Il cinismo di Confindustria e sindacati: il salario minimo non è solo affare loro

Il teatrino sul salario minimo andato in onda lo scorso weekend, illumina il gioco di ruoli cinico delle rappresentanze politiche e sindacali nel nostro Paese. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha riaperto il dibattito ricordando che in Italia oltre 5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi all’ora. Già solo una soglia di questo tipo ne aumenterebbe le paghe dal 25 al 90% (nel caso dei lavoratori domestici). Di fronte a questo scenario, i sindacati confederali continuano a fare melina, tra timide aperture, come Maurizio Landini della Cgil, e il niet di Cisl e Uil, invocando ancora una volta la superiorità dei contratti collettivi nazionali rispetto a un salario minimo legale.

Vale la pena di notare, però, che in Italia esistono Ccnl firmati dai sindacati le cui paghe non arrivano a 5 euro lordi all’ora, come nei servizi di vigilanza, o a 8 come nel contratto Multiservizi. Quest’ultimo è un caso esemplare: introdotto per regolare i rapporti di lavoro negli appalti e nei processi di esternalizzazione pubblici e privati, può coprire le più svariate mansioni a uso e abuso di ogni datore di lavoro. Ne fanno ricorso le Fondazioni che gestiscono il patrimonio culturale per i professionisti che vi lavorano, dagli archeologi ai bibliotecari fino al comparto Sanità per i lavoratori dei centralini, passando per gli inservienti e una miriade di lavoratori essenziali senza i quali non avremmo né strade né ospedali né musei agibili. Qual è il livello di ipocrisia necessario per ribaltare la necessità di un salario minimo legale nella priorità di una legge sulla rappresentanza? Non perché i “contratti pirata” non esistono, ma perché costituiscono un falso problema. Una legge seria sul salario minimo legale potrebbe tranquillamente prevedere che per ogni settore il minimo venga calcolato a partire dal contratto con il minimo maggiore estendendolo erga omnes a tutti i lavoratori del settore (diretti e indiretti). Un minimo massimo da cui la contrattazione riparte e non viene messa in discussione da una soglia che invece intende riportare a un livello di dignità tutti i contratti collettivi e più in generale i rapporti di lavoro non conformi.

Se davvero si vuole riaffermare la centralità della contrattazione nazionale basterebbe rispedire al mittente ogni riferimento agli accordi del 1993 che la subordinarono alla contrattazione aziendale con esiti devastanti per la diseguaglianza tra lavoratori come hanno più volte ribadito i ricercatori della Banca d’Italia. Si potrebbe accogliere l’assist della proposta di direttiva sul salario minimo della Commissione europea che riafferma esigenza di tornare a un modello di contrattazione nazionale e non decentrata, unitamente alla possibilità di un salario minimo legale. Secondo l’ultimo rapporto sui salari dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, tra i Paesi europei senza salario minimo, l’Italia è quello che ne trarrebbe maggiori benefici in termini di riduzione delle diseguaglianze tra lavoratori, ma anche di genere. L’esperienza in molti Paesi mostra che salario minimo e contrattazione nazionale possono convivere, rafforzandosi. Usare il salario minimo legale come spauracchio è una strategia suicida, mostra l’incapacità di dotarsi di una linea che non sia la difesa di un esistente che si assottiglia giorno dopo giorno. La questione salariale è tutta politica.

Nel paese in cui la povertà aumenta soprattutto tra coloro che hanno già un lavoro (13,2% secondo Istat) non si capisce quale credibilità potrebbero avere organizzazioni che vogliono rappresentare i lavoratori senza adottare soluzioni concrete per i milioni ai quali non si applica l’art. 36 della Costituzione. È nel solco di questo cinismo che la crisi della rappresentanza trova la sua linfa. Di fronte ai 350 mila tirocini extracurriculari avviati solo nel 2019, di fronte al dilagare del cottimo tra le più diverse occupazioni, la questione salariale riguarda milioni di cittadini ai quali è sempre stato detto che, concluso un accordo sul cuneo fiscale ci si sarebbe occupati di loro. Milioni di cittadini per i quali la normalità dell’era pre-Covid è un incubo a cui sottrarsi.

