“Francesco Vezzoli in Florence”: leoni e testoni celebrano l’estetica, non l’etica

A Firenze, il contemporaneo torna a dialogare con il Rinascimento. In Piazza della Signoria, Francesco Vezzoli sceglie di installare su un basamento antico un monumentale leone rampante di cinque metri in posizione antropomorfa – di ispirazione disneyana tra Gardaland e il Vittoriale – che azzanna tra le fauci una testa romana del II sec. d. C.

Il pastiche coraggioso è diventato negli ultimi anni la firma dell’artista bresciano classe ‘71, che può considerarsi un altissimo artigiano dell’antiretorica: lui che nel 2005 ha presentato alla 51esima Biennale di Venezia un filmato di 5 minuti dal titolo Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligula, pensato per un ipotetico remake pornografico del film Caligola di Tinto Brass, o che più di recente (nel 2019) in PARTY POLITICS. L’intrattenimento della politica, la politica dell’intrattenimento incastonava in cornici preziose foto di Pertini che offre una mela a Sandra Milo o di Andreotti con la Lollo.

Con Francesco Vezzoli in Florence (a cura di Cristiana Perrella e Sergio Risaliti) inaugurata oggi, l’artista torna in città con due sculture, dopo che nel 2014 aveva concepito nei giorni di Pitti Uomo Vezzoli Primavera – Estate. La presente in Piazza della Signoria, che da anni ormai si erge a site-specific per l’arte contemporanea, segue alle opere di Jan Fabre (la famosa “tartarugona” del 2016) e Jeff Koons (sua la polemica “Statua dorata” del 2015). Alle spalle del leone, la seconda scultura è posizionata all’interno di Palazzo Vecchio, nello studiolo di Francesco I de Medici: un togato romano su cui è innestata una testa “metafisica” di bronzo che richiama Gli Archeologi di De Chirico. Come in De Chirico si legge un ritorno al classico, allo stesso modo Vezzoli continua nel suo recupero dell’arte come storiografia del contrasto, dell’ambivalenza del vero: quello che si definisce kitsch, classico o trash, Vezzoli lo rilegge e lo vivifica in una cornice estetica dirompente, suggerendo a chi guarda ogni sua opera una grande verità, e cioè che l’immagine è la prova che l’estetica precede ogni etica.

 

“Così è (o mi pare)”: il Pirandello di Elio

È teatro? No. È Pirandello? Pare. O almeno pare a Elio Germano. Così è (o mi pare) è infatti una sua originale riscrittura “per realtà virtuale” della quasi omonima, e trita, commedia di Luigi Pirandello del 1917, appena passata al Romaeuropa Festival.

L’attore, nel ruolo del mattatore guastafeste Lamberto Laudisi, firma anche la regia, catapultando il pubblico sin dentro il salotto della famiglia Laudisi, tramite visori 3d, diligentemente indossati da ciascuno insieme con le cuffie, stando seduto sulla propria poltroncina. Avvertenza: una visione prolungata – un’ora e mezza e passa – con gli occhialoni Vr (Virtual reality) può causare claustrofobia, congiuntivite (la risoluzione è bassissima) e nausea, soprattutto quando il punto di vista viene spostato, come se lo spettatore fosse in sedia a rotelle…

La produzione promette una visione a 360 gradi: nella casa in effetti si può scegliere chi o cosa guardare, ma il filmino della commedia è girato quasi solo frontalmente cosicché c’è poco da girare la testa e spiare altrove, se non davanti a sé. Di teatro, a parte la sala che ospita la pièce, non c’è nulla: è più un cinemino da cameretta, da godersi ciascuno coi propri occhialetti e cuffiette. Esperienza inedita, certo, ma sporca, vuoi per la tecnologia ancora sperimentale, vuoi per l’operazione drammaturgica ancora acerba, che tiene insieme le fake news e i telefonini coi vestiti e gli arredi di metà Novecento. Anche la commistione di linguaggi non è armonica: il mezzo filmico prevale decisamente sulla recitazione “dal vivo” (le riprese sono state fatte in un’unica recita filata, come si evince da qualche inciampo di dizione degli attori), ma la qualità è troppo scadente per assurgere a forma cinematografica.

Per supportare uno spettacolo così ambizioso sono serviti un nutrito cast (tra gli altri, i bravissimi Gaetano Bruno, Serena Barone, Michele Sinisi e Marco Ripoldi), un poderoso staff tecnico – da set – e una produzione danarosa (Infinito, Gold Productions e Fondazione Teatro della Toscana, il cui direttore – Stefano Accorsi – “ha fortemente voluto questo progetto”).

