La Meloni scappa dai No Vax, Salvini non molla Durigon

A Enrico Michetti e Luca Bernardo, candidati sindaci della destra a Roma e a Milano, non ne va dritta una. Ieri sono finiti vittime del fuoco incrociato tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che hanno fatto di tutto per tenerli nascosti durante i comizi conclusivi della propria campagna elettorale. E come se non bastasse, a Milano, Fratelli d’Italia ha dovuto sbaraccare da un momento all’altro la manifestazione in piazza Duomo per colpa delle agitazioni del corteo No Green pass, che ha provato a forzare il cordone della Polizia e avvicinarsi al palco di Meloni, scappata per un pelo passando con l’auto proprio in mezzo ai contestatori.

Un pomeriggio di festa politica per FdI – che a Milano fiuta il sorpasso sulla Lega – finito con la paura per i manifestanti, rimasti per ore intorno al Duomo e arrivati un paio di volte allo scontro frontale con la Polizia. Botte e lanci di bottiglie hanno rischiato di portare fuori controllo una situazione che poi invece, per fortuna, si è risolta senza feriti gravi.

Certo, Meloni e Bernardo speravano in un saluto più sereno. Soprattutto il candidato sindaco, accolto da diverse centinaia di persone, ma senza che il suo nome comparisse in nessuno dei cartelloni.

Il primo ad arrivare è un entusiasta Ignazio La Russa, poi ecco Bernardo e poco dopo il capolista Vittorio Feltri, giunto con l’aria scocciata di chi è stato appena tirato giù dal divano: “Non so che sentimenti provi Salvini a vedere che FdI cresce – sghignazza il direttore di Libero –, ma a me girerebbero i coglioni”. Poi arriva la Meloni e si prende la scena. Bernardo tiene la parola per cinque minuti, scende dal palco e sale Giorgia: in 40 minuti di comizio parla di tasse, reddito di cittadinanza (“Lo ribadisco: è un metadone”), Covid, ma quasi mai di Milano, tanto da non nominare mai il candidato. Quando le si chiede se ci sarà una manifestazione unitaria del centrodestra, Meloni abbozza un sì poco convinto: “Faremo un’iniziativa insieme, non so se sarà una piazza ma qualcosa faremo. Purtroppo le agende sono fittissime”. Poi però il corteo No Green pass – che se la prende pure con FdI – si avvicina e Meloni è costretta a tagliar corto: la manifestazione si chiude, Bernardo oggi sarà all’evento finale di FI e domani a quello della Lega. Cercando un’unità quasi impossibile.

Ma anche a Roma, al ritrovo leghista di Tor Bella Monaca, il candidato Enrico Michetti viene nascosto a lungo. La piazza è per metà vuota, ci saranno 1.500 persone e molti sono stati precettati da fuori Roma: vengono da Marino, da Orte, nessuno è del quartiere. Al massimo qualche residente si affaccia intimorito dalla finestra di largo Brambilla, considerata la piazza di spaccio della zona. L’organizzatore è lui, Claudio Durigon. Vestito di rosso, dopo le dimissioni da sottosegretario è il proconsole di Salvini in Lazio. Gestisce tutto: il palco, le bandiere, i cartelli, l’angolatura dei selfie. Lo scandalo sul parco Falcone e Borsellino, nel giorno in cui Salvini propone Mario Mori senatore a vita? “È stato un errore”. L’inchiesta di Fanpage sui 49 milioni della Lega appena oscurata? “Rispetto la libertà di stampa, ma anche quella dei giudici”.

Poi arriva il capo, qui è “il Capitano”. Prende la parola per presentare Michetti: “Tutti si chiedono: ‘È il candidato giusto?’”. Imbarazzo, nessuna risposta. Ecco Michetti. Parla cinque minuti, stavolta gli hanno detto di non fari riferimenti agli imperatori, a Cesare e Ottaviano Augusto. E lui va al punto: “A Roma ci vogliono 5 mesi per risolvere la pratica di un condono”. Promette due assessorati, uno alle periferie e uno alla disabilità. Pochi applausi. Conclude così: “Ve vojo bbenee”. Salvini invece viola il divieto di riferire sondaggi azzardando che Michetti è “10 punti avanti a Gualtieri” e attacca la Raggi perché “non basta l’onestà” (lei risponde: “Vai in periferia solo in campagna elettorale”). Parla solo di temi nazionali: non nomina mai FdI, manda una frecciata ai governatori (“La Lega non può essere solo quella del Nord, ma deve unire tutto il Paese”) e attacca Il Fatto e Repubblica che “dicono che i sondaggi vanno male”. Peccato che in mattinata, dagli stati generali della Lega Lombarda a Varese, è stato Giancarlo Giorgetti a mettere le mani avanti su un risultato negativo: “È noto che l’astensionismo penalizza più il centrodestra che il centrosinistra”. Ma non ditelo a Salvini.

