Fuori! Il gruppo gay nato rivoluzionario (che riformò l’Italia)

Per gli incontri romantici gay c’erano i gabinetti pubblici, l’ultima fila nei cinema di terza visione, i vicoli bui e certi angolini poco sicuri nei parchi. “Questo offriva la società e io mi sono adeguato”, dice Angelo Pezzana, attivista e giornalista, tra i fondatori del primo movimento gay italiano. Era il 1971 quando a Torino nacque il Fuori, Fronte unitario omosessuale rivoluzionario Italiano. Oggi, dopo 50 anni, una mostra racconta la decade di vita e genesi del gruppo dei pionieri che per primi dissero all’Italia: io sono gay. Era il tempo di reagire ai bacchettoni. Un anno prima il parlamento aveva approvato la legge sul divorzio, però l’omosessualità restava tabù. La scintilla infatti fu un articolo omofobo su La Stampa del 15 aprile: elogiava un libro sulla “guarigione” di un ragazzo gay, tornato all’ovile etero dopo una lunga terapia. Il volume, Diario di un omosessuale, era firmato dallo psicoterapeuta cattolico Giacomo Dacquino e la recensione sul quotidiano torinese fece saltare il tappo della rabbia. Pezzana e i suoi amici scrivono indignati al direttore liberal Alberto Ronchey. “Ci risponde la segreteria di redazione, spiegando che del tema si parla già fin troppo”. I gay dovevano sparire dai riflettori, insomma. E invece si organizzano per prendersi il palcoscenico. “Decidemmo di unire le forze creando un movimento collettivo, come in America e in Francia”, ricorda Pezzana. Nelle stanze di “Hellas” (la sua libreria torinese) nel dicembre 1971 nasce il numero zero della rivista Fuori, la prima dedicata all’omosessualità nella storia d’Italia. Lì, tra i volumi sugli scaffali, passò a curiosare Allen Ginsberg (il poeta della Beat generation) con Fernanda Pivano e Ettore Sottsass nel 1965. Sei anni dopo, il libraio Angelo Pezzana ha un problema: per fare un giornale gay serve un direttore iscritto all’ordine. Ma in un Paese timorato, quale giornalista metterà mai la faccia su una rivista così sfacciata? Marcello Baraghini invece accetta volentieri e dunque merita una digressione: gay non è, ma si batte per la libertà di stampa insieme ai radicali di Marco Pannella. Nel tempo offrirà il suo nome come scudo ad oltre 300 testate (e invece di una medaglia rimedierà una sanzione nel 2016).

Senza Baraghini, molti titoli sarebbero rimasti clandestini, come il Fuori. Invece il numero di prova viene spedito ad amici e attivisti gay. “E due mesi dopo il movimento contava già 40 gruppi locali nelle maggiori città – ricorda Pezzana -, mentre il mensile debuttò in edicola ad aprile del 1972”. Solo un mese prima, l’8 marzo, una rispettabile accademica aveva avuto l’ardore di dichiararsi pubblicamente lesbica, a Piazza Navona a Roma in occasione della Festa della donna. Si chiama Mariasilvia Spolato e milita nel gruppo romano di Fuori. Pagherà un prezzo salatissimo per il suo coming out, perdendo cattedra universitaria, famiglia, amici, e guadagnando una vita da senzatetto. Morirà nel 2018 ad 83 anni, in una casa di riposo a Bolzano.

Spolato non era l’unica donna del movimento. Emma Allais curava sulla rivista la striscia satirica a fumetti Gay flowers (due margherite a disquisire dei problemi di genere). Un numero uscì col titolo Fuori donna, scritto solo da lesbiche. “Con noi c’erano tante donne – ricorda Pezzana – ma forse avevano più spunti in comune con le femministe che con gli omosessuali”. Anche le lesbiche avevano vita dura, ma verso di loro il pregiudizio era meno ostile. “Perché la donna era ritenuta inferiore all’uomo – dice Pezzana – quindi meno pericolosa per la società, anche se gay”. A misurare lo stigma fu un’indagine della Demoskopea di Giampaolo Fabris, condotta con il Fuori per il comune di Torino nel 1983. Fu un esperimento, “ma anche oggi sarebbe utile una ricerca per capire gli atteggiamenti verso l’omosessualità”, auspica Pezzana. Molti ostacoli sono caduti, ma il pregiudizio resta, secondo lui: la destra maschilista ammette solo famiglie etero fondate sul matrimonio; i clericali offrono tolleranza, al più, mica rispetto; la sinistra invece è aperta sulla scena e retrograda dietro le quinte, furbescamente. Proprio come nei 70, quando “per la destra eravamo sporcaccioni, per i cattolici peccatori e per i comunisti una sovrastruttura della borghesia”.

