Dalla Russia al Giappone: “Drive my car” è un gioiellino

Dopo aver conquistato l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria a Berlino con Wheel of Fortune and Fantasy, il giapponese Hamaguchi Ryusuke ha bissato a Cannes – riconoscimento per la miglior sceneggiatura – con Drive My Car, per più di qualcuno il vincitore “morale” della 74esima edizione.

Tratto dal racconto Uomini senza donne (Einaudi) di Haruki Murakami, racconta la storia di Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), un rinomato regista e interprete teatrale che sta mettendo in scena una produzione multilingue dello Zio Vanja di Cechov. Non è art pour l’art, l’uomo cerca di superare la morte della compagna, la sceneggiatrice Oto (Reika Kirishima), amatissima e infedele, il cui ex amante Takatsuki (Masaki Okada) ingaggia nel ruolo del protagonista. Ma l’elaborazione del lutto non avverrà sul palcoscenico, bensì a bordo di una Saab 900 rossa: Kafuku ha un glaucoma all’occhio sinistro, a scarrozzarlo per Hiroshima è la giovane, silente ed empatica autista Misaki (Toko Miura), con cui stabilirà una connessione profonda e salvifica.

Ottima trasposizione da Murakami, che trova un trattamento cinematografico superiore a Burning di Lee Chang-dong, Drive My Car consegna l’enfant prodige Hamaguchi, classe 1978, in splendida forma, poetica ardita e ricadute esistenziali. Dura tre ore, senza sforzo alcuno per lo spettatore, e si dà il privilegio di filmare l’ineffabile, svelare l’indicibile, rinvenire i sentimenti. Complice una eterodossa “camera car”, si scopre dramma da abitacolo, giacché “certe conversazioni, intime, possono nascere solo all’interno di quello spazio chiuso e in movimento. Un luogo, in realtà un non-luogo, che ci aiuta a scoprire aspetti di noi stessi mai mostrati a nessuno”. Un surplace che non è mai impasse, bensì flusso di coscienza e conoscenza, che frulla vita e rappresentazione, persona, personaggio e dramatis personae, chiedendo al pubblico la sospensione non dell’incredulità, ma dell’indifferenza.

Merito ineludibile, Drive My Car sa renderci immediatamente consapevoli del proprio valore: è un bene prezioso, un film che chiedendoci di custodirlo ricambia il favore. Un road movie da fermo, una seduta di analisi per immagini, suoni e – tanti – pensieri. Non perdetelo.

 

Scene da Bergman: ogni matrimonio fallito è un trionfo

Ti amo e poi ti odio. Ti odio e poi ti amo. Montagne russe di estasi e tormenti, equilibri fragili e passioni violente, vertigini tra sentimenti opposti, ossessioni fino gli abissi dell’anima.

Lasciate ogni speranza voi ch’entrate: da Scene da un matrimonio non si esce indenni. Perché là dentro regna il mistero sublime del vivere in coppia. L’aveva capito Ingmar Bergman, e non avrebbe invocato lesa maestà davanti alla magnifica rivisitazione del suo capolavoro del 1973. Del resto, approvazione e opportunità di un remake contemporaneo sono arrivate da suo figlio Daniel (nel cda della The Ingmar Bergman Foundation): “È il momento giusto per una nuova versione di Scene da un matrimonio”. Così certificando, la famiglia Bergman è entrata nella produzione esecutiva di Scenes from A Marriage sviluppato, scritto e diretto da Hagai Levi per Hbo, in Italia su Sky e in streaming su Now.

Celebrata all’unanimità fuori concorso alla 78esima Mostra veneziana, la miniserie da cinque episodi abbandona le lande svedesi dei 70 per calarsi nella New York residenziale 2.0, la metropoli ove tutto coesiste, esattamente come nel matrimonio. L’ideatore di In Treatment e di The Affair ha “setacciato” dalla materia bergmaniana ciò che poteva “resistere” da quanto, invece, andava attualizzato o modificato. E se a persistere sono gli argomenti e i turbamenti seminali – e dunque universali ed eterni – della vita di coppia che nell’animo di Ingmar prendevano corpo dall’esperienza personale con l’attrice Liv Ullman (co-protagonista delle sue Scene con Erland Josephson), a mutare di segno sono le esigenze del contesto in cui moglie e marito navigano e tentano, loro malgrado, di non naufragare. Al punto che ancor più pregnanti del matrimonio in sé, diventano le istanze del divorzio (con figli piccoli), un gesto ancor più esposto al caro prezzo del (soprav)vivere in una società individualistica, narcisistica e consumistica come quella contemporanea.