Poi c’è Pirandello, scelto per la realtà virtuale proprio perché “mette in discussione l’idea di ‘verità assoluta’”: degno erede del conterraneo Gorgia, il siciliano blasonato è un convinto sostenitore di panzane filosofiche – che i greci, più elegantemente, chiamavano “sofismi” e aborrivano e punivano… – sull’inesistenza, o almeno inconoscibilità, della verità. Teorie da medioevo novecentesco, oggi irricevibili, ma Luigi piace ancora inspiegabilmente, forsanche in virtù della sua beghineria pettegola. La trama di Così è (se vi pare) è esemplare: in paese tutti discutono della misteriosa signora Ponza; non si sa se ella sia figlia della signora Frola o sia la seconda moglie del signor Ponza. Ecco che fine fa la “verità assoluta” nelle mani di Pirandello. C’è da diventar matti, o forse è solo una adorabile presa in giro, degna di un premio Nobel.

In tour a Riccione (stasera e domani); Pontedera (14-17.10); Casalbuttano (24.10); Salerno (26-27.10); Livorno (30.10); Firenze (15.11-12.12); Venaria Reale (5.2.22); Narni (21.5.22)

 

Così è (o mi pare) di Elio Germano da Luigi Pirandello

Una partita a scacchi intergalattica lunga mille anni

Tutti parlanodi Ted Lasso, la serie comedy di Apple che ha vinto sette Emmy quest’anno. Ma la scuderia di serie di Apple Tv+, piattaforma streaming di Cupertino, si è arricchita da poco di un’epopea fantascientifica, Fondazione, destinata a durare. E durare anche più del solito, visto che i primi due episodi, lanciati il 24 settembre, sono di un’ora. Ora si centellina una puntata a settimana (la terza uscita ieri) per un totale di dieci.

Gli ingredienti sono attesi. Un’ambientazione galattica e un arco temporale di migliaia di anni. Mondi esotici, costumi in stile cyber-medioevo, astronavi a velocità di curvatura e una buona dose di misticismo escatologico. Oltre agli effetti speciali all’ultimo grido digitale, però, Fondazione vanta una fonte di trama eccezionale. Si ispira, infatti, (liberamente) nientemeno che al padre della fantascienza Isaac Asimov, e al suo Ciclo della fondazione (che l’autore modellò sulla storia dell’Impero romano).

In un futuro remoto, dopo aver vinto la guerra contro i robot, l’umanità popola centinaia di pianeti, uniti sotto un unico Impero guidato da una dinastia di sovrani clonati. Al momento del suo massimo splendore, uno scienziato, Hari Seldon, prevede con un sofisticato modello matematico la fine ineluttabile di quella civiltà, e un destino di guerra e caos lungo 30 mila anni. Il nuovo medioevo galattico si può accorciare creando un’enciclopedia universale delle conoscenze, da tramandare ai posteri. Il vaticinio costa a Seldon l’esilio su un pianeta remoto, dove dovrà fondare una sua comunità. E questo è solo l’inizio.

È la prima volta che la saga, scritta tra gli anni 50 e 80 e composta da una trilogia più due sequel e due prequel (voluti dall’editore), viene trasposta su schermo, anche se George Lucas vi si è ispirato per Guerre stellari. Il cast completo si vedrà nelle prossime puntate. Intanto si fanno notare Jared Harris (Mad Men e The Crown) nel ruolo di Seldon, Alfred Enoch come figlio adottivo e non da ultima la protagonista Lou Llobell, 26enne al secondo film (dopo il pur fantascientifico Voyagers). Il produttore David Goyer descrive Fondazione come “una partita a scacchi millenaria”. La casa di produzione (la Skydance, che ha realizzato vari Mission Impossible) e Apple Tv+ sono convinti che la complessità narrativa del soggetto garantirà alla serie un successo paragonabile al Trono di spade. Staremo a vedere.

Carpignano fa saltare per aria il “mafia-movie”

Dopo Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017), Jonas Carpignano completa la trilogia di Gioia Tauro: A Chiara è stato presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, dove ha vinto l’Europa Cinemas Label, e dal 7 ottobre arriva nelle nostre sale.

