sua città). Se poi Giorgia Meloni dovesse superarlo a livello nazionale e nelle principali città, sarebbe disastro. E sai che fatica tenere il timone della Lega.

Voto al leader: 4,5

FDI.Le piazze le riempie anche lei, come e più di Conte, e il risultato di primo partito italiano con Salvini scavalcato è un trofeo alla portata. Giorgia Meloni annusa l’aria dei piani alti, frizzante, ma i freschissimi guai da Milano, con l’inchiesta di Fanpage carica di immagini e dichiarazioni inquietanti, le ricordano l’urgenza di ridisegnare un partito schizzato dal 4 al (potenziale) 20 per cento in un amen. Poi c’è la spina chiamata Enrico Michetti, il candidato al Campidoglio da lei fortemente voluto – anche se non era la sua prima scelta – che tra inni alle bighe e ai Cesari e palchi abbandonati sta sconcertando pure molti dei suoi. L’abbraccio a Roma con Salvini per le telecamere deve esserle costato: ma racconta il centrodestra.

Voto alla leader: 6

FORZA ITALIA. C’è, anche se non si vede, un po’ come il suo padre e padrone che ormai rifugge dai palchi come dalle udienze, Silvio Berlusconi. Forza Italia ha pochi eppure preziosi voti, utili soprattutto in tempi in cui si riparla di centro uber alles. Berlusconi spera davvero di poter fare il presidente della Repubblica, e questo già basta per restare al tavolo del centrodestra. Ma tira aria di batosta nelle urne, e forse anche per questo il patriarca ha detto alla Stampa parole al curaro: “Salvini o Meloni premier con Draghi al Colle? Ma non scherziamo”. Il Cavaliere ha poi smentito, ma i siluri sono comunque partiti. Va ricordato che in Calabria il forzista Occhiuto potrebbe vincere la Regione: ma quanto possa importare a Berlusconi, è mistero da teologi.

Voto al leader: ingiudicabile perché contumace

CALENDA & C. Essi vivono, anche discretamente. Sono o sarebbero i centristi, figli di quell’area della politica italiana che è sempre affollata, anche se forse neppure esiste. Carlo Calenda, con la sua lunghissima campagna di Roma, ha voluto soprattutto posizionarsi come referente di quel mondo. Poi ci sarebbe anche il senatore Matteo Renzi, quello che insulta il M5S, deride il Pd e sostiene i referendum di Salvini, ma che poi corre con il centrosinistra in molte delle città principali (senza simbolo, perché è persona discreta). Con loro e altri si dovrà parlare per il Colle. Ed è verità che fa rima con dazio.

Voti ai leader: dal 3 al 6

Istruzioni per l’uso

Se fossimo un paese normale, tratteremmo le elezioni amministrative per quello che sono: lo strumento per scegliere i sindaci e i presidenti di regione. E, in subordine, un test parziale sulla salute dei partiti. Ma siamo in Italia, dunque domani tutti gli aruspici ci spiegheranno chi ha vinto fra Draghi, Meloni, Salvini, Letta, Conte, B., Giorgetti ecc. (nessuno dei quali è candidato). Fare previsioni o dare indicazioni di voto è inutile, visto che l’alleanza di centrosinistra compare e scompare a seconda delle città e quella di centrodestra sulla carta è dappertutto, ma è pura finzione, visti i pessimi rapporti fra partiti sedicenti alleati e anche al loro interno. In generale, sappiamo che il nuovo centrosinistra 5Stelle-Pd governa molto meglio delle destre; che le sindache M5S, Appendino a Torino e Raggi a Roma, han fatto molto meglio di chi le ha precedute; e che i candidati del Pd non sono tutti uguali. Sala a Milano e Lo Russo a Torino sono pressoché indistinguibili dal centrodestra, infatti nelle due metropoli del Nord destra e sinistra han sempre fatto affari insieme chiunque le governasse e continueranno a farli chiunque le governerà. Tutt’altro discorso per il pd Lepore a Bologna e il contiano Manfredi a Napoli, che non si limitano a sommare i voti di Pd e M5S, ma sono figli di un progetto comune e meritano fiducia, così come la ricercatrice Amalia Bruni in Calabria (la presenza al suo fianco di certi revenant del vecchio apparato Pd sarebbe insopportabile se dall’altra non ci fosse una delle destre più indecenti mai viste).