La scommessa vinta da Levi è di riuscire a far rispecchiare e dialogare i suoi bellissimi Mira e Jonathan – gli straordinari Jessica Chastain & Oscar Isaac – con le donne e gli uomini del nostro tempo: ogni criticità relazionale diventa luogo di un dibattimento post-moderno, siamo nella fisica delle particelle, nel buco nero degli egoismi. E a cambiar di verso è anche il paradigma decisionale: è la donna, supermanager di successo e simbolo del tecno-realismo, a prendere l’iniziativa, rompendo l’equilibrio apparente con una dichiarazione di tradimento. L’uomo, prof di filosofia ebreo, è l’idealista destinato a subire e a reinventarsi attingendo al sapere antico.

Lacrime e sangue, emozioni che solcano tracce profonde negli spettatori: Scene da un matrimonio non è psicoterapia, bensì una lezione di “cinema televisivo” che non dimentica la propria natura di dispositivo al limite tra verità & falsità e realtà & finzione, mettendosi in-scena con un backstage pandemico che ci identifica oltre ogni ambiguità. Mira e Jonathan siamo noi: facciamoci del bene per evitare di farci del male.

La poesia nasce pescando: “Libri? Salavo stoccafissi”

“Perché questo spreco di carta?”. Suonava così la prima critica che ricevetti per il mio libro di poesie, Con il porto d’armi per l’eternità, uscito nel marzo del 1988. La prima critica alla prima raccolta di versi. Più o meno quattro anni dopo che avevo cominciato a scrivere.

È sempre difficile farsi un’idea del tempo, e a guardarsi indietro i fatti e gli eventi sembrano cambiare posizione, confondersi. I ricordi non sono lineari come un ordine alfabetico interiore che si possa ripercorrere con certezza dall’inizio alla fine. Alcuni fatti però sono indiscutibili, come per esempio che ai primi di gennaio del 1976 mi trasferii da Reykjavík a Keflavík, dove arrivai una sera tardi all’inizio del mese più buio. Era talmente scuro sulla Reykjanesbraut che per un momento pensai che il mondo si fosse perso, fosse sparito; che l’eternità fosse un sedile posteriore buio e gli unici rumori il ronzio del motore dell’auto, l’ipnotico rotolare delle ruote. Lo trovai un pensiero consolante. Ma l’eternità non la incontriamo mai in vita, se non forse in qualche poesia. E nella musica, naturalmente. Arrivai a Keflavík e mi iscrissi a scuola. Tre anni e mezzo dopo, nella primavera del 1979, conclusi la scuola dell’obbligo e mi cercai un lavoro. Prima della fine dell’anno avevo lavorato come manovale e in un macello, per finire come mozzo a bordo di un guardacoste. Fu un’uscita di due settimane, ebbi il mal di mare per tutto il tempo.

Keflavík verso la fine degli anni Settanta; un numero infinito di ghiacciaie e di fabbriche per la lavorazione del pesce in piena attività, e il porto – che adesso è spesso deserto, come due parentesi intorno al niente – affollato di barche di ogni forma e dimensione. La cittadina brulicava di vita, c’era un gran bisogno di braccia ed era praticamente scontato per un ragazzo di quindici anni trovarsi un lavoro piuttosto che iscriversi alle superiori. A parte questo, ero profondamente insicuro e non vedevo nessun motivo per continuare a studiare. Troppo imbranato per un istituto tecnico, non abbastanza intelligente per un liceo; la matematica e la grammatica, codici cifrati incomprensibili provenienti da un altro sistema solare. Uscito dall’ultimo anno di scuola dell’obbligo con due in matematica e cinque in islandese, e così più o meno in tutte le altre materie. In realtà in storia ero il primo del mio corso, ma lo si può considerare alla stregua di un malinteso o di una deviazione polare. Sono maturato tardi, sono rimasto bambino a lungo, i capelli di un rosso criminale con riccioli fitti impossibili da pettinare, e a volte balbettavo talmente tanto che le parole mi si frantumavano in bocca. Un caso disperato. Lasciai la scuola, mi feci largo a tentoni nel mercato del lavoro e mi impiegai per quasi tre anni nella salatura dello stoccafisso, con la sola parentesi di un autunno al macello.