Dopo la comunità africana (Mediterranea) e quella rom (A Ciambra), il regista si volge alla ‘ndrangheta e la trova in seno alla famiglia Guerrasio riunita per celebrare i diciotto anni della primogenita Giulia (Grecia Rotolo) di Claudio (Rotolo) e Carmela: sarà però la più piccola Chiara (Swamy Rotolo) a indagare sui motivi che hanno spinto il padre ad abbandonare improvvisamente Gioia Tauro.

Nella città calabrese Carpignano vive dal 2010, i tre film sono il precipitato non di un’osservazione, bensì di una partecipazione: non c’è etnografia ma condivisione, non c’è studio ma vita.

Sporcandosi le mani, però non gli occhi, si può permettere libertà e verità precluse ad altri: inquadrando con Chiara i legami tra famiglia e Famiglia, affetti e affiliazioni, riflette sulla decisione dello “Stato e dei servizi sociali calabresi di strappare i minori alle famiglie (mafiose, ndr) fino ai diciotto anni di età” e deflagra gli stereotipi del mafia-movie, non per intento estetico bensì per approdo poetico.

Succede così che in due ore di film non venga esploso un solo colpo di pistola; succede così che un attentato incendiario non ci titilli per spettacolarità ma ci preoccupi per i personaggi; succede che A Chiara si stacchi nettamente dalla Gomorra seriale e compagnia pirotecnica per stagliarsi quale unicum, in cui vedere è conoscere, osservare è comprendere e tutto chiedersi.

Martin Scorsese s’era prestato da produttore esecutivo per A Ciambra, anch’esso insignito dell’Europa Cinemas Label e candidato dall’Italia nella corsa all’Oscar, questa conclusione illumina retrospettivamente non la generosità, ma diremmo l’obbligatorietà di quell’aiuto: al cantore di Quei bravi ragazzi e Casinò, il lavoro di Jonas dev’essere parso incarnare quella rivoluzione che il genere (d’autore), il mafia-movie, da lui codificato aspettava da tanto, troppo tempo.

Jonas cita il Neorealismo, Vittorio De Seta, Alice Rohrwacher per ispirazione, ma è l’idiosincrasia la sua cifra, una capacità fusionale che sconfessa il contraccettivo della “giusta distanza” e fa dell’empatia una ragione insieme di vita e di cinema.

Surplus di senso, senza nulla togliere al Koudous Seihon di Mediterranea e al Pio Amato di A Ciambra, stavolta può contare su un’attrice: l’esordiente Swamy Rotolo ha un doppio sguardo, il suo e il nostro, e il cinema nazionale non se la lasci sfuggire.

Ci sarebbe da chiedersi, infine, perché Carpignano propheta in patria, in quella festivaliera almeno, Venezia in testa, non lo sia ancora stato, ma sono amarezze in capo ad altri. Non roviniamoci, non rovinatevi l’appetito: A Chiara è il miglior film italiano dell’anno.

 

Atwood: “Resto una strega. Sana rabbia contro le ingiustizie”

Qualcuno potrebbe considerarla una “vecchia strega, irritabile”, o forse, più benevolmente, liquidarla come una “nonnetta saggia”. A scherzare sulle possibili definizioni è la stessa Margaret Atwood, narratrice e poetessa canadese di qualità e di successo, impegnata da anni nei movimenti femministi e pacifisti, nella difesa dei diritti delle minoranze, come i nativi di tutto il mondo, e nelle battaglie contro il razzismo e ambientaliste.

Sebbene sia nata a Ottawa nel 1938, in verità l’autrice di romanzi come Il racconto dell’Ancella e L’altra Grace, pubblicati in Italia, come gli altri suoi libri, da Ponte alle Grazie, è una giovanissima donna che insegue utopie concrete. E dalla città di Alba, dove oggi al Teatro Sociale Busca riceverà il Premio speciale Lattes Grinzane 2021, ai giovani consegna il futuro del pianeta. A chi, tra i Grandi, sorride delle accuse lanciate da Greta Thunberg ai potentati della terra e ai loro “bla bla bla” sull’ambiente, la Atwood rammenta di stare attento, perché “saranno queste nuove generazioni di attivisti a votare i potenti di domani”. E ai giovani e alle giovani che si battono ricorda che “la rabbia può spronare a lottare contro le ingiustizie sociali, a patto che non diventi tossica. La strada per il progresso è costellata di andirivieni, di cambiamenti non sempre positivi, e richiede la partecipazione di tutti”.

