È il primo Paese in Europa con un Parlamento a maggioranza femminile: così l’Islanda entra nella storia consegnando il 52% dei seggi (33 su 63) dell’Althingi (il Parlamento monocamerale dell’isola) alle donne. Prima d’ora solo la Svezia si era avvicinata a questo risultato con il 47% di donne elette al Riksdag. L’esito del voto islandese, che ha confermato la maggioranza per i tre partiti al governo (partito dell’Indipendenza, Progressisti e Verdi), ha reso il Paese leader nell’uguaglianza di genere, come già da classifica: essendo l’Islanda la nazione più egualitaria al mondo per il 12° anno consecutivo in un rapporto del World Economic Forum. Non a caso è stato il primo Paese al mondo a eleggere un presidente donna nel lontano 1980 e la sua prima legge sulla parità di retribuzione risale al 1961. Tra le nuove parlamentari c’è anche la 21enne studentessa di legge Lenya Run Karim, figlia di immigrati curdi, del Partito Pirata anti-establishment. “Voglio migliorare il trattamento in Islanda dei rifugiati e dei richiedenti asilo”, ha detto ad Associated Press, promettendo di parlare a favore dei giovani in Parlamento.
Ai seggi nostalgia e voglia di novità. “Siamo stati pigri a tenere Angela”
Un sole caldo e la maratona più veloce del mondo, due eventi unici per l’autunno berlinese. “Questo è un giorno importante. Non si decide chi prende il posto della cancelliera, ma chi ci porterà attraverso la crisi climatica”. Clara, zaino in spalla e mascherina in volto, ha appena votato a Neukoll, uno dei quartieri più internazionali della città. Prima sono arrivati gli operai turchi, che storicamente votano socialdemocratico, poi i giovani da tutto il mondo, trasformando l’area nella bestia nera dei conservatori. “Il cambiamento non poteva arrivare con Merkel – continua la donna – lei è la stabilità. Ci serve un cambio di velocità”.
Allo stesso collegio ha votato Markel Anasagasti, 34 anni nato vicino a Bilbao, Spagna, e naturalizzato tedesco da poche settimane. “Vivo in Germania da nove anni e sono felice che adesso il mio voto abbia un peso”. Markel lavora nel sociale e segue da vicino le politiche cittadine “le ultime tornate elettorali sono state noiose. Non è il caso di oggi, questo è un momento interessante, una finestra sul futuro”. Basta spostarsi qualche fermata di metro più a ovest, fino al grande parco del Tiergarten e lo scenario cambia, molto. “Sono andata al seggio molto presto, pensavo di essere la prima, ma erano già in venti ad aspettare – Emma è nata e vissuta a Berlino tutta la sua vita, una rarità – avrei rivotato Merkel. Ci vorranno anni perché il nuovo cancelliere abbia la capacità di gestire tutto. Tempo perso”. Il seggio è poco lontano dalla sede partito conservatore, nel quartiere delle ambasciate e dei grandi viali con i negozi di lusso. “La cancelliera non si è esposta personalmente fino a pochi giorni fa, è stata una strana campagna elettorale”. Chiodo nero, caschetto biondo e un mansueto husky al guinzaglio, Regina andrà in pensione tra poco e si aspettava qualcosa di più dai partiti: “I programmi dei tre candidati sono molto simili tra loro, però spero che vinca chi ho votato io”. C’è una lunga coda davanti al seggio di Rigaer Strasse, simbolo delle occupazioni abitative berlinesi. “Si vota per il governo, ma anche per il sindaco, il senato della città e abbiamo un referendum per gli espropri degli alloggi ai grandi gruppi immobiliari”. Klaus Lavine tira un carrello con dentro i due bambini e spiega così la grande affluenza: “Quella tedesca è una società conservatrice. Gli anni di Merkel hanno spostato la politica di governo verso il centro. Adesso la paura che qualcosa possa cambiare ha spinto gli elettori a difendere le proprie posizioni, anche senza sapere bene quali siano”.
In fila accanto a lui ci sono una coppia di ragazzi, lei scalza e lui con capelli colorati, quasi in coro dicono “la Germania è vecchia, sono gli anziani a decidere tutto”. Risata generale. Tra tutti i presenti il più anziano avrà 50 anni. Poco distante c’è Karl Marx Alee, il famoso corso della grande edilizia socialista. Appoggiata a un deambulatore a rotelle, e scortata del figlio cinquantenne in bici, Monika arriva al suo seggio. “Ho quasi 80 anni e penso che 16 anni al governo siano troppi, sono contenta che Merkel vada via”. Per i tedeschi non è possibile prendere in considerazione i tre candidati senza confrontarli con la cancelliera “tutti i partiti hanno promesso molto, ma non so cosa potranno fare di diverso da quello che c’è ora. Forse è anche un po’ colpa nostra. Merkel è rimasta troppo tempo, siamo stati troppo pigri e abbiamo fatto fare tutto a lei”.
Scholz e Laschet cancellieri a metà: mai guida così fiacca
Angela Merkel lascia un Paese che dovrà affrontare molti cambiamenti. Prima novità. Nella Germania riunificata non è mai successo che a diventare cancelliere fosse il candidato di un partito che ha raccolto meno del 30% dei voti. Seconda novità. Dalla caduta del Muro non ci sono mai state coalizioni a tre. Terza, e più importante novità, non sappiamo chi sarà il nuovo cancelliere. Ci vorranno giorni, forse settimane, di negoziazioni per capire chi guiderà la Germania.
