Under 19, meno contagi. Merito della campagna

I vaccini funzionano bene anche per gli adolescenti. La sperimentazione lo aveva già provato, ma ora arriva la conferma ufficiale sul campo. Nella fascia di età 12-19 anni il via alle vaccinazioni ha infatti comportato, dopo la crescita dell’incidenza dei casi di Covid degli inizi di luglio in tutte le fasce di età, una “forte diminuzione”, a partire da agosto dell’incidenza dei contagi e una diminuzione, anche se meno marcata negli over 20. Per la popolazione con età inferiore ai 12 anni, che non ha accesso alla vaccinazione, l’incidenza ha iniziato a diminuire invece solo a partire da fine agosto insieme alla riduzione dei casi complessivi in tutto il paese. Lo riferisce il Report esteso dell’Iss aggiornato al 22 settembre.

Dall’inizio dell’epidemia sono stati, nella popolazione 0-19 anni, 748.615 i casi confermati di Covid-19 di cui 34 deceduti. Durante il periodo 6 – 19 settembre 2021 sono stati segnalati 14.967 nuovi casi nella popolazione 0-19 anni, di cui 151 ospedalizzati, 2 ricoverati in terapia intensiva e nessun deceduto.

Nelle due settimane precedenti (23 agosto – 5 settembre 2021) erano stati diagnosticati 21.036 nuovi casi nella popolazione 0-19 anni, di cui 246 ospedalizzati, 2 ricoverati in terapia intensiva e 1 deceduto. Dalla seconda decade di luglio si è osservato un aumento in percentuale dei casi nelle fasce di età più giovani (3, 3-5, 6-11) a discapito delle fasce 12-15 e 16-19. Sebbene il dato non sia consolidato, nelle ultime due settimane più del 50% dei casi diagnosticati nella fascia di età 0-19 anni si è osservata nei soggetti con età inferiore ai 12 anni.

I dati del Report sull’efficacia vaccinale, poi, non lasciano dubbi sulla forza protettiva dell’immunizzazione fra i più anziani. Nella fascia over 80 negli ultimi 30 giorni il tasso di ricovero fra i non vaccinati è stato 9 volte più alto rispetto a vaccinati, nelle terapie intensive 11 volte più alto e il tasso di decessi ben 14 volte maggiore.

È arrivato intanto il via libera dal Comitato tecnico scientifico alla terza dose per gli over 80 e gli ospiti delle Rsa, in totale circa 4,5 milioni di italiani, e per il personale sanitario più a rischio.

“Siamo ancora dentro la pandemia, ma i risultati della campagna di vaccinazione sono molto incoraggianti – ha dichiarato il ministro della Salute Roberto Speranza, intervenendo a “Futura 2021” la tre-giorni promossa dalla Cgil a Bologna – siamo al 77,4% delle persone vaccinabili che hanno completato il ciclo, a 83.600.000 dosi somministrate, un numero molto significativo che sta crescendo e negli ultimi giorni, grazie alle scelte fatte, c’è un aumento significativo delle prime dosi e questo ci mette nelle condizioni di poter governare meglio l’epidemia”.

I dati giornalieri del Ministero della Salute, infine, registrano 3.525 positivi nelle ultime 24 ore (tasso di positività all’1%). Venerdì erano stati 3.797. Sono invece 50 le vittime(venerdì ne erano state 52). Diminuiscono ancora i ricoverati in area medica e in rianimazione. -56 posti letto occupati nei reparti Covid ordinari sono -56, per un totale di 3.497 ricoverati; -8 il saldo dei posti letto occupati in terapia intensiva. Il totale dei malati più gravi scende a 481.

“Science” sul vaccino ai guariti: “Può bastare un quarto di dose”

Tra i 41.840.024 italiani che alle 19 di ieri mattina risultavano aver completato il ciclo vaccinale, 1.437.682 (il 2,43% della popolazione) appartengono alla categoria dei “guariti”. Per loro, com’è noto, è prevista un’unica dose alla scadenza del Green pass (che dura sei mesi dall’ultimo tampone negativo, ma il ministero della Salute ha già da tempo allungato a un anno il periodo entro il quale i guariti possono vaccinarsi). All’appello, tuttavia, mancano ancora quasi tre milioni di guariti (arrivati ieri ufficialmente a quota 4.423.988).

La vaccinazione è altamente efficace anche per chi ha avuto una pregressa infezione, ma ci sono alcuni punti su cui manca il dibattito scientifico. A partire dalla quantità di dose sufficiente: Science ha da poco pubblicato uno studio in cui si conclude che una dose di vaccino mRNA ridotta del 75% può bastare ai guariti sia come richiamo, sia come prima vaccinazione.

Guariti e vaccinati Chi è più protetto?

La protezione post-Covid può perdurare nel tempo, vari studi confermano una copertura di lungo periodo, anche se con anticorpi bassi: “Abbiamo trovato cellule che producono anticorpi 11 mesi dopo i primi sintomi, che si trovano nel midollo osseo (e non si misurano con test sierologici, ndr) – ha affermato Ali Ellebedy, docente di Immunologia della Washington University School of Medicine – è una prova di un’immunità di lunga durata”. Anche in Gran Bretagna, il Public Health England ha registrato tassi molto bassi di re-infezioni nei guariti, lo 0,4%, su una popolazione di 4 milioni di inglesi osservati.

