Cinque anni dopo, le indagini a rilento e il silenzio imbarazzante della stampa

Questo processo s’ha da fare. Ci sono voluti quasi cinque anni, ma alla fine Tiziano Renzi, Alfredo Romeo e Italo Bocchino andranno a processo per il traffico di influenze illecite per la cosiddetta ‘gara più grande d’Europa’, quella Consip FM4, una torta del valore di 2,7 miliardi. Ricordiamo in sintesi la parte dell’accusa che riguarda Renzi: “Carlo Russo (amico di Tiziano, ndr) il quale agiva in accordo con Tiziano Renzi sfruttando relazioni esistenti con Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip Spa (…) relazioni ottenute anche per il tramite del concorrente nel reato Tiziano Renzi, come prezzo della propria mediazione illecita costituita nell’istigare Marroni al compimento di atti contrari al proprio ufficio consistenti nell’intervenire sulla commissione aggiudicatrice della gara FM4 (…) per facilitare la Romeo Gestioni Spa partecipante a detta gara (…) si faceva dare da Romeo Alfredo, il quale agiva in concorso con Italo Bocchino, utilità (…) nonché si faceva promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”.

Certo, non si tratta di una condanna ma solo di un rinvio a giudizio. Certo, per altre ipotesi di reato ‘laterali’ (la turbativa sulla medesima gara Consip e il traffico più un’altra turbativa di gara su Grandi Stazioni) ci sono stati i proscioglimenti del Gup. Però la notizia di ieri è che l’ipotesi più rilevante dell’accusa iniziale (quella sui fatti che emergevano già dall’indagine di Napoli condotta nel 2016 dal pm Henry John Woodcock con la collega Celeste Carrano) resta in piedi. Non grazie, ma nonostante i pm di Roma.

Ecco. A ben vedere, più che Tiziano Renzi, sono proprio i pm di Roma i grandi sconfitti di ieri. Solo su input del Gip Gaspare Sturzo hanno indagato Denis Verdini. Poi hanno chiesto la sua assoluzione. Inoltre la Procura di Perugia ha aperto un fascicolo (che a noi pare fumoso) sulle dichiarazioni di Verdini, raccolte dai pm di Roma, contro Sturzo. Alla fine però, come si usa dire, l’ex parlamentare che voleva suonare Sturzo è stato suonato. Verdini è stato condannato dal Gup ieri (contro il volere dei pm romani) a un anno per turbativa. Assolto per l’altra ipotesi, la concussione.

Non basta. I pm di Roma già tre anni fa volevano prosciogliere Tiziano Renzi. Se non è accaduto è merito del solito Gip Sturzo che gli ha indicato la strada per formulare le accuse contro Tiziano e i coimputati per il traffico di influenze su Consip. I pm lo hanno fatto come scolaretti obbligati a fare un compitino e alla fine ha avuto ragione Sturzo: Tiziano e compagni affronteranno un processo per il traffico di influenze su Consip.

Se la decisione di ieri arriva a 5 anni dai fatti (con un rischio di prescrizione) e a distanza di 4 anni e 9 mesi dal nostro primo scoop sul caso Consip, il ‘merito’ è anche della Procura di Roma. I grandi giornali e le reti tv unificate allora applaudivano tutte le scelte dei pm favorevoli a Tiziano Renzi e contrarie a chi aveva osato intercettare le sue conversazioni.

I pm di Roma Giuseppe Pignatone (ora in pensione e presidente del Tribunale vaticano), Paolo Ielo (tuttora a capo del pool reati amministrativi) e Mario Palazzi avrebbero potuto indagare più a fondo su Tiziano Renzi per scovare prove a carico o a discarico del babbo dell’ex premier. Per esempio non hanno mai sequestrato il suo cellulare. Si sono concentrati sul pm e i Carabinieri dell’indagine napoletana.

Allora è bene ricordare oggi che il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi è basato sulle prove raccolte 5 anni fa da Woodcock e dal Noe. Che, proprio su Woodcock, i pm di Roma hanno indagato accusandolo ingiustamente di avere passato notizie segrete al Fatto salvo poi chiederne e ottenerne il giusto proscioglimento. In quell’occasione sono arrivati a prendere il cellulare a Federica Sciarelli, sulla base di un teorema infondato. Ed è bene ricordare che le intercettazioni alla base del rinvio a giudizio sono state fatte dai carabinieri del Noe (ora a processo) indagati a fondo dai pm di Roma per vari reati. A loro sì che sequestrarono i cellulari.

Renzi sr. a processo: “Traffico di influenze sulla gara da 2,7 mld”

Inizierà il 16 novembre il processo a carico di Tiziano Renzi: ieri il padre dell’ex premier è stato rinviato a giudizio dal gup Annalisa Marzano nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Traffico di influenze illecite sulla gara Fm4 è l’accusa dalla quale dovrà difendersi Tiziano Renzi, che però è stato prosciolto per altri tre capi d’imputazione. Per il gup l’accusa merita di essere meglio vagliata in un dibattimento. Nello stesso filone ieri ci sono state alcune assoluzione, come vedremo, ma anche tre condanne (in abbreviato e con pena sospesa) a un anno di reclusione: quelle inflitte agli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani e all’imprenditore Ezio Bigotti.