Giovani, donne, disastri climatici, letteratura impegnata socialmente, Dante e Boccaccio, Tolstoj e Cechov. Ma anche il rapporto di fiducia fra una narratrice (o un narratore) e i suoi lettori. La scrittrice di Ottawa ha messo tutto questo al centro della conferenza stampa che ieri ha tenuto in una sala della Banca d’Alba, in via Cavour, a due passi dalla casa dove visse Beppe Fenoglio. Decisamente un buon inizio per l’undicesima edizione del Premio Lattes Grinzane, che oggi, al Teatro Sociale Busca, vedrà la proclamazione da parte delle giurie studentesche del vincitore di quest’anno. In lizza cinque finalisti: Kader Abdolah con Il sentiero delle babbucce gialle (Iperborea), Bernardine Evaristo con Ragazza, donna, altro (Sur), Maylis de Kerangal con Un mondo a portata di mano (Feltrinelli), Nicola Lagioia con La città dei vivi (Einaudi) e Richard Russo, autore di Le conseguenze (Neri Pozza).

La rosa dei finalisti del Lattes Grinzane annovera un iraniano, una anglo-nigeriana, una francese, un italiano e uno statunitense. Un crogiolo culturale che ben si abbina all’idea di letteratura della Atwood. “Le storie”, dice, “servono a farci entrare in empatia con ciò che accade nel mondo”. Del resto, aggiunge, “la grande letteratura è sempre socialmente impegnata, perché altrimenti non sarebbe considerata grande: dal Tolstoj di Guerra e pace e di Anna Karenina a Oscar Wilde. Amava parlare, Wilde, di ‘arte per l’arte’, una frase peraltro non sua, ma Il ritratto di Dorian Gray è un romanzo fortemente moralizzante. Secondo certi critici, poi, pure Anton Cechov non giudica mai i suoi personaggi. Però non è così, le critiche ci sono”.

Le storie ci fanno entrare in empatia con il reale, mentre “i numeri da soli non ne sarebbero capaci. Ecco perché è importante distinguere una credenza da un’opinione, e un’opinione da un fatto. In questo consiste il mestiere dei giornalisti, di chi vuole informarsi sul web, ma anche degli scrittori: bisogna sforzarsi di cercare e di comunicare al meglio la verità”. La verità significa fare i conti con la storia, con il contesto storico, al contrario dell’autore della statua “sexy” della povera Spigolatrice di Sapri. “Era una contadina”, osserva la Atwood, “non si sarebbe mai vestita in quel modo. Lo scultore evidentemente aveva solo l’idea di una ragazza molto sensuale”.

Il mestiere di scrivere, secondo la narratrice canadese, ha un aspetto fondamentale: “È quello dell’intrattenimento, che ci permette di divertirci e, contemporaneamente, di riflettere sulla realtà, aiutandoci a prendere posizione e a capire determinate dinamiche prima che sia troppo tardi”. Tra scrittrice (o scrittore) e lettrice (o lettore), in ogni caso, deve sussistere un rapporto di fiducia. La metafora la offre la Commedia dantesca. Il “rapporto fra Virgilio e Dante nell’Inferno”, dice, “è metafora di quello tra scrittori e lettori”. Chi legge “si lascia guidare in un viaggio la cui porta di accesso sono le prime pagine: fra quelle righe si mostra la buona volontà dell’autore nel coinvolgere il suo pubblico, così come alla fine si manifesta la sua abilità nell’accompagnarlo fuori dal suo mondo”. Nell’Inferno, però, si entra facilmente, “il difficile è uscirne nel migliore dei modi”.