Anni splendidi… Nel sud, in particolare a Sandgerði, lavorare nel pesce mi si addiceva a pennello. Era un lavoro faticoso, è vero, spesso al freddo; dovevamo lasciar scorrere l’acqua di continuo perché non congelasse, ma mi sentivo quasi al riparo dal mondo; finché facevo il mio dovere nello stabilimento ittico, non c’era bisogno che prendessi decisioni per il futuro. Avevo un po’ paura della vita, in un certo senso. Non vedevo come potesse esserci posto per me, non stavo bene da nessuna parte, abile non ero, preparato men che meno…

La poesia era lontanissima da me in quegli anni, con l’eccezione di quella contenuta nella musica e nei testi, ovvio. In realtà leggevo molto, più che altro narrativa di intrattenimento appena non mi bastarono più i libri per ragazzi, e qualche testo di scienze, di storia, di religione. In quegli anni tutta la cultura letteraria della mia vita consisteva in un’unica poesia, La volpe di Örn Arnarson, a cui mi ero talmente appassionato a scuola che l’avevo ritagliata e la tenevo nel portafoglio. Come un documento di identità che potessi esibire. Affascinato, immagino, dalla morale. No, “morale” è un termine noioso, troviamone un altro, mi fa venire in mente un insegnante rinsecchito, un ausiliario del traffico stanco della vita e sempre di malumore. Diciamo piuttosto che ero rimasto affascinato dalla rappresentazione del mondo della poesia. E dalla sua rivelazione. La poesia è complessa, ma uno dei suoi aspetti più importanti, che allo stesso tempo è il motivo per cui spesso è una spina nel fianco dei dittatori di qualsiasi epoca e di chi nutre insofferenza per i punti di vista e le opinioni altrui, è la sua capacità di vedere oltre, e talvolta di smascherare, le opinioni e i luoghi comuni dei suoi tempi. Oppure di metterli in dubbio. Di costringerci a dubitarne. La poesia non rispetta le regole, è un gatto che non si lascia addomesticare mai del tutto.

scusa ma/ a causa di molteplici impegni/ per mettere su casa/ aumentare le entrate

nazionalizzare i venti,/ va accantonata la vita/ da oggi e per i prossimi giorni

 

Traduzione di Silvia Cosimini/ ©Iperborea

“Premier e Parlamento, la zuffa riguarda la torta degli appalti”

Mancano solo tre mesi alle elezioni parlamentari e presidenziali libiche, ma più si avvicina la fatidica data del 24 dicembre più il quadro politico e militare si va complicando, tanto che le elezioni sembrano sul punto di saltare. Se accadesse, il generale Haftar, che ha appena dismesso la propria divisa militare per partecipare alla corsa presidenziale, non la prenderebbe bene, ma neanche i libici, che soffrono per la mancanza di salari e servizi oltre che di sicurezza.

Abbiamo chiesto a Claudia Gazzini, analista per la Libia dell’International Crisis Group, già consigliera politica dell’ex inviato dell’Onu, Ghassan Salamé, di spiegarci perché nei giorni scorsi il Parlamento di Tobruk, presieduto da Aguila Saleh, avesse sfiduciato il premier ad interim Abdulhamid Dbeibeh, pur senza chiederne le dimissioni. A Tripoli, va ricordato, considerano questa mozione illegale sulla base di una legge del 2015 in cui sono richiesti più voti affinché sia valida. “Da mesi i parlamentari accusano il governo di transizione di agire come se si trattasse di un esecutivo vero e proprio. Nello specifico accusano il premier di aver firmato numerosi contratti preliminari per la ricostruzione con alcune nazioni, ultima l’Egitto, e usato impropriamente i fondi pubblici quando invece si sarebbe dovuto occupare per legge solo di gestire gli affari correnti come tutti i governi provvisori”.

Si tratta dunque di faide intestine per la spartizione della torta della ricostruzione dove le mazzette si camuffano facilmente nei suoi vari strati ?

Che questo sia uno dei motivi reali è molto probabile, resta il fatto che Dbeibeh agisce in modo inappropriato visto che non potrebbe firmare contratti, seppur preliminari, con alcuna impresa straniera data la natura provvisoria del proprio mandato. In questo senso, vale la pena sottolineare che a mostrare la propria contrarietà all’operato del governo vi sono anche politici tripolini che tradizionalmente dovrebbero sostenere Dbeibeh.

