NaturaSì, anche no. Il meraviglioso mondo del biologico, tra cibi sani e complotti no-vax

 

Salutismo e teorie strampalate: “Il lattosio fa venire il cancro!”

Cara Selvaggia, ma davvero, come ho letto sui tuoi social, ti ha stupita la faccenda di NaturaSì, col presidente che si offre di pagare i tamponi per il “green pass” a tutti i dipendenti pur di fargli aggirare il vaccino? A me per nulla. Forse perché conosco quel mondo un po’ meglio di te. Non parlo nello specifico di quella catena di supermercati (che, per inciso, non vedrà più nemmeno me), ma in generale di tutto l’universo dove accanto all’ottima lattuga del coltivatore diretto trovi l’olio essenziale di citronella per prevenire il cancro. Un fitto groviglio di amore per la natura ma anche per le teorie pseudo-scientifiche da cui è difficile districarsi. Per dire, il presidente di NaturaSì è dichiaratamente un seguace delle teorie di Rudolf Steiner, cioè di uno che credeva che ci fosse un complotto mondiale guidato dalle forze del male attraverso riti esoterici. Basta andare sul sito della compagnia per leggere: “La libera Fondazione Antroposofica Rudolf Steiner, attraverso la società Ulirosa, rimane il socio di maggioranza di EcorNaturaSì”. Ma il resto del panorama del “biologico” non è molto dissimile, e lo so perché l’ho frequentato per anni. Alla ricerca di farine senza glutine (“perché il glutine è veleno!”), di latte senza lattosio (“perché il lattosio fa venire il cancro!”), sobillata da teorie strampalate che però, in chi come me non masticava scienza e medicina, trovavano terreno fertile. Mi ero convinta che il mio gruppo sanguigno richiedesse un certo tipo di alimentazione, ad esempio, e nei negozi che frequentavo c’era sempre qualche libro di quel tipo in vendita che rafforzasse le mie convinzioni. Avevo fatto amicizia con qualche altro cliente e le strampalate conversazioni sulle teorie più improbabili non erano rare, nemmeno con i dipendenti.

Io adesso sono rinsavita, col senno di poi stavo attraversando un periodo di grande debolezza per cui ero disposta a credere a tutto. Non ho mai rinunciato ad alimentarmi in maniera più sana e consapevole però non credo più che quello che mangio guarirà tutti i miei mali, per dire. Ma la vecchia me è ancora rappresentata alla perfezione da quel mondo, che non immagino cambiato. Secondo te il signor Brescacin, per tornare a NaturaSì, non ha fatto questo tipo di valutazioni prima di una mossa potenzialmente suicida come questa, se non fosse sicuro di chi fossero i suoi pesci? Una decisione simile non è altro che una conferma di quello che ti ho scritto finora: quel mondo è così.

Laura

 

Cara Laura, io ci andavo soltanto perché c’erano dei prodotti che mi piacevano. Non metto in dubbio quello che dici, ma come me tanti altri non “indottrinati” smetteranno di frequentarlo alla luce di queste posizioni senza senso. Preferisco un pollo vaccinato a un commesso non vaccinato.

 

“L’amore, come andare in moto: due posti, ma solo uno guida”

Ciao Selvaggia, ho visto la foto dello struggente telegramma con cui tua madre implorava tuo padre di non partire e mi ha scosso, ma non di emozioni positive. Mi ha riportato alla mente uno dei momenti più bui della mia vita, dove dicevo “ti prego” più spesso che “ti amo”. In quella brevissima frase, “ti prego non partire”, c’è la dichiarazione di quale fosse il rapporto di forza. E non sto parlando dei tuoi genitori, non fraintendermi, ma proprio della frase in se. Una persona parte, un’altra la supplica di non farlo. Chi prega resta appeso a un filo che solo l’altro può decidere di tagliare o no. Chi parte, invece, non ha pregato nessuno, ma è padrone del destino non solo suo, ma anche dell’altro, che invece in mano non ha niente se non una supplica. Questo è il motivo per cui sono solo da molto tempo: le relazioni sono un rapporto di potere. Non sono mai paritetiche, mai, né sul lavoro, né tra amici, figurati in amore. Talvolta lo sembrano, ma è solo apparenza. Non sono mai stato alla pari delle mia partner. O ero io a guidare, o era lei. Come le motociclette, che hanno due posti a sedere ma un solo manubrio. Non erano relazioni tossiche, anzi tutt’altro. Alcune sono state certamente infelici, ma altre erano perfettamente sane e non solo all’apparenza. A volte siamo stati entrambi innamorati, eppure uno dei due decideva quando uscire, quando vedere gli amici, quando era l’ora di andare. L’altro era quello che rispondeva “va bene”. E poi viceversa, una storia dopo.

Le dipendenze non sono altro che l’accentuazione dei tratti fisionomici tipici di tutte le storie, come i filosofi greci insegnavano che il veleno è anche la cura: sta tutto nel dosaggio. Io, alla fine, ci ho rinunciato. Mi sono stufato di portare appresso, o di esser portato, mi sono stufato di sentirmi a volte aguzzino e a volte vittima, come fossero eventi straordinari e non la natura stessa di quello che stavo vivendo. In coppia si cammina per mano, ma c’è sempre quello che tira e quello che è tirato. E si è felici non quando si trova l’equilibrio, che non esiste, ma quando si accetta lo squilibrio. Sono stato felice così, molte volte. Lo so per certo. Ma adesso non ho più alcuna voglia di pregare, o di esser pregato. Perché in ogni storia la persona che prega è una sola, non si prega mai in due.

Samuele

 

Mi secca molto dare completamente ragione ai miei lettori, per cui non scrivermi più, TI PREGO.

B. il grafomane torna cristiano e come Salvini sceglie il suo papa: Ratzinger

Tra due giorni, mercoledì 29 settembre, Silvio Berlusconi festeggerà 85 anni (auguri). La sua senescenza è come scissa in due. Da un lato, la diserzione a causa della salute (?) delle udienze giudiziarie che lo riguardano. Dall’altro un’intensa attività epistolare con i giornali, a puntellare la sua autocandidatura al Colle, che però rientra decisamente nella categoria dell’irrealtà.