Spd e Cdu-Csu arrivano, contrariamente a tutti i sondaggi delle ultime settimane, molto vicini. La distanza tra i due partiti è di un punto e mezzo percentuale. I socialdemocratici passano dal 20 del 2017 al 25,9%. Tocca a Olaf Scholz tentare di formare il governo. Mentre i conservatori, guidati da Armin Laschet, cadono dal 33% al 24,5%. Una sconfitta cocente, ma solo la scorsa settimana la Cdu era data al 20%. I Verdi hanno raccolto il 14,1% dei voti, partivano dal 9% delle scorse elezioni. È stata la prima volta che i Grüne hanno presentato un candidato cancelliere. Annalena Baerbock non guiderà il governo, ma le possibilità di lasciare fuori i Verdi dalla coalizione sono quasi nulle.
Alle 19:00, un’ora dopo la chiusura dei seggi, Laschet si presenta sul palco della sede della Cdu. C’è anche Merkel, ma non al suo lato, un po’ più defilata sulla sinistra. “Sarà cancelliere chi saprà negoziare meglio” e chiama il suo futuro governo “coalizione futuro”. Poche ore prima aveva fatto ancora parlare di sé con l’ennesima gaffe. Davanti all’urna aperta, Laschet si ferma a favore dei fotografi prima di inserire il suo voto. I più attenti, riguardando gli scatti, si accorgono che ha piegato la scheda elettorale al contrario. Secondo alcuni il voto andrebbe invalidato, tutti hanno visto cosa ha votato: Cdu. Almeno su questo siamo sicuri non si sia confuso.
Il candidato socialdemocratico arriva davanti alle telecamere pochi minuti dopo Laschet. “I cittadini hanno deciso che Scholz sarà cancelliere” dice parlando di sé in terza persona. Sceso dal palco beve una birra e poi va a farsi intervistare. I liberali di Fdp e l’ultradestra Afd raccolgono 11,7% ciascuno. Dovrebbe entrare al Bundestag anche Die Linke, che si ferma al 5% al limite dello sbarramento. Ci sono almeno 5 coalizioni possibili. Le due più plausibili sono la semaforo con Spd (rosso), Grune (verde) e Fdp (giallo), oppure la Giamaica con la Cdu (nero) al posto dei socialdemocratici. La semaforo sarebbe una coalizione di centrosinistra, lontana dalle politiche di Merkel. Mentre con la Giamaica si avrebbe un governo liberare e rigido con le istituzioni Ue, più conservatore dell’ultima Grosse Koalition. Anche se Scholz e Laschet negano la possibilità, uno dei due dovrebbe diventare il vice dell’altro, una coalizione a tre con entrambi i primi due partiti, e uno tra i Verdi e i liberali, potrebbe essere necessaria se i negoziati si allungassero troppo.
“Giorgia, una perdente di successo, destinata all’opposizione eterna”
“Sono un melonista convinto, la voterei”.
Il voto del professor Cardini va a Giorgia Meloni.
Per simpatia, per una certa amichevole frequentazione, perché mi sembra che si applichi, abbia voglia di documentarsi, rifiuta di parlare a vanvera.
Beh, sembra già tanto.
Non so chi glielo abbia scritto o l’abbia aiutata a scrivere, ma il suo libro ha un ordine logico. È convincente.
E dunque?
Naturalmente il mio giudizio non si può disconnettere dal partito che guida. Mai voterei Fratelli d’Italia.
Ah, c’era la sorpresa?
Un crogiolo umano disperante, sociologicamente e politicamente penoso. Un ceto piccolissimo borghese che vive nella paura della retrocessione sociale. Fratelli d’Italia mi sembra un agglomerato temporaneo, è proprio invotabile. Ma Giorgia lo sa.
Giorgia vorrebbe fare la premier.
Ma cosa dice? È pazzo? A palazzo Chigi resterebbe dodici ore. No, la Meloni può legittimamente aspirare a essere la prima forza di opposizione.
Il massimo che può fare è la miglior perdente?
E le sembra poco essere una perdente di successo? Con quella carrozzeria politica che si ritrova, quel garbuglio di voti che ha messo insieme e chissà se le resteranno a lungo dove può andare?
Aveva in tasca il Campidoglio. L’ha rifiutato per puntare più in alto.
Sì, per i giornali è stata già sindaca di Roma e pure premier. Mancate del principio di realtà: il suo destino è l’opposizione, altrimenti si perde.
Tenace, conserva la memoria, non ha vergogna di essere anche un po’ fascista.
Ha nel simbolo il richiamo alla destra storica. E di questi tempi è una virtù. Può contare su un certo romanticismo filofascista, più sentimento che ragione, e su un gruppo di militanti certo non coeso ma nutrito. Naturalmente non ha classe dirigente.
Salvini invece ce l’ha?
Salvini ce l’ha. Lei no. Con quel carrozzone Giorgia non può andare da nessuna parte (e a dire il vero non credo che voglia andare da nessuna parte). Sta meravigliosamente nel luogo in cui è assisa. Muove critiche, che è pur sempre un’attività più agevole che governare.
Non sembra che voglia molto bene alla Meloni. La vota ma la sta stendendo.
È una perdente di successo. Quando imparerà a non far cagnara da bar dello sport sull’islamismo, a non utilizzare il solito trucchetto dei migranti sporchi e cattivi, a rinunciare a un filoatlantismo supino, a immaginare una proposta per l’Europa.
La lista dei compiti è lunghissima.