*Le opinioni espresse sono personali e non rispecchiano quelle delle istituzioni di appartenenza

Rdc, il divano non c’entra: dalle imprese poche offerte

Se qualcuno ancora si chiede cosa mai abbiano fatto i navigator negli ultimi due anni, la risposta è nel report diffuso ieri dalla Corte dei Conti da cui si evince che una delle attività principali sia stata rincorrere le imprese a caccia di offerte di lavoro, ottenendo quasi sempre una porta sbattuta in faccia. In sei mesi, tra ottobre 2020 e marzo 2021, ognuno dei quasi 3 mila operatori dell’Anpal ha contattato centinaia di aziende per chiedere se stessero avviando ricerche di personale e se fossero interessate a ricevere assistenza; hanno racimolato appena 29.610 opportunità occupazionali, che corrispondono 55.846 posizioni disponibili. Il dato emerge dall’indagine sul funzionamento dei centri per l’impiego condotta dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato. Contiene una serie di cifre su quanto fatto dai navigator, reclutati a settembre 2019 per dare avvio alla fase due del Reddito di cittadinanza, e traccia la misura della diffidenza che le imprese nutrono verso i centri per l’impiego.

Il sistema si chiama “Moo”, che sta per “Monitoraggio delle opportunità occupazionali”. Ogni operatore ha ricevuto un lungo elenco di datori – anche 400 a testa – che deve contattare uno per uno al fine di individuare proposte di lavoro sia immediate sia future. La percentuale di chi mostra interesse, dicono i navigator, in genere è molto bassa, di solito la maggior parte declina gentilmente l’offerta di aiuto nella selezione (che pure sarebbe gratuito). Di quelle quasi 56 mila opportunità reperite, solo 13.300 si riferiscono tra l’altro ad assunzioni che le aziende erano pronte a fare sin da subito (al momento della rilevazione); in tutti gli altri casi si tratta di ricerche previste nei mesi successivi. I settori con più posizioni individuate sono “alloggio e ristorazione” e “manifattura”. Come detto, però, ragioniamo su proporzioni molto piccole, considerando per esempio che in quel lasso di tempo, guardando l’osservatorio Inps, i contratti di lavoro stipulati in Italia – nonostante il periodo di crisi e chiusure per Covid – sono comunque stati circa 2,6 milioni.

Il numero di beneficiari del Reddito di cittadinanza che hanno trovato lavoro resta aggiornato a ottobre 2020: allora erano 352 mila, quasi tutti con contratti precari, poi negli scorsi mesi non è più stato comunicato dal ministero alcun aggiornamento. Circostanza inspiegabile, visto l’ampio dibattito che si sta sviluppando sul tema, quasi sempre basato su sensazioni e non sui dati ufficiali. I percettori “accolti” dai navigator tra settembre 2019 e febbraio 2021 sono poco più di un milione e di questi 489 mila sono stati presi in carico. Solo il 26,4% possiede un diploma, appena il 2,6% ha la laurea mentre tutti gli altri non superano la terza media. Agli utenti sono state proposte 477 mila tra offerte di lavoro e opportunità di formazione, mentre le aziende contattate per la rilevazione dei fabbisogni e la promozione delle attività Rdc sono oltre 588 mila.

 

Fluorescenti, scivolose e amate: tutto sulle banane

Banana. Cibo più consumato dagli americani: la banana. Cibi più consumati dai terrestri (nell’ordine): riso, grano, mais, banane.

Maiali. Per liberarsi degli immensi cumuli di immondizia che intasavano le strade di New York, il sindaco dispose che si lasciassero razzolare tra i rifiuti centinaia di maiali. La città fu ripulita e i poveri, tramutati in cacciatori di porci, ebbero i loro bei banchetti di carne suina.

Scrofe. “Due scrofe corpulente seguono una vettura al piccolo trotto, mentre una formazione di una mezza dozzina di maiali perbene ha appena svoltato l’angolo. Un suino solitario torna tranquillamente a casa. Ha un orecchio solo, l’altro l’ha abbandonato ai cani randagi in una delle sue escursioni in città. Ma non ne sente la mancanza. Conduce un’esistenza errante da gentiluomo, che in qualche modo somiglia a quella dei frequentatori dei club di casa nostra. Egli lascia il suo quartiere tutte le mattine a una certa ora e si inoltra nella città, passando la giornata in modo soddisfacente” (Charles Dickens in visita a New York, 1842).

Accoppiamenti. Scandalo e cacciata dei maiali, i quali osano accoppiarsi senza pudore in mezzo alla strada. Riapparizione quindi dei mucchi di spazzatura.

Bucce. Problema delle bucce di banana e degli scivoloni. Theodore Roosevelt, sindaco della città, il 9 febbraio 1896 dispose multe da dieci dollari e nei casi più gravi la prigione per chi lasciasse in terra, sulla pubblica via, bucce di banana.