In pratica, il Pregiudicato pluriottuagenario non compare mai in pubblico – anche in questa campagna elettorale – e preferisce piuttosto affidare i suoi pensierini retorici a lettere spedite ai quotidiani. L’ultima è uscita ieri sul Giornale di famiglia, ma l’oggetto di questa rubrica è la missiva apparsa sabato su Avvenire, il quotidiano della Cei. Tramontati ormai i tempi di quando la Chiesa italiana del cardinale Tarcisio Bertone tollerava la satiriasi di B. grazie alle genuflessioni penitenziali di Gianni Letta, l’anziano leader di Forza Italia si professa cristiano e liberale e rispolvera il vecchio repertorio teocon sulle radici religiose dell’Europa, sul primato dei valori non negoziabili (la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale), sulla necessità fermare l’immigrazione con una sorta di Piano Marshall per l’Africa.

Lo spunto della lettera di B. è la partecipazione del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, al recente Bureau del Ppe a Roma. In sintesi: Berlusconi si proclama un clericale di destra come Matteo Salvini e Giorgia Meloni ma non rinuncia a un’improbabile formulazione di princìpi liberali, laddove i teocon si avventurano sul sentiero strettissimo in cui si scontrano lo storicismo crociano e la dottrina della Chiesa.

Dettaglio non secondario: il Pregiudicato non cita mai papa Francesco. Pure B. allora – e sempre come la coppia sovranista Meloni & Salvini – si riconosce ancora nel pontefice emerito Benedetto XVI. Osannato appunto per il suo liberalismo cristiano: “Sono trascorsi esattamente dieci anni dal 22 settembre 2011, quando papa Benedetto XVI tenne un bellissimo discorso al Parlamento tedesco su quelli che lui stesso definì ‘i fondamenti dello Stato liberale di diritto’”. Del resto proprio Francesco ha più volte rimarcato la sua ostilità al liberalismo delle destre, europee e no. Nell’enciclica Fratelli Tutti di un anno fa, per esempio, il papa argentino oppose alle “visioni liberali individualistiche” ossessionate dal profitto e dalla riduzione dei costi del lavoro, una politica “popolare” che si prenda cura dei più deboli. Ossia una società in cui l’individuo è subordinato all’unità del popolo (il pueblo) e la giustizia sociale viene prima di tutto. In un saggio recente, lo studioso Loris Zanatta ha definito tutto questo come “populismo gesuita”.

I migranti, infine. Nella sua lettera ad Avvenire, Berlusconi attacca le “ondate incontrollate e disperate che si rovesciano sulle nostre coste, che generano solo tensioni e guerre tra poveri”. Secca e pragmatica la risposta del direttore Marco Tarquinio: “Oso solo suggerirle di contribuire a schierare il Ppe per ampi corridoi umanitari europei e, da noi, Forza Italia per flussi migratori alla luce del sole, cioè regolati, controllati e finalmente sottratti ai trafficanti di persone”.

 

Trattativa: gli insulti da bar sport che cancellano la complessità

Premesse banali: tutti i processi sono difficili perché riguardano per lo più vicende incerte prospettate dalle parti con versioni contrastanti; la valutazione del materiale raccolto è strutturalmente opinabile; gli esiti possono essere diversi nei vari gradi di giudizio, perché se questi fossero destinati semplicemente ad essere la fotocopia l’uno dell’altro non avrebbero nessuna ragione di esistere; nasce di qui la necessità della motivazione per consentire alle parti di contestarla e all’opinione pubblica di controllarne l’attendibilità e coerenza.

Queste premesse valgono anche nei processi di mafia, ma con differenze profonde a seconda del lato del “pianeta mafia” interessato. Se si tratta del lato militare o gangsteristico della mafia (quello che riguarda i boss che uccidono, estorcono o trafficano in droga) di problemi ce ne sono sempre – anche gravi – ma sono niente rispetto a quelli che comporta l’altro lato del pianeta, quello oscuro, dei rapporti segreti di collusione o connivenza con pezzi del mondo legale, il fulcro del potere mafioso. Qui i contrasti interpretativi si fanno roventi; l’accertamento della verità può diventare un sesto grado; i percorsi processuali a volte ricordano… le palline del flipper.

Prendiamo il processo Andreotti: si conclude con una sentenza che lo riconosce responsabile (reato commesso) fino al 1980, ma lo assolve per gli anni successivi. Oppure Marcello dell’Utri: condannato per concorso esterno in Cosa nostra solo fino al 1992 e non anche per gli anni seguenti. Oppure Calogero Mannino: condannato in Appello per concorso, si vede annullata la condanna dalla Cassazione, che ordina un nuovo processo stabilendo nel contempo – a partita in corso – una regola interpretativa di cui Mannino può beneficiare, diversa da quella con cui il processo era iniziato.

Oppure ancora, per venire all’oggi, il processo della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Tutti gli imputati (mafiosi, politici e ufficiali del Ros) riconosciuti come “trattativisti” dal Gip e in quanto tali condannati dalla corte d’assise di Palermo in primo grado. In appello però le condanne vengono confermate solo per i mafiosi, mentre del politico Dell’Utri si dice che non ha commesso il fatto e dei Carabinieri che il fatto non costituisce reato. Calogero Mannino, uno dei rinviati a giudizio, sceglie il giudizio abbreviato e viene assolto definitivamente nei primi due gradi di giudizio senza poter approdare in Cassazione, con una sentenza che è possibile abbia avuto un peso rilevante nel giudizio d’appello riguardante gli altri imputati. Sarà la motivazione, anche questa volta, che consentirà di valutare l’attendibilità e coerenza delle scelte operate.

Sia come sia, c’è comunque una sorta di fil rouge che sembra legare i processi di mafia ad “imputati eccellenti”, per le “singolarità” che si riscontrano rispetto agli altri processi. È possibile che ciò dipenda dalle obiettive maggiori difficoltà probatorie che si hanno quando si tratta di “relazioni esterne”, per loro stessa natura tenute quanto più possibile “riservate”, e comunque protette da ben organizzate campagne negazioniste. Brodo di coltura per un “virus” che porta a riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere legale, per poi perseguire, nelle prassi giudiziarie, solo l’ala militare dell’alleanza.

Un virus che si spera in via di estinzione, mentre è certo che sono riprese (attraverso letture superficiali e semplicistiche – a dire davvero poco – del processo “trattativa”) le aggressioni ai magistrati giudicanti che in primo grado non hanno assolto e prima ancora agli inquirenti che hanno sostenuto l’accusa. Si sprecano parole “forti”: schifezza, farsa, caccia alle streghe, crollo di accuse assurde, boiate pazzesche, teoremi totalmente inventati… Insulti di cui non val la pena discutere.

Merita invece attenzione la tesi che contesta ai magistrati di voler ricostruire gli accadimenti storici in ottica pregiudizialmente strumentale all’individuazione di responsabilità penali, così forzando le interpretazioni storiografiche. Tesi che riecheggia le strambe parole di quel procuratore generale presso la Corte di Cassazione che, nel processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della corte di Cassazione”. Come a dire che non è una novità la tendenza ad escludere la competenza dei magistrati per certi accadimenti di mafia.