Per esempio, potrebbe sostenere l’idea di uno sbocco confederale dell’Unione. Confederazione, sul modello elvetico.
Forse ci sta già pensando.
Speriamo che i suoi capiscono e non facciano confusione. Leggono confederazione e immaginano federazione. Culturalmente sono davvero sprovveduti, poverina lei fa il possibile.
Sarà una grande perdente.
Glielo auguro con tutto il cuore. Altro non può fare, lei non è ancora uscita dal lebbrosario.
Ciao ciao palazzo Chigi.
Sono le favolette che raccontate voi giornalisti. Ma pensa che lei abbia creduto, si sia suggestionata? Per come la immagino io, penso più spaventata. Spaventata a morte. Non saprebbe che fare a palazzo Chigi. E poi la prima svastica che comparisse al ghetto di Roma sarebbe l’avviso di sfratto ad horas.
Giorgia adesso è un po’ imballata nei sondaggi.
A quanto sta?
Ancora avanti di qualche decimale rispetto a Salvini, ma indietro di qualche decimale rispetto al Pd. Tra il 17 e il 20 per cento sono in quattro.
Salvini è il più inguaiato, mi sembra.
Vede la sua leadership traballare?
No. È come quei malati cronici con un sacco di acciacchi ma longevi. Gli basta un barcone, un africano che impazzisce per strada, un fatto di nera e zac, si ripiglia. Ma certo non ha la stoffa di Giorgia. Lui non studia.
Giorgia si applica.
È consapevole di non aver fatto buone scuole e gestisce con misura la propria ambizione.
È prudente.
È scappata via da Roma come una volpe. Bravissima. Avrebbe fatto solo danni. Fuggire dal governo. Insomma fuggire dalle grane, da tutte le grane. E poi si vede.
“Le mie gaffe? Solo una strategia comunicativa: è meglio stupire”
Non si vergogna di essere “un neofita della politica”, pur con il carico che ne consegue: nel suo caso, qualche gaffe di troppo e la bocciatura pubblica da parte di alcuni esponenti del suo stesso schieramento. Ma Luca Bernardo, candidato sindaco del centrodestra a Milano, si mostra sereno, forse arreso alle sue debolezze ma deciso a terminare questa campagna elettorale appianando come può le polemiche su sé stesso e quelle interne alla coalizione.
Nell’ultima domenica prima del voto Bernardo arriva al Palazzo delle Stelline, nel centro di Milano, per partecipare al grande evento conclusivo di Forza Italia. A garantire una certa pomposità all’incontro c’è la presenza dei big del partito – da Antonio Tajani alla ministra Maria Stella Gelmini, oltre all’ex sindaco Letizia Moratti e al vicepresidente della Camera Andrea Mandelli – ma soprattutto l’intervento in collegamento telefonico di Silvio Berlusconi.
E per Bernardo è un sollievo, perché il Cavaliere parla certamente di temi nazionali (“Ci opporremo a ogni nuova tassa sulla casa”) e del destino della coalizione (“Forza Italia è insostituibile ed essenziale per un centrodestra capace di vincere e governare”), ma è anche l’unico tra i leader a spendersi con convinzione per il candidato, mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini sembrano badare più al peso delle proprie liste che al risultato aggregato: “Con i nostri alleati abbiamo scelto il professor Bernardo – scandisce Silvio – e sono fiero di questa scelta”.
Da parte sua, Bernardo minimizza le divisioni: “Siamo una famiglia e, come ha detto Meloni, non pensiamo a prendere un voto in più tra di noi ma a prendere un voto in più della sinistra”. E poco importa che gli alleati non abbiano ancora trovato il modo di organizzare un evento in suo sostegno tutti insieme: “Faremo qualcosa – giurano tutti nel centrodestra – ma è difficile incastrare le agende”.
Quando gli ricordiamo gli scivoloni di questi mesi – in principio fu la pistola portata in ospedale, fino all’indulgenza verso eventuali No Vax in giunta – Bernardo non sembra scomporsi. Rinuncia al sempiterno “sono stato frainteso” e anzi rilancia ventilando l’ipotesi che, più o meno, fosse tutto calcolato: “Nella comunicazione si è efficaci quando si stupisce, quando fai qualcosa che non si aspetta nessuno. Questo vale in politica così come nella medicina o in qualsiasi altro lavoro”. Tutto studiato a tavolino, allora? “Potrebbe essere”. Chissà.
Non possiamo però non chiedergli se tutti gli attacchi ricevuti in queste settimane lo abbiano ferito personalmente: prima il capolista di FdI Vittorio Feltri, che lo ha definitivo “un bravissimo medico” ma “un politico non all’altezza” e poi il consigliere forzista Luigi Amicone, secondo cui il centrodestra a Milano “ha scelto di perdere”. Non proprio delle carinerie, soprattutto se arrivano dalla propria coalizione. Bernardo però è serafico: “Non mi è dispiaciuto affatto. Anzi, è normale darmi del neofita della politica, io vengo dal volgo, dal popolo, mi sono approcciato alla politica ma voglio restare un uomo nuovo”. Con Feltri il rapporto è persino antico: “Siamo amici dal 2007, mi chiamò per collaborare con Libero e mi aprì questo fantastico mondo, tanto che sono diventato giornalista pubblicista grazie a lui”.