Nobel. L’Ig Nobel 2014 per la fisica fu assegnato ai giapponesi, Kiyoshi Mabuchi, Kensei Tanaka, Daichi Uchijima e Rina Sakai dell’Università di Kitasato, i quali avevano misurato l’attrito tra una scarpa e una buccia di banana e tra una buccia di banana e il pavimento, studio poi pubblicato dalla rivista Tribology Online.

Tribologia. La tribologia, scienza che studia la scivolosità delle cose.

Scivolosità. Coefficiente di frizione di una normale suola di scarpa su un linoleum: 0,412. Di una buccia di banana: 0,066 (diminuendo l’indice, aumenta la scivolosità). Di una buccia di mela: 0,12. Di una buccia di arancia: 0,22. Degli sci sulla neve: 0,04. Del ghiaccio sul ghiaccio: 0,025.

Sbucciare. Sbucciamo di massima la banana facendo forza sul picciolo. È un errore, come si capisce osservando il metodo seguito dagli scimpanzé: spremendo fra pollice e indice l’altro capo della banana, la buccia si divide facilmente in due.

Radioattività. Le banane, contenendo 31 becquerel/grammo (Bq/g), sono leggermente radioattive. Significato di “31 becquerel/grammo (Bq/g)”: vuol dire che ogni secondo in ogni banana decadono 31 atomi di potassio.

Potassio. Nel 1995 alcuni scienziati decisero di misurare la radioattività degli ambienti che adoperano come unità di misura la radioattività della banana (BED, Banana Dose Equivalent). Poiché la dose di radiazione assorbita si misura in sievert (sv), una banana vale un decimo di milionesimo di sv, ovvero 0,1 μ sv. La radiazione di fondo a cui tutti siamo sottoposti vale circa 0,35 μ sv all’ora, cioè tre banane e mezza. Un’ora di volo: cinquanta banane. Dormire vicino a qualcuno: mezza banana. Radiografia al braccio: circa dieci banane. ČCernobyl: centinaia di milioni di banane.

Fluorescenti. Esposte ai raggi ultravioletti, le bucce di banana sono fluorescenti.

Notizie tratte da: Stefano Mancuso, “La pianta del mondo”, Laterza, pagine 200, €15 euro2. Fine

 

Al posto di Morisi, Morisi avrebbe distrutto se stesso

Il karma esiste e non risparmia nessuno. Nemmeno Luca Morisi, l’uomo che sussurrava alla pancia del web per poi eternarne rutti e flatulenze. Ovviamente sulle pagine social di Salvini.

48 anni. Nato a Mantova. Riservato. Un amore antico per la Lega: consigliere provinciale prima e consigliere circoscrizionale poi, sempre a Mantova. È l’inizio dell’ascesa resistibilissima del papà della Bestia salviniana.

Per anni insegna all’Università degli Studi di Verona “Siti Web di Filosofia” e “Laboratorio di Informatica filosofica”. È bravo e lo sa. Mastica una materia che in pochi conoscono e in tanti sottovalutano. Soprattutto a sinistra (che la sottovaluta ancora). Esperto nella progettazione di database, web application e Intranet/Extranet. Come ricorda Today, Morisi realizza in quegli anni “diversi sistemi informativi in particolare nel campo sanitario” e fa parte “dei consigli di amministrazione di società per azioni in diversi campi”. Un enfant prodige.

Si laurea in Filosofia e studia per eccellere come esperto di comunicazione e marketing politico sui social media. Incontra Salvini nel 2012: “Lo vidi a Porta a Porta mentre faceva una diretta con l’iPad dialogando con gli ascoltatori. Questa capacità di ibridare i due media, la tv e i social, mi ha appassionato così lo cercai ed è nato un rapporto professionale. Ebbi una specie di innamoramento per lui dovuto alla constatazione della sua enorme capacità di gestire il talk show. Salvini aveva l’ambizione di crescere”. E Morisi lo fa crescere. A tutti i costi.

Dal 2012 diventa “responsabile della comunicazione e social media strategist” di Salvini. Durante il Conte-1, viene assunto al ministero dell’Interno. Morisi è potentissimo. Crea la Bestia, sceglie lo staff e consiglia genialmente a Salvini di mostrarsi “uno come noi” per creare immedesimazione (ecco il perché dei 790mila post al giorno su Salvini che mangia). Morisi è così inarrestabile da commentare con passione perfino i post di Salvini (cioè i suoi). L’effetto finale è un po’ comico e un po’ tremendo. Soprattutto la seconda.

Morisi, negli anni d’oro (ormai lontani) di Salvini, è stato poi il grande manganellatore. Un maestro a colpire gli avversari sotto la cintura. Ascoltava la pancia del Paese e mazzolava. I migranti, la Boldrini. Conte, il Fatto. Fake news, notizie manipolate, frasi estrapolate e via andare. Sangue social ovunque. Un professionista navigato, e consolidato, nella non troppo nobile arte dello shitstorm.