La sai l’ultima?

 

Cina Si chiama “effetto Riccioli d’oro”: se il panda è troppo felice non fa l’amore

L’animale simbolo della Cina è sempre più imbolsito e meno sessualmente attivo. Le difficoltà riproduttive del panda sono note, una specie che viene raccontata – banalizziamo – come troppo pigra pure per accoppiarsi. L’ultima ricerca ci dice qualcosa in più: se il panda è troppo felice, non fa l’amore. “Non sempre un habitat perfetto risulta essere ideale per la riproduzione dei panda giganti – scrive La Zampa.it citando uno studio di Conservation Biology -. Il flusso genetico degli animali è maggiore quando l’80 per cento di un’area è considerata un ambiente ideale per i panda, ma questa influenza positiva sembra vada rapidamente a scendere quando quella percentuale cresce ancora”. È “l’effetto Riccioli d’oro”: “Prende il nome dalla fiaba per bambini in cui Riccioli d’oro entra nella casa di tre orsi e assaggia tre diverse ciotole di zuppa e scopre di preferire quella che non è né troppo calda né troppo fredda, ma ha la giusta temperatura”. Per sedurre un panda non bisogna strafare.

 

Canada Clamoroso al parco di Lake Louise: una capra “con le corna a sciabola” ha ammazzato un orso grizzly

Una versione più violenta del paradosso “uomo morde cane” arriva dal Canada e dalle pagine del Guardian: “Capra uccide orso”. L’improbabile e brutale epilogo è successo sulle montagne di Lake Louise: “I funzionari del parco affermano che una capra di montagna non solo si è difesa dal diventare un pasto, ma è stata in grado di uccidere l’orso con le sue corna ‘a forma di sciabola’ – scrive il Guardian -. Parks Canada ha dichiarato che l’autopsia forense di una femmina di orso grizzly suggerisce che sia stata uccisa da una capra, dopo che le corna hanno trafitto le ascelle e il collo dell’orso”. Com’è stato possibile? La spiegazione è di David Laskin, ecologista della fauna selvatica del parco canadese: “Quando i grizzly attaccano, tendono a concentrarsi sulla testa, sulla nuca e sulle spalle della preda. Questo attacco di solito viene dall’alto”. In questo caso l’atterraggio del povero orso non è stato morbido”

 

Bologna La sardina Santori denuncia il traffico ma guida contromano nella corsia degli autobus

In questa settimana tutta animalesca, non poteva mancare la sardina. Mattia Santori – sia detto con leggerezza – ha attraversato con strabiliante velocità, nella sua precoce carriera politica, le categorie di Arbasino: da giovane promessa a solito stronzo (senza passare per venerato maestro). Santori è candidato nelle liste Pd di Bologna e fa campagna elettorale con giovanile sagacia sui social: “Nel suo mirino è finita via Saragozza bloccata dal traffico per il match del Bologna”, scrive il Corriere locale. “Questo è quello che succede quando il calendario delle partite lo decide un’emittente televisiva privata come Dazn, che guarda ai suoi interessi e non considera che spesso gli stadi in Italia sono situati in quartieri centrali e residenziali”, ha scritto Santori, lamentandosi per le auto imbottigliate. Solo che la sua preziosa testimonianza l’ha realizzata girando un video col telefonino mentre guidava lo scooter, contromano nella corsia preferenziale riservata ai bus pubblici.

 

Rovigo Sembra Roma, ma è il Veneto: “Segnaletica orizzontale disegnata sopra la carcassa di una nutria”

No, non è Roma: è Rovigo. Un lavoro pubblico di qualità capitolina nella provincia veneta: gli operai che hanno ridipinto le strisce della segnaletica occidentali non si sono preoccupati di disegnare una delle linee che delimitano l’asfalto sopra la carcassa di una nutria morta. Il risultato è poco artistico, una specie di Picasso pulp. Lo racconta il sito Rovigo in diretta: “Passano sulla carcassa di una nutria mentre dipingono le strisce bianche. È successo questa mattina, nel rifacimento delle strisce bianche della segnaletica orizzontale lungo la strada regionale 88 in direzione Lendinara, all’altezza del distributore dismesso. La carcassa del grosso roditore era proprio sul ciglio della strada e gli operai che in questi giorni stanno realizzando la segnaletica orizzontale, hanno ben pensato di passarci sopra con il bianco delle strisce, senza avere la ‘decenza’ di spostare la carcassa con un badile”.

 

Il video virale Un gatto crolla in testa a un uomo, che poi viene soccorso da un cane con le scarpe

Paura e delirio ad Harbin, in Cina. In pochi secondi allucinanti succede succede di tutto: un gatto precipita da un palazzo, colpisce in testa un uomo che perde i sensi, ma c’è il suo cane a prenderne le difese. Il quale cane, per qualche misterioso motivo, porta delle specie di scarpette alle zampe anteriori, con cui inizia il goffo inseguimento del felino. Ricapitolando: un gatto cade in testa a un uomo, un cane con le scarpe lo difende. È ancora La Zampa.it a raccontare la vicenda: “Sembra la scena di un film o di un cartone animato e invece è tutto vero: un gatto precipita nel vuoto colpendo un uomo in testa, che subito dopo perde i sensi e cade a terra, ma viene prontamente difeso da un cane con le scarpe. Il video è già diventato virale sui social, e ritrae i pochi minuti in cui tutto questo è avvenuto. Il proprietario quel giorno aveva messo al suo cane delle bizzarre scarpe da passeggio, e questi strampalati accessori rendono la scena ancora più surreale”.

 

Modena Un tasso ingordo finisce in “coma etilico” per aver mangiato troppi fichi: salvato per miracolo

Nessuno può resistere ai fichi settembrini. Sono l’unico profumo dolce alla fine dell’estate. Nelle campagne di Sestola, Appennino modenese, un tasso goloso quasi ci lasciava la pelle. È stato trovato privo di sensi per una quasi letale indigestione di fichi. Ma tutto è bene quel che finisce bene, scrive di nuovo La Zampa: “Lo hanno trovato steso a terra, a pancia all’aria. Praticamente ubriaco per l’abbondante quantità di fichi che ha mangiato. Per sua fortuna una persona del posto, passando per il campo, ha notato l’animale in difficoltà. In un primo momento ha pensato fosse morto, poi ha notato che si muoveva, anche se poco. L’uomo ha chiamato subito i volontari del centro fauna selvatica Il Pettirosso: il tasso è risultato essere in una sorta di ‘coma etilico’ per eccesso di zuccheri derivati dalla troppa frutta ingerita. L’animale è stato portato alla struttura per verificare che l’abbuffata non avesse provocato qualche danno. Smaltita l’indigestione, se non avrà bisogno di terapie, tornerà subito in libertà”.