Fuori era un movimento rivoluzionario solo sulla carta. Pezzana ai Soviet non ha mai creduto e il Pci di Berlinguer volava distante da certi temi: “Noi tentavamo il dialogo con Botteghe oscure ma loro erano ostili”. Con Marco Pannella invece matura l’intesa: nel 1974 tutte le sedi del partito radicale si aprono ai militanti del Fuori. Inaccettabile, per l’ala rivoluzionaria, che fa i bagagli e lascia il movimento gay. È l’inizio della fine. La rivista cessa le pubblicazioni ad aprile 1982 e si congeda dai lettori: “Guai sopravvivere a sé stessi. Si rischierebbe di scomparire”.

Il traffico di acque sporche sulla pelle del Lago di Garda

Democrazia e ambiente: è su questo cruciale binomio, decisivo per le sorti stesse della vita sul pianeta Terra, che oggi si misura un governo. E il bilancio del governo Draghi – a cominciare dalle “semplificazioni” regalate dal Pnrr a chi vuol mettere le mani sul territorio – è terribile: si colpisce la democrazia per stravolgere l’ambiente. Se c’è una singola storia capace di raccontare tutto questo, è quella dei depuratori del Lago di Garda, il più grande bacino idrico d’Italia.

Da oltre 40 anni gli scarichi fognari della costa bresciana passano sotto il Lago in due grandi tubi che li portano su quella veronese, fino al depuratore interregionale di Peschiera, che poi scarica le acque pulite nel Mincio, emissario del Garda. Una soluzione sostenibile e consolidata, che non ci sarebbe alcun bisogno di cambiare, ma solo di migliorare (perché una parte degli scarichi dell’irresponsabile espansione edilizia della sponda bresciana finiscono nel Lago, con cariche batteriche oltre i limiti di legge), e di manutenere. Ma alla manutenzione da sempre in Italia si preferisce l’inaugurazione (Longanesi): e soprattutto il giro di soldi che la precede.

Così la presidente della Comunità del Garda (che è Maria Stella Gelmini) nel 2017 ottiene un finanziamento di circa 130 milioni di euro (che ad oggi è lievitato fino a 230 milioni) per cambiare tutto il sistema, e nel 2018 si presenta il progetto di due nuovi depuratori (a Gavardo e a Montichiari), che porterebbe le acque reflue dal bacino del Garda in quello del lago d’Idro, scaricandole poi nel disastrato fiume Chiese. La reazione dei 15 comuni interessati, trattati come una specie di pattumiera dal ceto politico che governa il Garda, è di assoluta contrarietà, e tutti i movimenti ambientalisti reagiscono con fermezza contro questo traffico di acque sporche da un bacino idrografico all’altro (un incubo da apprendisti stregoni del governo dell’ambiente).

Una volta tanto, le istituzioni ascoltano e, il 30 novembre 2020, il Consiglio provinciale approva una mozione che fissa un principio cardine di responsabilità e sostenibilità: “gli impianti consortili di depurazione siano localizzati nelle aree territoriali dei Comuni afferenti all’impianto stesso”.

Il Tavolo delle Associazioni non si limita a dire di no al progetto milionario, ma commissiona un controprogetto molto più economico (63 milioni vs 230) che prevede la posa di una nuova condotta sublacuale destinata a ricevere le acque nere, il relativo potenziamento del depuratore di Peschiera, la separazione delle reti fognarie (acque di pioggia e acque nere).

Tutto bene, dunque? Manco per sogno: perché quando Maria Stella Gelmini diviene ministra per gli Affari regionali e le autonomie del governo Draghi, usa questo potere per stroncare l’autonomia della sua terra: chiede ed ottiene la nomina di un Commissario straordinario (individuato nel prefetto di Brescia!) con il compito di imporre in un mese ciò che le istituzioni democratiche avevano dichiarato di non voler fare. Un incredibile sbrego costituzionale, che la Commissione scuola dell’Anpi stigmatizza senza peli sulla lingua: “la Presidente della Comunità del Garda ha chiesto e ottenuto dal Ministro della transizione ecologica la nomina di un Commissario, non perché all’interno dell’Amministrazione provinciale di Brescia vi fossero infiltrazioni criminali, o incapacità ad affrontare situazioni di gravissima emergenza, ma perché vi sarebbero posizioni politiche, peraltro, espresse legittimamente dagli organismi democratici preposti, diverse da quella della lobby rappresentata dalla stessa Presidente della Comunità del Garda, posizioni che il Commissario doveva annullare. Con l’aggravante che a mortificare la volontà democratica della Provincia di Brescia, è stato chiamato come Commissario il Prefetto, proprio quella figura che la Costituzione non a caso non contempla”.