Reazioni avverse Esiste un rischio maggiore?

Uno studio inglese pubblicato su The Lancet condotto su 627 mila persone ha concluso che “gli individui vaccinati, con precedente infezione da Sars-CoV-2, avevano effetti collaterali di lieve entità (nausea, febbre eccetera) “più alti di 2,9 volte in più, dopo la prima dose di Pfizer, rispetto ai vaccinati chi non avevano avuto Covid”, così almeno riporta il lavoro coordinato da Tim Spector, del Dipartimento di Epidemiologia del King’s College di Londra.

Un secondo lavoro, dell’Università di Manchester, condotto su 2000 partecipanti, ha confermato che le persone con una precedente infezione da Covid-19 avevano un aumento del rischio di effetti collaterali dopo la prima dose di vaccino: “I guariti al Covid-19 hanno generalmente un’immunità naturale adeguata per almeno sei mesi, potrebbe essere opportuno rivalutare la raccomandazione per la vaccinazione immediata”, si legge tra le conclusioni di Nawar D. Bakerly, docente alla facoltà di Medicina di Manchester, e capo ricercatore del team.

L’effetto “Ade” l’ultima del web

L’effetto Ade (Antibody-dependent Enhancement, ossia il potenziamento dell’infezione a causa dall’anticorpo), è un fenomeno che si verifica quando gli anticorpi “imprecisi” invece di difendere aumentano l’infezione e “aiutano” il virus. Questo fenomeno è stato molto preoccupante per i vaccini contro il virus Dengue, le cui varianti resero il virus più pericoloso per i soggetti vaccinati. Questo fenomeno è stato riscontrato anche per Sars1 e Mers, secondo quanto riportato da Nature. Ma soltanto il caso Dengue ha destato preoccupazione. Ad agosto il Journal of Infection ha posto la domanda se questo effetto possa riguardare anche il Covid: “Il Dengue – dichiara Lorenzo Moretta, direttore di immunologia del Irccs Bambino Gesù – era un virus diverso e anche la vaccinazione era diversa, a virus attenuato. Il Dengue, poi, è trasmesso in seguito a punture di zanzare, come con la malaria. Il meccanismo è stato individuato nella presenza di anticorpi che invece di proteggere dall’infezione, la favoriscono – spiega – la scommessa dei nuovi vaccini è quella di identificarne uno che protegga da tutti i tipi. Viste le notevoli diversità dei virus e del tipo di vaccino, ritengo poco probabile che questo fenomeno possa verificarsi anche con Sars-Cov2”.

“Adesso dobbiamo correre. La mafia assalterà il Pnrr”

L’ergastolo ostativo per la politica è una bella rogna, ma va affrontata in fretta, con una legge entro maggio. Il 5Stelle Alfonso Bonafede, ex ministro della Giustizia, lo spiega così: “Dobbiamo correre, lo abbiamo detto fin dalla prima sentenza della Consulta del 2019 sui permessi premio. E abbiamo lanciato l’allarme, confermato dall’ultima relazione della Dia sul rischio che le mafie aggrediscano i fondi del Pnrr”. E per far capire quanto ci tenga, Bonafede cita Piero Calamandrei: “Non ci accorgiamo che sono i morti che ci convocano a rendere conto di ciò che abbiamo fatto”.

Perché la Consulta ha chiesto di cambiare la norma?

Volendo semplificare, prima degli interventi della Corte del 2019 e del 2021, per un mafioso era possibile accedere alla liberazione condizionale e ai benefici penitenziari solo quando collaborasse con la giustizia oppure quando tale collaborazione fosse impossibile. E il ragionamento sottostante era il seguente: finché non c’è collaborazione, non può essere rescisso il legame con la mafia. La Corte costituzionale ha stabilito invece che questo principio non può valere in via assoluta, e che deve essere consentito accedere ai benefici penitenziari se si accerta che non c’è più nessun legame con l’associazione criminale, anche in assenza di collaborazione. Noi rispettiamo le pronunce della Corte ma non ne condiviamo il contenuto. Non c’è alcuna possibilità di spezzare quel filo se non collabori: lo prova la storia della lotta alla mafia.

Anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 2019 aveva bocciato l’ergastolo ostativo, sostenendo che negasse il diritto a un percorso rieducativo. Forse c’è un nodo giuridico di fondo, no?

All’epoca ero ministro della Giustizia, e dopo quella sentenza andai a Strasburgo per parlare con la Segretaria generale del Consiglio d’Europa. Le dissi che la mafie non sono fenomeno astratto, e che certe leggi in Italia sono state scritte con il sangue dei servitori dello Stato.

Cosa le rispose?

Mi disse che sapevano della peculiarità delle storia italiana. E io controreplicai che il fenomeno delle mafie da tempo non era più confinabile all’Italia. Lei chiarì che il nostro Paese era libero di valutare caso per caso.

Però ora serve una nuova legge, e le distanze tra i partiti sul tema restano ampie.