Più ardua l’impresa di diventare sindaco, ma se c’è bisogno di un portafortuna Bernardo ora può contare su un cappellino con sopra scritto “Il milanese” che il suo staff recupera dalla platea a fine evento: “Oh, eccolo qua”. Bernardo lo indossa e poi, mentre Tajani si fa coraggio ricordando “l’alto numero di indecisi”, saluta con una previsione: “Sala pensa di aver già vinto a mani basse, ma vedrete che non sarà così”. Resta una settimana – e chissà se qualche altra gaffe “calcolata” – per scoprirlo.
Industriali: panico da salario minimo. Draghi li rassicura
è bastato anche solo accennare l’ipotesi di un salario minimo per mandare nel panico industriali e sindacati. Per loro fortuna, Mario Draghi è pronto a rassicurarli, tenendo fuori dal tavolo la questione almeno per i prossimi mesi. Ieri lo ha scritto Repubblica, senza ricevere smentite da Palazzo Chigi: “Il tema al momento non compare nell’agenda del governo”.
E così all’incontro di oggi tra il presidente del Consiglio e i sindacati si parlerà d’altro: “Non credo che il salario minimo sarà oggetto della discussione a Palazzo Chigi – ha detto ieri il leader della Cgil Maurizio Landini – Andiamo a discutere di sicurezza sui posti di lavoro”. Con tanti saluti, almeno per il momento, alle richieste di Giuseppe Conte ed Enrico Letta.
Due giorni fa il segretario del Pd si era augurato “una discussione matura, pronta, che avviene in tutta Europa e che è giusto ci sia anche in Italia”. Posizione condivisa da Conte, tornato ieri sulla necessità di un intervento: “Il salario minimo è un tema che dobbiamo assolutamente affrontare se vogliamo fare un patto sociale. Ci sono tantissimi lavoratori che viaggiano sulla media di due, tre, quattro euro lordi l’ora”.
D’altra parte l’Italia è tra i pochissimi Paesi nell’Unione europea a non avere norme in materia – presenti in 21 Stati membri su 27, tra gli esclusi ci fanno compagnia Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia – e proprio a Bruxelles si sta discutendo una direttiva per promuovere il salario minimo in tutta l’Ue.
Ma in Italia in molti non ne vogliono sentire parlare. È il caso del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, intervenuto ieri a Mezz’ora in più, su Rai Tre: “Il salario minimo nasce in quei Paesi che hanno stipendi molto bassi come la Bulgaria, non dove ci sono contratti nazionali. Abbiamo la stessa posizione dei sindacati: noi siamo per rafforzare la contrattazione perché garantisce tutti”.
Il problema sono quei milioni di lavoratori che, da anni, lavorano con paghe ben sotto la soglia di dignità perché non rientrano nelle categorie tutelate dai contratti nazionali. Giovedì scorso però il “Patto per la ripresa” illustrato da Draghi ha garantito al premier la ola degli industriali, che dunque ora contano sull’ex presidente della Bce per non avere sorprese.
Anche i sindacati però sono tutt’altro che entusiasti della proposta. Settimana scorsa Landini aveva aperto – per la prima volta in maniera decisa – all’introduzione del salario minimo, ma ieri ha preferito annacquare gli annunci, rimandando la novità a una riforma più ampia dello Statuto dei lavoratori: “Abbiamo troppi contratti pirata, sento la necessità di una legislazione che sostenga la contrattazione collettiva e dentro questo schema ci sono tutti gli altri diritti: gli orari, il salario minimo, la malattia, gli infortuni”. E ancora più negativo è il leader della Cisl Luigi Sbarra, che all’evento “Futura” di Bologna stronca l’idea di una nuova legge: “Temo che un salario minimo darebbe la stura a tante aziende per uscire dall’applicazione dei contratti nazionali e peggiorerebbe la qualità della vita di milioni di lavoratori”. Ragionamento condiviso dal leader della Uil Pierpaolo Bombardieri: “Bisogna fare molta attenzione su questo tema. Rischiamo di ridurre lo spazio contrattuale”.
La posizione dei sindacalisti non è così diversa da quella espressa ieri dall’onorevole Sestino Giacomoni a nome di Forza Italia: “Il salario minimo farebbe aumentare la disoccupazione e il lavoro nero”.
Sarà anche per accontentare i berlusconiani, Confindustria e i sindacati che lo scorso aprile il salario minimo è sparito dal testo finale del Pnrr, dopo che per settimane era rimasto nelle bozze del Piano. Difficile che adesso, visti gli umori intorno a lui, Draghi cambi idea.
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Ma mi faccia il piacere
Tra moglie e marito. “Negli ultimi sette giorni ci sono state sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte però è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, erano completamente obnubilati, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda che dobbiamo farci per forza” (Barbara Palombelli, Stasera Italia, Rete 4, 16.9). Ma infatti: meno male che Francesco è disarmato.
Compiti a casa. “Bravi, avete chiesto scusa al Cav. Ma ora mandatelo al Quirinale” (Paolo Guzzanti, Riformista, 24.9). Mo’ me lo segno.
Tiromancino. “Mancino: ‘Io vittima di un teorema crollato sulla trattativa Stato-mafia’” (Repubblica, 25.9). Quindi adesso ce lo dici che cosa vi dicevate al telefono con Napolitano?
Disinformafia/1. “Gli imputati sono stati assolti con formula piena perchè non hanno ceduto alla mafia” (Francesco Merlo, Repubblica, 25.9). No, perchè hanno trattato con la mafia, ma il fatto non costituisce reato. Così come Merlo non costituisce giornalismo.