Dal 9 agosto ad oggi, gli ambientalisti bresciani (tra i quali si segnala il lucidissimo Marino Ruzzenenti) presidiano a oltranza, giorno e notte, la prefettura di Brescia, nella più tenace lotta per democrazia e ambiente che l’Italia di oggi conosca, con assemblee in piazza, manifestazioni davanti al Duomo, e adesioni importanti come quella della Cgil.

Non trovo commento migliore a questa incredibile vicenda delle seguenti righe: “Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro (…), la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci (…) ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare”. Sono parole di Luigi Einaudi: e non stupisce affatto che a ignorarle, anzi a fare l’esatto contrario, siano i sedicenti liberali che stanno massacrando il Paese che dicono di governare.

C’è una vita per dimagrire. “Aiuto, salvatemi: vedo la dietista dovunque!”

In un’epoca in cui c’è in Jugoslavia una sanguinosa guerra, nel mondo una donna su tre viene violentata, nonostante ciò la mia ossessione da sempre, da quando sono bambina, è la pancia.

La ciccia ha sempre occupato gran parte della mia attenzione. Io sono convinta che se il mio addome fosse piatto sarei una ragazza felice. “Per dimagrire è inutile saltare i pasti, basta seguire un’alimentazione bilanciata e naturale”. La dottoressa Tirone è diventata la mia ossessione, la vedo ovunque. In televisione, al mercato con un banco di frutta che urla “mini linea, mini linea!”, in chiesa a celebrare messa in latino, insomma è il mio incubo. Conosco ogni dettaglio della sua personalità. I dettagli sono molto importanti, ti rendono unico. La Tirone la trovo bella e seducente, ogni suo particolare lo adoro, lei e le sue tisane purificanti hanno un effetto ammaliante su di me e ne sono un po’ invidiosa. Nel nome di ognuno di noi c’è il proprio destino, nomen omen. Tirone suona bene, se si fosse chiamata Tiretto avrebbe fatto un altro mestiere, forse avrebbe avuto qualche problemuccio con la giustizia, chissà.

Ci si disinnamora anche per colpa di un dettaglio, di un gesto di volgarità, di una verità cruda oltre le apparenze. Mi sono allontanata da Luca per una serie di orribili dettagli. Beh dettagli! L’ho beccato fare il rattuso con una squinzia, e questo non è un dettaglio. È stato un bene che l’abbia visto passeggiare per via del Corso con il sorrisetto a mezza bocca, un sigaro tra le dita e sottobraccio una pelliccia di visone con dentro la dottoressa Tirone, cioè non era lei, le somigliava, era uguale. E aveva la pancia! Un dettaglio? Forse. Ma con lo stesso effetto di una sua tisana, la dottoressa Tirone ha fatto piazza pulita di qualsiasi rimpianto potessi avere. La Tirone è la mia tisana purificatrice, mi ha liberata. Chiamalo dettaglio!

 

“Sorvegliare e punire”: la macchina infernale che Biden non può fermare

Guantanamo è una brutta parola . Dice, da sola, tutto l’orrore possibile al mondo. È il nome di un luogo lontano, di un tempo che dura e del dominio che ha imposto. È il nome di un’atroce invenzione (fare male per sempre) che non può mai essere cancellata.

Si deve essere grati a Laura Silvia Battaglia per avere vinto la repulsione e affrontato lo sforzo di narrarci, con chiarezza e documenti, le 3 maledizioni del luogo di detenzione chiamato Guantanamo: l’averlo pensato fino ai dettagli, l’averlo realizzato in modo impassibile, l’avere scoperto che non si può chiudere. Sto parlando di Lettere da Guantanamo di Laura Silvia Battaglia, Editore Castelvecchi. Oltre che essere un’esperta giornalista e un’eccellente ricercatrice di dati e fonti (qualità dell’autrice che danno al libro il valore di documento) Battaglia è una scrittrice che evita esclamazioni di pena, anzi documenta un mondo feroce e normale, fondato su una rete persecutoria che si estende dalla banda armata alle istituzioni più illustri e rispettate nel mondo. Quando le autorità sono quelle americane, che vivono nell’orgoglio della loro Costituzione, spaesamento e incredulità colgono il lettore, che non sa più comprendere e definire il mondo in cui vive.