Il M5S ha reagito alle pronunce della Consulta con una proposta di legge che tende a conservare l’impianto sull’ergastolo ostativo, quello voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fondamentale nella lotta alla mafia in questi anni. Altre forze politiche hanno presentato i loro testi, ma su un tema come questo non può esserci colore politico. Il Parlamento deve essere compatto e determinato.

Proponete che il detenuto debba dimostrare di non avere più rapporti con la criminalità organizzata. Ma dimostrarlo in termini pratici pare difficile.

Sarà un problema del mafioso. La nostra proposta è chiara e rispetta le coordinate tracciate dalla Corte: non ci deve essere alcun pericolo di ripristino di tali collegamenti e non sarà sufficiente, a differenza di quanto certamente auspicavano molti mafiosi, la mera dissociazione dalle organizzazioni criminali di provenienza. Inoltre, il detenuto deve aver risarcito tutti i danni. Dopodiché, a nostro avviso, l’unico modo certo per rescindere quel rapporto resta la collaborazione con la giustizia.

Volete rendere impossibile accedere a quei benefici, di fatto.

Ribadisco che ci siamo mossi nel solco della Consulta. Nel testo prevediamo, oltre ad altri paletti, l’acquisizione del parere sulla concessione dei benefici da parte gli addetti ai lavori – dalla procura distrettuale antimafia a quella nazionale – e la possibilità di discostarsi da quei pareri, obbligatori ma non vincolanti, solo con una specifica e articolata motivazione.

Prevedete anche la competenza esclusiva del Tribunale di sorveglianza di Roma. Ma i giudici nella Capitale non conoscerebbero i dossier, a differenza di quelli locali.

Abbiamo previsto la competenza esclusiva di un tribunale unico per garantire maggiore uniformità delle decisioni in tutta Italia in una materia così delicata. Nella legge sono previsti meccanismi di consultazione dei territori.

La vostra proposta e quella del Pd sono molto diverse: ma sulla mafia i giallorosa dovrebbero cercare un’intesa.

Non voglio commentare altre proposte. Dobbiamo uscire dalla normale dialettica e ci dobbiamo concentrare sulla risposta. Mercoledì iniziano le audizioni in cui ascolteremo vari addetti ai lavori, e spero che poi tutti i partiti convergano su una risposta forte. Per noi e Giuseppe Conte questa legge è una priorità: per questo abbiamo ottenuto la calendarizzazione in aula alla Camera a novembre.

Ergastolo ostativo L’autunno caldo. Boss in libertà I pareri: delle toghe

Entrerà nel vivo, da mercoledì, la discussione in commissione Giustizia alla Camera sull’ergastolo ostativo, la norma che, attualmente, impedisce a detenuti mafiosi e terroristi di accedere alla libertà condizionata se non hanno collaborato. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, l’ex procuratore Gian Carlo Caselli e anche l’ex Pg di Palermo Roberto Scarpinato, sono tutti stati chiamati per esprimere il loro parere (che Il Fatto in alcuni casi ha già raccolto) sui disegni di legge presentati da diverse parti politiche. Il Parlamento, infatti, ha tempo fino al maggio 2022 per approvare una modifica dell’attuale normativa (articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario). A dettare la linea di un ammorbidimento della legge e anche i tempi in cui deve avvenire, è stata la Corte costituzionale con una sentenza del 15 aprile, dopo che la Cassazione aveva chiesto che dichiarasse l’illegittimità costituzionale della norma.

La sentenza la corte: “art. 4 bis incostituzionale”

La Corte, però, ha scelto una “terza via”: ha stabilito la violazione dei principi dell’uguaglianza e della rieducazione della pena (articoli 3 e 27) e del divieto di pena disumana (articolo 3 della Cedu) e contemporaneamente ha anche deciso che deve intervenire il Parlamento. Che dovrà tenere conto, come hanno indicato i giudici, “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”.

Non siamo nel campo dei tecnicismi: le modifiche del 4 bis avranno conseguenze concrete su quel sistema di contrasto alla mafia ideato da Giovanni Falcone e diventato legge solo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. E soprattutto riguarderanno la condizione in cui si trovano importanti boss, come – in astratto – anche boss stragisti come i fratelli Graviano o Leoluca Bagarella, appena condannato in Appello a 27 anni nell’ambito del processo sulla Trattativa.

In aprile la Consulta non si è spinta fino a un intervento netto come nel dicembre 2019, quando la Corte, presieduta dall’attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha consentito, sia pure tra diversi paletti, i permessi premio pure ai boss o terroristi ergastolani che non hanno collaborato.