Disinformafia/2. “Così la teoria del complotto ha leso l’immagine del Paese. A Palermo smentita la tesi che lo Stato abbia cercato accordi con Cosa Nostra” (Mario Ajello, Messaggero, 25.9). Magari: la Corte d’appello ha confermato che il Ros trattò con Cosa Nostra, ma sono punibili solo i mafiosi e non i carabinieri. Una splendida immagine per il Paese.
Disinformafia/3. “Se le toghe vogliono riscrivere la storia generano mostri” (Claudio Martelli, ex ministro Psi della Giustizia, Giornale, 25.9). Tipo Martelli, che vent’anni dopo si ricordò di aver saputo da Liliana Ferraro della trattativa Stato-mafia.
Disinformafia/4. “Travaglio di bile. La trattativa non c’era. I manettari rosicano. Dopo la sentenza che sconfessa la tesi di pezzi dello Stato in combutta con i boss c’è chi reagisce stizzito (il Fatto) e chi prova a minimizzare” (Renato Farina, Libero, 25.9). Sconfessa a tal punto che condanna i boss: evidentemente i boss erano in combutta con pezzi dello Stato, ma pezzi dello Stato non erano in combutta con i boss. A uguale B, ma B non uguale A. Aristotele si rivolta nella tomba.
Disinformafia/5. “Processato chi aiutò mio padre” (Fiammetta Borsellino, Libero, 25.9). Suo padre è per caso lo stesso che disse a sua madre prima di morire: “Ho visto la mafia in diretta, mi han detto che Subranni è punciutu”, cioè associato alla mafia?
Disinformafia/6. “Non spiace qui ricordare che i natali del processo sulle trattative coincidono, ma guarda un po’, con quelli del Fatto: 10 anni buttati via” (Farina, ibidem). A parte che il Fatto ha 12 anni, il processo Trattativa inizia con un’intervista di Massimo Ciancimino a Nuzzi su Panorama diretto da Belpietro il 19 dicembre 2007. Scusa, Betulla, ma Pio Pompa non ti ha proprio detto niente?
Disinformafia/7. “L’eterno processo sulla Trattativa è crollato per tutti. Ma non per Travaglio e soci” (Dubbio, 25.9). Cioè per quelli che han letto il dispositivo della sentenza e l’hanno capito.
Tu quoque. “Per il Quirinale Gianni Letta può essere un nome, figurarsi se ho problemi!” (Pierluigi Bersani, deputato LeU, L’aria che tira, La7, 25.9). Come battuta era meglio quella sulla mucca in corridoio.
L’ideona. “Il futuro del Pd è draghizzare il centrosinistra” (Stefano Ceccanti, Riformista, 21.). Dopo gli strepitosi successi di quello renzizzato.
Sgub! “’Io, ex grillino, ho provato la galera’. Intervista esclusiva a Marcello De Vito” (Dubbio, 18.9). Se lo strappavano tutti di mano, ma alla fine se l’è assicurato Il Dubbio.
L’esperta. “Nel Pool di Mani Pulite io c’ero: i pm pensavano alla presa del potere” (Tiziana Parenti, Dubbio, 14.9). Infatti l’unica che si candidò e si fece eleggere fu lei.
L’esperto. “Oggi il Parlamento non è affatto esautorato Non tutte le fiducie sono uguali” (Francesco Clementi, costituzionalista, Dubbio, 24.9). Art. 986 della Costituzione: dipende da chi le chiede.
Indirizzo sbagliato. “Fedez insulta Conte: ‘Fai comizi affollati e vieti i concerti’. I cantanti si ribellano” (Libero, 23.9). Se ne deduce che Conte dovrebbe pregare la gente di non andare ai suoi comizi e, soprattutto, che il premier è ancora lui.
Dadaismo/1. “Surreale risposta della Raggi, in un’intervista al Fatto, sui cinghiali che scorrazzano nella capitale in cerca di rifiuti dentro ai cassonetti: ‘Sono un problema di competenza regionale’” (Annalisa Cuzzocrea, Repubblica, 23.9). Siccome si dà il caso che la legge affidi alle Regioni il controllo del patrimonio faunistico, se la risposta della sindaca è surrealista, il giornalismo di Repubblica è dadaista.
Dadaismo/2. “Dagli industriali a Di Maio crescono le adesioni al partito di Draghi” (Cuzzocrea, ibidem, 25.9). Ecco, appunto.
Il titolo della settimana/1. “Ritorna Berlusconi: ‘La Ue una necessità’. Weber: ‘Con lui l’Italia è rientrata in Europa’” (Giornale, 22.9). Senza essersi mai accorta di esserne uscita.
Il titolo della settimana/2. “I draghiani riluttanti” (Augusto Minzolini, Giornale, 22.9). Che cos’è, un nuovo reato?
Dalla parte del Leone: epopea a fumetti del migrante abruzzese che trovò “Lamerica”
Era un italiano carico di sogni, Leone. Lasciò l’Abruzzo per cercare “Lamerica”, portandosi dietro solo pochi panni, un destino da operaio sulle impalcature dei grattacieli e una tromba. Perché Leone amava il jazz. E sapeva suonare. Tornerà, nel suo Abruzzo, quando la guerra verrà a mettere in forse quella famiglia, per aiutare la quale se ne era andato oltreoceano. E ci riuscirà. Avrà figli e nipoti, uno dei quali deciderà di trasformare gli appunti della vita del nonno in un romanzo, ma siccome quel nipote è Francesco Colafella, talentuoso disegnatore, quello sarà un romanzo a fumetti. Per realizzare il quale, Francesco coinvolge Carmine Di Giandomenico, una delle più importanti matite italiane, la mano che ha disegnato Spider Man, Flash, I Fantastici 4, ma anche un video di Baglioni e le intro animate del campionato di Serie A.