FI, i due “Francesco” fratelli: nella Capitale il candidato si sdoppia

La campagna elettorale romana riserva sempre delle sorprese. Soprattutto nel centrodestra, dove le gaffe e le assenze di Enrico Michetti ormai non fanno più notizia. L’ultima barzelletta è quella del candidato doppio: si candida uno, ma poi la campagna elettorale la fa un altro.

La storia viene dal XIII municipio, vasta zona (Aurelia e Boccea) a nord-ovest della Capitale dove ora governano i 5Stelle, con Giuseppina Castagnetta. Candidato al consiglio municipale, nella lista di Forza Italia, Edoardo Collarino detto “Francesco”. Il fatto curioso è che Edoardo Collarino, nato il 28 dicembre 1997, ha un fratello maggiore che si chiama Francesco, nato il 27 novembre 1991, che è un volto noto nella politica di zona (nella foto). Francesco Collarino, infatti, è stato per anni coordinatore dei giovani della Lega nel quartiere, legato politicamente al consigliere regionale del Carroccio, Daniele Giannini. Come segnalano alcuni abitanti dell’Aurelio, è Francesco a fare campagna elettorale al posto del fratello Edoardo, che però è il vero candidato. Ciò si evince anche dal profilo Facebook di quest’ultimo dove nelle foto compare quasi sempre suo fratello, Francesco appunto.

Ed è proprio Francesco a farsi ritrarre sorridente insieme a Michetti e a un’altra candidata, Giorgia Civitenga, il 21 settembre scorso. “Questa sera operativi con il candidato sindaco Enrico Michetti per una nuova Roma!”, recita il post sottostante. Se vi fosse rimasto qualche dubbio, c’è pure il santino elettorale dove in primo piano c’è proprio Francesco Collarino e solo dietro, alla sua destra, il fratello Edoardo. Il vero candidato, però, è lui, Edoardo, volto noto in città per aver giocato qualche anno nella primavera della Lazio. “Il candidato sono io, mio fratello mi sta solo dando una mano. Non è vero che fa campagna elettorale al mio posto. Del resto di iniziative non ne abbiamo fatte, giusto qualche banchetto”, risponde Edoardo Collarino. “Nel santino elettorale c’è anche lui perché siamo una squadra”, aggiunge. Sì, ma perché scrivere sulla lista elettorale Edoardo detto Francesco? “Per non generare confusione tra gli elettori”, è la sbalorditiva risposta che ci viene data, salvo poi chiudere sbrigativamente la conversazione.

“Nessun mistero: il candidato è Edoardo, scelto anche per il suo profilo civico. Se poi suo fratello gli sta dando una mano, non vediamo il problema”, tagliano corto dal coordinamento municipale di FI. “Questo sdoppiamento di candidatura è stato notato da tutti nel quartiere. La campagna la sta facendo Francesco, che da qualche tempo ha lasciato la Lega”, racconta una fonte del centrodestra. Resta un mistero il motivo per cui Francesco Collarino non si sia candidato direttamente, mandando avanti il fratello. Ma quello dei soprannomi è una costante. L’altra persona nel santino in questione, Giorgia Civitenga, in lista compare come “Giorgia Civitenga detta Giorgia detta Civi detta Civitella”. Nella lista della Lega, invece, c’è un Gabriele Taiani “detto Tajani”. Mentre nella lista Sgarbi dello stesso municipio è presente Annarita Carladami Di Francesco “detta Michetti”. Giochetti che si potrebbero evitare: basterebbe vietare la presenza dei soprannomi nelle liste elettorali.

“Gualtieri ha ricandidato i miei pugnalatori: io fui il primo ad aprire al M5S”

Il professore che a Roma è stato sindaco e anche marziano pone gentilmente una condizione: “Non mi faccia esprimere sulle singole candidature al Campidoglio”. Su tutto il resto, Ignazio Marino parla al Fatto da Philadelphia, dove è vicepresidente della Thomas Jefferson University e insegna Chirurgia.

In un post lei ha scritto di ritenere sincere le scuse che le aveva formulato Virginia Raggi e ha fatto notare che nel Pd sono stati ricandidati gli stessi che la mandarono via. Come mai sono ancora lì?

Sono stupito dall’eco di una riflessione in cui ho solo scritto la verità. Roberto Gualtieri ha definito un errore quello del Partito democratico, che inviò consiglieri comunali da un notaio per far decadere il sindaco (Marino ovviamente, ndr). Ma il Pd ha ricandidato quei consiglieri. Anche in chirurgia vengono commessi errori ma, in quei casi, si affianca al chirurgo una figura che lo accompagni per un periodo nel suo percorso. Gli elettori dem hanno apprezzato le scelte strategiche che feci da sindaco, ma il Pd in quanto nomenclatura non apprezza la mia libertà intellettuale.