Il Gup Marzano ieri ha deciso uno dei filoni dell’inchiesta Consip, nata a Napoli e poi trasferita a Roma per competenza nel dicembre del 2016. Per Tiziano Renzi, inizialmente indagato per il solo traffico di influenze, la Procura aveva chiesto l’archiviazione nell’autunno 2018. Respinta nel 2019 dal Gip Gaspare Sturzo che dispose nuove indagini. E così alla fine dell’ulteriore attività investigativa, i pm nel 2020 hanno contestato a Renzi, seguendo le linee guida fissate da Sturzo, quattro reati. Di questi ieri è arrivato il rinvio a giudizio per uno solo. Quello che riguarda la gara Fm4, gara da 2,7 miliardi indetta nel 2014 e sospesa dopo l’esplosione dell’inchiesta nel 2017. Secondo l’impostazione del Gup quindi su questa gara (la più grande d’Europa si disse allora) ci potrebbe essere stato traffico di influenze illecite, ma nessuna turbativa d’asta. Così con Renzi sono stati rinviati a giudizio (sempre per il solo traffico di influenze) anche l’imprenditore Alfredo Romeo e l’ex parlamentare Italo Bocchino. Secondo il capo di imputazione, era Carlo Russo, imprenditore amico di Tiziano Renzi, a farsi promettere tra le altre cose denaro in nero da Romeo per sé e per Renzi sr., in cambio della propria mediazione sull’ex Amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni (estraneo alle indagini) affinché favorisse le società dell’imprenditore campano nella gara Fm4. Russo, secondo le accuse, quindi “agiva in accordo con Tiziano Renzi” (che ha sempre smentito).

Sulla gara Fm4 però per il gup Marzano non c’è stata alcuna turbativa: così per questa accusa Renzi è stato prosciolto perché “il fatto non sussiste”, come pure l’imprenditore Romeo e Carlo Russo. Ed è stato assolto anche l’ex amministratore delegato di Consip, Domenico Casalino.

E ancora. Renzi Sr era indagato anche per traffico di influenze e turbativa d’asta della gara per i servizi di pulizia indetta da Grandi Stazioni: ieri è stato prosciolto per entrambi i capi d’imputazione. Comunque anche in questo caso il gup sembra vedere solo il reato meno grave: su Grandi Stazioni, secondo il Gup, ci potrebbe essere stato un traffico di influenze ma solo di Romeo e Bocchino. Non una turbativa d’asta. Di conseguenza sono stati prosciolti tutti coloro ai quali veniva contestato questo reato più grave: oltre Renzi, anche Romeo, Bocchino, Russo e Silvio Gizzi, ex amministratore delegato di Grandi Stazioni.

Dopo la decisione del gup di ieri, la difesa di Tiziano Renzi vede il bicchiere mezzo pieno: “Grande soddisfazione per tre assoluzioni su quattro capi di imputazione – ha detto l’avvocato Federico Bagattini che spera di ottenere un’assoluzione come in passato: “Dopo Genova e Cuneo ora anche Roma. Per l’en plein – spera – aspettiamo con fiducia il dibattimento”.

Il prossimo 16 novembre dunque, la posizione di Renzi e di altri per il traffico di influenze su Fm4 dovrebbe riunirsi nel processo già in corso per l’altro filone d’indagine: quello che vede imputato tra gli altri l’ex ministro Luca Lotti, accusato dall’ex Ad di Consip Marroni, di averlo avvisato di un’inchiesta all’epoca in corso sulla stazione appaltante. Nel processo già in corso tra gli imputati c’è anche Carlo Russo, accusato però di millantato credito.

Ieri è finita in pareggio per Verdini, Abrignani e per l’imprenditore Bigotti. I tre, che hanno scelto il rito abbreviato, sono stati assolti dall’iniziale accusa di concussione. Tuttavia sono stati condannati a un anno di reclusione (la Procura ne aveva chiesto l’assoluzione) per un’altra accusa: quella di turbativa d’asta. Secondo il capo d’imputazione “agendo per conto della Cofely Spa, turbavano la gara Fm4 (…) offrendo un accordo a Romeo – dominus della Romeo Gestioni, concorrente nella medesima gara anche per lo stesso loro – per rilevare la Conversion&Lighting Srl, controllata da Bigotti, che avrebbe permesso a Romeo di ottenere un 30% dei lavori assegnati a Cofely nell’ambito del suddetto lotto”.

 

“Fummo costretti”: i 5 ex non si scusano

“Eravamo un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro: non potevamo non finire a pezzi”. Antonio Stampete è uno dei cinque “pugnalatori” di Ignazio Marino ricandidati nelle liste dem a Roma a sostegno di Roberto Gualtieri. Passano gli anni, cambiano i governi, i segretari del Pd e i sindaci. Ma il ricordo di quel 30 ottobre 2015 pesa ancora come un macigno su chi quel pomeriggio firmò dal notaio Claudio Togna le proprie dimissioni da consigliere comunale e pose fine alla breve esperienza del “Marziano” alla guida di Roma Capitale.