Un primo merito del libro è illuminare il brulicare, fittissimo, di eventi malvagi praticati in modo sistematico nel mondo, lungo percorsi senza speranza, sempre in nome di un valore superiore (vedi la detenzione senza fine per il giovane studente Zaki in Egitto). Il secondo contributo, ancora più grande, è di mostrarci che quando un Paese moderno e perfetto, come gli Usa, prende in mano la macchina della punizione e del dolore fisico come comunicazione del potere; e quando l’orrore della punizione estrema diventa continuo, allora la cancellazione si rivela impossibile perché diventerebbe una spaventosa confessione.

Ecco perché è così importante che Lettere da Guantanamo sia un documento, non fiction giornalistica. I fatti, i luoghi, e la cultura carceraria che raccontano fanno paura: non perché “potrebbe sempre accadere” ma perché stanno accadendo. E una volta che il pacchetto di folle vendetta disegnato dagli uomini di George W. Bush – sotto le spoglie di risposta politica al terrorismo – è diventato una catena saldissima di fatti crudeli intollerabili (e non episodici ma continui) nessun altro presidente americano, peggiore o migliore (pensate a Barack Obama) ha potuto spezzarla. Non potrà né vorrà Biden, legato ad una prudente protezione preventiva dell’America (non i suoi valori morali ma le persone e il territorio).

Fenomeni atroci come Guantanamo avvelenano infatti anche la sensibilità morale di un Paese come gli Usa (si vedano le immagini dei poliziotti texani a cavallo che respingono i profughi al confine col Messico) coinvolgendo politici e popolo in uno sbandamento senza precedenti di cui – tutto fa pensare e il libro della Battaglia conferma – non è in vista la fine.

 

Contro l’inflazione per difendersi ci sono Btp, Tfr e buoni fruttiferi. Da evitare i fondi specializzati

L’inflazione ha rialzato la testa, in America (+5,4%) ma anche in Europa (+3%). Non tutti credono che si tratti di un fenomeno passeggero. Normale perciò che i risparmiatori si preoccupino. Purtroppo è normale anche che pretesi esperti e cosiddetti consulenti finanziari li consiglino malissimo. In particolare, li indirizzano verso l’investimento azionario, perché garantirebbe la tutela del potere d’acquisto. Ma è una frottola, in realtà non garantisce nulla: a volte funziona, a volte no. Durante l’ultima grande stagione inflattiva degli anni ’70 le Borse addirittura franarono anziché stare dietro ai prezzi. Altri consigliano l’oro. Inizialmente allora il suo valore andò alle stelle, come quello degli immobili. Ma su un arco temporale più lungo fu un disastro. Per esempio da fine 1980 a fine 1998 in Italia i prezzi salirono del 220%, la quotazione dell’oro invece scese del 13%. Per i più andò ancora peggio per l’incidenza di costi e aggio.

Siamo alle solite. Viene spinto senza ritegno quando frutta i maggiori guadagni a venditori, gestori e intermediari, come appunto i fondi azionari o le monete auree. Per difendersi dall’inflazione le soluzioni valide sono quelle indicizzate all’inflazione stessa. Lo capirebbe anche un bambino, purché non manipolato dalla cosiddetta educazione finanziaria. Ora tali soluzioni esistono, mentre cinquant’anni fa no. In prima istanza ci sono i titoli agganciati ai prezzi al consumo, dell’Italia o dell’Eurozona. Sono rispettivamente i Btp Italia e i Btp-i, acquistabili da chiunque, pure online, anche solo a 1.000 euro alla volta. Però molti quotano a prezzi superiori a 100, il che ha controindicazioni sul piano fiscale. Decisamente da evitare sono i Btp-i 2041 a 155 euro. Si possono prendere piuttosto i Btp Italia novembre 2023 o maggio 2026 e magari cambiarli poi coi Btp Italia della prossima emissione. Il rendimento reale netto a scadenza è negativo, grosso modo del -1,5% annuo. Ma quando mette male con l’inflazione, è già buono contenere le perdite.

Viceversa non vanno bene i fondi specializzati sui titoli cosiddetti inflation-linked, neppure quelli del tipo Etf, perché privi di specifiche garanzie contrattuali, a parte la mancanza di trasparenza e il rischio di malversazioni, strutturali per il risparmio gestito. Validissimo, invece il Tfr, che difende egregiamente dall’inflazione a differenza della previdenza integrativa.

E ottimi sono i buoni fruttiferi postali Obiettivo 65, taglio minimo 50 euro, e garanzia di conservazione del potere d’acquisto al compimento del 65° compleanno.

Queste ultime due soluzioni però non sono accessibili a tutti. Il Tfr c’è solo per i lavoratori dipendenti e per Obiettivo 65 bisogna avere meno di 55 anni. Per altro su entrambe non viene addebitata nessuna provvigione. Ciò spiega perché non le consiglino mai i sedicenti consulenti finanziari.