Troppe inchieste scomode: in fuga il giornalista di Insider

In fuga, attento a non lasciare tracce. E senza passaporto: il documento di viaggio gli è stato confiscato, ma senza alcuna accusa formale, dalla polizia russa lo scorso agosto. Nessuno sa dove sia il giornalista investigativo Roman Dobrokhotov, diventato il ricercato numero uno dalle autorità di Mosca, che lo accusano adesso di aver varcato illegalmente il confine russo. Trapelano pochi, significativi dettagli: sarebbe fuggito a piedi e grazie “a un aiuto esterno”, hanno riferito gli uomini dell’Fsb, forze di sicurezza russe. Dall’avvelenamento dell’ex colonnello Serghey Skripal passato ai servizi inglesi, a quello del dissidente Aleksey Navalny: il redattore capo era, fino a ieri, la punta di diamante della testata Insider, media indipendente che ha collaborato con i ricercatori del sito Bellingcat e i reporter d’inchiesta dell’americana Cnn sui casi d’alto profilo in cui è coinvolto il governo russo o i suoi apparati. Dobrokhotov ha detto di essere “sempre in movimento” e, “per ragioni di sicurezza”, non comunicherà dettagli sulla sua destinazione finale. “Contro il nostro capo redattore è stato aperto un procedimento penale. È ricercato” è la frase che mostra in apertura il suo giornale, finito nel mirino del Cremlino a luglio scorso, quando raid si sono ripetuti negli uffici del sito dichiarato “agente straniero”. Nonostante le intimidazioni spedite dal ministero della Giustizia, la redazione di Insider ha continuato a pubblicare articoli riguardanti presunti pagamenti fatti dalla Gru, servizi segreti russi, al blogger olandese Max van der Werff per diffondere fake news sull’abbattimento dell’aereo Mh17 avvenuto in Donbas nel luglio del 2014. La casa dei genitori del giornalista è stata perquisita all’alba di ieri, gli agenti hanno interrogato anche la moglie del reporter che, ha riferito il suo avvocato Yulia Kuznetsova, sarebbe riuscito a scappare dalla Federazione attraversando il confine alla latitudine ucraina di Lugansk, riuscendo a penetrare la zona controllata dai separatisti russi.

Biden, il fronte interno peggio dell’Afghanistan

Un compromesso nel week-end potrebbe addolcire la settimana nera di Joe Biden: si sta negoziando a oltranza, una trattativa tutta dentro la maggioranza democratica. Ma il lieto fine d’un film fosco non è affatto scontato. Il presidente Usa s’era forse illuso d’essersi messo alle spalle il periodo finora più tormentato del suo mandato, dopo la rotta di Kabul e la tempesta nell’Atlantico suscitata dall’intesa nel Pacifico con Australia e Gran Bretagna in funzione anti-Cina – colpendo gli affari della Francia e la fiducia dell’Europa –: il discorso fatto all’Assemblea generale dell’Onu martedì 21 e i successivi contatti diplomatici avevano smorzato polemiche e tensioni.

Placatosi il fronte esterno, s’è però riacceso quello interno: lo Stato Maggiore delle Forze armate Usa all’inizio della settimana durante l’audizione lo ha smentito sull’Afghanistan – “Glielo avevamo detto che rischiava di andare a finire così”, hanno testimoniato i generali alla Commissione Difesa del Senato, affermando che non è affatto vero, come aveva dichiarato il presidente, che il pericolo Al Qaeda è stato disinnescato; e un rischio di shutdown, cioè di serrata dei servizi pubblici, è stato sventato in extremis. Adesso, il contrasto nella maggioranza fra la sinistra progressista e l’ala più moderata paralizza e, quasi certamente, ridimensionerà i piani di spesa dell’Amministrazione per welfare e clima, istruzione e sanità. L’ipotesi di compromesso che circola prevede una riduzione del pacchetto da 3.500 a 2.100 miliardi di dollari: si discute a oltranza, dopo che la speaker della Camera Nancy Pelosi ha dovuto rinviare il voto sul piano per le infrastrutture da 1.200 miliardi, il cui varo è subordinato dai progressisti all’accordo sull’altro piano, più robusto. Gli ostacoli vengono dalla manifesta ostilità di almeno due senatori democratici moderati: Kyrsten Sinema, dell’Arizona, e Joe Manchin, della West Virginia, entrambi convinti che la spesa sia eccessiva.

In un Senato spaccato a metà, 50 democratici e 50 repubblicani, la defezione della Sinema e dell’inossidabile Manchin, fin dall’inizio una spina nel fianco dell’Amministrazione, comporterebbe la bocciatura del ‘piano Biden’. Senza un’intesa con i due, le ambizioni del presidente di rilanciare l’economia, dopo la pandemia, con una strategia di spesa ‘rooseveltiana’ sarebbero fortemente ridimensionate. E anche l’accordo anti-shutdown potrebbe rivelarsi di corta durata: la legge approvata dal Senato e dalla Camera, dopo serrate trattative questa volta tra democratici e repubblicani, e subito firmata da Biden, garantisce il funzionamento dell’Amministrazione fino a inizio dicembre e stanzia fondi per i rifugiati afghani. La Casa Bianca è consapevole che la strada da percorrere è disagevole e insidiosa, con incognite politiche, economiche e finanziarie – manca un’intesa sull’aumento del tetto del debito -. E l’autogol del piano del presidente bloccato dalla sua maggioranza sarebbe più deleterio della rotta di Kabul.