Morisi e il suo staff hanno distrutto, o provato a distruggere, tutti coloro che si opponevano a Salvini. In ogni modo mediatico e con ogni mezzo comunicativo.

Ora, dopo essere improvvisamente uscito una settimana fa dallo staff salviniano “per motivi familiari”, l’indagine per droga: il karma esiste e ci odia. Alcuni giovani, fermati in auto dai carabinieri intorno a Ferragosto e trovati in possesso di un liquido ritenuto stupefacente, avrebbero detto di avere ricevuto la sostanza proprio da Morisi. Durante una perquisizione nella sua casa a Belfiore, i militari hanno trovato un modesto quantitativo di droga, compatibile con l’uso personale ma che fa comunque scattare illecito amministrativo e sanzione. Da qui l’iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura di Verona.

Morisi si è difeso così: “Nessun reato, ma grave caduta come uomo. Ho fragilità esistenziali irrisolte”. La magistratura farà il suo corso. Se al suo posto ci fosse Conte, la Boldrini, un migrante o una firma del Fatto, Morisi bastonerebbe a più non posso. Io, invece, gli auguro di uscirne pulito. E soprattutto migliore.

 

Per conto di Salvini la “bestia” ha inquinato la vera politica

La vicenda di cronaca in cui è coinvolto il capo della comunicazione social della Lega per detenzione e cessione di stupefacenti non è interessante in sé. Se la vedrà lui, e se – come si evince dalle sue parole di scuse – sta vivendo un momento di sofferenza psicologica ha, come tutti nelle sue condizioni, la nostra solidarietà umana. Ma Luca Morisi non è un impiegato qualsiasi della Lega: è colui che ha portato Salvini dal 4% al 34% del 2019 con un metodo inedito. È l’artefice di un progetto politico che rappresenta un caso di studio. Certo, la disgrazia ha tutte le caratteristiche di un contrappasso, di un rovescio provvidenziale che trasforma il fustigatore in peccatore, esposto alla stessa gogna che egli maneggiava con tanta sicumera. Ma che i leghisti fossero forti coi deboli, securitari coi disperati e feroci coi respinti della società e nel frattempo ladri di denari pubblici (tralasciando i suoi commercialisti, Siri, i diamanti, la campagna di Russia, etc.) lo aveva già stabilito una sentenza. Gli elettori leghisti sono sempre passati sopra a questa aporia, perché le aporie sono inciampi, e la strada verso un governo del “Capitano” securitario e proibizionista doveva essere sgombra da scrupoli molesti. Morisi, non certo uno sprovveduto o un bullo reclutato nei bassifondi di Internet (forse anche per la laurea in filosofia, il suo metodo di apprensione diciamo olfattiva del Paese reale si è rivelato vincente) era l’avatar di Salvini. Lui ha avuto il “coraggio” di elaborare un metodo squadristico che Salvini fino ad allora si era trattenuto dall’adottare così brutalmente: la criminalizzazione dei migranti, l’irrisione di donne (Boldrini su tutte), giornalisti, intellettuali, perfino minorenni che avevano contestato Salvini e le cui foto venivano pubblicate di modo che chiunque ne potesse fare mattanza di vendetta vicaria sui social. Salvini ha creato e cronicizzato una psicosi collettiva: che il problema dell’Italia fossero gli immigrati che spacciavano, uccidevano e da ultimo ci portavano il Covid. Non c’entrano ora il giustizialismo e il garantismo, come dicono i fissati che non sanno distinguere i livelli del discorso, come se, peraltro, Morisi non avesse ammesso le sue responsabilità. Illuminare l’ipocrisia di una classe dirigente che mentre minacciava espulsioni e carcere duro rubava (da riempirci qualche girone dantesco) e maneggiava droghe è diverso dall’infierire su un disgraziato. Sono azioni non paragonabili: lì era strategia aggressiva, coordinata, che assurgeva a metodo politico, imitata non a caso dal piccolo apparato di bellicosi comunicatori di Renzi, che anche in questo non si è dimostrato all’altezza. Salvini e i suoi portavoce hanno fatto diventare programma politico l’offesa ai deboli, l’allusione contro gay e lesbiche, l’accanimento verso ogni presunto delinquente, a meno che non fosse di razza bianca caucasica (come Luca Traini, sparatore anti-africani di Macerata, come l’assessore di Voghera che ammazza un immigrato psichicamente instabile). “La Bestia” salviniana è stata una macchina da guerra di linciaggi, linguaggio violento e puritano. Salvini voleva pure chiudere i negozi di cannabis light, facendo leva sulla paura e l’ignoranza. Dire “droga” e “drogati” era un modo di alludere ai centri sociali e all’immigrazione come sinonimo di “degrado urbano” (alla citofonata a un tunisino che lui, da questurino di strada, aveva già condannato per spaccio la vita ha risposto con atroce ironia). Il problema non è Morisi: è che persone con un certo tipo di etica e di mondo interiore riescano a dettare l’agenda di una nazione per anni, aumentando la quota di sofferenza della gente per prendere voti. Le dita di Morisi hanno prodotto per conto di Salvini quell’inquinamento del discorso pubblico per mezzo della legittimazione degli istinti più anti-solidali e violenti dei poveri contro i poverissimi da cui difficilmente ci risolleveremo.