La campagna elettorale per Roma pare piuttosto in tono minore, non trova?

Roma meriterebbe confronti fra candidati sulle tv nazionali. È la Capitale, ha un bilancio di oltre 5 miliardi di euro, 60.000 dipendenti e possiede grandi aziende. Ha ragione Carlo Calenda a chiedere ripetutamente confronti pubblici. Sono certo che se ci fosse stata la disponibilità di destra e sinistra né lui, né Virginia Raggi si sarebbero sottratti.

Fermo restando che Calenda al confronto alla festa del Fatto non s’è presentato, di cosa avrebbe bisogno con più urgenza la città?

Trasporti, rifiuti, sicurezza, disegno urbano e archeologia. Roma ha diritto di avere la propria quota del fondo nazionale trasporti senza la Regione come intermediario insolvente. Nel 2015, dopo la chiusura della discarica di Malagrotta, venne finanziato un piano con tre direttrici: autonomia degli impianti, incremento della produttività dei servizi e sviluppo della differenziata. Con nuovi ecodistretti dotati di biodigestori per la produzione di gas, e impianti per il trattamento delle plastiche e della carta. L’archeologia è un motore economico poco valorizzato. Poi il tema della sicurezza: servono risorse per una maggiore presenza di polizia e carabinieri, soprattutto di notte, su tutto il territorio.

Nel frattempo c’è stato anche il Covid…

La pandemia ha insegnato che molte attività possono essere svolte a distanza. Si deve investire nelle periferie gran parte del denaro che finora è stato speso nel centro. Dovranno essere realizzati alloggi a costo convenzionato per dare una risposta a chi cerca una casa. Il mercato immobiliare può essere rilanciato con progetti di rigenerazione urbana dentro alla città esistente, come avviene nelle grandi città europee che hanno dovuto ripensare il proprio ruolo dopo la stagione dello sviluppo industriale.

Pd e M5S stanno provando a costruire una coalizione, anche se nella Capitale corrono separatamente. Allearsi è la scelta giusta?

Nel 2013, quando vinsi le elezioni, proposi al M5S di entrare in giunta perché i nostri programmi erano quasi sovrapponibili. Tuttavia il percorso del Movimento negli ultimi anni è stato diverso dalle promesse. Dallo streaming sono passati alle stanze chiuse, identiche ai “caminetti” del Pd. Hanno abbandonato quasi tutti i loro ideali, dal vincolo dei mandati alla selezione della classe dirigente attraverso il curriculum. Io, invece, sono rimasto ancora lì.

Che ne pensa di Giuseppe Conte?

Penso che insieme a Roberto Speranza abbia saputo assumersi la responsabilità di decidere, soprattutto nella prima fase della pandemia. Non condivido la scelta di governare prima con la destra e poi con la sinistra: è molto lontano dal mio modo di pensare, io credo nelle ideologie. Ma deve essere riconosciuto che ha governato durante la più drammatica emergenza dopo la Seconda guerra mondiale.

È l’Italia di Mario Draghi, che gode di consensi quasi unanimi. Che impressione ne ha?

Mario Draghi ha un curriculum straordinario. Le sue scelte possono essere valutate e criticate, e la stampa lo deve fare, ma non c’è dubbio che goda di una solida credibilità internazionale. Lo percepisco anche qui negli Stati Uniti e questo fa bene all’Italia. Rimane però il fatto che, sebbene sia una Repubblica parlamentare in cui è il presidente della Repubblica a indicare il presidente del Consiglio, l’Italia non ha un primo ministro espressione del voto popolare dal 2008.