M5s, fdI e Pd Le tre proposte di legge in discussione

All’esame della commissione Giustizia ci sono dunque tre proposte di legge. Quella targata M5S (firmata da Vittorio Ferraresi, Alfonso Bonafede, Giulia Sarti e altri) si preoccupa di non aprire varchi ai mafiosi con questa modifica imposta dalla Consulta. Per poter accedere non solo alla libertà condizionata, ma anche ai permessi premio, il detenuto dovrà fornire “elementi concreti”, al di là della “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale, che consentano di escludere con certezza” collegamenti con i clan; deve anche giustificare il perché della mancata collaborazione; deve dimostrare di aver risarcito le vittime del reato da lui commesso e in caso contrario deve dimostrare di non averne le possibilità. A decidere in merito ai benefici di legge, secondo il ddl M5S deve essere, come chiedono i magistrati antimafia, un unico ufficio, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, in modo da non sovraesporre i singoli giudici. Simile la proposta di Fratelli d’Italia (iniziativa dei deputati Delmastro Delle Vedove, Ciaburro e altri), che chiede la prova che i detenuti abbiano rescisso ogni legame con le associazioni criminali. “A tal fine – si aggiunge – il magistrato di sorveglianza acquisisce dettagliate informazioni”, per esempio anche in merito alla mancata collaborazione e fa le proprie valutazioni. C’è anche un ddl precedente alle pronunce della Corte costituzionale, della deputata Vincenza Bruno Bossio (Pd). Propone che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, ma vorrebbe un giro di vite per i pareri dei pm antimafia: senza valutazioni sulla concessione dei benefici, si dovrebbero limitare solo a “elementi fondati e specifici” sui collegamenti o meno dei detenuti con gli ambienti criminali.

I magistrati “si tratta di uno strumento irrinunciabile”

La commissione Giustizia comincerà con le audizioni di rappresentanti di categoria e magistrati già da mercoledì. Alcuni li abbiamo sentiti per anticiparci qualche punto che, a loro parere, dovrebbe contenere la nuova normativa. Secondo Gian Carlo Caselli “si dovrà escludere la rilevanza di ogni mera dichiarazione di dissociazione, posto che la stessa Consulta l’ha definita come un atteggiamento facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan. Né dovrà bastare la buona condotta carceraria del boss ergastolano, come indicato anche dalla stessa Corte. Quindi auspico che si preveda uno speciale rilievo delle relazioni obbligatorie dei procuratori (nazionale e distrettuali) antimafia che potranno essere disattesi, ma solo in base a un’attenta, puntuale e specifica motivazione”. “In caso di impugnazione del pm – conclude l’ex procuratore –, il provvedimento non dovrebbe essere eseguibile fino alla successiva pronuncia”. Il giudice di Sorveglianza di Napoli ed ex pm a Palermo, Alfonso Sabella (che sarà in commissione giovedì), sentito dal Fatto, parte da una premessa: “La sentenza della Corte costituzionale ce la siamo un po’ cercata: abbiamo esagerato nella misura in cui abbiamo fatto morire al 41-bis Bernardo Provenzano, ormai un vegetale e Raffaele Cutolo, che era a capo di una organizzazione camorristica che non ha più potere da 20 anni. Ma riconosciuti questi errori di ‘applicazione di pancia’, deve essere chiaro che non possiamo permetterci di rinunciare a strumenti come questo, imprescindibili per il contrasto alle mafie”. Secondo Sabella c’è del buono nella proposta M5S: “È centrata nella misura in cui chiede una prova reale dell’interruzione di qualsiasi collegamento del detenuto con l’organizzazione criminale”.

Nelle intenzioni dei 5Stelle c’è poi anche la possibilità di chiamare in commissione Giustizia alla Camera anche il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (non ancora convocato formalmente). Ex pm antimafia a Caltanissetta e a Roma, Tescaroli vorrebbe che la nuova normativa contenesse un’eccezione restrittiva per boss di spicco ergastolani che non hanno collaborato: “Il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, sino all’annientamento del relativo sodalizio. La caratura di questi detenuti potrebbe essere stabilita da relazioni delle Procure distrettuali e della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, che dovrebbero essere vincolanti per il giudice. In tutti gli altri casi, si potrebbe prevedere che il giudice si possa discostare da un eventuale parere negativo dei pm, ma con provvedimenti specificatamente motivati”. Come tanti altri magistrati antimafia, se non la totalità, Tescaroli auspica che “la semplice dissociazione, anche con dichiarata ammissione delle proprie responsabilità, sia esplicitamente esclusa come prova del ravvedimento del detenuto; dovrebbe, inoltre, esserci un obbligo di dimora in aree diverse da quelle del sodalizio criminale di appartenenza del detenuto ergastolano”.

La questione ora è in mano alla politica.

Sofferenze, sono i grandi amici debitori a pesare sulle banche

Entrare in filiale e ottenere un prestito resta sempre un’operazione complicata per i piccoli clienti, ma non c’entra solo la pandemia e la stretta creditizia. Anche quando le banche continuano a fare le banche, i maggiori beneficiari, o almeno quelli che poi vanno in difficoltà, sono soprattutto grandi gruppi industriali. In teoria sarebbero quelli più affidabili, ma spesso sono soprattutto loro a ingolfare le “sofferenze” bancarie, i crediti inesigibili. Certo, ci sono le famiglie con le rate dei mutui o del credito al consumo in difficoltà, ma i dati mostrano che ci sono 126 grandi soggetti che da soli hanno accumulato 2,9 miliardi di sofferenze (il 6% del totale). È quanto emerge dall’ultimo studio della Fabi, il sindacato dei bancari, che ha realizzato la “Mappa delle sofferenze bancarie”, fotografando la situazione al marzo scorso rispetto alle variazioni sul 2020.