Tra quei 26 consiglieri capitolini, hanno scelto di ricandidarsi nel centrosinistra anche Erica Battaglia e le uscenti Ilaria Piccolo, Giulia Tempesta e Valeria Baglio. Contro di loro si è scagliato proprio l’ex sindaco, spezzando una lancia a favore di Virginia Raggi che, a suo dire, “almeno si è scusata” per l’ormai famosa conferenza stampa con le arance nei giorni più caldi delle inchieste a carico dei vertici capitolini. “Non potevamo fare altro, non si poteva continuare”, racconta Stampete. “Marino – dice – dimentica sempre che tecnicamente non l’abbiamo sfiduciato, ci siamo dimessi noi. Fummo costretti? Sì, certo che lo fummo. E mi pare senza alcuna ricompensa, visto che nessuno di noi ha fatto carriera. Anzi. Ma non c’erano le condizioni per continuare”. Stampete riavvolge il nastro: la maggioranza dem travolta prima dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo (che allora era ancora “Mafia Capitale”) con l’arresto del presidente del- l’Assemblea, di un assessore e di due consiglieri; il municipio di Ostia commissariato per mafia; una giunta a pezzi con le dimissioni di tre quarti degli assessori e un sindaco gravato da un’inchiesta per peculato (da cui poi è stato prosciolto) per l’affaire-scontrini che a un certo punto fu attaccato perfino dal Papa in persona. “Da una parte c’era un partito che ci metteva alle corde, dall’altra un sindaco che non ti difendeva. Era insostenibile”.

Proprio l’inchiesta Mondo di Mezzo aveva scombussolato il Pd romano. L’allora segretario Matteo Renzi aveva commissariato il partito, affidandolo a Matteo Orfini e il “rapporto Barca” aveva azzerato buona parte delle sezioni territoriali. “Era un altro partito, e quello di adesso è un altro partito: è ora di voltare pagina”, dice Giulia Tempesta, all’epoca 27enne. “Mi sono ricandidata, ho preso i miei insulti ma sono stata anche rieletta – afferma –. Nel 2015 il partito era commissariato, oggi c’è tutta un’altra situazione. Direi che possiamo metterci una pietra sopra”. Distingue tra il Pd di ieri e di oggi anche Erica Battaglia: “Di quei giorni ricordo lo smarrimento di tanti di noi, il prezzo è stato alto. Oggi per fortuna c’è un partito nazionale diverso, meno arrogante e più accogliente e sono certa che ragionerebbe con più politica su una decisione così drastica. Credo sia possibile aprire una fase nuova, senza rancore reciproco”.

A difendere i suoi ci ha provato Gualtieri in persona. “Ho chiamato Marino – ha detto ieri – gli ho chiesto consigli su tanti punti importanti della città, dai rifiuti ai trasporti: è stato un sindaco importante”, ha detto il candidato sindaco. Una sponda su cui si sono appoggiate anche Ilaria Piccolo e Valeria Baglio: “Ho già espresso la mia posizione negli anni, oggi mi ritrovo appieno con quanto detto da Gualtieri”, ha spiegato in particolare Baglio.

Colpire Michetti & Meloni: il voto disgiunto di Lega e FI

L’ordine tra Forza Italia e Lega è iniziato a girare a inizio settembre: mollare il soldato Michetti. E magari, nel segreto dell’urna, dare il voto disgiunto a Carlo Calenda. Nonostante i sondaggi per il candidato sindaco del centrodestra a Roma siano lusinghieri (l’ultimo di Pagnoncelli lo dava al 36%) e, a differenza di Bernardo a Milano, il radio tribuno ha possibilità di vittoria, l’operazione sganciamento è proseguita. In primis, si racconta in ambiti parlamentari, per fermare l’irresistibile ascesa di Giorgia Meloni, che vanta l’imprimatur sul candidato romano. “Se Salvini perde a Milano (con Bernardo) e Meloni vince a Roma (con Michetti), chi la ferma più?”, si chiedeva qualche giorno fa un leghista nel cortile di Montecitorio.

Quindi, se l’omicidio politico di Michetti sarà consumato, tra le impronte digitali vanno annoverate pure quelle del Carroccio. Che da ieri non ha nemmeno più alibi. Perché è stato Giancarlo Giorgetti, in un’intervista a La Stampa, a metterlo nero su bianco, con tanto di endorsement per Calenda. “Al netto delle sue esuberanze, ha le caratteristiche giuste per amministrare una realtà complessa come Roma”, ha detto il ministro per lo Sviluppo. Secondo cui Michetti perderebbe anche con Gualtieri, mentre il candidato giusto “sarebbe stato Bertolaso”. Proprio colui che, qualche giorno fa, Calenda ha rivelato di volere come vicesindaco. “Lo farei commissario straordinario al decoro urbano”, ha specificato.

E questa uscita da più parti è stata letta come una mano tesa agli elettori del centrodestra, e di FI in particolare. Partito dove il tam tam pro Calenda in queste settimane si era fatto fortissimo. Secondo alcuni di loro, infatti, “Michetti è un candidato tragico” e governare Roma con lui “sarebbe un harakiri anche per noi”. Per questo dal territorio è arrivato l’invito pressante al voto disgiunto: FI da una parte e Calenda dall’altra. “Lo sganciamento non è un’operazione organizzata, ma spontanea. Michetti non scalda i cuori al centro, naturale quindi che in quell’area si guardi altrove, e a Roma l’unico è Calenda. Lui l’ha capito e ha rimodulato la sua campagna: non punta più a togliere voti a Gualtieri ma a prenderli dal- l’altra parte, nel centrodestra”, racconta un senatore forzista. “Tutto quello che si muove al centro c’interessa”, osserva dal canto suo Gaetano Quagliariello di Cambiamo.