Per il momento, l’economia non risente delle beghe in Congresso: la ripresa procede spedita e il Pil nel secondo trimestre è cresciuto del 6,7% – più delle attese –, ma il mercato del lavoro arranca e senza l’aumento del tetto del debito – avvertono il ministro del Tesoro Janet Yellen e il presidente della Fed Jerome Powell – i mercati finanziari, già in fibrillazione, crollerebbero. Wall Street ha ieri chiuso il peggior trimestre dall’inizio della pandemia di coronavirus.

Coca: Ecuador provincia messicana

Dal silenzio dei porti lontani dalle rotte controllate dalla Drug Enforcement Administration (Dea) agli ammutinamenti delle carceri in Ecuador che in questi giorni hanno portato a 118 morti tra i detenuti. Così rischia di interrompersi la via di basso profilo dei narcos messicani che utilizzano il piccolo paese sudamericano per portare la cocaina negli Stati Uniti, in Europa, in Asia e in Oceania.

A funzionare finora, per far passare quasi inosservata questa rotta, è stato il basso tasso di omicidi, l’assenza di veri e propri cartelli della droga in grado di contendere il panorama criminale al Messico e alla Colombia: un’autostrada mondiale della cocaina, sulla quale transita – secondo fonti dell’antinarcotici ecuadoriana – oltre un terzo della fiorente produzione di coca della Colombia da porti, coste e aeroporti di tutto il Paese.

Un basso profilo messo a nudo, già da un paio d’anni a questa parte dagli scontri tra bande criminali che preoccupano sempre di più le autorità locali, che ne parlano come “una minaccia dal potere simile, se non superiore a quello dello stesso Stato”, per dirla con le parole che il direttore del sistema penitenziario, Fausto Cobo ha usato per descrivere l’ultimo ammutinamento nella antica “Penitenciaría del Litoral” a Guayaquil di martedì.

Lo scontro più sanguinoso avvenuto in una prigione ecuadoriana, ma non di certo il primo: l’ondata di violenza è iniziata due anni fa, precisamente dal governo di Lenín Moreno, quando le immagini di un solo prigioniero decapitato in un carcere avevano scandalizzato la cittadinanza. Oggi, la polizia non riesce a contare quanti siano i carcerati squartati o bruciati vivi nel carcere di Guayaquil e gli stessi familiari delle vittime di quest’ultimo massacro disconoscono se tra i corpi ci siano i propri parenti. “Non esiste neanche una lista”, gridano fuori dalla prigione. “L’ho riconosciuto da un tatuaggio sul braccio destro”, spiegava piangendo Jazmín Quiroz, dopo aver visto suo fratello sfigurato in uno dei video diffusi dall’interno del carcere.

La sua testimonianza è simile a quella di tutti i parenti accorsi fuori dal penitenziario per ordine del neo-presidente Guillermo Lasso per cercare di raccogliere le informazioni e dare assistenza psicologica. “Mi piacerebbe rispondere di sì, ma non lo posso fare. Questo genere di situazioni richiedono tempo”, ha risposto lo stesso Lasso a chi chiedeva se la rivolta fosse sedata. “L’unica notizia certa è che con il direttore del sistema penitenziario si sta lavorando a evitare che si replichino gli ammutinamenti anche in altre prigioni attraverso delle misure che dureranno due mesi, per un programma di riforma del sistema” per il quale il capo di Stato ha stanziato 75 milioni di dollari, contro il taglio del 70% del budget preposto inizialmente dal passato governo. Intanto solo da inizio anno, si sono registrate 200 morti in rivolte carcerarie o altri atti di violenza nelle prigioni del Paese, secondo le ultime cifre della Commissione interamericana dei Diritti umani. Il motivo? Un sistema penitenziario in crisi almeno dal 2000, secondo l’inchiesta delle ricercatrici María Belén Corredores e Ana Karen Poveda che ha messo in evidenza come ormai quello delle carceri sia “un vero e proprio protagonismo all’interno del panorama sociale e politico ecuadoriano”. Basti pensare che nel 2009 in Ecuador c’erano 11.517 detenuti, cifra triplicata nel 2019 con 39.559 carcerati, secondo i dati del Ministero della Giustizia.

In tutto le prigioni ecuadoriane contengono 10 mila persone in più di quelle che dovrebbero. “Le condizioni di detenzione in questi dieci anni non sono certo migliorare – scrivono le due ricercatrici – che sottolineano come la situazione diventi esplosiva anche grazie al sistema giudiziario che non considera la prigione preventiva come l’ultima ratio, ma come una misura cautelare a tutti gli effetti”.