Nel dettaglio, circa la metà delle sofferenze, sul totale di quasi 50 miliardi di euro, si riferisce a finanziamenti di importo rilevante, superiori a 1 milione di euro. Si tratta di 23,8 miliardi dei 47,6 miliardi complessivi, riconducibili a 11.989 soggetti (famiglie e imprese) che corrispondono soltanto al 2,36% della galassia della clientela degli istituti di credito interessata dal fenomeno delle rate non pagate. Mentre ad appena 126 soggetti fanno capo ben 2,9 miliardi di sofferenze relative a prestiti oltre 25 milioni di euro, in altre parole lo 0,02% della clientela è addirittura responsabile del 6,12% delle sofferenze. Pochi soggetti che, nella platea di oltre mezzo milione di cattivi pagatori dell’industria creditizia, hanno una incidenza significativa sulle sofferenze del settore bancario. E la percentuale sale, se si prendono in considerazione i prestiti sopra i 500.000 euro: il 4,39% dei clienti è responsabile del 60% delle rate non pagate, vuol dire che a 22.290 soggetti corrispondono oltre 28 miliardi di sofferenze.

La pericolosa zavorra delle sofferenze che grava sul sistema creditizio non risulta invece così appesantita dai piccoli debitori (famiglie, partite Iva, piccole e medie imprese) che, nonostante abbiano avuto maggiori difficoltà nell’anno del Covid, sono prima riusciti a ottenere il prestito e poi a saldare le rate dei finanziamenti. Tra marzo 2020 e marzo 2021, sono infatti solo lievemente salite le percentuali di sofferenze relative ai prestiti di importo più contenuto: quelli fino a 30.000 euro valgono il 5,12% del totale delle sofferenze contro il 4,62% di un anno fa; i finanziamenti fino a 75.000 euro sono saliti dal 5,29% al 6,03%, mentre per quelli fino a 125.000 euro l’incidenza sul totale è passata dal 5,65% al 6,53%.

Parliamo comunque di un flusso notevole di denaro aiutato dalle garanzie pubbliche sui prestiti decise con i vari decreti Covid (dal Cura Italia al dl Liquidità). Misure che, tuttavia, hanno anche dimostrato come l’ingente crescita delle richieste di finanziamento arrivate alle banche siano poi state trattate con due pesi e due misure: un’erogazione molto rapida per le grandi aziende e una via crucis per i piccoli che si sono visti imporre paletti o controlli aggiuntivi in aggiunta a un meccanismo già farraginoso di suo. E, come ha denunciato il Fatto, soprattutto i prestiti fino a 30 mila euro sono stati erogati con un consiglio spassionato dai gruppi bancari più importanti: usarli per chiudere i fidi già aperti per mettere le banche al riparo da possibili insolvenze.

Intanto, però, il macigno di prestiti e mutui sottoposti a moratoria, quasi 300 miliardi, potrebbe appesantirsi di più nei prossimi mesi. Sebbene la misura sia stata prorogata fino al 31 dicembre sono comunque state modificate alcune condizioni: dal 1° luglio 2021 vanno di nuovo pagati gli interessi; la moratoria non è più automatica; ne possono beneficiare solo le imprese e i professionisti già ammessi. Una restrizione che potrebbe mettere in difficoltà molto presto famiglie e imprese. Sempre alla fine dell’anno scadranno anche la copertura della garanzia al 90% per i finanziamenti fino a 30 mila euro e quella all’80% per gli altri finanziamenti fino a 5 milioni di euro. Ma tanto per le imprese non scadranno mai i rapporti personali con i banchieri.

Senza Palenzona, i Benetton se ne vanno. Assaeroporti si spacca: via Adr e Save

Il senso del messaggio è chiaro: se la Atlantia dei Benetton non comanda, se ne va. È successo in Assaeroporti, l’associazione che racchiude i gestori degli scali italiani. Ieri è arrivata la spaccatura, con Aeroporti di Roma, che gestisce gli scali della capitale ed è controllata da Atlantia (la holding controllata dai Benetton), che ha annunciato l’uscita insieme a Save, che gestisce lo scalo di Venezia.

La scelta è dettata da uno scontro interno sugli assetti di potere. Per 15 anni l’associazione è stata un feudo di Adr, il cui presidente, Fabrizio Palenzona, storico manager dei Benetton, è rimasto per 8 nella tolda di comando (anche se dal 2016 ha lasciato la società degli scali romani). Palenzona è stato costretto a lasciare quando il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha dovuto ricordargli che le cariche nelle associazioni collegate non possono superare i due mandati, ampiamente superati. Ad aprile Confindustria ha intimato la nomina del successore, pena il commissariamento. Le complesse procedure interne hanno portato a giugno scorso all’elezione del nuovo presidente, Carlo Borgomeo, presidente della Gesac di Napoli, dopo che il secondo candidato individuato dai “saggi” dell’associazione, Angelo Piazza (vicepresidente di Save e candidato di Adr) si era dovuto ritirare perché non avrebbe ottenuto la maggioranza dei voti. Il giorno dell’elezione in cui Adr e Save hanno sancito lo strappo, annunciando la creazione dell’associazione “Aeroporti 2030”, di cui hanno nominato presidente Alfonso Celotto. Ieri è arrivata l’uscita di scena. “Abbiamo comunicato ad Assaeroporti, con rammarico, la propria decisione di uscire dall’Associazione, constatata già da mesi l’impossibilità in questo momento di portare avanti un dialogo proficuo su temi centrali come la sostenibilità, l’intermodalità e l’innovazione digitale”, ha spiegato Adr.