Ma da lunedì le amministrative verranno lette con gli occhiali deformanti del progetto Draghi Forever: quello del Partito degli Affari che, dopo il Conticidio, vuol imbalsamare SuperMario a Palazzo Chigi anche per la prossima legislatura tagliando le ali (FdI e M5S) e accroccando un orrendo centrone formato da Lega giorgettiana, FI, Pd de-lettizzato e ri-renzizzato e centrini vari. Dunque si augura quanto segue: Meloni indebolita; Conte fallito come nuovo capo 5S; Salvini bocciato e subito dopo sfiduciato o commissariato da Giorgetti, Zaia&C.; Pd più forte dove corre da solo e più debole dove si allea col M5S; buoni risultati per FI e Calenda (l’Innominabile non lo nominano più nemmeno gli amici). Noi, che aborriamo questo ennesimo golpe bianco alle spalle degli elettori, ci auguriamo l’esatto opposto. E almeno un appello al voto ci sentiamo di farlo: chiunque fosse tentato di astenersi perché convinto che il suo voto non serva, ci ripensi e vada a votare. È il miglior modo per far capire a lorsignori che il prossimo governo vogliamo deciderlo noi e che, per deciderlo loro al posto nostro, dovranno passare sui nostri cadaveri.

Tucidide, lo storico coinvolto dai fatti che un po’ assomiglia al russo Trockij

Difficile raccontare la storia quando ci sei immerso dentro. E quando quella storia è anche la tua storia. Ma Tucidide è di una grandezza tale che il cuore della classica Guerra del Peloponneso non muta anche quando si acclara, come fa Luciano Canfora in questo bel volumetto, che Tucidide era coinvolto in quei fatti. Al termine di una rilettura del testo dello storico ateniese, infatti, Canfora si fa questa domanda: “Perché Tucidide ha dedicato uno spazio così grande a quella vicenda, andando al di là dell’equilibrio narrativo inerente al racconto della guerra?”. La spiegazione che ne da è il “coinvolgimento personale” di Tucidide in quella che lui stesso ha definito “la grande impresa”. Parliamo dello scontro decisivo ad Atene tra il fronte democratico radicale e gli oligarchi che istituiranno l’Assemblea dei Quattrocento, fronte al quale Tucidide si lega anche se poi si accorge dello scontro tra fazioni dentro i Quattrocento. Tanto da fargli dire della “fragilità delle oligarchie”. Ma è sempre lui che definirà quella dei Quattrocento “la migliore costituzione” per Atene anche se poi appoggerà Teramene e l’istituzione dell’assemblea dei Cinquemila.

Tucidide, dice Canfora, “non è un rivoluzionario”, semmai un politico che pensa il presente come storia e infatti teorizza che quella che si svolge nel suo farsi è la sola storia che merita di essere raccontata. A lui, del resto, è capitata l’esperienza originale di storico immerso in una crogiolo rivoluzionario potendone scrivere e poi uscendone vivo. Tucidide poté raccontare la storia dall’interno e da una postazione privilegiata che non a caso rende eterna la sua opera. Il paragone che salta agli occhi è con il Trockij di Storia della Rivoluzione russa, e infatti Canfora lo dice. “Ma, diversamente da Trockij, Tucidide non fu ‘manicheo’”, aggiunge. Giudizio di storico e di filologo, ma anche il riflesso di un comunista classico.

Tucidide e il colpo di Stato Luciano Canfora – Pagine: 316 – Prezzo: 16 – Editore: il Mulino

 

“Da tristezza e orina traggo opere atomiche”

Moresco prima di Moresco. Stelle in gola, che uscirà il prossimo 14 ottobre per Sem, è come uno di quei reperti dissotterrati dopo uno scavo archeologico. Sono pagine scampate all’estinzione – un romanzo, frammenti di altri due romanzi, racconti, scampoli di diario – che risalgono agli anni delle vacche e della vendemmia nella campagna mantovana, del “connubio di tristezza e di orina” del seminario bergamasco frequentato nella prima adolescenza.

Agli anni del “sottosuolo”, quando la vocazione letteraria era strappata alla fatica operaia, all’estremismo rosso tra cortei e riunioni di cellula. Agli anni nei quali lo scrittore era costretto a rivendersi enciclopedie per racimolare un pranzo; a quando, consumando decine di penne Bic, in un alloggio della periferia milanese scriveva nel bagno con la moquette pisciata per non svegliare moglie e figlia.