Processi somari

Credevo di aver visto tutto, l’altra sera a Otto e mezzo, quando Sallusti è riuscito a dire nel giro di mezz’ora che: la trattativa Stato-mafia non c’è stata; non è reato quindi chissenefrega se c’è stata o non c’è stata; c’è stata e i carabinieri han fatto benissimo a trattare. Avevo anche apprezzato il paragone fra i Ros che trattano con Riina e Provenzano tramite Ciancimino e Cinà, e i poliziotti che trattano coi rapinatori di una banca per liberare gli ostaggi: purtroppo non si sono mai visti dei poliziotti trattare coi rapinatori di una banca, lasciarli scappare, avvertire la Questura che bisogna dargli qualcosa in cambio sennò rapinano altre banche e infine nominarli direttori della banca per evitare che la svaligino di nuovo. Ecco, dopo quell’esperienza psichedelica, pensavo di non divertirmi mai più così. Poi ho letto su La Stampa la sapiente analisi di Mattia Feltri: l’inchiesta sulla trattativa dipende dal fatto che “il grillismo arrivò molto prima di Grillo”, infatti “per 30 anni abbiamo raccontato la storia del nostro Paese come una storia criminale e le nostre istituzioni come istituzioni criminali”. Invece profumavano di verbena. Sì, è vero, siamo l’unico Paese occidentale che, da Portella della Ginestra a oggi, ha avuto decine di stragi politiche – nere, rosse, mafiose, multicolori – e non è riuscito quasi mai a scoprirne e/o a condannarne i colpevoli grazie ai sistematici depistaggi di politici, servizi segreti (tutt’altro che deviati: deviato in Italia è chi cerca la verità), forze dell’ordine, magistrati; un ex premier (Andreotti) colpevole di associazione mafiosa fino al 1980 e altri tre (Craxi, Forlani e B., più uno stuolo di ministri e parlamentari) condannati per gravissimi reati. Però sospettare una storia criminale è “terrapiattismo politico” di “populisti, demagoghi e arlecchini”.

Pensavo a quel punto che nessun comico avrebbe potuto fare meglio, quando sono incappato, sul Domani, nel commento dell’ex lottatore continuo Enrico Deaglio: viva il presidente della Corte d’appello che “ha assolto i rimanenti imputati di una messa in scena durata 12 anni, o meglio quasi 30” (massì, abbondiamo) e “messo uno stop a tutta questa schifezza”, “oscura nebulosa”, “mattana” (l’indagine, non la trattativa). E lo sapete perché la Procura di Palermo e poi la Corte d’Assise hanno imbastito quella “messa in scena” con la loro “insipienza investigativa rara”? Ce lo rivela, posato il fiasco, lo stesso Deaglio: per garantire “il successo del partito di Grillo e del giornalista Travaglio” e “la candidatura di Ingroia”, ma anche per trasformare “il giudice Di Matteo (che è un pm, ma fa niente, ndr) in un eroe nazionale, protetto con il bomb jammer”.

Il tutto, con la scusa che “era stato condannato a morte dal vecchio Riina in carcere, minacce addirittura trasmesse in tv” (quindi se l’era fatte da solo). Così si è “costruito il famoso ‘pensiero unico’ fatto di niente”: tutti i giornali e le tv, com’è noto, non fanno che parlare di trattativa da 12 anni, o meglio quasi 30. E il povero Deaglio, vox clamantis in deserto, a gridare la verità. Infatti è costretto alla clandestinità sul Domani, perché nessun altro quotidiano osa contraddire il “famoso pensiero unico” sulla trattativa. Eppure lui l’aveva sempre detto ciò che quei dementi di Ingroia, Di Matteo, Scarpinato e giudici d’Assise “ci hanno messo 30 anni a capire: le bombe le avevano messe i fratelli Graviano”. Ma va? Il fatto che questo processo non dovesse decidere chi mise le bombe (l’han deciso da mo’ le Corti di Caltanissetta e Firenze), ma chi trattò con la mafia e se fu reato, non importa: sottigliezze. Lui va a braccio, a spanne, anzi alla cieca, tant’è che ricorda “le intercettazioni tra Napolitano e Mancino che si scambiavano gli auguri di Capodanno” (così, a capocchia: una è del 31 dicembre 2011, ma le altre tre sono del 24 dicembre 2011, del 13 gennaio e del 6 febbraio 2012, quindi i due si scordavano di essersi già fatti gli auguri e se li rifacevano ogni due settimane). E “le accuse a Dell’Utri”, ovviamente “risibili”: in effetti, tirare in ballo per i suoi incontri con Mangano il creatore di FI pregiudicato per mafia che nel novembre ’93 aveva nell’agenda due incontri con Mangano, è pura follia.
Nella fretta, il nostro Sherlock Holmes si scorda di spiegare come mai il suo amato giudice, “persona seria, schietta, riservata” ha condannato Cinà e Bagarella e dichiarato colpevole ma prescritto Brusca: il primo per aver trattato con Ciancimino e col Ros e minacciato con loro lo Stato; gli altri due per averci riprovato con Dell’Utri. Anzi, non se n’è proprio accorto, sennò non scriverebbe che l’amata Corte “ha assolto i rimanenti imputati”: perché, fra i rimanenti imputati, tre sono risultati colpevoli. Se mai dovesse scoprirlo, gli verrebbe un’ernia al cervello. Poi però ci spiegherebbe che, nella trattativa Stato-mafia, c’era solo la mafia. Perché lui i gialli li risolve sempre 12, o meglio quasi 30 anni prima, o almeno così crede. Nel 2006 scrisse un libro (Il broglio) e un film (Uccidete la democrazia!) sui brogli elettorali anti-Prodi, purtroppo rivelatisi una bufala: la democrazia sopravvisse. Gli andò meglio nel 1989 quando la moglie di Sofri lo avvisò in America che avevano appena arrestato il marito per il delitto Calabresi e lui, senza sapere nulla, rispose a botta sicura: “È Marino quello che ha parlato?”. E, almeno quella volta, ci azzeccò. Non che sapesse qualcosa, questo mai: semplici intuizioni.