 

 

Domani al via le prenotazioni per le auto usate

Mentre i produttori di automobili si ritrovano a corto di microchip, costretti a sospendere il lavoro in fabbrica (un problema globale che, tra gli altri, ha coinvolto la casa giapponese Toyota, le europee Volkswagen e Stellantis e l’americana Gm), in Italia arriva la seconda ondata degli ecobonus del 2021 per ridare ossigeno a un settore agonizzante. Così, dopo quello di 2 mila euro che ha preso l’avvio il 2 agosto per le auto elettriche e ibride plug-in, esauritosi in pochissimi giorni, da domani diventa operativo il sostegno pubblico all’acquisto di vetture usate. A disposizione ci sono 40 milioni di fondi e l’incentivo varia da 750 a 2 mila euro. Per richiederlo si usa la solita procedura utilizzata per gli altri ecobonus, ma questa volta c’è anche una condizione: si deve anche rottamare una vecchia automobile. Nel dettaglio, a partire dalle 10 di domani, i concessionari possono accedere alla piattaforma del ministero dello Sviluppo economico per inserire le prenotazioni degli incentivi per l’acquisto di un veicolo usato di classe non inferiore a Euro 6, con un prezzo di mercato non superiore a 25.000 euro e con emissioni comprese tra 0-160 g/km CO2. E il valore del bonus cambia a seconda della fascia di emissioni del veicolo usato che si acquista: si avranno 2 mila euro per le auto tra 0-60 g/km CO2; mille euro tra 61-90; 750 euro tra 91-160. L’auto rottamata dovrà comunque essere della stessa categoria di quella acquistata, immatricolata da almeno 10 anni e intestata da almeno 12 mesi all’acquirente o a un familiare convivente.

Questo ecobonus sull’usato era molto atteso e, anche se i paletti imposti sono stringenti, gli esperti dell’automotive lo danno per esaurito in breve tempo. La prima tranche del bonus per l’acquisto di auto elettriche o ibride, attivato all’inizio dell’estate si è infatti esaurito a fine agosto, facendo scattare l’allarme dei produttori che continuano a chiedere di stanziare nuovi fondi per incentivare le immatricolazioni. Quelle di agosto, un mese già tradizionalmente fiacco, sono state appena 64.689 autovetture, con un calo del 27,3% rispetto alle 88.973 dello stesso mese del 2020. Il Mise ad inizio settembre ha previsto già ulteriori 57 milioni di euro di risorse che si sono polverizzate in 48 ore. E si torna già a richiedere un nuovo rifinanziamento che, questa volta, dovrebbe essere inserito in manovra. Ma il nuovo ecobonus non è affatto scontato.

 

Cancel culture, “Striscia” e la lunga lagna: “Jessica Rabbit non deve coprirsi”

 

Bocciati

Cantare non è votare. Fedez ha criticato Giuseppe Conte e i politici in comizio: ma come, gli elettori possono assembrarsi davanti ai leader e i concerti restano in lockdown? Subito si sono accodati Ermal Meta, Salmo, Francesca Michielin, Calcutta, Emis Killa, Arisa, Sfera Ebbasta: Fedez ha ragione, fateci lavorare. La proposta di Assomusica a Mario Draghi è di riaprire gli show col 100% degli spettatori, senza distanziamento ma con l’obbligo di “Green pass” e mascherina. L’appello è sostenuto da circa 300 artisti tra cui Vasco Rossi, Cesare Cremonini, Carmen Consoli, Cosmo, Tiziano Ferro, Jovanotti. Tutto giusto, i rischi dell’assembramento sono (quasi) identici, al comizio e al concerto. Con una minuscola differenza: per la salute democratica, votare informati è un filo più importante di cantare sotto palco.

Vogliamo vedere il décolleté di Jessica. La formosissima Jessica Rabbit coprirà le sue curve dietro un casto impermeabile. E subito piovono lacrime contro la “Cancel culture”, che in nome del politicamente corretto stravolgerebbe la Storia e le sue icone. Tanto che Repubblica titola: “Jessica Rabbit, addio donna fatale, Disney si adegua alla cancel culture”. L’HuffPost: “Jessica Rabbit troppo sexy: la Disney la trasforma in un’investigatrice”. Però la sensualissima “donna cartoon” resta tale e quale, nel film, con le forme esplosive sempre inguainate nel vestitino rosso. A cambiare è solo il pupazzo di Jessica in un parco a tema: quello sì, ora è fasciato in un trench da detective. Quindi niente panico, bimbi e adulti potranno continuare ad ammirare il décolleté della coniglietta.