A questo proposito, come vanno letti gli scontri tra milizie armate tutte afferenti al governo tripolino avvenuti una decina di giorni fa nella Capitale ?

Si tratta del risultato sul campo tripolino delle tensioni tra vari gruppi di interesse, tra fazioni cioè che vogliono che Dbeibeh porti avanti questi contratti per prendersi la propria quota, e chi non ne trae vantaggio.

Dbeibeh ha criticato la mozione di sfiducia contro di lui e ha chiesto pubblicamente ai propri sostenitori di scendere in piazza ieri. Perché il premier ha fatto questo appello?

Il Parlamento in pratica sta dicendo al premier di fare solo ciò per cui era stato nominato, come per esempio pagare gli stipendi. Dbeibeh però sta cercando di capitalizzare la sfiducia per aizzare una campagna contro il Parlamento stesso allo scopo di farlo cadere. Questa reazione ha colto di sorpresa il Parlamento stesso il cui ruolo è fondamentale per il varo della legge elettorale senza cui non sarà possibile andare a elezioni.

Intanto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non è riuscito a votare il rinnovo della missione di supporto Unsmil, approvando solo una proroga fino al 30 settembre. Da cosa deriva questa impasse delle Nazioni Unite ?

Parlerei piuttosto di una assenza di mediazione da parte dell’Onu. L’inviato Jan Kubis non fa mediazione attiva e ha accettato senza fiatare la legge elettorale per le presidenziali voluta unilateralmente da Saleh pur non essendoci state consultazioni e votazioni in merito. E ora che il Parlamento ritarda il varo della legge elettorale relativa alle consultazioni parlamentari, Kubis si trova in difficoltà. La comunità internazionale è del tutto insoddisfatta da questo inviato basato a Ginevra e sostiene che serva tornare al modello di inviato a Tripoli. La ragione per cui non è stata rinnovata la missione Unsmil è dovuta proprio al fatto che nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza si prevede che il nuovo inviato speciale dovrà essere basato a Tripoli, depennando di fatto Kubis.

Improvvisamente Puigdemont

Una notte nel carcere Bancali di Sassari, cella singola perché c’è il Covid. “Non ho mangiato niente, ho lo stomaco vuoto, non me l’aspettavo”, ha detto Carles Puigdemont, ieri all’ora di pranzo, al Garante dei detenuti, lo psicologo Antonello Unida. Poi l’udienza davanti alla giudice della Corte d’appello, Plinea Azzena, seguita in videoconferenza: arresto regolare e quindi convalidato e liberazione immediata senza misure cautelari né obblighi, come richiesto anche dal procuratore generale, Gabriella Pintis. “Comprometterebbero in modo grave il diritto dell’arrestato di viaggiare liberamente per partecipare alle riunioni del Parlamento europeo”, ha scritto la giudice.

Puigdemont è stato accolto come un eroe dal presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas, e da sostenitori indipendentisti e si è messo in macchina per Alghero, città ancora legata alla Catalogna dove era invitato alla festa internazionale della cultura popolare catalana, Adifolk. Era il motivo, ben noto, del viaggio in Italia. Ma giovedì, appena atterrato, la polizia l’ha arrestato. All’uscita dal carcere non ha parlato ai cronisti, ha però riproposto un tweet del 2009: “A casa, è il momento”, in risposta al Partito Popolare spagnolo che, ironizzando sul suo arresto, aveva tirato fuori quel vecchio messaggio. “È una nuova vittoria giudiziaria. La Spagna non perde mai l’occasione di rendersi ridicola”, ha twittato ancora il leader separatista, la cui scarcerazione è uno schiaffo al governo di Pedro Sanchez. “Rispettiamo la magistratura italiana”, aveva dichiarato il premier, per ribadire però che Puigdemont deve lasciarsi giudicare dalla magistratura spagnola perché “nessuno è al di sopra della legge”.