Storia di Kojève, l’abile incantatore che ha diffuso il mito della fine della storia

Torna il libro su Alexandre Kojève. uscito nel 2008 con il titolo Il filosofo della domenica, e oggi riproposto con un nuovo titolo, rivisitazione complessiva e tre nuovi capitoli sempre a cura di Marco Filoni, docente di Filosofia politica e ottimo divulgatore. Nella premessa si spiega che questa versione arriva fino alla morte del filosofo, nel 1968, con l’ambizione di dare conto non solo della portata della sua filosofia, ma anche della sua dimensione politica.

Kojève è un personaggio spumeggiante e che desta curiosità, al di là delle sue idee. Emigrato dalla Russia, prima in Germania poi in Francia, qui

si impone all’attenzione pubblica con le lezioni all’École Pratique des Hautes Étudesseguite da un parterre culturale eccezionale: “Jacques Lacan, Georges Bataille, Maurice Merleau-Ponty, Raymond Queneau (…), Raymond Aron e talvolta André Breton”. La sua celebre Introduction a la lecture de Hegel ha rappresentato un passaggio obbligato e, se si aggiunge che dopo l’esperienza professorale, Kojève decide di entrare nel corpo diplomatico francese dando prova di grandi capacità – e probabilmente di grande internità alle élites politiche, culturali e diplomatiche di mezza Europa – si colgono le sfaccettature del personaggio, che per i suoi tratti potrebbe ben figurare in un film a carattere storico.

Nelle lezioni di Kojève, Hegel è stravolto. Filoni descrive una sorta di “gioco della seduzione” da parte del docente che più che rifarsi alla scrittura originale preferisce scomporre i concetti e restituirli reinterpretati. Succede, spiega l’autore, anche con il concetto di “fine della storia” che fascinerà Francis Fukuyama, abbeveratosi alle parole di Kojève e che in luogo di rappresentare il grande enigma del rapporto tra natura e storia finirà per essere rappresentato solo come la vittoria del liberalismo e dell’American way of life.

 

L’azione politica del filosofo

Marco Filoni

Pagine: 352

Prezzo: 22

Editore: Bollati Boringhieri

 

Il meritato successo del pensionato Bordelli, longevo anche nella top ten

La riccanza, quando ancora non si chiamava così. Rich kids della Prima Repubblica all’alba degli anni Settanta, quando i social erano solo in mente Dei: “Erano quattro ragazzi tra i venti e venticinque anni, belli, eleganti, sfrontati, viziati e temerari (…) figli di persone immensamente importanti, ricchi da fare schifo, e con le mani bucate che dove camminavano seminavano soldi”. Feste esclusive in un lago di champagne, a sniffare cocaina o iniettarsi morfina e a fare sesso violento con escort, i maschi travestiti da nazisti. Tutto sulle colline del Chianti, attorno a Firenze. Ossia il regno bucolico del commissario Franco Bordelli, il detective dei romanzi di Marco Vichi. Ragazze smarrite è uscito nel giugno scorso e dopo tre mesi resiste ancora nella top ten dei libri più venduti. Un meritato successo per il poliziotto giunto ormai alla sua ultima inchiesta.

In questo giallo, Bordelli compie infatti sessanta anni e va in pensione. Un trauma quieto, per usare un ossimoro. Nel senso che la nostalgia dell’infanzia e i tragici ricordi della Seconda guerra mondiale formano uno strano mare in cui il commissario nuota ma non affoga. Del resto, il suo presente è fatto di amore e di tanti amici, con cui condividere la tavola. E poi c’è sempre un mistero da risolvere. Questo caso inizia con il cadavere di una povera ragazza gettato in un fiumiciattolo. Ma stavolta a prevalere su tutto sono i valori in cui Bordelli ha creduto: il senso di giustizia, l’indipendenza dal potere, le relazioni umane, finanche la solitudine della campagna. Il romanzo si chiude con la scatola di cartone che contiene il suo passato da sbirro, dopo aver svuotato la scrivania. Chissà se lo ritroveremo ancora, il vecchio Bordelli.