Alla Camera la tesi combacia, con una lieve differenza: il tam tam azzurro pro Gualtieri da tre giorni è finito. Nessuno ne parla più. “Forse si era superato il livello di guardia, tanto che è dovuto intervenire Berlusconi”, racconta una deputata. Già, perché proprio ieri, a sorpresa, Silvio Berlusconi ha lanciato un appello ai romani in favore di Michetti. “L’ha fatto per mettere un freno alle voci che ormai erano incontrollate, mancava solo che si andasse in giro coi manifesti di Calenda”, si dice nel partito azzurro. Dove però si fa notare come l’europarlamentare, da quando è sceso in campo, abbia cambiato strategia almeno tre volte: prima a testa bassa contro Virginia Raggi; poi all’arrembaggio di Roberto Gualtieri, con l’obbiettivo di sottrarre voti al Pd; infine ha capito che poteva pescare anche nell’altro campo e ora punta al centrodestra.

Ieri, intanto, le parole del numero due della Lega hanno creato il panico a destra e sinistra. “Giorgetti è pro Calenda? Si occupi della campagna elettorale di Varese…”, attacca l’azzurro Antonio Tajani. Il Pd, invece, con diversi esponenti, da Fedeli a Malpezzi a Borghi, sembra prendere la palla al balzo. “Grazie a Giorgetti per aver finalmente svelato la vera natura, di destra, della candidatura di Calenda…”, dicono i dem. “Sarei il candidato della destra perché Giorgetti (che ringrazio) ha detto che sono un bravo amministratore? Suvvia crescete!”, risponde Calenda in un tweet. “Semmai è Gualtieri che deve chiarire se intende portare in giunta qualcuno dei 5 Stelle…”, aggiunge il leader di Azione. Che poi polemizza via social pure con Monica Cirinnà (“mi offro come tuo maggiordomo, mi basta lo stipendio del cane…”). Mentre in Rete mostra il suo nuovo tatuaggio: un “SPQR” sul polso. Questo sì, in perfetto stile Michetti.

La droga è una brutta Bestia: i sermoni social dei leghisti

Una propaganda bestiale, quella del capo della Lega e del suo uomo-social, Luca Morisi. Una campagna quotidiana contro la droga, ma beninteso: di rado contro le grandi mafie, mai contro il consumo di professionisti e colletti bianchi, sempre contro tossicodipendenti, spacciatori di strada e stranieri. Fino a ieri la Bestia di Morisi e Salvini si nutriva di slogan sulle sostanze – tutte uguali, dalle canne all’eroina – da domani sarà più difficile farlo senza che la puzza d’ipocrisia si senta da chilometri. Per non dimenticare cos’è stata la propaganda salviniana sulle droghe, ecco una piccola antologia delle parole meno dimenticabili di questi anni.

Solo manette. “Non si combatte lo spaccio di droga e la violenza con il Daspo, servono le manette” (Matteo Salvini, 7 ottobre 2020)

Senza se e senza ma. “La lotta alla droga, senza se e senza ma, è una priorità: avanti con la proposta della Lega per la galera certa per tutti gli spacciatori” (Salvini, 2 agosto 2019)

Patenti. “Raddoppio delle pene e galera per gli spacciatori, sequestro dell’auto e ritiro della patente a vita per chi guida (e ammazza) sotto l’effetto di droghe. Basta stragi impunite!” (Salvini, 4 dicembre 2019)

Antipatie. “In Italia se hai due kg di droga in tasca e la vendi a minori ti condannano a 1 o 2 anni, se sei un politico e stai antipatico a qualcuno ti condannano a 3 anni e mezzo” (Salvini, 30 maggio 2019)

Dermatologia. “Vedo la Bernardini su La7: è proprio vero che la droga invecchia la pelle!” (Luca Morisi, 21 gennaio 2014)

Soluzioni drastiche. “Voglio spacciatori con le palle incatenate ai piedi ai lavori forzati (Salvini, 20 febbraio 2020)

Lei spaccia? “Lei è al primo piano? Ci può far entrare per cortesia? Sì, a casa sua, mica a casa mia… No, perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole, vorrei che lei la smentisse… Ci hanno detto che da lei parte uno spaccio della droga del quartiere. Hanno detto il giusto o è sbagliato? È tunisino?” (Salvini, in campagna elettorale per le Regionali, suona al citofono di un palazzo nel quartiere Pilastro a Bologna, 22 gennaio 2020)

Mica le botte. “Il caso Cucchi testimonia che la droga fa male, sempre e comunque” (Salvini commenta la condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri che hanno ammazzato Stefano Cucchi, 14 novembre 2019)

Sostanze illecite. “L’unica droga libera che mi piace (ed è una droga pesante!) ha un principio attivo potentissimo: il teosalvinolo…” (Morisi, 22 gennaio 2014)

Viva la vita. “La droga è morte, la droga non è mai la soluzione, la droga è merda. Viva la VITA!” (Salvini, 6 dicembre 2020)

Reddito. “Ai delinquenti nigeriani trafficanti di droga il reddito di cittadinanza, ai commercianti italiani costretti alla chiusura… tanti saluti. L’Italia al contrario di un governo di incapaci” (Salvini, 20 dicembre 2020)

Priorità. “Ma con tutte le emergenze che ci sono nel Paese devi approvare la legge per coltivarti quattro piantine? La droga è sempre droga e la morte è sempre morte e se qualcuno passasse a San Patrignano a parlare con i volontari, con le mamme e i papà, cambierebbe idea” (Salvini, 18 settembre 2021)