Stelle in gola, uno zibaldone di testi mutilati, di scarti, di abbozzi, restituisce non solo la tensione creativa che da mezzo secolo agita i polpastrelli di Moresco ma una tenace fedeltà a una poetica “che non assomiglia a niente”, che setaccia lettori inappagati. Qui c’è già tutta la sintesi singolarissima della sua narrativa: la corporeità della materia (sperma sangue merda) al rimorchio della grammatica della fantasia (vita e morte che si scambiano i ruoli dentro a un delirio allucinato e onirico). È la solitudine irriducibile dell’inconciliato la vibrazione che percorre i suoi testi, lo specchio dentro il quale Moresco cambia sembianze di volta in volta.

Fiaba d’amore racconta di Antonio, un barbone, “un uomo perduto, un rifiuto umano”, ultimo fra gli ultimi: “Nessuno sapeva chi era, neanche gli altri straccioni, perché se ne stava sempre da solo, non parlava mai con nessuno… Neanche lui sapeva chi era stato”. D’Arco, il poliziotto morto protagonista di Canti di D’Arco, che torna nella città dei vivi per assicurare alla giustizia una rete di criminali, è un altro cavaliere solitario che sbatte la testa contro il muro di domande capitali: “Qual è l’origine del male? Da dove arriva l’amore?”.

Quando nel 1993 Bollati Boringhieri lo pesca dallo stagno dei sommersi e pubblica i racconti di Clandestinità, Moresco ha i cassetti che straripano di risme di carta, rimaste a galleggiare in un purgatorio di rifiuti lungo quindici anni. Se prima aveva dovuto scontare i pilateschi “le faremo sapere” di intellettuali come Maria Corti, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni (in Lettere a nessuno mette in fila tutte le viltà di un microcosmo culturale incapace di scommettere su uno slancio massimalista, su uno stile senza parentele), da scrittore emerso sarà costretto a un costante nomadismo editoriale. Da un libro sfrattato all’altro, passando per Feltrinelli Rizzoli Mondadori, sgrava le sue opere maggiori – Gli esordi, Canti del caos, Gli increati – tutte all’insegna di una dismisura che le sabota dall’interno in una polverizzazione di personaggi, di trame, di tempi della storia e nella storia (un monumento di cellulosa dove ci si può imbattere in una campagna pubblicitaria commissionata direttamente da Dio per vendere il pianeta Terra).

Ecco che l’epica dello scrittore che lotta per emergere, che si aggira per i salotti buoni con gli scarponi da trekking, che coltiva uno smisurato ombelico come “via estetica alla salvezza”, mal si concilia con i banditori della morte del romanzo (critici che sono “preti ormai senza fede” e che “non vorrebbero morire soli, e allora meglio far morire tutta la letteratura, dire che è morta perché non si veda che sono morti loro”).

Alle soglie dei 74 anni Antonio Moresco si sente e viene percepito ancora come un corpo estraneo. Non si rassegna a restare fuori dal campo di gioco e dalla tribuna dov’è confinato fa il tifo per se stesso, definendo il suo lavoro “un’opera che procede per agnizioni atomiche, dove il romanzo viene portato a esiti inconcepibili”. Presunzione o consapevolezza? Resta il fatto che l’autore mantovano, al prezzo di cefalee e ischemie, persiste nell’azzardo di tenere viva un’idea di letteratura totale, perseguita fino alle sue conseguenze più estreme: “Ormai da molto tempo – e forse da sempre – scrivo come se per me ogni giorno fosse l’ultimo”.

Tre buone ragioni per leggere i misteri galiziani dell’ispettore filosofo Leo Caldas

Ci sono almeno tre buone ragioni per raccomandare la lettura della Spiaggia degli affogati di Domingo Villar, scrittore galiziano pubblicato da poco in Italia. Il primo motivo è la Galizia, appunto. Vigo, per la precisione. In terra spagnola abbiamo letto gialli ambientati a Barcellona (of course), a Madrid, nei Paesi Baschi, nell’Extremadura, nella magica Andalusia di Siviglia, ma ci mancava questa regione della Spagna del nord, al confine con il Portogallo e affacciata sull’Atlantico. E Villar è bravo e discreto, cioè non ridondante, in questa sua “guida” speciale nei luoghi dove è nato. Come Panxón, che è la spiaggia del titolo, quella degli affogati. È qui che il mare restituisce il cadavere di un pescatore, principio della nuova inchiesta affidata all’ispettore Leo Caldas, solitario poliziotto appassionato di molluschi e zuppe di pesce nonché ospite fisso di una popolare trasmissione radiofonica.

Il secondo motivo è la minuziosa costruzione della trama, talmente pignola che a un certo punto Villar c’infila dentro un evidente indizio sbagliato, che cozza contro la logica e i tempi. Quando abbiamo letto L’ultimo traghetto, il primo dei suoi gialli pubblicato da Ponte alle Grazie, pensavamo a una svista. Invece l’abbiamo trovato anche ora: evidentemente deve essere un vezzo con cui l’autore si diverte a depistare grossolanamente prima della soluzione del mistero.