A unire Francesco e Carmine non è solo l’arte, ma “l’abruzzesità”, che decidono di sublimare affidando la copertina di Leone, appunti di una vita a un mostro sacro come Tanino Liberatore. Ed è un successo, tanto da diventare il primo fumetto della storia a essere presentato al Festival del Cinema di Venezia, eletto anche “Fumetto dell’anno” a Montereggio. Potrebbe quasi bastare così, ma la vita è un gioco strano. Fatto di intrecci bislacchi.
Leone è tornato in America. E l’opera di Di Giandomenico e Colafella esce in questi giorni negli States, per i tipi della Image Comics, il terzo più grande editore di fumetti dopo Marvel e Dc. Agli americani è piaciuta, la vicenda umana di questo italiano con l’anima jazz. Perché Leone non è un fumetto. È un affresco. Il racconto personale e intimo di una storia collettiva. Un ritaglio di storia “nostra”, di noi italiani, scolpito nella carta di un’opera magistrale.
Quello firmato da Di Giandomenico e Colafella è il distillato del vissuto intimo di una famiglia che è paradigma di tutte le nostre famiglie. Quanti italiani hanno un parente sui registri di Ellis Island? In quale delle nostre famiglie non c’è il racconto ormai antico di un parente che, tra la vita di stenti e la morte da povero, scelse “Lamerica”? Carmine e Francesco raccontano una storia vera, quella di un uomo che scelse il mondo nuovo e che, tra “bruccolino” e “littelitali”, si costruì la sua “niùiork”… pennellata in jazz.
È un fumetto che va vissuto, non basta leggerlo. Va sentito, pianto, temuto, amato, goduto, sofferto. Come la vita di quelli che hanno il coraggio di viverla. Come Leone. E se è vero che la vita vera non è quella vissuta ma – diceva Gabo Mqrquez – quella che si ricorda e come la si ricorda, quella di Leone è stata una vita straordinaria e comune, raccontata da due autori che hanno saputo cercare – tra i grattacieli della loro America, attraversata dal volo di Superman, ricamata dal volteggiare di Spiderman, illuminata dai lampi di un pipistrello – la mano di un operaio italiano.
Che supereroe non era, ma che, forse, lo è stato più di ogni altro.
Dai fascisti ai cronisti di oggi chi ama Dante non l’ha letto
Il conformismo dantesco, dantistico, dantismico, dantologico, dantofilo, dantoide e dantomane sembra stia facendo da perfetto pendant “spirituale” al conformismo vaccinesco, vaccinico, vaccinistico, vaccinologico, vaccinista, vaccinante, vaccinogeno (non dico apposta “vaccinale”, perché ormai mi dà la nausea). E pensare che solo vent’anni fa si meditava se tradurla in italiano, cioè in italiano comprensibile, la Comedìa, il capolavoro del “padre della lingua italiana”.
Adesso, invece, in occasione del settecentenario, si direbbe che tutti lo possano leggere con facilità, che tutti lo capiscano, e lo ammirino, e vadano in estasi. Possibile? Non lo si capiva già più nel Quattro e Cinquecento, figurarsi oggi. “Come deggio sperar che surga Dante,/ che già chi ’l sappia legger non si trova?”, si disperava Franco Sacchetti nella sua canzone per la morte di Boccaccio; e siamo a Firenze, nel 1375. E Giovanni della Casa, a metà del 1500, si domandava: “E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso ‘Già veggia per mezzul perdere o lulla’? Credo io che nessuno altro che noi fiorentini”.
Ma lasciamo stare le citazioni da filologi e riassumiamo così: la Comedìa è stata letta via via come poema teologico, poema allegorico, poema amoroso, poema filosofico, poema comico (sì, anche questo, nel Seicento), poema politico, poema eroico (siamo all’ottocentesco “ghibellin fuggiasco”) e infine poema per poeti (che è l’ultima e più esaustiva delle interpretazioni).
Nel racconto Casa “la Vita”, Alberto Savinio ci illumina sugli ammiratori di Dante: “Che lo zio Gustavo non leggesse la Divina Commedia ma fingesse soltanto di leggerla, Aniceto lo aveva dedotto dal segnalibro che da anni era sempre allo stesso posto. Quando Aniceto andava a trovare lo zio Gustavo, questi si presentava al nipote con un po’ di ritardo e come affumicato ancora di gravi sogni poetici e gli diceva: ‘Mi stavo rileggendo il canto duodecimo. Che maraviglia!’. E arrotondava le labbra, soffiava fuori la sua ammirazione che fischiava tra i baffi e la barba come il vento tra i pini. Dire dodicesimo invece che duodecimo sarebbe parso allo zio Gustavo indegno dell’Altissimo Poeta… Del resto questa ammirazione di religione, di decoro, di educazione per Dante e nella quale la conoscenza della poesia di Dante e l’amore a essa sono del tutto estranei, non è singolare allo zio Gustavo. La maggior parte degli ammiratori di Dante sono nelle condizioni dello zio Gustavo: non hanno letto Dante. Ed è la perfetta ignoranza degli ammiratori di Dante che in parte fa la saldezza, l’inviolabilità della fama di Dante, dei Danti, dei tanti Danti”.