Tranne il leader catalano, si direbbe. Viene quasi da pensare che possa aver “cercato” l’arresto, a pochi giorni dall’anniversario del contestato referendum sull’indipendenza della Catalogna (1° ottobre 2017), nel pieno dei negoziati con Madrid e in vista dell’approvazione del Bilancio. Ora infatti potrebbe ottenere una protezione più consistente dalla Corte di giustizia dell’Ue. La pilatesca ordinanza emessa il 30 luglio scorso dai giudici del Lussemburgo, come si è visto, non rimuove il mandato d’arresto europeo, inserito nel sistema informatico di Schengen. Il Belgio, dove Puigdemont si è rifugiato da quattro anni, non l’ha mai eseguito. La Germania non l’aveva consegnato a Madrid neanche nel 2018, prima che fosse eletto all’Europarlamento, perché il reato di rebelion allora contestatogli non ha equivalenti nel diritto tedesco. Non lo imbarcherà su un volo per Madrid neppure l’Italia: a Puigdemont basterà non presentarsi all’udienza del 4 ottobre, la sua dipartita dall’Italia estinguerebbe il procedimento.

Non c’è conferma del coinvolgimento politico del governo italiano. “C’è un mandato di arresto europeo. Lo dobbiamo eseguire”, ha dichiarato il sottosegretario con delega ai Servizi, Franco Gabrielli, ex capo della polizia. Gli uffici della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sono stati informati a cose fatte. Sapevano tutto invece al Viminale, la polizia di Sassari aveva informato preventivamente il capo della polizia, Lamberto Giannini. Davanti agli agenti all’aeroporto di Alghero, giovedì sera, il leader catalano si è mostrato sorpreso, anche perché da mesi viaggia per l’Europa così come la sua ex consigliera Clara Ponsatì, ricercata da Madrid come il suo leader: giorni fa era passata da Roma e la polizia non se n’è accorta.

In Spagna “la sua detenzione avrà conseguenze sui negoziati con il governo centrale”, fa sapere il presidente della Generalitat, Pere Aragonés, volato ad Alghero. Al contrario, per Sánchez e il presidente dei socialisti catalani Salvador Illa “l’accaduto non sposta di una virgola il tavolo negoziale”. Anzi, “il dialogo è più che mai necessario”, spiega il premier.

Il 1° ottobre i separatisti sono celebreranno l’anniversario del referendum illegale di indipendenza del 2017 da cui scaturirono gli arresti dei leader (e la fuga di Puigdemont), accusati prima di ribellione e poi, in alcuni casi, condannati a pene tra i 9 e i 13 anni per sedizione e malversazione di fondi pubblici. Ora liberi grazie all’indulto di Sánchez, che però non risparmierebbe il processo a Puigdemont. Sarà l’occasione per rivendicare “la persecuzione di Puigdemont da parte della Spagna” e una ‘scusa’ per tornare alla via della “proclamazione unilaterale di indipendenza della Catalogna”, come ha ribadito da Aragonés. C’è tensione nel governo centrale ma anche negli ambienti catalani: il segretario generale del partito di Puigdemont, Junts per Catalunya, Jordi Sánchez, nonostante la prova di forza ricorda che “l’assenza di persone ancora detenute era la condizione sine qua non per il dialogo”. L’accusa non è al premier, ma alla “giustizia spagnola che si impegna nell’interferire nel processo di dialogo con le sue costanti risoluzioni contro l’indipendentismo”, dicono gli alleati di Esquerra Repubblicana. In quest’ottica di continui scontri, quella di Sassari pare solo l’ennesima puntata della saga tra governo e separatisti, in salsa sarda.

Aosta, condannati a risarcire la Regione: sei consiglieri votano per annullare la sentenza

“Attentato all’Autonomia!”. L’allarme delle forze politiche in Valle d’Aosta si è sempre levato per scongiurare la riduzione dei trasferimenti finanziari da Roma. Stavolta, però, la prospettiva è opposta. Il ricorso che la Giunta Lavevaz ha deciso di promuovere alla Corte Costituzionale, sollevando il conflitto di attribuzione con lo Stato, ha nel mirino un esborso. Attenzione, non a carico delle casse pubbliche, ma di 18 consiglieri regionali (attuali ed ex) condannati dalla Corte dei Conti a risarcire 16 milioni di euro alla Regione. C’è di più: l’azione legale nasce anche per mano dei diretti interessati.

