Il teatrino sul salario minimo andato in onda lo scorso weekend, illumina il gioco di ruoli cinico delle rappresentanze politiche e sindacali nel nostro Paese. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha riaperto il dibattito ricordando che in Italia oltre 5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi all’ora. Già solo una soglia di questo tipo ne aumenterebbe le paghe dal 25 al 90% (nel caso dei lavoratori domestici). Di fronte a questo scenario, i sindacati confederali continuano a fare melina, tra timide aperture, come Maurizio Landini della Cgil, e il niet di Cisl e Uil, invocando ancora una volta la superiorità dei contratti collettivi nazionali rispetto a un salario minimo legale.
Vale la pena di notare, però, che in Italia esistono Ccnl firmati dai sindacati le cui paghe non arrivano a 5 euro lordi all’ora, come nei servizi di vigilanza, o a 8 come nel contratto Multiservizi. Quest’ultimo è un caso esemplare: introdotto per regolare i rapporti di lavoro negli appalti e nei processi di esternalizzazione pubblici e privati, può coprire le più svariate mansioni a uso e abuso di ogni datore di lavoro. Ne fanno ricorso le Fondazioni che gestiscono il patrimonio culturale per i professionisti che vi lavorano, dagli archeologi ai bibliotecari fino al comparto Sanità per i lavoratori dei centralini, passando per gli inservienti e una miriade di lavoratori essenziali senza i quali non avremmo né strade né ospedali né musei agibili. Qual è il livello di ipocrisia necessario per ribaltare la necessità di un salario minimo legale nella priorità di una legge sulla rappresentanza? Non perché i “contratti pirata” non esistono, ma perché costituiscono un falso problema. Una legge seria sul salario minimo legale potrebbe tranquillamente prevedere che per ogni settore il minimo venga calcolato a partire dal contratto con il minimo maggiore estendendolo erga omnes a tutti i lavoratori del settore (diretti e indiretti). Un minimo massimo da cui la contrattazione riparte e non viene messa in discussione da una soglia che invece intende riportare a un livello di dignità tutti i contratti collettivi e più in generale i rapporti di lavoro non conformi.
Se davvero si vuole riaffermare la centralità della contrattazione nazionale basterebbe rispedire al mittente ogni riferimento agli accordi del 1993 che la subordinarono alla contrattazione aziendale con esiti devastanti per la diseguaglianza tra lavoratori come hanno più volte ribadito i ricercatori della Banca d’Italia. Si potrebbe accogliere l’assist della proposta di direttiva sul salario minimo della Commissione europea che riafferma esigenza di tornare a un modello di contrattazione nazionale e non decentrata, unitamente alla possibilità di un salario minimo legale. Secondo l’ultimo rapporto sui salari dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, tra i Paesi europei senza salario minimo, l’Italia è quello che ne trarrebbe maggiori benefici in termini di riduzione delle diseguaglianze tra lavoratori, ma anche di genere. L’esperienza in molti Paesi mostra che salario minimo e contrattazione nazionale possono convivere, rafforzandosi. Usare il salario minimo legale come spauracchio è una strategia suicida, mostra l’incapacità di dotarsi di una linea che non sia la difesa di un esistente che si assottiglia giorno dopo giorno. La questione salariale è tutta politica.
Nel paese in cui la povertà aumenta soprattutto tra coloro che hanno già un lavoro (13,2% secondo Istat) non si capisce quale credibilità potrebbero avere organizzazioni che vogliono rappresentare i lavoratori senza adottare soluzioni concrete per i milioni ai quali non si applica l’art. 36 della Costituzione. È nel solco di questo cinismo che la crisi della rappresentanza trova la sua linfa. Di fronte ai 350 mila tirocini extracurriculari avviati solo nel 2019, di fronte al dilagare del cottimo tra le più diverse occupazioni, la questione salariale riguarda milioni di cittadini ai quali è sempre stato detto che, concluso un accordo sul cuneo fiscale ci si sarebbe occupati di loro. Milioni di cittadini per i quali la normalità dell’era pre-Covid è un incubo a cui sottrarsi.
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