Questo ovviamente crea sovraffollamento, ma anche radicalizzazione nelle prigioni più grandi, dove la bande arrivano a contendersi il territorio dentro e fuori dai penitenziari. All’esterno di fatto l’Ecuador continua a essere al centro di due percorsi della cocaina: la rotta del Pacifico e quella dell’Amazzonia. Per la rotta diretta in Europa, uno dei porti più importanti è proprio quello di Guayaquil, snodo del commercio internazionale del Paese. Il controllo dei porti è basso, mentre la corruzione è alta e i trafficanti hanno una serie di opzioni per dirottare il carico che li attraversa. È il ruolo da protagonista che gioca anche in questo caso la corruzione statale endemica nel Paese, quella che il presidente Lasso ha promesso di sradicare: “dai funzionari ‘intermediari’ che hanno messo in ginocchio le istituzioni pubbliche, alle reti transnazionali che sviano i fondi dello Stato”. Un danno quantificato solo pochi giorni fa dal presidente in 70 mila miliardi di dollari negli ultimi 14 anni. Per questo Lasso ha sottoscritto un Memorandum per un programma di anticorruzione con le Nazioni Unite che “permetterà di creare meccanismi di trasparenza in tutto il Paese”.

Rincari luce e gas.La misura scudo della Francia: le elezioni si avvicinano

 

Buongiorno, leggo da Le Figaro che i francesi si lamentano dell’aumento del prezzo del gas. Dopo un primo aumento del 25 per cento a ottobre è previsto un nuovo aumento del 12,6. Ma non per tutti. Per l’uso cucina, l’aumento sarà solo del 4,5 per cento. In sostanza: gli italiani si sobbarcano un aumento doppio rispetto a quello che hanno avuto i francesi, questo nonostante il distributore principale di gas francese sia presente anche in Italia e chiunque può fare un contratto di fornitura con esso, nonostante sia la Francia sia l’Italia importino la maggior parte del gas dalle stesse nazioni, pagando gli stessi prezzi sui mercati internazionali. Molti francesi non si preoccuperanno più di tanto dell’aumento del gas, visto che cucine e riscaldamenti elettrici per loro sono la normalità e in molte abitazioni il gas è usato unicamente per accendere una sigaretta o il caminetto. Dubito che il loro prezzo dell’energia elettrica cambierà di molto, dubito anche che possa aumentare. Le centrali nucleari non risentono del prezzo di quella materia prima.

Nando Centelli

 

Gentile Centelli, come abbiamo avuto modo di raccontare in queste settimane l’impennata record delle bollette dell’elettricità e del gas è un enorme problema per i governi di mezza Europa. Tutti i Paesi che importano gas naturale devono fare i conti con i suoi prezzi che da inizio anno sono aumentati di oltre il 170%. Ma se in Italia la stangata è stata contenuta in minima parte (il governo ha stanziato “solo” tre miliardi per arginare un terzo degli aumenti della luce bloccata al 29,8% e dimezzare quelli del gas al 14,4%, annullando gli aumenti per tre milioni di famiglie), il governo francese – dopo un aumento del 12,6% – ha optato per un blocco delle tariffe del gas fino ad aprile 2022, spalmando i rincari sui 10 mesi successivi, e ha fissato un tetto del 4% all’aumento delle bollette. La speranza è quella di poter contare su un ribasso generalizzato dei prezzi dell’energia nei prossimi mesi. Insomma, il governo francese ha deciso di prendere un po’ di tempo, soprattutto perché le elezioni presidenziali dell’aprile 2022 si avvicinano e c’è già chi teme che la rabbia dei francesi possa riesplodere come era già accaduto due anni fa quando i gilet gialli hanno assaltato Parigi a causa dell’aumento dei prezzi del carburante.

Patrizia De Rubertis

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Ancora morti bianche, ma tutto tace purtroppo

Il 29 settembre ci sono stati sette operai morti sul lavoro, cosa aspetta il ministro Orlando ad assumere più ispettori del lavoro? Cosa aspetta il compagno Landini e tutta la Cgil (di cui sono stato iscritto per 30 anni) ad aprire una vertenza e magari proclamare uno sciopero generale? E un’altra domanda: esiste una cosa più riprovevole di un padre o una madre di famiglia che si sveglia la mattina per andare a lavorare e non fare più ritorno? Ma adesso si parla solo di Green pass per assicurare la produzione. La verità è che della vita degli ultimi della società non frega un cazzo (perdonate il francesismo) a nessuno. Anche perché l’informazione che conta queste notizie le mette in ultima pagina e dà rilievo alla sentenza scandalosa sulla trattativa Stato-mafia della Corte d’appello di Palermo.