 

Torino Il cane abbaia, i vicini si lamentano e la padrona li manda all’ospedale con lo spray al peperoncino

Ecco il classico caso, usando la formula retorica più trita, in cui la vera bestia è il padrone. Succede in provincia di Torino: il cane abbaia, i vicini di casa s’incazzano e si lamentano con la proprietaria, la quale con eleganza e senso della misura risponde ai contestatori spruzzandogli lo spray al peperoncino negli occhi. In due finiscono all’ospedale e alla fine mezzo condominio si ritrova con gli occhi arrossati. Lo racconta Repubblica: “Il cane, un pastore tedesco, abbaia di continuo e i vicini su lamentano spesso – scrive Repubblica. – È successo anche mercoledi sera nel condominio di strada degli Occhini, a Carmagnola. La donna, 28 anni ha risposto ai condomini spruzzandogli addosso spray al peperoncino antiaggressione. La donna si è poi giustificata dicendo di essersi sentita aggredita dai vicini. La lite era cominciata in particolare con un condomino ma la sostanza urticante si è diffusa nelle scale del palazzo e altri inquilini hanno manifestato problemi respiratori anche se lievi”.

Telelavoro, i soliti pregiudizi rischiano di indebolire la P.A.

Aun anno e mezzo dall’inizio della pandemia, si è tornati a discutere di telelavoro e smart working. Renato Brunetta ha definito lo smart working nella P.A. come un “lavoro a domicilio all’italiana” e ha fissato al 15% la soglia di dipendenti che possono usufruirne. Sono tre le ragioni del ministro della Funzione pubblica a sostegno del rientro in presenza dei 3,2 milioni di statali entro il 15 ottobre: l’assenza di un contratto collettivo che regoli il lavoro da remoto, l’inadeguatezza dei sistemi informatici di supporto e la scarsa efficienza della forza lavoro, data anche l’assenza, a suo dire, di sistemi di monitoraggio.

Per quanto riguarda le prime due, non è chiaro perché non si adoperi per colmare le lacune. Sul terzo punto, invece, è evidente la vena demagogica che da sempre caratterizza le polemiche del ministro contro gli statali, capri espiatori dei problemi strutturali del comparto. Il punto è che il lavoro da remoto è un fenomeno che non può essere ridotto né ad assenteismo camuffato né a utopia realizzata. È un prisma che permette di visualizzare alcune delle problematiche del lavoro contemporaneo: dalle disuguaglianze di genere a quelle fra professioni, dalla diffusione di forme di controllo digitale alla riaffermazione del controllo diretto del manager sul dipendente. Il passaggio in massa al telelavoro ha costituito un esperimento su larga scala durante la prima fase della pandemia. Benché quasi un terzo della forza lavoro italiana sia impiegata in mansioni che possono essere interamente o parzialmente svolte da remoto – secondo uno studio di Cetrulo, Guarascio e Virgillito – recenti dati Eurostat mostrano che nel 2020 solo un lavoratore su nove ha lavorato da casa. Le ragioni del mancato telelavoro vanno ricercate non solo nella sua fattibilità tecnica, ma soprattutto nel modo in cui i rapporti di lavoro sono organizzati.

Da una ricerca su campione variegato di dipendenti in telelavoro (pubblico e privato, uomini e donne, con qualifiche alte e basse, stabili e precari, con o senza figli o anziani di cui occuparsi) svolta nel 2020 in Francia e in Italia emergono diversi spunti. Contrariamente a chi vede i tele-lavoratori come soggetti passivi, la ricerca ha messo in luce le capacità di adattamento dei dipendenti, che spesso hanno saputo cooperare e ripensare il proprio lavoro nei momenti più difficili dell’emergenza, anche laddove i superiori non sapevano come procedere. L’esperienza da remoto mostra anche il lato oscuro del lavoro “ordinario”, soprattutto per i lavoratori con mansioni più subordinate (come i call center), che hanno molto beneficiato della possibilità di lavorare da casa. Il controllo diretto da parte dei superiori, invece, dopo un’iniziale fase di assestamento, è stato presto ripristinato da remoto, anche con l’implementazione di appositi (e invasivi) dispositivi digitali. Sono emerse anche diverse problematiche. In alcuni casi erano contingenti la situazione emergenziale, come la presenza di figli piccoli in casa e la carenza di cure domiciliari per gli anziani e, per ragioni strutturali, queste difficoltà sono scaricate specialmente sulle donne. Altre sembrano invece intrinseche al lavoro da remoto, come la difficoltà a staccare e la reperibilità permanente; o il senso di isolamento dai centri decisionali dell’impresa/amministrazione.

Si tratta, però, di problematiche che possono essere affrontate con la contrattazione e un’organizzazione meno oppressiva. L’esperienza del telelavoro presenta quindi dei chiaroscuri, ne sono consapevoli per primi i lavoratori intervistati, che però desidererebbero continuare a farlo per una parte della settimana lavorativa. Questa possibilità è in discussione nel privato, dove le aziende hanno introdotto forme allargate di smartworking, sia unilateralmente (come Luxottica o Unicredit), che con accordi sindacali (Tim o Vodafone). Non si tratta di innovazioni benefiche di per sé, ma segnalano una tendenza che invece nella P.A. non è recepita e dove sopravvivono vecchi refrain demagogici contro i lavoratori. Il pericolo è che le resistenze verso lo smart working nel settore pubblico creino un divario di condizioni di lavoro con il privato, rischiando di allontanare sempre più i giovani qualificati dal pubblico impiego.

Se andremo avanti o indietro sul telelavoro dipenderà dalla scelta di affrontare le disuguaglianze (di genere, professionali, contrattuali) e altre questioni strutturali, come far funzionare una P.A. con un deficit strutturale di oltre 600.000 lavoratori e un’età media di oltre 55 anni (la più altra d’Europa), che il telelavoro può amplificare o attenuare, ma non risolvere da solo.

*Le opinioni espresse sono personali e non rispecchiano quelle delle istituzioni di appartenenza.