 

Ragazze smarrite

Marco Vichi

Pagine: 358

Prezzo: 19

Editore: Guanda

 

“Distrutta dalle cure, scrivo per ricucirmi”

“I fantasmi sono gli avanzi di stoffa della vita quotidiana, scampoli di sapere che non sei in grado di elaborare, cartelle saltate fuori dal tuo schedario, macchie d’inchiostro sulla pagina”. I fantasmi occupano Hilary Mantel. Sono quelli di una vita. Dimorano nei ricordi, nei sogni, nei muri delle case che ha abitato, li ha visti davvero. Per la regina anglosassone del romanzo storico, per il Time tra le cento persone più influenti al mondo, unica donna ad aver vinto due volte il Booker Prize coi primi due volumi della trilogia sui Tudor e Thomas Cromwell, scrivere del proprio passato è “vagare a tentoni per casa con tutte le lampadine fulminate, allungando una mano in cerca di punti di riferimento”, ma è anche strumento per “collocarsi se non dentro un corpo, almeno nel minuscolo spazio fra una lettera e l’altra”.

Se la protagonista di Un esperimento d’amore, figlia di umili cattolici irlandesi, come Mantel, riannoda infanzia e adolescenza dopo aver visto la foto di una vecchia compagna d’università sul giornale, Mantel lo fa mentre sta per vendere il cottage nel Norfolk in cui ha vissuto nei 90: è lì che aleggia lo spettro del patrigno, quando capisce che il libro della sua esistenza è nelle mani della madre, del padre, sparito quando aveva dieci anni e mai più riapparso, e del patrigno appunto (per un periodo la mamma visse con entrambi sotto lo stesso tetto e dentro due letti differenti), della bambina che è stata e dei “figli non nati che allungavano le dita fantasma per rubarle la penna”. Non nelle sue. Così, a 50 anni, decide di “recuperare i diritti d’autore” su se stessa.

Cresciuta in un cupo paesino del Derbyshire, da piccola sognava di diventare capotreno, cavaliere errante, addestratore di cammelli, immaginava di essere stata pellerossa o che sarebbe diventata uomo. Cagionevole di salute, sarà tormentata anche da adulta da una serie di disturbi fisici, uno tra tutti l’endometriosi, nei 70 considerata “la malattia della donna in carriera” (come a dire: hai dato precedenza alla carriera e non ai figli? Eccoti servita), che le causa dolori atroci, che i medici non le diagnosticano continuando a imbottirla di psicofarmaci certi che la causa del patimento sia la psiche. Quando le tolgono ovaie, utero, pezzi d’intestino e vescica, ha 27 anni. Una pietra tombale sulla possibilità d’esser madre. “Sono stata talmente massacrata, sabotata e manipolata dalle procedure mediche, sono stata così magra e così grassa, che a volte ho la sensazione di dovermi materializzare per iscritto ogni mattina”. Così fa, dunque. Si aggrappa alla scrittura per non affondare e perché, a un certo punto, pensa sia la sua strada.

A 23 anni, sposata da tre con un geologo, molla la pratica forense per mancanza di soldi, lavora un anno in un ospedale geriatrico, poi in un grande magazzino di Manchester. Si stufa presto. È così che comincia a prendere in prestito libri sulla Rivoluzione francese in biblioteca. Si appassiona, accumula un quantitativo enorme di appunti. Quando si domanda che cosa sta facendo si risponde: “Sto scrivendo un libro”. Non sa niente, però, di come si fa narrativa e il malloppo che propone ad agenti ed editori viene respinto. Molti si sarebbero arresi, lei no. Si lancia in acque differenti, scrive Every Day Is Mother’s Day, storia cupa con protagonisti inquietanti e deprimenti, lo fa mentre è in Arabia Saudita col marito, dopo tre anni in Botswana, permanenza che le dà anche l’ispirazione per Otto mesi a Gazzah Street a raccontare il complesso mondo saudita, e dieci anni dopo rimette mano al lavoro sulla Rivoluzione francese vista attraverso le figure di Robespierre, Danton e Desmoulins.

Funziona, è il ’92, oggi la trilogia, un successo, pare prezioso lavoro preparatorio per il ciclo dedicato a Cromwell, il progetto quindicennale che la dà fama e riconoscimenti. Sempre dedita a una routine ferrea, sveglia presto la mattina, penna in mano ancor prima di aver parlato perché i residui del sonno, dei sogni, sono dono e ispirazione, Mantel risponde così agli ospiti che le fanno visita nella sua casa attuale, nuovamente nel Derbyshire, in un edificio che fu manicomio, e le chiedono se ha paura dei fantasmi: “Non io, non qui, non adesso”. La scrittura salva ed è, in qualche caso, così che si tengono a bada i fantasmi.