 

Crisi delle edicole “Il Fatto” al fianco dei giornali, anche quando è digitale

Buongiorno, vi scrivo perché nella mia città molte edicole stanno chiudendo e tra non molto dovrò fare a meno del mio Fatto cartaceo (perché è bello sentire ancora l’odore “sporco” dell’inchiostro): non tutti i giorni ho il tempo materiale per mettermi alla ricerca di un’altra edicola da quando il mio amico edicolante ha chiuso, “strozzato” in piccola parte dalla pandemia, dalle persone che non leggono più e si accontentano di notizie “veloci” come il web, dalle family di “famosi editori de noantri”, che campano coi soldi pubblici e infine da quei “distributori” che se non paghi subito sull’unghia possono lasciarti. Siamo proprio messi male. Il “nostro” giornale non potrebbe fare una “campagna” in favore degli ”ultimi”, i “giornalai”? Perché oltre a vendere il prodotto aiutano anche le persone a socializzare. Un sincero grazie a tutta la redazione.

Gaetano Baratta

 

La sua lettera è molto opportuna, perché ancora una volta ci consente di mettere in evidenza la situazione delle edicole italiane. E non solo perché la loro realtà è direttamente proporzionale a quella dei giornali: meno edicole sul territorio significa chiaramente meno giornali venduti con tutto quello che comporta. Già più volte il Fatto Quotidiano ha dato spazio alle richieste degli edicolanti, dai maggiori fondi alle opportune liberalizzazioni per permettere alle edicole di essere luoghi in cui offrire servizi, alle facilitazioni fiscali. Il punto è che le varie misure possono sembrare solo dei palliativi, un po’ di acqua fresca per placare la sete quando invece il problema è la siccità. Il cambiamento sembra però inesorabile e avviene sotto il sostanziale silenzio del governo che, anzi, sembra non dispiacersi del tutto di questo spopolamento di lettori. Per parte nostra, noi possiamo fare tre cose: continuare a produrre un giornale che non sia scontato e che valga la pena di cercare in giro per le città; sostenere i giornalai ogni volta che vi verrà chiesto; ma, allo stesso tempo, consentire anche ai nostri lettori di leggerci su tutti gli strumenti possibili, dal pc allo smartphone come facciamo da tempo e come ci stiamo attrezzando a fare con una nuova sezione digitale. E quando sarà pronta capiremo anche come farla interagire con le edicole. Perché le edicole non devono mai morire.

Salvatore Cannavò

L’oscena resa dei conti ai danni dell’antimafia

La parola d’ordine è aspettare le motivazioni, cosa che in Italia dura almeno tre mesi. Un buon motivo per risparmiarsi, nell’immediato, la lettura dei due fogli che contengono il dispositivo della sentenza d’appello sulle trattative Stato-mafia, pronunciata il 23 settembre. Se solo venisse letta, da chi oggi ha l’impressione di prendersi una bella rivincita politico-giornalistica e dichiara morto quel che ha denunciato per anni – il cosiddetto teorema della trattativa Stato-mafia, la “gran mattana”, la “parte molto rumorosa del giornalismo” – si capirebbe subito che per i giudici la trattativa c’è stata, tra mafia e pezzi dello Stato. E che il fatto non solo sussiste (la “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” che caratterizzò la trattativa), ma è giudicato criminale, visto che gli interlocutori mafiosi del negoziato vedono confermate le condanne in primo grado: 27 anni di carcere per Leoluca Bagarella invece di 28; 12 anni per Antonino Cinà, il “postino” che prese in consegna i messaggi del Ros a Vito Ciancimino, li portò a Riina e ne ricevette il papello perché i contraenti statali venissero a conoscenza delle condizioni poste dalla mafia per fermare le stragi in corso. Stragi che non si fermarono, anzi si moltiplicarono, anche se oggi non manca chi definisce utile la trattativa.