Trading e imbrogli: la mattanza online fa pure lo sponsor

Dalle opzioni binarie, strumenti finanziari poi vietati dalla Ue, ai contratti per differenza su azioni, cambi, materie prime e criptovalute: la mattanza dei risparmiatori nella tonnara del trading online non si ferma. Le offerte di investimenti facili sono sul web, social e con telefonate mirate. Allettati da prospettive di guadagni irreali, i risparmiatori credono di poter smettere quando vogliono ma una volta aggianciati vengono spinti a scommettere sempre più. Ne escono solo quando sono stati spennati. Le denunce sono una frazione minima del fenomeno, ma c’è chi stima centinaia di migliaia di vittime di queste truffe. Le autorità fanno quello che possono per arrestare la mattanza: da luglio 2019 a oggi la Consob, l’Authority che vigila su mercati e investimenti finanziari, ha oscurato 505 siti con offerte non autorizzate, ma è cercare di svuotare il mare con un secchiello. Lo dimostra l’ultimo caso, Depaho.

Creataa Nicosia con capitali israeliani e autorizzata da Cysec, l’ente di controllo cipriota, a operare in modo limitato dal 27 dicembre 2011 – ottenendo così il passaporto comunitario che le ha consentito di registrarsi in tutta la Ue -, attraverso i siti Fxgm e Gtcm Depaho propone investimenti sul Forex, il mercato dei cambi, con i contratti per differenza (Cfd). Si tratta di strumenti con i quali un venditore e un acquirente scommettono sul valore a una certa data di un’attività sottostante: se il valore aumenta l’acquirente guadagna, se cala vince il venditore. L’Autorità polacca Knf già ad aprile 2019 aveva inserito Depaho tra le imprese che offrivano servizi in modo irregolare, ma solo il 9 luglio Cysec l’ha sospesa con la sanzione di 270mila euro, dandole come termine fine settembre per mettersi in regola per aver offerto servizi di investimento senza “informazioni trasparenti, eque e oneste”.

F.O. ha raccontato così al suo consulente Giuseppe D’Orta l’odissea con Depaho: “A maggio 2016, adescata da un banner cui seguiva una telefonata, ho versato il primo deposito di 500 euro su Fxgm. Ho iniziato a operare a luglio, ‘aiutata’ dagli account manager I. D. e G. S., che mi davano informazioni e suggerimenti. Le prime operazioni erano piccole, poi G. S. mi ha invitato a ‘scommettere’ 2mila euro rassicurandomi che in caso di perdita avrei potuto prelevare comunque i versamenti e maturare dei bonus. L’operazione andò male. A metà luglio G. S. mi indusse a puntare sul petrolio: persi 7.500 euro. Per scongiurare la chiusura del conto dovetti versare nuovi soldi. Per tutta l’estate operai freneticamente e Fxgm mi offrì il ‘Pacchetto Vip’ dedicato ai depositi oltre 100mila euro, ma non mi dissero che per ottenere il rimborso delle commissioni serviva un numero minimo di operazioni mensili. Mi affidai ai consigli di I. D. ma in pochi giorni persi oltre 60mila euro. G. S. andò in vacanza, I. D. era irreperibile. Sola in balìa di enormi perdite, chiesi aiuto a Fxgm ma fui invitata a versare altro denaro pena la chiusura del conto. Intanto la perdita cresceva sempre più. Feci debiti con un’amica. Allora ricomparve I. D.: seguendo i suoi consigli puntai sui cambi, ma a novembre persi tutto e mi furono chiuse le operazioni. Fxgm continuava a chiedermi nuovi versamenti, ma non avevo più soldi”. Nessuno sa se le “operazioni” fossero reali o solo simulate sui software scaricati. A invogliare a investire non ci sono solo banner e chiamate da call center quasi sempre aperti in Paesi dell’Est Europa, ma spesso anche pubblicità e sponsorizzazioni sportive. Per violazioni delle norme sui Cfd, a dicembre 2019 Consob sospese un’altra società cipriota, Rodeler Ltd, che gestiva ben quattro portali (24option, 24fx, grandoption e quickoption) e dal 2017 era tra gli sponsor della Juventus.

Contro queste truffe, in base alla direttiva europea Mifid 2, la Consob ha avviato una campagna di educazione finanziaria sul suo sito, contrasta gli operatori, i servizi di investimento non autorizzati e le offerte di prodotti senza prospetto. Inoltre ne oscura i siti, li sanziona e segnala alla magistratura. Le segnalazioni delle vittime, anche se cresciute per il boom del trading scattato con la pandemia, sono solo la punta dell’iceberg. Ricostruire il giro dei soldi versati è complicato e ottenerne il recupero è quasi impossibile, anche quando interviene l’autorità giudiziaria. Il problema è che un conto è chiudere un sito web o una chat, altro invece è intervenire sui social. Servirebbe un coordinamento internazionale maggiore con gli inquirenti e le forze di polizia, non solo con le autorità di vigilanza. Alcune delle principali società di social network sono state contattate, ma di fatto le loro filiali estere non collaborano. Intanto la tonnara dei risparmiatori continua.

Quirinale, Torino, Caserta: il feudo d’arte del Touring

Qualche giorno fa, con un comunicato stampa, il Touring Club Italiano ha rilanciato pubblicamente il progetto “Aperti per voi”: iniziato nel 2005, mira “a garantire tutto l’anno, grazie alla preziosa collaborazione di migliaia di soci volontari, l’accessibilità di siti culturali altrimenti chiusi al pubblico”, spiega l’associazione che conta 2.200 soci volontari, 82 luoghi coinvolti, distribuiti in 33 città di 13 regioni italiane. E poco male se alcuni di questi luoghi “aperti per voi”, come San Maurizio al Monastero Maggiore a Milano, per lunghi mesi tra 2020 e 2021 non lo siano stati affatto, a causa della – legittima – poca disponibilità di anziani volontari a stare a contatto con il pubblico. Oggi l’associazione, chiede, con il sostegno della Rai, un sms utile a “restituire a cittadini e turisti luoghi altrimenti destinati a essere dimenticati”.