La sentenza è dello scorso 30 luglio e ha chiuso il giudizio iniziato oltre tre anni fa. Per i giudici, la ricapitalizzazione per 30 milioni di euro del Casinò di Saint-Vincent, votata nell’ottobre 2014 dal Consiglio, è un danno erariale, frutto di un comportamento “gravemente impudente e privo della necessaria diligenza”. I rimborsi dovuti dai politici oscillano da 586 mila a 2,4 milioni di euro. Il ricorso mira a farne coriandoli, perché – è la tesi della Giunta della “Vallée” – la Corte dei Conti ha sindacato senza averne i poteri: la delibera era un atto di indirizzo politico, i magistrati hanno leso l’autonomia regionale, sancita dalla Costituzione.

Il braccio di ferro tra Aosta e Roma affonda le radici in una seduta straordinaria del Consiglio della settimana scorsa, ufficialmente convocata per discutere delle “prerogative costituzionali e funzioni dell’Assemblea e dei consiglieri”, ma risoltasi nella risoluzione che incarica la Giunta di chiedere alla Consulta l’annullamento della sentenza. “Serve il giudizio di un arbitro” ha detto il presidente Lavevaz. Tra i 22 favorevoli vi sono i 6 condannati ancora in carica, autonomisti di lungo corso: Augusto Rollandin, Mauro Baccega, Renzo Testolin, Claudio Restano, Pierluigi Marquis ed Aurelio Marguerettaz.

In aula non hanno motivato il “sì”, ma – a parte Marquis, che risulta aver già versato il dovuto – il debito con la Regione, se non saldato, potrebbe costar loro poltrona. Al loro arco hanno però un’altra freccia (già scoccata in quattro): un ricorso in Cassazione, sostenendo il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti, affinché la possibile decadenza da consigliere debba attendere gli ermellini. I valdostani, in compenso, non dovranno aspettare a sborsare i 45mila 300 euro stanziati dalla Giunta per il ricorso alla Consulta.

Severino guiderà Scuola Nazionale d’Amministrazione

Il primo a congratularsi per la nomina di Paola Severino a presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione da parte di Mario Draghi, è stato Renato Brunetta. Del resto proprio Brunetta aveva proposto l’ex ministro della Giustizia del governo Monti per un incarico di indubbio prestigio, visto che si tratta di guidare la scuola dello Stato che si occupa di curare la formazione post-laurea di eccellenza per i dipendenti pubblici. La Severino succede a Stefano Battini e manterrà il suo incarico a titolo gratuito per quattro anni. La professoressa è attualmente vicepresidente della Luiss Guido Carli, presidente del Comitato scientifico del Pnnr istituito presso il ministero dell’Università e della Ricerca.

Porta il suo nome la legge in base alla quale il 27 novembre 2013, il Senato votò la decadenza di Silvio Berlusconi.

La Severino, indicata in questi giorni anche come componente della Loggia Ungheria, è stata considerata a fasi alterne nel centrodestra.

Torino, a processo il leghista Molinari con accusa di falso

Il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, sarà processato dal Tribunale di Torino il 24 novembre 2022. Il politico di Alessandria, segretario piemontese del Carroccio, è imputato insieme al segretario torinese Alessandro Benvenuto e a un terzo uomo del partito, Fabrizio Bruno, per aver violato l’articolo 90 del testo unico sulle elezioni amministrative: secondo la procura, hanno falsificato un atto destinato alle operazioni elettorali. In vista delle elezioni amministrative del 2020 a Moncalieri (Torino), la Lega ha cancellato dalla lista di candidati Stefano Zacà, un ex di Forza Italia, per non fare un torto agli alleati. Al termine di un ricorso, il Consiglio di Stato ha ordinato il suo reinserimento nella lista e, dopo un esposto dei radicali, la procura ha avviato un’inchiesta. L’avvocato di Molinari, Luca Gastini, sottolinea come nel decreto di rinvio a giudizio sia spiegato che “non vi sono prove certe di non colpevolezza”, motivo per cui è necessario il dibattimento in aula.