Si assiste così al processo inverso di quanto avvenuto in Asicat, la Confindustria dei concessionari autostradali. Anche questa è da sempre un feudo di Altantia, attraverso Autostrade per l’Italia, e qui Palenzona è rimasto alla guida per 18 anni, riuscendo sempre nell’impresa di far incassare ai signori del casello sontuosi rincari dei pedaggi grazie a ministri sempre compiacenti. Costretto a lasciare dal solito Bonomi, Palenzona (insieme ad Aspi) ha spaccato l’associazione facendo eleggere Diego Cattoni (Autobrennero) dopo aver sabotato la candidatura di Mauro Fabris, del gruppo Toto, che ha così lasciato Aiscat.

“Il salario minimo aiuta l’economia, basta timori da imprese e sindacati”

“La strada è quella giusta, speriamo sia la volta buona”. Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, promuove pienamente il salario minimo. “Purtroppo – spiega – arriviamo sempre ultimi su dibattiti e problemi che in altri grandi Paesi d’Europa sono già all’ordine del giorno, o anche risolti, da tempo. Vale per misure come il Reddito di cittadinanza, ma anche per la riduzione dell’orario di lavoro: in Islanda e Spagna lo stanno sperimentando, da noi è tabù. Abbiamo però il vantaggio di poter imparare dalle esperienze altrui.

E qual è la lezione?

In nessun Paese questa misura ha ridotto l’occupazione.

Perché è importante il salario minimo legale?

C’è un’enorme platea di lavoratori poveri con livelli salariali molto bassi, quasi 3 milioni di lavoratori, di cui circa 2 a tempo pieno e 700 mila a tempo parziale. E questo senza contare i parasubordinati. Avere un così elevato livello di working poors danneggia la produttività, induce le imprese a competere solo sul costo del lavoro senza investire in tecnologie migliorando i processi produttivi. È quasi un riflesso incondizionato: più i salari sono bassi, più questo fenomeno avviene.

I sindacati lo hanno sempre osteggiato.

Temono danneggi il loro potere contrattuale, ma è una diceria senza fondamento. È vero il contrario. Intanto creerebbe una rete di protezione per i lavoratori più fragili, quasi sempre impiegati nei settori dove la copertura sindacale non arriva o dove proliferano i contratti pirata siglati da sigle fasulle. E poi perché parliamo di un livello minimo, a partire dal quale si può sviluppare la capacità contrattuale dei lavoratori. Dove i sindacati sono forti, sono in grado di contrattare livelli superiori a quello minimo. Infine il sindacato può essere coinvolto nel processo di fissazione del livello salariale minimo e nel suo aggiornamento, come accade in Francia con le commissioni paritetiche. La misura rafforza i sindacati, non li indebolisce. E forse se ne stanno accorgendo.

Il salario minimo ha molti nemici, a partire dalle imprese.

Si cita spesso a sproposito il presunto aumento dei costi di quasi 6 miliardi con l’introduzione di un salario minimo a 9 euro lordi orari, ma è una cifra che da sola non vuol dire nulla perché è una variabile aggregata. Di sicuro aumenta il gettito per l’Erario e la capacità di spesa dei lavoratori che si traduce in maggior domanda aggregata, cioè consumi. Ridurre la disuguaglianza dei redditi ha effetti benefici per l’economia. Lo diceva anche Henry Ford: i salari bassi nuociono all’industria, prima che alla manodopera.

L’effetto sulle aziende ci sarà però.

Certo. Alcune imprese potrebbero non sopportare un salario minimo troppo elevato, ma bisogna distinguere tra quelle esposte alla concorrenza e quelle no. Paradossalmente la maggior parte di quelle coinvolte dalla misura sono nel secondo gruppo: servizi privati, ristorazione, noleggi etc. Potrebbero essere indotte a scaricare il maggior costo sui prezzi o a chiudere. Ma la frusta salariale spiazza soprattutto le imprese inefficienti a vantaggio di quelle più efficienti secondo un benefico processo di selezione schumpeteriano. Diverso è il caso di quelle esposte alla concorrenza internazionale, in quel caso si può pensare a un sostegno pubblico temporaneo, via decontribuzione o sgravi fiscali.

Quale dovrebbe essere la soglia minima?

Il range è tra il 60% del reddito mediano e il 50% del reddito medio, cioè tra 7,65 e 10,59 euro lordi l’ora. Nove euro è un livello adeguato, ma penso che vada parametrato al settore, alla dimensione delle imprese e alla produttività per evitare effetti dirompenti. Teniamo conto che l’incidenza dei potenziali beneficiari sugli occupati è del 34% tra i dipendenti delle imprese con meno di 10 addetti e del 3,8 tra quelle oltre i 1000 addetti”.