Pronto a litigare. “Sulla lotta alla droga sono pronto a litigare con i 5stelle, non su un sottosegretario. Se c’è qualche parlamentare che vuole lo Stato spacciatore il governo su questo può andare a casa. Non esistono droghe depotenziate, esiste solo la droga che fa male” (Salvini, 8 maggio 2019)

Buonisti. “Maxi retata di spacciatori stranieri. Grazie alla Polizia per l’ottimo lavoro, e ‘grazie’ ai buonisti che hanno riempito l’Italia di immigrati i quali, in attesa di pagarci le pensioni, spacciano droga…” (Matteo Salvini, 10 luglio 2018)

Fantozzi, è lei? “Lo Stato spacciatore di droga: io, da padre di due figli, non lo accetterò mai. La droga a scopo di divertimento è una boiata pazzesca” (Salvini, 9 maggio 2019)

Ceditori di morte. “Nessuna pietà per chi vende morte ai nostri giovani e per le mafie che fanno affari con lo spaccio” (Salvini, 26 giugno 2019).

“Qui ora viene giù tutto”: il dramma del cerchio magico dell’ex Capitano

“Sta venendo giù tutto”. La voce è di un salviniano cosciente della drammaticità del momento. Sa che forse il peggio deve ancora venire. Perché Luca Morisi, il capo della Bestia social della Lega, non era solo un “nerd”. Era molto di più: il suo era un sistema di potere. Dispotico – metteva ai margini chi non si adeguava alle sue regole di comunicazione – ma efficace: è stato lui a costruire la retorica anti-immigrati, l’immagine da uomo della strada di Matteo Salvini e lo stratega delle campagne elettorali del “Capitano”. Venuto meno lui, anche la posizione del capo inizia a scricchiolare. Salvini ora è sempre più solo e isolato. Dicono che a Morisi chiedesse qualsiasi cosa: dall’ora in cui pubblicare un selfie ai temi su cui puntare per coprirsi a destra, contro Giorgia Meloni. Il problema è che il segretario non si è mai aperto alle varie anime del partito e la cerchia dei suoi consiglieri si è sempre più ristretta: due su tre oggi non ci sono più. Iva Garibaldi, che è andata a lavorare con Giancarlo Giorgetti al Mise, e Morisi, sono fuori.

Resta Andrea Paganella, suo potente capo segreteria al Viminale e oggi suo uomo di fiducia. Ma è considerato un esterno al partito e, raccontano, non ha il polso dei gruppi parlamentari. Da qui gli errori e la confusione, anche comunicativa, di Salvini degli ultimi mesi. Il segretario parla, e decide, solo con lui e pochissimi altri. In parte perché non si fida (vedi Giorgetti), in parte perché ormai di fedelissimi ne ha pochi. Tutti fatti fuori o marginalizzati. Per scandali o perché nemici dell’ala silenziosa ma spietata di Giorgetti e dei governatori. In ordine: Armando Siri, Edoardo Rixi (dimessosi per le inchieste), Susanna Ceccardi, Lucia Borgonzoni (emarginate per le sconfitte), Claudio Durigon. E adesso Morisi. Chi ieri ha sondato gli umori dei colonnelli della segreteria della Lega ha trovato solo facce terree e incredulità. Perché il terrore è che altro possa venire fuori nei prossimi giorni e che questo sia solo l’inizio della fine. Le teorie complottistiche si sprecano: l’inchiesta a orologeria, i servizi, il processo a Palermo. “Anche con Bossi era stato così, tutto era partito con gli scandali della famiglia e del partito”, drammatizza un salviniano.

Lo choc nel partito è doppio perché lo scandalo arriva a 5 giorni dalle Amministrative che ora rischiano di andare malissimo. Anche perché sulla lotta alla droga e allo spaccio nelle periferie Salvini ha costruito la campagna elettorale. “Manca solo che becchino qualcuno di noi a trafficare coi migranti e siamo a posto”, ironizzava ieri un parlamentare. In questo dramma si inserisce Giorgetti, che ieri ha dato una botta al segretario con un’intervista a La Stampa in cui il ministro ha sconfessato i candidati di centrodestra nelle città provocando l’ira del segretario. Per tutto il giorno, nelle chat leghiste, i salviniani romani e milanesi erano furiosi, da Durigon ai lombardi Grimoldi e Cecchetti. “È matto?”, “Sleale”, “A chi risponde Giancarlo?” i messaggi più duri. Il terrore del golpe dopo le elezioni è già realtà.

Il viavai in cascina, il flacone “in coda” e la coca di Morisi

Quaranta appartamenti di medie dimensioni ricavati dal fienile di un’antica villa veneta. Tanta campagna, tanto verde e tanta privacy a pochi chilometri dall’autostrada Milano-Venezia. Qui ha la residenza Luca Morisi, mantovano classe ’73, “inventore” della macchina social di Matteo Salvini. Della “Bestia”, però, Morisi ha lasciato da pochi giorni la guida. Ieri ha passato la giornata nella casa di famiglia nel centro di Mantova. Troppo il clamore per l’inchiesta che lo riguarda e che lo vede indagato per cessione di droga così come si legge negli atti della Procura di Verona. Il caso, riportato su alcuni quotidiani, ha consigliato a Morisi di dimettersi da ogni incarico all’interno della Lega.