Se fosse una serie tv o un film, questa cronistoria dominata dalla lotta alla mafia e dalla sua trasformazione in malavita dedita a lucrare sui disastri economici italiani si concluderebbe con scene inquietanti, ominose: non l’Italia liberata dalla mafia e uno Stato integralmente innocente, ma un Paese che conserva qualcosa di veramente marcio, dove colletti bianchi e politica colludono non invisibilmente con la mafia, specie in questi tempi di pandemia.

La Corte d’appello ne trae conclusioni abbastanza sconcertanti, almeno per ora: non rifiuta il legame nefasto fra trattativa e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, ma condanna solo i mafiosi. Coloro che erano all’altro lato del tavolo negoziale – tre ufficiali del Ros – sono assolti perché il fatto criminoso c’è e tuttavia per loro (solo per loro) “non costituisce reato”.

Ma quel che colpisce ancor più della sentenza è l’indecenza della resa dei conti – minacciosa, soddisfatta, saccente – che avviene sui giornali. Nel mirino: tutti coloro che da decenni denunciano le collusioni fra mafia e pezzi dello Stato, nei processi, nei libri o nei giornali. Avrebbero indagato e denunciato per costruire carriere o fondare giornali e partiti. Sono i cattivi demiurghi dell’ossessione mafiosa: i 5Stelle, Marco Travaglio e altri non meno nefandi. S’abbatte sul loro capo la mannaia: è finito il “teorema” sulle collusioni mafia-pezzi dello Stato, finito il “pensiero unico fatto di niente” (Enrico Deaglio su Domani). Finita – sulla scia della sentenza – la narrazione capziosa e distruttiva dell’ascesa di Berlusconi, coadiuvato dalla collusione fra il suo luogotenente Marcello Dell’Utri e mafiosi come Stefano Bontade, Totò Riina, Bernardo Provenzano, e poi scendendo per li rami con postini come Cinà e Mangano. Fa impressione vedere come Dell’Utri esca immacolato dal processo Stato-mafia (“non ha commesso il fatto”) e come cada nel dimenticatoio, per gran parte dei commentatori, la sentenza definitiva che inchiodando sia lui sia indirettamente Berlusconi ha condannato in via definitiva Dell’Utri a sette anni di carcere, nel 2014, per concorso esterno in associazione mafiosa e intermediazione fra mafia e Berlusconi. Fa impressione il silenzio sulle azioni malavitose che proseguirono nonostante la trattativa. Per motivi ancora opachi (forse legati alla successione di Mattarella) si diffonde l’opinione, anzi la notizia che, grazie ai governi berlusconiani, la mafia fu sconfitta (Enrico Deaglio).

C’è un punto tuttavia in cui l’indecenza stinge nell’osceno. La resa dei conti precipita nella polvere magistrati o giornalisti che hanno un peso e un seguito. È abbattuta perfino la statua di Nino Di Matteo, con gesto trionfale, nonostante le parole intercettate di Riina che ne commissionava l’assassinio. Ma stranamente, le esecuzioni risparmiano le tante associazioni di cittadini nate sull’onda delle stragi. Una mano colpisce e l’altra resta sospesa in aria, perché non si sporchi troppo. Questo è osceno nella resa dei conti. Di fatto sono punite anche le associazioni ma cum juicio, la lotta è tra potentati politici e mediatici e ha scopi solo politico-mediatici. Di qui il silenzio sui tanti movimenti che combattono le collusioni tra mafia, colletti bianchi, pezzi dello Stato: dall’associazione “Scorte civiche” nata nel 2014 su iniziativa di Salvatore Borsellino alle sue Agende Rosse al movimento “Addiopizzo”. Sono associazioni che indagano non su teoremi, ma su fatti che feriscono ancora i cittadini e la parte migliore, non contaminata, del loro Stato.

 

Mail Box

 

Trattativa: con i mafiosi va bene, coi talebani no

L’altra sera a Otto e mezzo Travaglio ha dimenticato di ricordare a Sallusti che quando Conte affermò che con i talebani bisognerà trattare, aprì il suo giornale con il titolo “L’avvocato dei tagliagole”. Per coerenza Libero avrebbe dovuto aprire con “Lo Stato dei tagliagole”.

Leo Fornili

 

Sì, ma con l’aggiunta che in Italia gli intrusi sono i mafiosi e i collusi, mentre in Afghanistan gli intrusi eravamo noi occidentali, italiani compresi.