Chi offende chi. Torna “Striscia la notizia” e Antonio Ricci spiega la presenza delle Veline: “Ha una sua valenza provocatoria, crea dibattito”. Corretto, basta sostituire “dibattito” con “share”. Poi s’è scagliato contro il politicamente corretto: “Mi offende nel profondo, sono io che vorrei essere tutelato. Voi offendete la mia religione che prevede la satira. (…) Ci offendono se ci vogliono limitare nella nostra libertà”. Dunque fermiamo le offese, ad esempio con trite imitazioni di minoranze etniche.

Minetti e le curve pericolose. Per gli amanti delle cene eleganti c’è il nuovo profilo Instagram – privato e vietato ai minori – di Nicole Minetti. Ma potrebbe anche essere di una controfigura, perché a giudicare dalle foto pubblicate su Dagospia, il “lato B” in prima piano oscura i lineamenti del viso (ed è un peccato). “For you Baby, scrivetemi in privato per più contenuti”, ha scritto l’ex dama di Berlusconi prima di rimuovere il post. “Iniziatemi a seguire perché a breve uscirà il link onlyfans.com”, ammicca Nicole su Instagram. Le curve del destino: si inizia come igienista dentale, per sbandare verso le foto vietate ai minori.

 

Non classificati

Dal concime nasce un fiore. Terence Hill lascia “Don Matteo” e il testimone passa a Raoul Bova, nei panni dell’investigatore in collarino. Un trauma, per gli attempati che hanno succhiato il latte televisivo al seno di mamma Rai, invece che nutrirsi in streaming. La casa di produzione Lux Vide degli eredi Bernabei (Ettore fu il “padrone” di viale Mazzini dal ‘61 al ‘74) per ringraziare l’attore ha comprato una pagina intera sul CorSera, come per Marcello Dell’Utri. Noi invece ringraziamo la Rai, per averci donato certi sceneggiati tanto tradizionali e poco innovativi – le tipiche fiction a “luce smarmellata”, ricche di “primi piani così intensi e così italiani” – da aver ispirato la serie “Boris”, insuperabile capolavoro italiano (non ce ne vogliano i fan di Don Matteo). Tra l’altro il ruolo originalissimo di prete-detective (ricordate padre Brown e Guglielmo di Baskerville?) spettava a Giancarlo Magalli, il quale gentilmente declinò per non trascorrere 8 mesi l’anno sul set a Gubbio. E se l’ex mattatore dei “Fatti vostri” avesse accettato la parte, oggi l’erede sarebbe sempre Raoul Bova?

 

Il Salvini dimezzato, tra il popolo padano e gli elettori “terroni”

 

Non classificati

La scelta di Francesca. Chissà se dipende dall’onda “green” che sta montando nel mondo, se le molteplici dichiarazioni d’intenti sulla lotta al cambiamento climatico da parte dei principali leader mondiali hanno finito per scatenare una spinta ecologista anche nella politica nostrana, fatto sta che i partiti cominciano ad avere qualche problema con la loro attuale vocazione, quella di contenitori per la raccolta indifferenziata. È in questa direzione che può essere interpretata la scelta dell’europarlamentare Francesca Donato che, la scorsa settimana, ha scelto di abbandonare la Lega per evidente incompatibilità con la linea che al momento nel partito sembra contare di più. L’europarlamentare ha spiegato che la sua posizione sull’obbligatorietà del “green pass”, “pur condivisa da larga parte della base è diventata minoritaria: prevale la posizione dei ministri, con Giorgetti, e dei governatori. Io non mi trovo più a mio agio e tolgo tutti dall’imbarazzo”. Apparentemente la dipartita della Donato dalla Lega afferisce ad un tema specifico, le politiche sanitarie del governo Draghi (“Io credo nella libertà individuale e nel principio di autodeterminazione delle scelte sulla salute. Principi inderogabili che questo governo sta violando”), ma vederla così, come una casualità contingente, sarebbe un errore di approssimazione. Francesca Donato, avvocato a Palermo e fondatrice dell’associazione “Progetto Eurexit”, è uno dei nuovi acquisti saliti a bordo del Carroccio nell’era salviniana, quando il Capitano decise di passare il Rubicone, che nel caso specifico corrispondeva al Po, e superare il concetto di Lega nord. È stato allora che la Lega ha cominciato a diventare un contenitore indistinto, in cui identità e storie molto diverse tra loro si sono improvvisamente trovate le une a fianco alle altre, unite da un unico elemento comune: il carisma del nuovo segretario. Il primo grande equivoco leghista è stato il sovranismo: la refrattarietà all’Europa, lo scetticismo verso la moneta unica, la difesa ad oltranza della sovranità nazionale hanno costituito un elemento estremamente attrattivo per parecchie nuove reclute, ma per molti versi hanno spaventato e reso perplessa la vecchia classe dirigente e buona parte dell’elettorato storico, entrambi focalizzati sulle esigenze del ceto produttivo. La sbronza data da un Carroccio con percentuali da capogiro nei sondaggi ha tenuto sottotraccia i distinguo e le insoddisfazioni, fino a che la realpolitik, tra la pandemia e l’arrivo di Draghi, ha finito per riassorbire progressivamente le ambizioni sovraniste, dando ragione alla “vecchia scuola”. Il problema però si è riproposto poco dopo con la questione “green pass”: nuovamente il pragmatismo dell’antica Lega nord, orientato verso le ragioni dell’economia, si è trovato a scontrarsi con le battaglie ideologiche di dissenso della nuova leva leghista; e ancora una volta ha prevalso. Che l’ennesima manciata di sale sulla ferita potesse provocare qualche smottamento si sarebbe dovuto prevedere. Ma l’impressione è che la scelta della Donato, più che un gesto individuale, rappresenti simbolicamente l’apertura del vaso di Pandora: se un partito per crescere è disposto a riempire il cassonetto in maniera indifferenziata, è davvero difficile che si riesca a fare un buon riciclo e una raccolta sostenibile. E questo non vale certo solo per la Lega.