I fatti, come per ora ricostruiti, risalgono alla prima metà dello scorso agosto, quando l’ex guru social del Carroccio si trovava nel suo appartamento del comune di Belfiore, a 20 km da Verona. La zona è molto frequentata. Il via vai è continuo. La cascina è stata ristrutturata da una società immobiliare le cui quote sono detenute da una società di diritto inglese. Quasi tutti i proprietari usano gli appartamenti come appoggio per una notte o per qualche giorno. Sono pochi quelli che ci abitano regolarmente. Morisi, 48 anni, l’aveva acquistata nel 2007, ritrovandosi qualche anno dopo come vicino anche un magnate russo. Lo scorso agosto il “dominus” delle campagne social di Salvini si trovava nel suo appartamento. Fuori, invece, i carabinieri della compagnia di San Bonifacio, competenti per quel territorio, per come spiegato dal Procuratore di Verona Angela Barbaglio, stavano effettuando controlli di routine. Insomma, non era la prima volta. Quella sera viene fermata un’auto con a bordo tre ragazzi. Il controllo avviene poco lontano dall’abitazione di Morisi. E dà in apparenza esito positivo. Viene trovata una boccetta con dentro del liquido incolore. I ragazzi, senza precedenti penali, non si mostrano reticenti e spiegano che quella è droga (senza specificare quale) e che sarebbe stato proprio Morisi a dargliela. Aggiungono di conoscere l’influente leghista. Spiegano di aver ricevuto la sostanza da lui, ma non parlano né di acquisto né di prezzi. Da capire se stavano andando o uscendo da casa del leghista. Emergerà che i ragazzi non sono della provincia di Verona e con buona probabilità, spiegano fonti investigative, nemmeno veneti. I militari così tornano indietro e bussano a casa Morisi. Dalla perquisizione salta fuori una modica quantità di cocaina, per nulla occultata e chiaramente per uso personale. Nessun reato viene contestato per questo.

Diversa la situazione per la presunta droga liquida. A ieri, e a oltre un mese dal controllo dei ragazzi, la sostanza non era stata analizzata. E la spiegazione è apparsa subito semplice: il caso di agosto è stato derubricato dalla Procura di Verona come ordinaria amministrazione dunque l’analisi del liquido è andata in coda alle altre sostanze da testare. Tanto più che il laboratorio scientifico serve tutto il Veneto e la provincia di Mantova.

Ora però le cose cambiano, a partire dal fatto che il fascicolo è stato preso in mano direttamente dal procuratore assieme al sostituto procuratore Stefano Aresu che quella sera di agosto era di turno. A quanto risulta, inoltre, i carabinieri durante la perquisizione hanno portato via cellulari e supporti informatici per capire chi fossero i contatti di Morisi. Naturalmente molto è ancora da capire. A partire dalla sostanza. Se quel liquido incolore dovesse rivelarsi Gbl o Ghb, e cioè la droga dello stupro, sarebbe confermata l’iscrizione alla quale presumibilmente si aggiungerebbe anche l’internazionalità del reato, visto che 9 volte su 10 la sostanza viene acquistata online dall’Olanda. Diverso il caso se il liquido si rivelasse altra sostanza, molto usata durante le feste e ritenuta legale in Italia. Insomma le analisi chimiche saranno dirimenti. Anche per questo, spiega il procuratore, “Luca Morisi è iscritto per supposta cessione di sostanze stupefacenti”. A far ipotizzare che quella trovata ai ragazzi non sia droga dello stupro vi è anche la dichiarazione con cui Morisi ha confermato i fatti precisando che non ci sarebbe “alcun reato” ma “una grave caduta come uomo”.

Droga, Salvini sta col “guru”. Poi scappa dalle domande

All’improvviso, Matteo Salvini ha perso la consueta loquacità. Poche ore dopo la notizia che Luca Morisi, guru social della Lega e braccio destro del segretario, è indagato per la cessione di droga ad alcuni ragazzini, Salvini abbozza una difesa d’ufficio via social. Ma nella sua Milano, dove arriva in serata per il comizio del candidato sindaco, Luca Bernardo, preferisce evitare domande e darsi alla fuga senza passare dai giornalisti né prima né dopo l’intervento sul palco, protetto da un cordone di Polizia che tiene lontani microfoni e telecamere. Un comportamento anomalo per chi da anni si concede volentieri, spaziando dall’attualità politica al calcio, fino alle recensioni musicali. Stavolta no.

E così restano le scuse di Morisi, che attraverso una nota della Lega ammette le proprie difficoltà: “Non ho commesso alcun reato, ma la vicenda personale che mi riguarda rappresenta una grave caduta come uomo. Chiedo innanzitutto scusa per la mia debolezza e i miei errori a Matteo Salvini e a tutta la comunità della Lega, a mio padre e ai miei familiari, al mio amico di sempre Andrea Paganella, a tutte le persone che mi vogliono bene e a me stesso”. E ancora: “Ho rassegnato il primo settembre le dimissioni dai miei ruoli all’interno della Lega: è un momento molto doloroso della mia vita, rivela fragilità esistenziali irrisolte a cui ho necessità di dedicare tutto il tempo possibile”. Parole cui Salvini risponde sul terreno comodo dei social network, pubblicando una foto che lo ritrae proprio insieme a Morisi: “Quando un amico sbaglia e commette un errore che non ti aspetti, e Luca ha fatto male a se stesso più che ad altri, prima ti arrabbi con lui, e di brutto. Ma poi gli allunghi la mano, per aiutarlo a rialzarsi. Amicizia e lealtà per me sono la vita. Ti voglio bene amico mio, su di me potrai contare. Sempre”.