Si creda o non si creda a Savinio, i giornalisti ce lo vanno spiegando da un anno e gli attori ce lo vanno leggendo a più non posso, non senza aver premesso, gli uni e gli altri, alle loro spiegazioni e alle loro letture, un accorato invito a vaccinarci di modo che, messi “in sicurezza” fino alla prossima vaccinazione, possiamo dedicarci anima e corpo all’Altissimo Poeta, e intonare un’altra volta concordi: “La vision de l’Alighieri/ oggi brilla in tutti i cuor” (proprio come la intonavano i fascisti che, se l’avessero davvero letto e capito, avrebbero smesso immediatamente di essere fascisti).
Purtroppo sono normale
Alla fine dell’incontro la preoccupazione è seria, reale, spesso comune per chi nella vita ha come missione quella di strappare una risata. Ma con Valerio Lundini non c’è una maschera di vittimismo a celare una certezza di megalomania. No, lui è proprio sincero di fronte ai suoi dubbi. “Non è che sembro palloso?”.
Perché?
Non lo so, dopo un’intervista capita di trovarmi palloso.
Dice?
(Sospiro) Ho avuto e ho una vita normale. Genitori normali. Nessun problema adolescenziale, niente droga o alcool; (altro sospiro) non ho subito bullismo, violenze, attacchi vari. E ho pure molti amici.
Un piattume clamoroso.
Eh, lo so. (Pausa. Poi, affranto) Senta, nel caso la capisco: rispetto a questa intervista si senta libero di comportarsi come vuole. Non mi aspetto grandi spazi, la cancelli tranquillamente, purtroppo sono proprio così.
Valerio Lundini ha 35 anni e nella televisione e nell’Italia degli arzilli ottantenni è ancora da considerare un enfant prodige del piccolo schermo: il suo programma da seconda serata su Rai2 – Una pezza di Lundini – non ha segnato share da doppia cifra, ma piano piano si è tramutato in un classico caso di successo da passaparola.
La sua comicità non è gridata, non è anni Ottanta, ma è levigata sui tempi, sui toni bassi, sui sottintesi, sulla sua postura da ragioniere nei film di Luciano Salce, sul suo non ridere.
Ora è pronto?
Temo solo i virgolettati e il titolo.
Pure quelli…
Ogni tanto mi affibbiano frasi e concetti che proprio non mi appartengono, della serie: “Sono un cazzo di genio”.
Altro esempio.
Aspetti, questa è bella: “Piaccio solo perché sembro pazzo”. Non l’ho mai detta.
Pensata?
No! Perché implica che tu piaci alla gente: questa sicumera mi manca, e poi minimizzi sulla follia, non per la complicità del pubblico.
Da dove arriva Valerio Lundini?
Scuole elementari dalle suore, medie pessime e un liceo concluso con un normale 72.
Ha l’aspetto da secchione.
Colpa degli occhiali.
Pure la postura.
Non sono muscoloso, allora uno pensa che ho passato la vita sui libri. In realtà leggo pochissimo; l’altro giorno ho conosciuto Pio e Amedeo e agli occhi loro sembravo Berlinguer o una specie di radical chic. Faccio questo effetto.
È laureato in Lettere.
Perché dopo tre anni di inutili tentativi ho abbandonato Giurisprudenza, ho cambiato facoltà, più semplice, e ho allungato l’adolescenza.
La sua famiglia.
Vorrei definirla “normale”, ma credo che tutti possano inquadrare la propria allo stesso modo, a meno che uno non provenga da un circo; comunque entrambi impiegati statali, sereni, senza grossi traumi.
Quasi tutti i suoi colleghi hanno testato le proprie capacità con parenti o compagni di scuola.
Da piccolo mi dedicavo alle imitazioni… (Pausa. Viene distratto da una persona).
L’hanno riconosciuta.
No, mi hanno chiesto il biglietto del treno (è in stazione).
Guardi che l’hanno riconosciuta.
(Pausa) Ah, è vero, mi ha chiamato Valerio.
Le capita spesso di venire fermato.
Abbastanza; in alcuni contesti è piacevole e simpatico, in altri no, soprattutto quando vado a vedere spettacoli, concerti o eventi importanti: lì è fastidioso.
Come mai?
Se non sono sul palco alle prese con un mio spettacolo, m’imbarazza stare al centro dell’attenzione; soffro “l’effetto-compleanno”, quando la gente ti guarda e si aspetta qualcosa.
Per Lillo la massima creatività arriva quando è depresso…
In generale è vero, ma con me lo sprone arriva dalla noia, quando devo trovare o generare un intrattenimento lì dove l’intrattenimento non c’è.
Torniamo alla scuola: non era il capobanda.
Solo in alcuni casi, poi con i miei compagni di liceo avevo l’hobby di girare film stupidi; insomma, non avevo la furia o la convinzione di intraprendere questa strada.
E poi?
Con il tempo mi sono reso conto che mi arrivavano molte idee, e quelle stesse idee in seguito le vedevo realizzate nei film o nelle trasmissioni altrui.
Quindi?
Ho iniziato a scrivere le mie intuizioni, a volte a girarle, in modo tale da lasciare una testimonianza e poter affermare: “Mi hanno rubato l’idea!”
Il suo primo spettacolo.
Da solo? Quattro anni fa.
Recente.
Sì, ma dal 2007 suono il pianoforte in una band in stile Profilax, Latte e i suoi derivati o Elio e le Storie Tese.
Ci sono stati ospiti che hanno rifiutato di partecipare alla sua trasmissione?
(Sorride) Un noto intellettuale si è negato con la frase “non ho senso dell’umorismo”. Che poi per me sarebbe stato il massimo. Piuttosto temo quelli che arrivano e pretendono di fare i simpatici.