Ai posteri l’ardua sentenza

 

La serie A in lizza per ricevere l’ambito premio. “Viva il razzismo negli stadi”

Ameno che il calcio italiano miri ad essere insignito del riconoscimento “Paese protettore del razzismo negli stadi”, cosa non da escludere visto che siamo l’unica nazione al mondo ad avere avuto un presidente federale, Tavecchio, squalificato per 6 mesi da Uefa e Fifa per frasi razziste dopo che la Procura Figc guidata da Palazzi (correva l’anno 2014) aveva chiuso la sua inchiesta con uno dei suoi più memorabili insabbiamenti, va detto che l’inizio della stagione 2021-’22, per quanto riguarda l’immagine del calcio italiano nel mondo, sta avvenendo nel modo più indecoroso possibile.

Mentre la Fifa infligge sanzioni ai danni dell’Ungheria (due partite da disputare a porte chiuse dopo i cori razzisti che hanno accompagnato la prova di Sterling e Bellingham durante Ungheria-Inghilterra; sanzione che si aggiunge alle 3 giornate senza pubblico già comminate agli ungheresi dall’Uefa per identici comportamenti razzisti avvenuti nelle partite giocate contro Francia, Germania e Portogallo), colpisce in Italia la totale indifferenza con cui il Palazzo del Pallone si pone di fronte ai nuovi, gravi, vergognosi episodi di razzismo che puntualmente hanno ripreso a connotare le partite della nostra Serie A. Solo per restare ai più recenti: i buu di sfregio dei tifosi della Lazio all’indirizzo di Kessie e Bakayoko durante la partita Milan-Lazio; gli infami e osceni insulti proferiti all’indirizzo del portiere Maignan in occasione di Juventus-Milan e divenuti virali via web; i continui e ignobili cori “Vesuvio lavali col fuoco” cantati alla Dacia Arena dai tifosi friulani durante Udinese-Napoli oltre ai buu di scherno verso Koulibaly, Osimhen e Anguissa. Risultato? Solo dopo la denuncia del Milan la Procura Federale ha sentito il dovere di attivarsi; un po’ scocciata però, perché dormiva.

Forse non tutti lo sanno ma la Figc invia in ogni stadio, per ogni partita, suoi ispettori col compito di segnalare, e attivarsi affinché cessino comportamenti razzisti o di discriminazione territoriale; e anche l’arbitro ha il dovere, quando ciò accade, di interrompere la partita per avvertire il pubblico che in caso di prosecuzione degli episodi di razzismo la partita verrà definitivamente sospesa. In realtà, il solo arbitro che interruppe una partita, Sampdoria-Napoli, per i cori razzisti dello stadio verso Koulibaly si chiama Gavillucci: che a fine stagione si trovò estromesso dai quadri arbitrali perché la vera direttiva, non scritta ma tacitamente e chiaramente indicata, è quella di far finta di niente e di portare a termine la partita costi quel che costi. Se non lo fai, vai a casa.