Stefano Strano

 

Le “sentenze temerarie” contro chi aiuta gli ultimi

Prima avevamo la “querela temeraria” per scoraggiare o zittire i giornalisti scomodi. Adesso dopo questa ultra sproporzionata sentenza Lucano, secondo me, abbiamo anche la “sentenza temeraria”. Non contro i politici corrotti, ma per scoraggiare e bloccare le persone che aiutano immigrati e rifugiati. A mio parere se avessero condannato nello stesso modo tutti i politici, corrotti e no, che hanno amministrato male i soldi pubblici, non sarebbero bastate le carceri necessarie per ospitare tutti i condannati.

Claudio Trevisan

 

Caro Trevisan, Lucano per aver aiutato i migranti è stato assolto.

M. Trav.

 

Tra diffusori di frottole e occultatori di verità

C’è differenza fra chi diffonde ad arte notizie false per trarre in inganno l’opinione pubblica e chi, come ad esempio i giornalisti che, pur avendo il dovere di farlo per professione, non informano i lettori di fatti veri probabilmente perché non coincidenti con la linea politica perseguita dal giornale su cui scrivono, o per altre motivazioni che non riesco a immaginare in questo momento? Io penso che non ci sia differenza alcuna perché in entrambi i casi l’obiettivo è quello di fornire all’opinione pubblica destinataria delle notizie in questione una percezione errata della realtà. Nel primo caso diffondendo frottole. Tacendo e nascondendo la verità nel secondo caso.

Pietro Volpi

 

Lucano, cieca formalità ai danni di un giusto

È incredibile la giustificazione in punta di diritto (che provvederanno i difensori di Lucano a spuntare in Appello, si spera) alla condanna abnorme per un sindaco che, anche se pubblico ufficiale, ha anteposto l’umanità alla burocrazia becera, la lettera formale delle leggi alla loro interpretazione e contesto (come sostengono giuristi del calibro di Zagrebelsky). Che questo cieco formalismo venga invocato anche dal direttore di questo giornale, è ancora più inquietante e rivoltante, vista la gogna e la persecuzione di un “giusto”, a opera delle destre politiche nostrane. (Mi è difficile pensare a Lucano come a un profittatore corrotto).

Maurizio Campanini

 

Caro Campanini, il “cieco formalismo” è il semplice rispetto del Codice penale. Si possono aiutare i migranti rispettando le leggi, come fanno ogni giorno migliaia di amministratori locali.

M. Trav.

 

La disobbedienza civile non va condannata

Ho vissuto le vicende dell’occupazione delle terre incolte di Danilo Dolci nella Sicilia del dopoguerra, che portò un “nordista” come Danilo a organizzare le lotte per la terra che, secondo le leggi, costituivano un reato. A pagarne le conseguenze, ora per le sue meritorie e disinteressate violazioni delle leggi, viene condannato a una pena mostruosa l’ex sindaco Mimmo Lucano. Ho letto ovviamente i vostri articoli e debbo riconoscere che avete molte ragioni, da Travaglio che cita le leggi vigenti a Gad che invece si orienta più su una giustizia sostanziale. Pur non essendo un credente vorrei citare Gesù, Gandhi, Mandela, Luther King e Malcolm X che andarono oltre le leggi vigenti, e molti di loro hanno pagato con la vita il loro coraggio. In Italia, per rimanere alla questione Lucano, si fa un gran parlare di salvare le vite dei disperati in mare e si citano leggi del mare vecchie di secoli (cioè quando i velieri, dopo aver salvato i naufraghi, segnalavano il loro arrivo nei porti più vicini), ma oggi, molto meno e in maniera inappropriata, si parla di quello che succede dopo lo sbarco. Spesso queste persone vengono richiuse in centri definiti eufemisticamente di accoglienza, dai quali i migranti fuggono finendo preda di spacciatori e di caporali schiavisti. Non vi pare che dovremmo, in questo caso, andare un poco oltre le leggi (che possono essere migliorate, cambiate o abolite) se con la loro applicazione provocano più danni di quello per cui sono state emanate?

Franco Novembrini

 

Caro Novembrini, ma Gesù, Gandhi, Mandela, Luther King e Danilo Dolci non erano sindaci. E i giudici applicano il Codice penale: guai se andassero anche loro “oltre le leggi”.

M. Trav.