Conte: “Il patto sociale non può essere solo con Confindustria”

“Dobbiamo lavorare a un patto che non sia solo con Confindustria, o con singole associazioni di categoria, ma anche con i sindacati, che io ho sempre coinvolto a tutti i livelli, e con tutte le associazioni di categoria”: Giuseppe Conte è a Napoli, a Fuorigrotta, quando risponde alla domanda di un giornalista, ma di fatto anche alle parole del premier Draghi dall’assemblea di Confindustria sulla necessità di un “patto per l’Italia”. Un commento che arriva a meno di 24 ore da quando, a Bologna, su questo tema sembra esser nata un’intesa tra l’ex maggioranza giallorosa. Il leader del Movimento alza semplicemente il tiro: “Non si può tenere fuori dal dialogo e dalla rappresentanza del Paese nessuna componente costituente”, conclude.

All’evento della Cgil, venerdì a Bologna, l’intesa sembrava avere trovato, almeno a parole, sul salario minimo un punto di partenza per poter prendere in considerazione qualsiasi tipo di “patto” e concertazione futura. Anche il leader della Cgil, Maurizio Landini tradizionalmente cauto sul tema, ha per la prima volta aperto all’ipotesi, anche se da affiancare alla riforma della rappresentanza sindacale, in armonia con le posizioni prima del segretario del Pd Enrico Letta, poi del ministro del lavoro Andrea Orlando. Infine, pure del leader dei 5Stelle Giuseppe Conte, che ha rivendicato il salario minimo come una battaglia portata avanti proprio dal Movimento.

Tutti contenti perché, di fatto, si riserva un peso grande alla concertazione sindacale e all’identificazione dei contratti nazionali che siano davvero rappresentativi. Sui termini si dovrà discutere. “L’idea di introdurre un salario minimo non è contro il sindacato, anzi, è completamente integrato – ha detto ieri il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico –. Sono consapevole della necessità nel nostro Paese di una legge sulla rappresentanza e del fatto che la contrattazione a quel punto debba valere erga omnes. Al di sotto però di un certo livello, lo Stato dice che non è dignitoso lavorare”. Tridico spiega che oggi ci sono almeno 2 milioni i lavoratori che vengono pagati 6 euro all’ora lordi. “Ci sono rider – conclude – che corrono per le nostre città, che fanno incidenti anche mortali e che guadagnano 4 euro all’ora. Questo non è tollerabile”.

Dopo lo stralcio della proposta di una retribuzione minima legale inserita e poi rimossa, nel Recovery Fund, l’ultimo disegno di legge presentato dalla senatrice 5S ed ex ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, prevede 9 euro lordi l’ora come soglia minima assieme a un meccanismo per misurare la rappresentatività dei sindacati e quindi definire quali contratti potranno essere validi. Porre fine, in pratica, ai cosiddetti “contratti pirata”. Ma alcune proposte, anche se diametralmente opposte nelle intenzioni, erano arrivate qualche anno fa pure dallo stesso Pd. Sono tutte ferme in Commissione Lavoro alla Camera. Chissà che qualcosa non inizi davvero a cambiare.

“Le 500mila firme non si toccano”

“Diciamoci la verità: se una battaglia è sentita dai cittadini non c’è numero di firme che tenga, digitali o meno”. Giuseppe Brescia (M5S), presidente della Commissione Affari costituzionali alla Camera, è netto: aumentare la soglia delle 500mila firme per i referendum popolari, dopo che da luglio si possono raccogliere online, sarebbe un modo per ostacolare la partecipazione dei cittadini. O peggio, dissuaderla.

“Anzi – aggiunge Brescia – dobbiamo fare un passo in avanti approvando la riforma del referendum propositivo, già votata alla Camera. Oggi i cittadini possono solo abrogare norme e non sono in condizione di articolare una proposta in maniera compiuta. Col referendum propositivo apriamo questo canale di dialogo con le istituzioni”. Il testo, fermo al Senato da tempo, prevede un nuovo quorum approvativo, invece di quello partecipativo. E il quesito passerebbe solo se i sì superano il 25 per cento degli aventi diritto. “Dobbiamo aggiornare le istituzioni – spiega Brescia – non temere l’iniziativa dei cittadini. Se su certi temi il Parlamento non decide, anche dopo sentenze della Consulta, è giusto che decidano i cittadini”.

Alcuni giuristi, invece, dopo il boom di firme raccolte tramite Spid (il Sistema pubblico di identità digitale), stanno avanzando la proposta di aumentare la soglia a 800mila. Le motivazioni sarebbero due: le firme online adesso sono più facili da raccogliere; inoltre, 500mila firme oggi hanno un altro significato rispetto alle stesse nel 1947. Ma è proprio su quest’ultimo punto che Andrea Pertici, docente di Diritto costituzionale all’Università di Pisa, ribatte: “Le 500mila firme vennero individuate come numero tale da assicurare la serietà della richiesta, non come ostacolo alla presentazione delle firme. Aumentarle vorrebbe dire rendere più difficile il referendum”. L’attenzione, sostiene, si dovrebbe spostare piuttosto sul quorum, superato di rado nelle ultime votazioni referendarie, come prevede la riforma costituzionale ferma al Senato.