E insomma, questo è il nostro calcio, questa è la nostra giustizia sportiva. Quella che non ha mai mosso un dito davanti allo scandalo dell’esame-truffa di Suarez all’Università per Stranieri di Perugia (per la cronaca: domani scatta l’udienza preliminare con l’avvocato Turco della Juventus rinviata a giudizio come “concorrente morale e istigatrice” dell’imbroglio), quella che non vede, non sente e quindi consente i cori obbrobriosi lanciati all’indirizzo dei giocatori di colore ma che trova il tempo di aprire un’inchiesta e sanzionare (tenetevi forte) Calabria e Massara, giocatore e dirigente del Milan, e il Milan stesso, per aver prolungato il contratto del giocatore mentre lo stesso era assistito da un agente, Miguel Garcia, non in regola con l’iscrizione all’albo nel periodo gennaio-marzo 2021. Quando si dice: ridiamo per non piangere.

 

Lea la donna che spaventa la ’ndrangheta (pure da morta): in fiamme la targa a Milano

Non devo spiegare alle lettrici e ai lettori di questa rubrica che cosa sono le panchine rosse, invenzione felice e dolorosa a un tempo per ricordare ai distratti e agli smemorati la violenza sulla donna. E nemmeno devo ricordare loro la storia di Lea Garofalo, la giovane donna di Petilia Policastro che a Milano trovò morte e “sepoltura” atroce (fatta a pezzi e data alle fiamme nella campagna brianzola), colpevole di avere voluto donare alla figlia un futuro libero da assassini e narcotrafficanti.

Quel che però forse lettrici e lettori non conoscono è la storia della panchina di Lea. Una panchina rossa che le è stata dedicata in piazza Prealpi, nel municipio 8, periferia nord-ovest di Milano. L’ha voluta l’Anpi, indicando una continuità tra le vittime del nazifascismo e le vittime della mafia, tanto da inaugurarla al suono leggero di Bella ciao. Iniziativa sostenuta dalle giovani del presidio di Libera “Lea Garofalo”, alcune delle quali parteciparono ragazzine quasi una decina d’anni fa al processo da cui giunse una giustizia allora ritenuta impossibile. Andarono a tutte le udienze per stare accanto a Denise, la figlia diciannovenne che indicava nel padre il boia della mamma. Ne nacque uno dei più originali e bei movimenti civili che abbia visto il Paese in questo scorcio di secolo.

La panchina rossa, posta simbolicamente nella piazza dove sorge l’appartamento in cui Lea fu torturata e uccisa, completa quel percorso, certo scandaloso in una piazza nota per lo spaccio e storica roccaforte dei clan calabresi (e non solo).

Lo avrete già intuito. Quella panchina così intrisa di storia e di amore è diventata bersaglio fisso di atti vandalici. All’inizio venne preso di mira il cartello plastificato affisso sullo schienale e recante la dedica: “A Lea Garofalo, testimone di giustizia e vittima della ’ndrangheta”. Bruciato in marzo, venne rimesso con una nuova festa lo scorso 24 aprile, giorno del compleanno di Lea e vigilia della festa della Liberazione. Ma i “vandali” non si sono dati per vinti. E hanno ri-incendiato la targa. Che è stata tenacemente rimessa. E che l’altra notte è stata di nuovo incendiata. Una macchia di nerofumo si è distesa in verticale sulla panchina, inghiottendo la dedica. Fuoco simbolico alla targa come fu dato al suo corpo. Perché, sia chiaro, il problema per “loro” non è la panchina. La quale è per i clan e i loro scagnozzi un emblema innocuo, una di quelle “trovate” della modernità civile che si possono perfino omaggiare quando conviene purché scorrano accanto senza nuocere. Tipo una piazza 25 aprile o un viale Martin L. King. Il problema è lei, la giovane ribelle calabrese. Che lasciò il compagno a sua insaputa per difendere il futuro della figlia. Che andò dai carabinieri. Che disonorò il boss e la sua dinastia. E il cui assassinio doveva per questo restare una esclusiva cosa “di famiglia”. E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per la figlia coraggiosa e per le liceali di Milano. Per questo Lea è condannata anche dopo la morte. Per questo il suo nome di donna senza potere fa paura. Dovremmo ragionare di più su questo. L’onnipotente ’ndrangheta che sente scricchiolare potere e prestigio per la sola presenza pubblica di quelle tre lettere: Lea.

Ora sta a Milano reagire alla sfida. Anzitutto liberando, è il caso di dire, piazza Prealpi come è stato liberato il boschetto di Rogoredo. I fatti dicono che si può. E poi difendendo quella panchina come un monumento civile. Con telecamere inarrivabili per gli scagnozzi, in grado di controllare l’area. Il 3 ottobre, a elezioni passate, verrà finalmente messa una targa in metallo a cura del Municipio 8. La sfida continua. Iniziò quando il sindaco Pisapia fece costituire il comune parte civile e portò la bara di Lea sulle sue spalle. Ora deve proseguire in nome del diritto alla memoria. E della liberazione della città.