In realtà si tratta spesso di luoghi ben lungi dall’essere dimenticati, dai Giardini Reali di Torino a Palazzo Ducale a Mantova, dalla Reggia di Caserta al Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Il più clamoroso in tal senso è Palazzo del Quirinale, le cui visite sono gestite in via esclusiva dal TCI dal 2016, in collaborazione con tirocinanti forniti dalle università romane, per decisione della Presidenza della Repubblica. Come hanno spiegato qualche tempo fa al Fatto dal Quirinale, la decisione era maturata per porre un freno agli affari delle guide turistiche, soprattutto abusive, che vendevano visite al Colle in modo poco trasparente: ma le più forti proteste, da allora, sono state portate avanti dalle guide abilitate di Roma e dall’associazione AGTA, a cui di colpo era stato impedito il lavoro nel Palazzo. L’iniziativa “Aperti per voi”, infatti, si inserisce in quel pacchetto di scelte del Touring Club Italiano utili a diversificare le fonti di finanziamento, in seguito alla crisi dell’editoria legata all’avvento di internet: spesso vengono scelti luoghi noti e inseriti nei crescenti flussi turistici, dunque, per raccogliere offerte. Ma non solo: in questi quindici anni sono state stipulate dalle amministrazioni pubbliche decine di convenzioni onerose con il Touring, che promette di fornire volontari in cambio di un contributo in denaro. È un fatto poco noto agli stessi soci dell’associazione: nei bilanci l’esistenza di convenzioni onerose non è mai sottolineata. Eppure è strutturale. Nel solo 2020, con servizi e numeri turistici ridotti, il Comune di Milano ha versato al TCI 70 mila euro, il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica 35 mila euro, il Polo Museale del Lazio 8 mila euro, solo per restare all’iniziativa “Aperti per voi”. Centinaia di migliaia di euro sono state versate a sostegno di altre attività. Nel caso delle “bandiere arancioni”, certificati d’eccellenza forniti dal TCI alle località turistiche, i Comuni hanno versato in totale 479 mila euro. Sono numeri piccoli, in un bilancio che nel 2019 contava 24 milioni di euro di ricavi, ma non pubblicizzati neppure all’interno dell’associazione.

Roberto Cena, socio Touring dal 1973 al 2020, ha sollevato pubblicamente il problema. Resosi conto dell’esistenza di una convenzione da un centinaio di migliaia di euro l’anno per il Vittoriano di cui i soci erano all’oscuro, alla fine del 2018 ha chiesto spiegazioni alla dirigenza nazionale, scontrandosi con un muro. “La dirigenza milanese – spiega Cena – alla fine del 2019 mi ha spiegato che non ritiene opportuno diffondere a tutti i volontari le convenzioni in essere, il loro contenuto ed i loro termini economici”. Data l’assenza di collaborazione, nel gennaio 2020 si è rivolto all’associazione di lavoratori del settore Mi Riconosci che ha dato notizia dell’esistenza di queste convenzioni nel suo blog. La chiarezza a riguardo arriva solo oggi. Rispondendo al Fatto, il TCI spiega come siano 26, su 80 luoghi coinvolti, le convenzioni onerose in essere: 16 con enti pubblici per €104mila euro totali e 10 con enti privati per €22mila totali. Dal Touring sottolineano anche che i costi di gestione del progetto “Aperti per Voi” siano stati nel 2020 di circa 370mila euro, più del triplo dei contributi ottenuti da convenzione. Il progetto non conosce interruzioni: nel marzo 2021 il Comune di Milano ha rinnovato, con un bando rivolto ad associazioni no-profit, la stretta collaborazione onerosa con il TCI. Per aprire sei luoghi culturali del Comune, saranno messi sul piatto 236 mila euro in tre anni per rimborsi spese dell’associazione.

La gestione del Touring certo non è in mano a dirigenti di primo pelo: il presidente Franco Iseppi è stato un dirigente RAI di lungo corso mentre il direttore generale è Giulio Lattanzi, già amministratore delegato di RCS media. Nel consiglio direttivo siedono invece nomi noti dell’establishment milanese e nazionale. L’associazione riesce a proporsi come soluzione di un problema (la carenza di personale disponibile per aprire i luoghi al pubblico) in cambio del versamento di una cifra che per un’amministrazione è risibile, ottenendo legittimità e visibilità: ma il rischio di comportarsi come agenzia interinale a basso costo de facto appare evidente.

Dal trust britannico ad AirBnb. Il Fai affitta le dimore storiche

Chissà se nel 1983, quando gli eredi della famiglia Doria Pamphilj donarono l’intero complesso abbaziale di San Fruttuoso, ormai residenza nobiliare, al Fondo Ambiente Italiano (Fai), avrebbero pensato che trent’anni dopo sarebbe stato disponibile in affitto su AirBnB in modalità “self-catering” (sarebbe a dire, cucina propria) per 328 euro€ a notte. Difficile dirlo, dato che al tempo il Fai, fondazione nata nel 1975 sul modello del National Trust inglese, non si proponeva come affittacamere, ma solo per restaurare e aprire al pubblico, abbiente o meno, luoghi e siti storici a rischio abbandono, con finalità educativo-museali.

Ma i tempi cambiano, la crisi del turismo globale mette in difficoltà di bilanci di chiunque lavori con la cultura, e il Fondo Ambiente Italiano non fa eccezione. Così dal 21 settembre a mezzo stampa – ma, curiosamente, senza comunicazione nel proprio sito – sappiamo che sarà possibile dormire nei beni del Fai, prenotando attraverso la piattaforma AirBnB. Non solo l’abbazia di San Fruttuoso, ma anche una mansarda in una villa rinascimentale al centro dei Colli Euganei; un monastero medievale, divenuto residenza nobiliare, a Tivoli; un lussuoso appartamento nel centro di Firenze, già residenza di poeti inglesi.

Nonostante il portale di AirBnB ne parli come di beni FAI, la realtà è più complessa. Solo due di questi quattro sono immobili di proprietà del FAI, arrivati alla fondazione attraverso donazioni. Un terzo è gestito dal Fai per conto dei proprietari, un quarto è gestito da altri: da “The Landmark Trust Italia”, per conto di un college inglese, proprietario dei locali. In effetti dagli annunci posti su AirBnB, emerge che non è il Fai ad affittare, ma The Landmark Trust: un fondo britannico specializzato nell’acquisto, restauro e messa a nuovo come strutture ricettive di immobili storici. Il Fai mette i locali, in due casi, negli altri mette solo il marchio di qualità, in uno scambio reciproco con un trust straniero ben poco noto nel nostro Paese. L’azione del trust è infatti prettamente di taglio britannico, dove le leggi, maggiormente permissive, rendono più semplice la ristrutturazione e i cambi d’uso dei beni culturali. In Italia il Codice dei Beni Culturali spiega, all’articolo 20, che “i beni culturali non possono essere danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico”: in breve, per trasformare un luogo storico in albergo servono permessi non sempre semplici da ottenere. Forse per questo The Landmark Trust, che esiste dal 1965, in Italia ha acquistato e rimesso a nuovo una sola villa, in provincia di Vicenza, negli anni 80. Ora però nel suo sito elenca 5 proprietà nel Belpaese, e di tutto rispetto: peccato che due di quelle cinque siano proprio i beni Fai citati sopra, ottenuti dal Fondo Ambiente con la promessa implicita di farne altro, non alberghi e appartamenti in affitto. Landmark Trust spiega al Fatto che l’accordo con AirBnB è una scelta del Fai, e che la collaborazione tra i due enti si struttura come uno scambio di competenze e reti: nel caso dell’affitto di beni Fai, la divisione dei proventi è 50/50 (negli altri casi gli introiti sono per il trust britannico). Tutti fondi che vengono investiti nella gestione, nel restauro e nell’acquisto di nuovi immobili storici.