M. Trav.

 

I paragoni improponibili degli “esperti in materia”

Giacalone in diretta su La7 falsifica, affermando che Falcone ha dialogato con Buscetta (nelle sedi istituzionali e con regolari verbalizzazioni) è paragonabile ai contatti sottobanco della trattative e altrettanto leciti.

Marco Ciri

 

Caro Marco, arrestare e poi interrogare un mafioso pentito a verbale significa rispettare la legge. Trattare sottobanco con boss stragisti non pentiti a piede libero è un abuso di potere. È triste che sedicenti “esperti” ignorino i fondamentali.

M. Trav.

 

Siamo sicuri di avere Santi in paradiso?

Caro Travaglio, il suo articolo “Processi somari” mi ha fatto sorgere il dubbio di non essere nato nel Bel Paese, ma in quello in cui Andreotti è stato invitato in Vaticano – a ventisette anni – per dirimere una controversia tra due cardinali e, già che mi trovavo in Sede Santa, sono scivolato sulla fedina penale di due massimi responsabili dello lor (Marcinkus e Mennini): ho visto il suicidato Calvi con i mattoni in tasca e il divino Giulio in visita al patriarca di Venezia prima che il medesimo diventasse Papa. La sfilza di visioni si è arrestata di fronte alla constatazione che ben poche sono le strade della Capitale non intestate a santi e Papi… che dovrebbero ben proteggerci, o no? Ok, so che questa non potrà essere pubblicata neanche da Travaglio.

Gianluigi Corrias

 

Uomo di poca fede…

m. trav.

 

Il pericoloso precedente della sentenza di appello

La sentenza in appello sulla Trattativa Stato-mafia è un pericoloso precedente che mi auguro venga annullato in Cassazione. Non fosse altro per rispetto dei caduti servitori dello Stato, mai come adesso morti uccisi da fuoco amico.

Bruno Maniga

 

DIRTTO REPLICA

Quanto sostenuto da Paolo Dimalio sul Fatto Quotidiano di ieri non corrisponda alla realtà. Dimalio scrive: “Per Antonio Ricci la presenza delle Veline: ‘Ha una sua valenza provocatoria, crea dibattito’. Corretto, basta sostituire ‘dibattito’ con ‘share’”. Invece ci preme farvi sapere che i 30 secondi di stacchetto delle Veline non aggiungono nulla agli ascolti di Striscia la notizia, basterebbe controllare i dati Auditel per constatarlo. Il motivo lo spiega lo stesso Antonio Ricci nel libro Me Tapiro (Mondadori, 2017): “Frenano gli ascolti gli stacchetti delle Veline, l’ingresso del cane, gli scambi prolungati di battute dei conduttori tra un servizio e l’altro. Niente di preoccupante. Per tutto quello che è rituale e scontato il pubblico ‘attivo’ mette mano al telecomando”. Invece è vero, come anche questo caso dimostra, che le Veline creano sempre dibattito, mentre il fatto che siano scandalose ci pare quanto meno esagerato. “Con tutte le maialate messe a disposizione da Internet”, sempre Ricci in Me Tapiro, “solo Ezio Mauro aspettava tutto il giorno lo stacchetto di Striscia per turbarsi sessualmente”.

Striscia la notizia

Grazie della precisazione. Pensavamo che “creare dibattito” servisse anche ad aumentare la notorietà della trasmissione, dunque a far salire lo share.

P. Di.

 

Con riferimento all’articolo sull’ergastolo ostativo pubblicato sul Fatto di domenica, precisiamo che la ministra della Giustizia Marta Cartabia era vicepresidente e non presidente della Corte costituzionale, che a fine 2019 ha stabilito l’incostituzionalità del divieto assoluto per gli ergastolani mafiosi e terroristi, non collaboratori, di accedere ai permessi premio. Cartabia diventerà presidente della Corte poco dopo, l’11 dicembre 2019.

A. Masc.

 

A causa di un taglio redazionale, nell’articolo di ieri di Gian Carlo Caselli sul processo “trattativa” è stata pubblicata una frase che si presta a un equivoco, per cui va precisato che Calogero Mannino, scelto il rito abbreviato, “viene assolto fino in Cassazione”.

Fq

I tweet di Papa Francesco, tra porcellane rotte, grotte azzurre e comodini

Nessun Papa, nella storia millenaria della Chiesa, è mai stato così spontaneo ed esuberante quanto Jorge Bergoglio, ma da quando Sua Santità ha scoperto Twitter si sono aperte le cateratte, e l’Istituto per la Propaganda Fide sta facendo i salti mortali per cassare all’istante i tweet del Papa troppo eterodossi. Eccone alcuni, recuperati da WikiLeaks (liberate Assange!).