Tra i suoi fan c’è Berrettini.
Confesso: l’ho conosciuto poco prima di averlo come ospite in trasmissione; (silenzio) non so nulla di sport (Berrettini è un tennista, ndr), ma è molto simpatico e siamo diventati amici.
Non segue alcuno sport?
So che Totti giocava nella Roma, Nesta nella Lazio, Del Piero nella Juve e che gli scudetti vanno a Inter e Juve.
Basta.
So poco. Mi annoio.
A scuola partecipava a educazione fisica?
Sì, ma non ricordo molto, giusto che indossavo una tuta e qualcosa accadeva.
In Italia se un ragazzo non segue il pallone viene etichettato come “strano”.
Ho la percezione che questa roba stia diminuendo; mi dispiace solo perché hai un argomento in meno di conversazione, si perde una chiave per rompere il ghiaccio in determinati mondi. Infatti non me ne vanto.
Quindi ha tentato.
Ho guardato trasmissioni dedicate al pallone e ho pensato: mi piacerebbe seguire questo programma.
Le sue passioni da ragazzo.
Realizzavo fumetti e ancor oggi mi ci dedico, però non sono prolifico, magari disegno sui cartoni della pizza, sui foglietti mentre sono al telefono, ma è differente rispetto alle storie complete; poi guardavo tantissima televisione, amavo i Simpson o i programmi pomeridiani.
Le auto?
Ma zero! (Pausa, tono basso) C’è un aspetto che invidio a tanti artisti: quando hanno storie incredibili del loro passato (altra pausa). Tempo fa parlavo con Gipi (celeberrimo fumettista, ndr): lui racconta storiacce drammatiche di periferia, situazioni che non vorrei mai aver vissuto, che ugualmente mi obbligano a riflettere.
E…
Come dicevo, da ragazzino stavo a casa, al massimo guardavo Claudio Lippi; anche gli aspetti che approfondivo potevano toccare gli Oasis (gruppo musicale, ndr) e allora acquistavo tutto di loro, conoscevo le canzoni, ma allo stesso modo non ho studiato altre band. Se lei ora mi domanda dei Pink Floyd vado di scena muta.
Non è ossessivo.
Dei Simpson mi segnavo pure i nomi degli autori puntata per puntata: mi affascinava la macchina produttiva; rispetto alla musica, oltre agli Oasis, il rock anni 50 o lo swing.
La prendevano per nerd?
Sento persone raccontare: “Leggevo i fumetti e mi trattavano da strano”. Ecco, non so dove abbiano vissuto perché da me non c’erano problemi simili.
Le sue medie sono state dorate.
Però a quel tempo qualunque attività non dedicata alla masturbazione o alle feste equivaleva alla definizione di omosessuale ergo non avere il pene; (ripensa a prima) non mi appartiene l’immagine del nerd bullizzato perché ama l’Uomo Ragno.
Andava alle manifestazioni?
No.
Neanche a quelle.
Ho una vita noiosissima! Forse ho dimenticato le cose interessanti, ma la verità è che ho iniziato a divertirmi a 35 anni.
Cos’è il divertimento?
Occuparsi di cose diverse: un po’ suono, un po’ scrivo, un po’ disegno.
Cosa la imbarazza?
Come le ho detto all’inizio, stare al centro dell’attenzione senza avere nulla da dire, poi vedere altre persone che drammaticamente si prendono sul serio, magari gli attori impegnati quando guardano il cielo alla fine di un pezzo; o i cantanti che ringraziano con la voce finta-sfinita. (Silenzio) Parte del mio lavoro nasce dal desiderio di smitizzare tutto questo.
Basta?
Mi fa schifo assistere alla gente che si bacia nei film.
I porno li vede?
Cerco di evitarli, ce ne sono troppi e tolgono linfa vitale. Ma ogni tanto capita.
Quando si rivede?
Ma così diventa un’intervista pornografica!
Non quando rivede i porno, quando si rivede lei in tv.
(Sospiro di sollievo) Se sono cose mie al cento per cento mi diverto; se invece sono ospite di una trasmissione un po’ mi do fastidio, temo di sembrare antipatico.
In particolare?
Penso a chi mi guarda e magari dice: “E questo sarebbe il comico? Ma fattela ’na risata”.
Non ride?
Evito, mi viene un’espressione strana.
Da famoso è mutato l’approccio del prossimo con lei?
Mi imbarazza ammetterlo, ma succede; (pausa) molti mi conoscono per il programma, dove appaio surreale: un giorno cammino per Roma, metto male il piede e mi rompo la caviglia; due ragazzi mi sentono imprecare e pensano che sto scherzando, invece chiedevo di chiamare l’ambulanza e cercare del ghiaccio. Si avvicinano. Mi guardano. E soddisfatti esclamano: “No, vabbè, fai troppo ride’!”.
Li ha mandati a quel paese?
Ho evitato, non avevo energie.
Anche lei ha storie drammatiche.
Bene, sono contento.
Parteciperebbe al Grande Fratello Vip?
No, e che sto un mese in una casa con degli sconosciuti? Ma chi li conosce.
Scaramantico?
No.
Gioca alla lotteria?
No. (Tono arreso) Non do nessuna soddisfazione.
Che fa con i soldi?
Pago le multe; (contento) ah, voglio andare a Londra a vedere i musical.
Chi è lei?
Uno di Roma con la erre moscia che fa cose divertenti.