Chiaro il vantaggio per il trust britannico, che ottiene la cogestione di immobili di pregio senza acquisti, ma anche per il Fai, che può contare su un’entrata in più. Meno chiaro il perché nei portali ci sia tanta confusione tra le proprietà dell’uno e dell’altro ente. La collaborazione è attiva dal 2013, in forma di partenariato, seppur fino a giovedì e all’annuncio della collaborazione con AirBnB avesse ottenuto poca visibilità. “La collaborazione si basa su una complementarietà che ci permette uno scambio proficuo e di successo” spiegava la portavoce del trust nel 2018, quando aprivano al pubblico le case vacanza all’interno dei beni Fai. Il tutto pensato per un pubblico estero, soprattutto britannico, abbiente: anche nelle (poche) pagine in italiano del sito di The Landmark Trust, i prezzi sono indicati in sterline. Ospiti poco invasivi, ma anche troppo pochi: come spiegano fonti Fai al Fatto, la scarsa affluenza di pubblico conseguente la crisi del turismo ha portato la Fondazione a considerare anche Airbnb per aumentare le visite. Una svolta di cui in pubblico si è parlato poco.

Interrogati sul tema del coinvolgimento dei soci nella scelta di entrare nel mercato delle case vacanze, dal Fai fanno sapere che “gli iscritti sono stati più volte invitati a godere di questa ulteriore esperienza” offerti nei due beni coinvolti “con generale e incondizionato apprezzamento”.

Peccato ciò accadesse prima del coinvolgimento della piattaforma californiana, sotto pressione in tutta Europa per la facilità con cui permette di eludere le tassazioni nazionali e facilita la messa in affitto di immobili senza tutti i regolari permessi, piattaforma diventata negli anni il simbolo di un turismo di massa che ha contribuito a “trasformare le principali città del mondo in parchi a tema per turisti e resort per ricchi”, usando le parole di Sarah Gainsforth, autrice di AirBnB città merce (Deriveapprodi 2020).

Se il Fondo Ambiente Italiano punta a quel genere di turismo – ricco, elitario, ma pur sempre di massa – per far fronte alla crisi economica, è probabile che incontrerà diversi problemi sulla sua strada. A partire dalla necessità di giustificare pubblicamente una collaborazione che appare ben poco in linea con la tutela del patrimonio culturale diffuso.

Il nuovo corso con il premier miliardario

Il regno del Marocco ha voltato pagina dopo 10 anni. Il re Mohammed VI ha nominato il miliardario Aziz Akhanouch premier all’inizio di questo mese dopo che il suo partito si è classificato primo alle elezioni legislative, ottenendo 102 dei 395 seggi nella camera bassa del Parlamento. Concluse le consultazioni Akhanouch ha annunciato che il prossimo governo del Paese sarà formato da una coalizione tripartita.

La coalizione comprende il Partito Liberale del Raduno Nazionale degli Indipendenti di Akhanouch, o RNI, il Partito per l’Autenticità e la Modernità (PAM) e il conservatore Istiqlal (IP). Fondato nel 2008 da Fouad Ali El Hima, amico personale del re e uno dei suoi stretti consiglieri, il PAM non ha mai fatto parte di un governo. Il partito Istiqlal è il partito più antico del Marocco e ha partecipato a diversi governi da quando il regno ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1956. I tre partiti insieme hanno ottenuto 270 seggi alla Camera dei Rappresentanti, dando al governo di coalizione una comoda maggioranza per approvare le leggi.

Ex ministro dell’agricoltura, Akhanouch è uno degli uomini più ricchi del Marocco. Sostituisce il primo ministro Saad Eddine El Othmani, il cui Partito islamista per la giustizia e lo sviluppo (PJD) ha subito una bruciante sconfitta alle elezioni dell’8 settembre. Il partito, al potere dal 2011, si è a malapena assicurato 12 seggi parlamentari, un crollo rispetto ai 125 delle elezioni del 2016.

La leadership del PJD si è dimessa in massa dopo le elezioni di questo mese, nessuno poteva immaginare una disfatta così clamorosa.

Fin dal 2011 – cavalcando le proteste che dilagavano per le “primavere arabe” – il PJD nelle due tornate elettorali di questi anni aveva sempre visto crescere suoi seggi. Ma nessuna delle promesse fatte dal PJD è stata mantenuta. Aveva promesso di sollevare più marocchini dalla povertà, migliorare l’istruzione pubblica e la salute, ma non ha fatto nulla di tutto ciò. Al contrario, il divario tra ricchi e poveri si è semplicemente allargato.

 

Palestinesi, stop a rivendicazioni meglio i soldi che una nazione

L’Autorità palestinese concederà a Joe Biden e a Naftali Bennett ciò che ha sempre rifiutato a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: di abbandonare cioè il progetto di Stato nazionale in cambio di promesse di uno sviluppo economico? In effetti non si è parlato mai così poco della creazione di uno Stato palestinese e della fine dell’occupazione, obiettivi storici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), come da quando Biden è alla Casa Bianca e Naftali Bennett è primo ministro di Israele. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità, sembra pronto a cambiare strategia ora che si prospettano dei piani di sviluppo economico per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