Terzo e ultimo motivo, l’aspetto esistenziale di Caldas, sovente rimarcato da dialoghi di valore letterario. Come questo, con il papà produttore di vini: “Il padre salì in auto. Mise in moto, accese le luci e abbassò il finestrino. ‘Ognuno se la cava come può, Leo’. ‘Lo so’, affermò Caldas, e diede due colpetti sul cofano. ‘A domani. E non ti preoccupare. Maturerò’. ‘Non si matura, Leo’ ribatté il padre prima di accelerare e lasciarlo di stucco nel parcheggio. ‘Si invecchia e basta’”. Già.

 

La spiaggia degli affogati Domingo Villar – Pagine: 485 – Prezzo: 18,50 – Editore: Ponte alle Grazie

La morte di un padre, gli appunti di una figlia

“Un giorno c’è la vita, poi, d’improvviso, capita la morte” si legge ne L’invenzione della solitudine di Paul Auster, esordio in prosa nato dopo l’improvviso decesso del padre nel ‘79. Anche Patrimonio di Philip Roth, Geologia di un padre di Valerio Magrelli, Dove troverete un altro padre come il mio di Rossana Campo e le poesie della raccolta The Father a firma Sharon Olds dimostrano quanto la morte di un padre possa fungere da detonatore per la scrittura. Per non dimenticare, per riconciliarsi, per riscattarsi, per dire finalmente i taciuti, per esorcizzare la fine mentre bussa alla porta di chi ci ha dato la vita.

Un conto è però la morte annunciata, un altro quella che irrompe senza preavviso, negando ogni chance di preparazione, casomai ce ne fosse, allo squarcio. È accaduto a giugno 2020, in piena pandemia, a Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice attivista e femminista nigeriana tradotta in trenta lingue, per Chinua Achebe, capostipite degli scrittori africani, una donna che “possiede il dono degli antichi cantastorie” e per il Time tra le cento persone più influenti al mondo. Il giorno prima vede l’amato papà, 88 anni, su Zoom, durante l’appuntamento settimanale tra fratelli e genitori collegati da Lagos, dagli Usa e dalla natia Abba, in Nigeria, quello dopo lui muore. “Ka chi fo”. Buonanotte. È l’ultima cosa che le dice. “La notizia è una specie di brutale sradicamento”, “mi sento strappata via dal mondo che ho conosciuto sin dall’infanzia”, “dev’essere così che si manifesta uno shock: con l’aria che si trasforma in colla”.

I 30 frammenti di Appunti sul dolore sono tentativo, dal risultato un po’ acerbo seppur autentico, di rendere reale l’impensabile, di concepire il “mai più”. “Quella del dolore è una scuola crudele. Insegna quanto possa essere violento il lutto, quanta rabbia possa contenere, quanto possano sembrare vuote le condoglianze, quanto il dolore abbia a che fare con le parole, con il loro fallimento e il nostro bisogno di trovarle”.

Ha ragione. Frasi come “bisogna affrontare il lutto, parlarne, attraversarlo” sembrano improvvisamente inapplicabili. La cultura igbo, diversamente dalla nostra, chiede di restare performanti pur nel dramma. Isolarsi è sacrilego e “basta lacrime” un continuo intercalare. Non le riesce proprio, però, e l’impossibilità di essere fisicamente presenti al lutto, causa Covid, rende tutto più straziante. Così prova a tenerlo in vita fissando su carta piccoli-grandi dettagli: il suo piumino verde oliva, le lettere che le scriveva dalla Nigeria quando era al college negli Usa, i quadernetti di sudoku, di cui era grande fan, acquistati insieme nel Maryland, i mille aneddoti sugli avi. Scrivere non consola né lenisce, in questo caso, eppure pare l’unica cosa da fare. “Devo ricordare ogni cosa con precisione in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me”, si proponeva Roth in Patrimonio. Anche Chimamanda ha un proposito. “Una voce nuova si fa strada nella mia scrittura, carica della vicinanza che avverto con la morte, della consapevolezza della mia stessa caducità. Un’urgenza nuova. Un senso di incombente precarietà. Devo scrivere tutto adesso, perché chissà quanto tempo mi resta”.

 

Appunti sul dolore Chimamanda Ngozi Adichie – Pagine: 82 – Prezzo: 14 – Editore: Einaudi