Poco più tardi, a margine di un comizio a Massarosa (in provincia di Lucca), Salvini sceglie di restare vago: “Se dovessi commentare le vicende private e personali di casa Grillo, saremmo ancora qua a parlare. Per rispetto del prossimo, non commento vicende personali”. Ed è davvero una novità, a meno di non considerare personale – per dirne una – il caso del ragazzo a cui citofonò in diretta social chiedendo se spacciasse. Altri tempi. Oggi Matteo glissa, sorprendendo i diversi cronisti che a Milano aspettavano una sua parola sulla vicenda Morisi. Dal palco improvvisa solo qualche parola generica: “Nella vita si sbaglia tutti, l’importante è capire dove si è sbagliato e avere la forza di rialzarsi”.

Per avere qualche impressione in più occorre allora cercare nella piazza leghista, quella di fronte all’ospedale Niguarda. Teresa ha in mano la bandiera del partito e racconta di essere attivista “fin dai tempi di Bossi”. Quando le chiediamo che idea si è fatta sul padre della “Bestia”, prova a darsi una ragione: “Credo sia sempre questione di potere. Quando arrivi in alto, errori di genere possono capitare, molte volte non si capisce più niente”.

Graziella, altra fedelissima della Lega, difende Morisi: “In quanti altri si sarebbero dimessi? Vogliamo fare un bel test anti-droga in Parlamento? Lui avrà avuto un momento di debolezza, ma non è giusto mettere in croce Salvini”. Anche Clara, giovanissima, minimizza: “Adesso c’è tanto clamore, ma tra un po’ non se ne ricorderà nessuno”.

I tanti no-comment fanno invece da cornice al resto del discorso del segretario, che peraltro un paio di volte va vicino alla gaffe. Come quando attacca il sindaco Beppe Sala per la scarsa sicurezza di alcune piazze: “Qui di solito non ci sono comizi, ma tanti delinquenti”. Stavolta meglio non dire “spacciatori”. E pazienza se in fondo alla piazza, beffardo come non mai, è in piedi il solito gazebo per i referendum sulla giustizia: “Chi sbaglia paga!”. Nessuno ha pensato, almeno per oggi, a sbianchettare lo slogan.

Se citofonando

A ogni assoluzione eccellente – l’ultima quella selettiva per la trattativa Stato-mafia – i media e i poteri retrostanti intonano il liberi tutti. Come se fossero innocenti tutti gl’imputati eccellenti degli ultimi 30 anni, quelli attuali e pure quelli futuri. Poi a stretto giro la cronaca s’incarica regolarmente di rimettere le cose a posto, smascherando il volto lurido di pezzi da novanta del potere. Salvini citofona a un portone a caso: “Scusi, lei spaccia?” e la risposta è: “Sì, sono Morisi, la tua Bestia, ma è una semplice fragilità esistenziale irrisolta”. Non male, per uno che voleva arrestare pure i tossici per modica quantità e chiudere i negozi di cannabis light. Fortuna che ha cambiato idea, tant’è che a Morisi ha promesso di aiutarlo senza arrestarlo.

L’altro Matteo, che minacciava di pagarsi la villa – peraltro già pagata coi prestiti di un tizio da lui nominato a Cassa Depositi e Prestiti e poi da Lucio Depositi e Presta – coi soldi del Fatto che osava raccontare lo scandalo Consip, si vede rinviare a giudizio il babbo Tiziano per traffico d’influenze illecite nello scandalo Consip. La mitica Procura di Roma, ancor prima che gli amici Lotti, Ferri e Palamara tentassero di mandarci un procuratore amico, aveva chiesto l’archiviazione per Renzi sr. e l’assoluzione per l’amico Verdini: il primo è finito a processo e il secondo condannato a un anno (in aggiunta agli altri già collezionati nel curriculum) per turbativa d’asta.

Intanto Enrico Laghi è ai domiciliari a Potenza per corruzione in atti giudiziari. Stiamo parlando di un’architrave del Sistema: nominato dal governo Renzi a commissario dell’Ilva e dal governo Gentiloni a commissario di Alitalia, ex sindaco del gruppo Espresso-Repubblica e tuttora presidente e membro del Cda di Edizione (la holding dei Benetton). L’accusa, nata dalle dichiarazioni – stavolta attendibili e riscontrate – del coindagato Piero Amara, è di aver corrotto il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in cambio di un patteggiamento a tarallucci e vino dell’inchiesta Ambiente Svenduto avviata dal predecessore Franco Sebastio. I pm e il gip citano il racconto di Amara: “Laghi, Capristo… e Renzi erano tutta una cosa nella gestione del patteggiamento… L’Ilva insieme al governo ha appoggiato la nomina di Capristo… Il premier… ricordo che è venuto a Taranto, è andato a salutare Capristo… Anche i decreti concordavano” (uno bocciato dalla Consulta) per neutralizzare i sequestri: “Mi ricordo che Laghi ha materialmente scritto uno dei decreti, almeno mi disse, emanati dal governo Renzi”. Qualcuno si domandava il perché dell’attacco a freddo dell’Innominabile ai magistrati mercoledì in Senato. Ora c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Kabul chiama Nonantola: storie di guerra e umanità