La sera penso spesso alla ragazza che frequentavo da giovane, prima di entrare in seminario. Era carina, dal sorriso facile: ecco tutto. Ma bistrava accuratamente le occhiaie per dare allo sguardo il fascino violaceo della voluttà, una cosa che mi faceva bollire il sangue. Non dimentico il nostro viaggio a Capri. All’uscita dalla Grotta Azzurra, per baciarla picchiai la fronte nella roccia.

La donna ha un senso innato della ragioneria sentimentale. Quando perde la discussione, il giorno dopo, con il ritorno del sereno, ti dice: “È vero, ieri avevo torto. Ma tu hai esagerato, no?”. Ecco la grande abilità istintiva: aveva torto, ma la creditrice è lei.

Stamattina un capitombolo di Suor Ernesta, inviata da Dio a tale scopo, ha trasformato in 3.864 pezzi un servizio di porcellana che era di un numero di pezzi assai minore. Che cretina!

Ho realizzato una disposizione originale e vivificante degli specchi all’interno del mio appartamento a Santa Marta: sicché il primo sole, entrando per la finestra, viene riflesso da uno specchio all’altro, da una camera all’altra, percorre tutto l’appartamento, e arriva a colpirmi in faccia, destandomi con la sua gioia luminosa. Un altro lavoro ben fatto.

Non sempre il cassetto del comodino scivola con facilità, talvolta rifiuta di aprirsi, finché all’ultimo tentativo sguscia fuori tutto intero e cade a terra, mentre io, per l’autospinta, vado a sedermi dinanzi a lui.

Ieri, al termine dell’Angelus, disponendosi a uscire per la medesima porta, due cardinali, Parolin e Fridolin, si sono detti l’un l’altro: “Prego!”. E sono rimasti immobili fino al momento in cui entrambi, ringraziando, hanno fatto un passo avanti, cozzando spalla a spalla, e poi sono retrocessi per ripetere il gesto e la parola cortese. La cosa si è ripetuta più volte. A un certo punto me ne sono andato, ma loro credo siano ancora lì, bloccati dai salamelecchi. Che Curia!

Quando convocavo Bertone, arrivava dicendo “Eccomi, Santo Padre. Cosa desidera?”. Ma col caratteristico tono zelante di un cameriere navigato, quella musicalità tipica che si intona al do ut des. Per questo l’ho segato. Adesso temo per la mia vita.

Treno. “In caso di pericolo tirare il freno”. Quanto soffro di non poterlo mai tirare per divertimento.

Vestito da papa mi sento ridicolissimo.

 

Mojito e altri fiaschi: l’oro digitale non brilla più

Escludendo la colpa grave dello spaccio, Luca Morisi, ex titolare della Bestia, va aiutato, capito e ringraziato. Aiutato in quanto soggetto fragile, imprigionato dalle sue dipendenze.

Capito per i deliri lisergici della sua Bestia, compreso l’uso delle apparizioni della Madonna di Medjugorje che in fondo non erano colpa sua, erano colpa della droga.

Ringraziato per averci svelato – con un solo colpo di scena – le variopinte stupidaggini pronunciate da alcune dozzine di politologi che da anni prendono sul serio Morisi, comprese le sue dimissioni lette all’unanimità come l’effetto di una tormentosa lotta intestina, tra governisti e populisti, come se fosse tutta farina del sacco dell’astuto Giancarlo Giorgetti.

Invece era colpa dell’uso e abuso di quella sostanza che la Narcotici ha appena trovato nella casa di campagna di Morisi, inducendolo al pentimento: “Mi dimetto. Chiedo innanzitutto scusa per la mia debolezza e i miei errori”. Bene così. Avanti così.

Solo che dopo averlo aiutato, capito e ringraziato, bisognerà occuparsi di quell’altro genio della nostra scena politica, Matteo Salvini, il suo capo, che da anni prende per oro colato tutto quello che viene masticato ed espulso proprio dalla Bestia di Morisi, trasformandolo in oro digitale con cui moltiplica il suo consenso e il nostro sbalordimento.

Si spiegherebbero tante cose. L’odio per i terroni e il tricolore che in un solo risveglio diventa amore per la nazione e mano sul cuore quando risuonano le trombette dell’inno di Mameli. L’ossessione per i migranti, colpevoli di tutto, dal terrorismo, alle tasse. Si spiegherebbero i rosari, il citofono, il Papeete. Fino alla sua ultima diagnosi sanitaria, scandita come fosse vangelo: “Le varianti del virus nascono come reazione al vaccino”. Bum! Ma anche quella volta non era il fiasco di Mojito. Era Morisi.