L’editoria italiana pubblica “caccole sentimentali”

Francesco Permunian, dal suo eremo sul lago di Garda, licenzia un altro “febbrile tramestio di santi, puttane e istrioni”. Fedele alla sua vena iconoclasta, aggiunge nuove pagine al suo manicomio di carta.

Ponte alle Grazie manda in libreria Giorni di collera e di annientamento, titolo preso a prestito da Anna Maria Ortese. Ma è l’ombra di Giorgio Manganelli a sublimare il suo consueto gioco di specchi. L’autore di Centuria (che appare in sogno al protagonista), animato da furia omicida, si avventa contro una pletora di aspiranti scrittori, rei di distillare “raccontini da Liala”. Sì, perché questo nuovo romanzo di Permunian è un’invettiva che morde la mano agli annegati nel grande fiume della scrittura evocato da Roberto Bolaño.

Lunfardo, in arte Don Fifì, voce narrante, “nato e cresciuto laggiù, in quelle miserabili terre del Polesine”, dopo una parentesi come cantante nelle balere della Riviera romagnola, si improvvisa homme de lettres e con il suo esordio vince il premio Strega. Scaraventato in “un librificio a cielo aperto in cui si ammassano le caccole sentimentali dell’intera penisola italiana”, novello editor di una major milanese scopre talenti beccandoli a caso nell’elenco telefonico o richiamando il primo passante per strada. Lunfardo, a dispetto dell’odierna “bulimia scribacchina”, preferisce chiacchierare “con delle vere battone anziché con certe puttanelle da quattro soldi che circolano sui marciapiedi dell’editoria nostrana”.

Tra gli incerti del mestiere respinge le avance di tale Ausilia Intronati, mitomane che con il suo romanzo autopubblicato si reputa la legittima erede di Virginia Woolf. Quando agli stagisti della casa editrice esibisce come memento un sacchetto di feci evocando la Merda d’artista di Piero Manzoni la sua strada professionale è segnata. Nella provincia padana che lo ha visto crescere – con il padre macellaio minato dall’ipocondria che cerca miracoli improbabili a Lourdes – Don Fifì sconta il suo esilio a contatto con una fauna umana in bilico tra Fellini e Almodóvar: mariti adulteri con bambole di celluloide, poeti a braccio che improvvisano versi, imprenditori di rubinetteria di lusso ridotti a fare i clochard, frivoli dandy che si suicidano sulla pubblica piazza.

Ma è Patrizia la Funebrera la “marionetta” che più di ogni altra brilla sul palco di queste pagine stralunate. “Amazzone guerriera con tanto di scarponi militari”, fascistissima, viaggia con l’anziana madre in sella a un sidecar della Wermacht. Campa facendo marchette all’Hotel Paradiso, locanda convertita a bordello. Tra una gita a Predappio e pompini intellettuali, Lunfardo intreccia con Patrizia una relazione ambigua e discontinua fintanto la pandemia Covid-19 nella primavera del 2020 non piega la curva di certi destini prima surreali a un incubo senza ritorno.

Ecco che il nostro Lunfardo si trova a mollo in due pandemie che si sovrappongono: scrittori abusivi e vite spezzate dal virus. Si ride amaro dentro a questo affresco satirico. La distorsione grottesca sembra figlia della nevrosi creativa ma Permunian non fa altro che campionare la realtà per allestire il suo teatro dell’assurdo. C’è più slancio etico qui che in certi residui engagé.

 

Giorni di collera e di annientamento

Francesco Permunian

Pagine: 176

Prezzo: 15,90

Editore: Ponte alle Grazie

Così fan tutti: Shakespeare riscritto o commentato funziona sempre

Le vecchie insegnanti d’accademia hanno sempre consigliato ai propri studenti di debuttare con un’opera del Bardo: “Ridotto, frainteso, maltrattato, Shakespeare sta in piedi da solo, nonostante le vostre scempiaggini di giovani registi e attori”. La tirata vale anche per gli autori: non si contano ogni anno in libreria le riscritture, i saggi, i commenti al geniale drammaturgo. Come se ci fosse bisogno di aggiungere altro alla sua “invenzione dell’umano”, ma tant’è: così fan tutti, tanto con William anche le baggianate su carta riverberano (quasi) sempre intelligenza.

Tra i freschi di stampa, si trovano le “Guide a…” di Carocci accanto agli ottimi studi di Paolo Bertinetti (Shakespeare creatore di miti, Utet) e Nadia Fusini (Maestre d’amore. Giulietta, Ofelia…, Einaudi); il più originale è il PaperAmleto della Disney, il più svalvolato William Shakespeare: maschera per sodalizio italo-ebraico? di tale Silvano Guido, aitante antisemita, che si interroga sull’identità del poeta “nascosta in autori italo-ebrei, che trovarono nell’attore una maschera per poter impunemente pubblicare le loro opere… nella comunità cripto ebraica di Londra”. Aiuto.