Bambini vestiti di bianco lanciati oltre il filo spinato, bambini vestiti di rosa e azzurro che saltellano felici mentre salgono su un aereo che li porta lontano dalla propria terra. Bambini salvati da un futuro incerto che tuttavia non potranno vivere nella loro patria, privati della famiglia, della casa, dell’identità culturale. Di tutto ciò che faceva parte della realtà e del mondo che conoscevano, non è rimasto nulla. Sono queste le immagini che, con il ritiro dell’occidente dall’Afghanistan, vediamo sui teleschermi. Immagini che stringono il cuore, immagini di disfatta, perché quando la salvezza della propria vita è legata alla fuga, la sconfitta riguarda tutti. Sono occhi grandi e profondi quelli che i bambini mostrano alle telecamere, espressioni ora sperdute, ora timorose. Braccia che si aggrappano a chi, nei loro confronti, ha un gesto gentile, porge un sorso d’acqua fresca, regala una smorfia divertente, un abbraccio. Alcuni sono giunti a destinazione. Chini sui fogli bianchi, stringono tra le mani matite colorate. I disegni prendono vita, istanti di bellezza nel caos degli avvenimenti, punti fermi dove più niente lo è. Vestono all’occidentale, nessuna distinzione tra loro, in una parvenza di uguaglianza che sia da augurio per il futuro. Lo sguardo degli assistenti che ne hanno cura nei centri di raccolta, li segue con attenzione, intrattenendoli in attesa che vengano presi in custodia. Accanto un cesto di caramelle.

Sono trascorsi più di settant’anni da quando erano altri i bambini in fuga. La storia si ripete con una sconcertante similitudine. E allora penso a un altro luogo e a un altro tempo. Penso che non abbiamo imparato nulla dal passato. E che la guerra di oggi non è poi così diversa dalla guerra di ieri. Arroganza e violenza, imposizioni in nome di un assolutismo barbaro, sordo a qualunque supplica, soggiogati del proprio univoco ideale. Penso al mio romanzo, La ragazza dei colori (Garzanti). A ciò che racconta. A quel passato non troppo lontano in cui un’intera comunità italiana si è opposta all’ingiustizia con tutte le proprie forze, rifiutandosi di sottostare alla crudeltà di un sistema sbagliato. Nel 1942 a Nonantola, in Emilia-Romagna, un intero paese ha accolto e si è preso cura di un gruppo di bambini ebrei in fuga dalla guerra. Avevano viaggiato per tutta l’Europa, provenivano da Germania, Bosnia, Croazia. Con i loro pochi averi avevano preso treni, camminato in fila tra sentieri di montagna, pianure, piccoli paesi. Sotto il sole e la pioggia, con giusto la guida dei loro giovanissimi insegnanti esausti e smarriti quanto loro. I bambini avevano infine trovato rifugio in un vecchio castello abbandonato a Lesno Brdo in Slovenia, in attesa di imbarcarsi per la Palestina. La guerra era ovunque. Quando fu chiaro che nessuna nave li avrebbe traghettati nella terra speciale che li attendeva, fuggirono nuovamente cercando rifugio in Italia. Nonantola li accolse a villa Emma, una dimora signorile che la DELASEM, l’organizzazione internazionale per l’assistenza ai migranti ebrei, aveva trovato per alloggiarli. Il paese emiliano, a dispetto delle leggi razziali dell’epoca, non esitò a nasconderli tra i propri figli pur di salvarli dai rastrellamenti. L’intera comunità si occupò dei loro bisogni, fornì protezione, documenti, sostegno, ma più di tutto li fece sentire amati. La loro origine era palese, così il loro credo religioso e la provenienza. Per tutti invece erano solo bambini, e come tali andavano protetti e aiutati perché ognuno rappresentava il futuro. Fu l’umanità dei cittadini di Nonantola a vincere sulle leggi dell’epoca. Sempre la loro umanità guidò le azioni di tutti coloro che parteciparono alla grande operazione di salvataggio, e stabilì che non bastava un’ordinanza per sconfiggere la giustizia. Quel popolo dedito al lavoro, custode di una delle ultime partecipanze agrarie ancora attive a distanza di quasi un millennio, dimostrò profondo coraggio. Grazie agli abitanti di Nonantola i bambini in fuga riuscirono a raggiungere la Svizzera, varcare il confine e trovare asilo. Tutti, eccetto uno che si chiamava Salomon Papo, sopravvissero, divennero uomini e donne, ebbero discendenza, tornarono in Italia per raccontare le loro storie di speranza e amicizia.

Oggi poco meno di cinquemila afgani sono giunti in Italia attraverso ponti aerei in una corsa contro il tempo, perché le loro vite erano in pericolo. Guardo le loro espressioni, i pochi bagagli, i volti stanchi. Immagino il loro smarrimento, la paura del domani, la disperazione. Un movimento spontaneo si è formato nelle città in cui queste persone sono state accolte. Molti hanno portato ai centri di raccolta quello che potevano: indumenti, biancheria, coperte, omogeneizzati, giocattoli, persino i lecca lecca. Per gli oltre millecinquecento bambini giunti in Italia sono arrivate centinaia di domande che ne chiedono l’affido. Finché esisteranno persone capaci di abbracciare la propria umanità, come accadde a Nonantola, ci sarà speranza per un mondo migliore.