I palestinesi sono sempre più isolati. Dalle rivolte arabe, poi con la guerra civile in Siria, il conflitto in Yemen, la destabilizzazione dell’Iraq, le guerre contro Al-Qaeda prima e l’Isis poi, le tensioni tra l’Iran e il suo vicini, la questione della Palestina è stata oscurata da crisi più spettacolari e urgenti. Come era successo negli anni 60, prima che Yasser Arafat prendesse il controllo dell’Olp nel 1969, i dirigenti attuali degli Stati Arabi e del Golfo hanno preso in mano la questione palestinese, senza consultare i diretti interessati. All’incontro del Cairo di gennaio, per rilanciare i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, in presenza dei ministri degli Esteri egiziano, giordano, francese e tedesco, nessun rappresentante palestinese era stato invitato. Inoltre, dagli accordi conclusi tra Israele e Sudan, Marocco, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, su iniziativa di Trump, e sui quali Biden non è mai tornato, lo Stato ebraico appartiene ormai al blocco degli alleati locali degli Stati Uniti contro l’Iran. Nel suo primo incontro col nuovo premier israeliano, Biden si è limitato a chiedere a Bennett di agevolare la vita dei palestinesi, dicendosi pronto a contribuire finanziariamente. Malgrado la presenza nel governo di Bennett di personalità del centro-sinistra, della sinistra sionista e anche di un ministro islamista, le radici ideologiche del nuovo potere israeliano non sono diverse da quello precedente di Netanyahu. L’influenza della destra nazionalista e religiosa e dei coloni resta dominante. Bennett è ostile quanto il suo predecessore alla creazione di uno Stato palestinese. La continuità è confermata dai dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA): in Cisgiordania, 57 palestinesi, tra cui 12 bambini, sono stati uccisi dall’esercito israeliano dall’inizio dell’anno, e 31 edifici di proprietà di palestinesi sono stati demoliti a Gerusalemme Est. Questo porta il totale degli edifici palestinesi distrutti da gennaio a più di 650. In nove mesi, le Nazioni Unite hanno anche registrato più di 300 attacchi di coloni contro palestinesi. Una differenza tra il governo di Bennett e quello di Netanyahu però c’è. Influenzato da un suo consigliere, il filosofo Micah Goodman, sembra che Bennett abbia deciso di impegnarsi a “ridurre l’intensità del conflitto con i palestinesi piuttosto che di risolverlo”. Non si tratta di porre fine all’occupazione. Goodman, che risiede lui stesso in una colonia, Kfar Adumim, spiega, in un’intervista a Haaretz, che “la maggior parte degli israeliani, anche di destra, non vuole dominare i palestinesi, ma teme che un ritiro israeliano dai territori occupati permetta ai palestinesi di minacciarli”. Per risolvere questo problema, Goodman consiglia di combinare “incentivi economici” nei territori occupati a meccanismi di ”autogoverno” palestinese. Si ipotizza, in particolare, la creazione di “corridoi” per collegare i diversi territori e che permettano l’accesso a un posto di frontiera con la Giordania. “In questo modo – spiega Goodman – i palestinesi avrebbero la sensazione di autogestirsi, ma non sarebbero in grado di minacciare Israele”.

È alla luce di questa strategia di “riduzione del conflitto” che vanno interpretate alcune “misure” sorprendenti avanzate da Bennett in favore dei palestinesi: un prestito di 156 milioni di dollari, a titolo di anticipo sulle tasse doganali raccolte da Israele, la regolarizzazione di migliaia di palestinesi che vivono illegalmente in Cisgiordania, il rilascio di 15.000 permessi di lavoro, mille permessi di costruzione in Cisgiordania in “Zona C” e 5.000 permessi per i commercianti palestinesi per lavorare in Israele. A Gaza, governata dal movimento islamista Hamas, dovrebbero essere ripristinate le linee elettriche e la distribuzione del gas. Dovrebbe inoltre essere costruito un impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare e, a termine, un nuovo collegamento con la Cisgiordania. In cambio, le autorità palestinesi, compreso dunque Hamas, si devono impegnare a mantenere una “calma di lunga durata”. Ciò significa, per Hamas smettere di lanciare razzi su Israele e per l’Autorità di Ramallah accettare l’occupazione e rinunciare alla sua lotta storica. Non sappiamo cosa ne pensi davvero Mahmoud Abbas. “Perché non approfittare delle buone disposizioni degli israeliani, sostenuti da Washington, per risollevare la nostra economia?”, avrebbe detto uno dei suoi consiglieri. “Questa rassegnazione è spregevole – osserva un docente universitario di Ramallah, ex consigliere di Yasser Arafat -. Perché toccherebbe a noi, che viviamo sotto occupazione, accettare delle misure per rassicurare l’occupante?”. Come ha fatto l’Autorità palestinese ad arrivare a questo punto? Forse perché la sua situazione politica non è mai stata così disastrosa. Alla testa dell’Autorità c’è un uomo di 86 anni, dalla salute precaria e senza più alcuna legittimità democratica. Giovani e intellettuali lo denunciano nelle strade, al prezzo di una repressione degna delle peggiori dittature. Alla fine di agosto, 30 attivisti sono stati arrestati in 48 ore per aver manifestato contro il regime. A Hebron, due mesi prima, è morto un dissidente di 40 anni, Nizar Banat, padre di cinque figli, colpevole di aver “denunciato sui social network la corruzione del regime”. Eletto nel 2005, per un mandato di quattro anni, Mahmoud Abbas non ha mai lasciato il potere.

Le divisioni interne agli stessi palestinesi, tra Fatah a Ramallah e Hamas a Gaza, non hanno mai permesso di organizzare elezioni credibili. Annullando il voto dello scorso luglio, per timore di essere battuto dal candidato di Hamas, Mahmoud Abbas ha distrutto l’ultima occasione di una riconciliazione inter-palestinese.

È dunque per tentare di risanare la loro situazione politica, rivendicando i meriti di un eventuale miglioramento economico, alimentato dai dollari israeliani e statunitensi, che i due più stretti consiglieri di Mahmoud Abbas – e possibili successori del presidente palestinese – hanno scommesso sulla “strategia Goodman”? Hussein al-Sheikh, 61 anni, è responsabile dal 2007 degli “Affari Civili” dell’Autorità, ovvero dei rapporti con il governo israeliano. Majed Faraj, 58 anni, capo dei servizi segreti dell’Autorità dal 2007, è membro della delegazione che gestisce i negoziati di riconciliazione con Hamas. Sembra che sia Faraj che al-Sheikh svolgano un ruolo molto attivo nella politica di “riduzione del conflitto” adottata da Bennett e accettata, almeno tacitamente, da Mahmoud Abbas. Come se i futuri dirigenti dell’Autorità, che ancora non si rivendicano tali, fossero convinti che uno Stato palestinese non potrà mai esistere, così come non esisterà mai uno Stato democratico binazionale, e che, allo stesso tempo, date le tensioni geopolitiche regionali e la posizione statunitense, anche l’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi, cioè di una nuova Nakba, sia almeno provvisoriamente esclusa. Non ci sarebbe quindi altra via d’uscita che accettare il vecchio schema coloniale, con i territori occupati trasformati in serbatoio di mano d’opera per l’occupante? Imporre la nuova governance implica di mettere a tacere le critiche e le resistenze. Questo spiegherebbe la violenza utilizzata contro le opposizioni e l’allontanamento di alti funzionari, noti per la loro competenza, ma anche per loro libertà di parola.

(Traduzione di Luana De Micco)