Il più pop per spigliatezza e passione è, invece, Chiedilo a Shakespeare di Cesare Catà, che interroga il Bardo come un bibliomante, aprendo a caso le pagine dei suoi libri in cerca di risposte ai quesiti banali della vita. E funziona: così, Sogno di una notte di mezza estate è consigliato a chi si innamora della persona sbagliata; Macbeth è adatto a “chi si porta l’inferno dentro”, ma non vuole vederlo; Enrico V va ai pessimisti inconcludenti; Otello è un farmaco tipo Xanax per gli ansiosi…

A parte qualche deriva buddista (mah), ovvietà e déjà-lu – vedi la perniciosa e presunta pensosità di Amleto, uno sciroccato studente per cui muoiono ben otto persone, lui compreso, per vendicarne una –, Catà è un brillante affabulatore e riesce nella difficile impresa di raccontare Shakespeare come un “nostro contemporaneo”.

 

Banksy è a Parma (a sua insaputa)

“Nella pittura non esistono regole” dice Francisco Goya all’Accademia di San Fernando il giorno del suo insediamento come direttore. E questa regola lui la incarnava proprio: era il pittore del Re ma al contempo denunciava i disastri della guerra e la corruzione della società. Oggi l’unico artista capace di uscire dall’alveo dorato dell’arte contemporanea si chiama Banksy, l’artista inglese senza identità che gira le per città del mondo e attraverso i suoi murales denuncia le debolezze della nostra società. È imprendibile Banksy, compare e scompare dagli angoli del pianeta – nessuno lo ha mai visto – ma ogni volta che dipinge tutto il mondo ne parla. Arte collettiva, si chiama, arte che torna a parlare al cuore della gente, non esclusiva ma inclusiva: quando un vecchio rudere di periferia viene “marchiato” da Banksy acquista immediatamente un grande valore.

A Parma, Capitale della Italiana Cultura 2021, ha inaugurato a Palazzo Tarasconi la mostra BANKSY Building Castles in the Sky, un’esposizione che conta oltre 100 opere dell’artista, provenienti da collezioni private, da Dismaland print a Love Is In The Air, da Barcode a Monkey Queen, da Girl with Balloon a Mickey Snake.

“Da collezioni private?!” direte voi. Ma come? Non è un artista di strada? Sì, però spesso succede che i privati, che si ritrovano sul muro il suo stencil, cerchino di rimuoverlo per poi venderlo – viste le quotazioni milionarie di Bansky – suscitando l’ira degli abitanti del quartiere, che sentono l’opera come (giustamente) fosse loro, anche se realizzata su muro privato. Però, lo dicevamo all’inizio, se nell’arte non ci sono regole, non ci possono essere solo quando fa comodo: il “ratto” dello stencil è legittimo e forse dovuto, destino di chi non vuole entrare nei musei ma starsene libero per le strade e – intento nobilissimo quanto rischioso – redimere muri dimenticati. Come in un gioco perverso ma intrigante Banksy riesce a farsi “sequestrare” senza il suo consenso esplicito ma (forse) con il suo consenso implicito – troppo intelligente questo artista per non mettere nel conto i rischi. E così le mostre su Banksy proliferano per il mondo, ma rigorosamente con la dicitura “L’artista conosciuto come Banksy non è in alcun modo coinvolto in questa mostra. Il suo ufficio è stato informato”. E altrettanto interessanti sono gli eventi che accompagnano la mostra, intorno a Parma, nominati Around Bansky, un progetto diffuso di street art che vede il suo empireo a Fidenza, vicino a Parma, al “Fidenza Village”, uno dei villaggi dello shopping più famosi d’Italia. Qui il direttore artistico, che risponde al nome di Davide Rampello, ha pensato a un museo a cielo aperto dove alcuni degli street artist più noti a livello interazionale hanno “usato” le belle strutture classiche del villaggio come murales dove esprimere la loro esplosione di ingegno – e dove farlo se non in uno shopping center, nuova piazza della cultura di massa, ossia del pop più sofisticato? Camille Walala, Peeta e Luca Barcellona hanno fatto diventare i muri di “Fidenza Village” una grande pinacoteca en plein air, colorata, allegra e, appunto, collettiva. Perché evidentemente Alighiero Boetti aveva più ragione di Goya quando diceva “Nell’arte non esistono regole. Compresa quella che ho appena detto”.

 

Banksy: Building Castles in the Sky

Palazzo Tarasconi, Parma, fino al 16.01