Ieri, intanto, è arrivato l’allarme del Comitato promotore del referendum sulla cannabis, che ha denunciato ritardi da parte di 1.400 Comuni italiani nell’invio dei certificati elettorali. “I tanti giuristi allarmati e un po’ allarmisti sui rischi che l’istituto referendario rivitalizzato con lo Spid possa travolgere la democrazia parlamentare – ha detto Riccardo Magi (+Europa) – ora che si tratta di difendere il referendum in base alla legge che prevede che i Comuni rispondano entro il termine improrogabile di 48 ore fornendo i certificati dei firmatari, vedo che non si scandalizzano”.

“Come nel Congresso di Vienna: è nato il premierato assoluto”

“Quello di giovedì sembrava il Congresso di Vienna, quando i sovrani hanno ripreso il possesso delle loro regge: è iniziata la Restaurazione”. Marco Revelli, 73 anni, da storico e politologo è preoccupato per l’ovazione a Mario Draghi all’assemblea di Confindustria. Nei partiti e sulla grande stampa da quel momento si è iniziato a invocare un partito per Draghi. Ipotesi che spaventa Revelli: “Confindustria e i poteri economici ordinano, i partiti si allineano: così non saremo più una democrazia parlamentare, ma un premierato assoluto guidato da un banchiere”.

Professore, come interpreta l’endorsement di Confindustria per Draghi?

In un Paese civile quello che è successo giovedì dovrebbe preoccupare. In primis perché gli industriali italiani hanno applaudito il presidente del Consiglio come se fossero lì per incassare l’investimento fatto nel 2018: dalle elezioni politiche hanno lavorato per quello, per Draghi, e all’assemblea si sono congratulati con se stessi. E poi dovrebbe preoccuparci il nostro sistema dell’informazione. La grande stampa, a partire da Repubblica, ha parlato subito di un partito di Draghi. Tutto questo significa che un potere economico come la Confindustria si è costituito in un potere politico. Qualsiasi politologo che si è formato nella seconda metà del Novecento ritiene fondamentale la separazione tra il potere politico, economico e culturale, inteso come sistema dell’informazione. Qui, invece, assistiamo alla fusione di tutti e tre i poteri. Un fatto drammatico.

Anche nei partiti, dal Pd alla Lega, c’è dibattito: in molti vogliono Draghi oltre il 2023.

Sì, la politica tutta si è accodata a cominciare dal Pd e dalla Lega di Giancarlo Giorgetti che vorrebbe governare molto di più con Draghi che con la Meloni. Ma questi non capiscono che il governo Draghi sta provocando lo sgretolamento di quel che restava del sistema dei partiti italiani. Tutti i partiti ne stanno subendo le conseguenze con spaccature evidenti: si è iniziato con il M5S, passando per il Pd che nasconde dieci correnti dietro il volto presentabile di Letta e la stessa Lega che è attraversata da convulsioni profonde. Potremmo dire: sotto il banchiere nulla.

Ma nel 2023 si vota. Che succede dopo?

Basta vedere quello che è successo giovedì: Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, era il vincitore. È riuscito dopo tre anni a sconfiggere le urne. Nel 2018 il voto era stato uno choc per il sistema politico e da subito l’establishment economico si era mosso per rovesciare quel risultato. Fin da allora Draghi era stata la bandiera della Restaurazione e giovedì sembrava di assistere al Congresso di Vienna. Per questo adesso si stanno tutti muovendo per disinnescare un risultato che nel 2023 potrebbe mandare all’aria il loro disegno. Il voto da questi poteri è visto come un disturbo: se dalle urne uscirà un risultato che non gradiscono si muoveranno per neutralizzarlo.

Vivremo perennemente commissariati?

Ma ormai non è nemmeno più un commissariamento: il nostro Paese è governato dagli interessi economici prevalenti. In più il Parlamento ormai è marginale. Questa non è più una democrazia parlamentare ma quella che Gustavo Zagrebelsky chiamerebbe una democrazia esecutoria, cioè dominata dall’esecutivo. Anzi vado oltre, siamo un premierato assoluto: il governo si identifica solo nella figura del suo capo.

Anche la classe industriale giovedì ha dato prova di volere un uomo solo al comando, cioè Draghi.

Certo, quell’ovazione unanime di questi rappresentanti del nostro capitalismo straccione, tutti in piedi per applaudire il banchiere centrale, mi hanno fatto pensare a un’altra forma di populismo. Un populismo gentile, delle élite. Potremmo dire che con questo approdo, il populismo ha completato il suo giro: tutti i populismi finiscono la loro corsa a destra. Incontrano un potere e si sciolgono in quello. Può essere un generale, un demagogo, ma anche una corporazione potente o un gruppo di interessi. L’ondata populista oggi produce poteri personali e industriali. E il popolo è inerte, sfibrato.

In cosa consiste la Restaurazione?

Faccio qualche esempio: la riforma Cartabia, la candidatura di Berlusconi al Quirinale, l’assoluzione nel processo sulla trattativa Stato-mafia e adesso la spinta per Draghi nel 2023. Tutti segnali di un clima da conservazione.

E il Paese lo accetta?

Un Paese che non è più in grado di indignarsi è pronto ad accettare qualunque cosa perché è solo interessato alla propria sopravvivenza. È come se dicessimo: prendiamoci la mafia, la nipote di Mubarak, i pluricondannati nelle istituzioni, prendiamoci tutto e magari pensiamo anche che vada bene così. E invece no, non può andare bene così.