Mail Box

 

Serve un “pass” fiscale per stanare gli evasori

L’obbligo del Green pass sui posti di lavoro rappresenta, per me, una pistola puntata alla tempia di ogni singolo lavoratore che ha deciso (legittimamente) di non vaccinarsi. Penso a tutti quei lavoratori che non possono fare il lavoro remoto o che vivono in piccoli paesi in cui c’è solo una farmacia e non è facile organizzarsi per fare il tampone. Il governo sta rendendo difficile e impossibile la vita di chi ha deciso di non vaccinarsi con l’intento di “stanarli” e costringerli a vaccinarsi. Perché il governo non si impegna con la stessa intensità per “stanare” gli evasori fiscali? Perché i programmi televisivi e i giornali (a esclusione del Fatto) non si impegnano nell’aiutare il governo in questo nobile intento indirizzando verso gli evasori tutta la loro potenza di fuoco mediatica al fine di portarli allo scoperto? Perché il governo non fa la guerra al virus dell’evasione così come sta facendo la guerra al virus del Covid? Forse lorsignori pensano che il virus dell’evasione non genera morti? Perché il governo non introduce, ad esempio, un green pass fiscale? Al cinema, al ristorante, a vedere la partita allo stadio ecc. ci si può andare solo se si esibisce il green pass fiscale che attesta che si è in regola con le tasse. Sarebbe un valido strumento per stanare gli evasori.

Emiliano Iacovissi

 

Ottima idea, o forse utopia. Però, intanto, vacciniamoci.

M. Trav.

 

Cosa dicono i partiti e cosa scelgono i cittadini

Sembra che i sondaggi per le Amministrative in Italia diano favorito il Pd quasi dappertutto. Partendo da questo, giovedì sera a Otto e mezzo al segretario Letta ospite in trasmissione è stato chiesto se riteneva che Conte ai ballottaggi potesse dare indicazioni agli elettori del Movimento di orientarsi verso il Pd. Certo, partendo dal presupposto che i 5stelle non arriveranno in nessun caso al ballottaggio a scapito del Pd la domanda è legittima, tuttavia sarebbe stato altrettanto legittimo chiedere a Enrico Letta che indicazioni darà nella malaugurata ipotesi che al ballottaggio da qualche parte possano arrivare qualcuno del Movimento, come ad esempio a Roma. Comunque sia, l’impressione che si ha è che venga data eccessiva importanza a quello che indicheranno i vari segretari di partiti, trascurando del tutto l’autonomia decisionale dei cittadini di Torino o Milano, di Roma e Bologna, al netto di quello che faranno o decideranno le federazioni regionali e provinciali.

Delfino Biscotti

 

Da Moro a Cosa Nostra, lo Stato è un ossimoro

Ai tempi del rapimento di Aldo Moro, lo Stato adottò la linea della fermezza rifiutando qualsiasi trattativa volta a salvare la vita dell’ostaggio. I media di allora e quasi tutte le forze politiche sostenevano la tesi che una eventuale trattativa avrebbe minato le fondamenta dello Stato democratico e legittimato politicamente i terroristi. Oggi sappiamo che lo Stato ha trattato con la mafia e un tribunale ha sentenziato che il fatto non costituisce reato e quindi non mina le fondamenta della Stato democratico. Conclusione: o la mafia non è una organizzazione criminale, ma un ente di beneficenza, oppure lo Stato è un ossimoro. Tertium non datur.

Maurizio Burattini

 

Auguri al “Fatto”: non si butta mai via

Un caloroso augurio per il compleanno del Fatto Quotidiano e a tutti noi (abbonati, lettori assidui e saltuari) che abbiamo la fortuna di leggerlo. Seduto sulla mia panchina, quando vedo passare le persone con altri quotidiani sotto l’ascella, li compiango. Con un pretesto qualsiasi, dopo i saluti e sempre nella dovuta confidenza senza cadere nella scorrettezza e nell’importuno, incomincio una discussione sul tema più caldo della giornata. È uno spasso sentirli ragionare e discutere sui problemi (letti nei loro giornali). Io li sento fino in fondo e poi dico la mia. Mai la stessa notizia è riportata con la schiettezza come dal Fatto Quotidiano e dopo aver dato la mia versione dei fatti – come letto nel nostro giornale – noto che, nell’andar via, passando davanti al primo cestino gettano il loro.

Gian Domenico Braile

 

L’eloquio di “Giuseppe”ai quesiti inquisitori

Mi associo alle lettrici e lettori che hanno criticato la signora Lucarelli, i signori Gomez, Caporale and company per lo stile e la comunicazione del presidente Giuseppe Conte che, viceversa, dimostra di essere ben compreso dai “comuni mortali”, Antonio Padellaro docet. Inoltre ritengo che si possono fare domande sciocche in modo ineducato, arrogante e provocatorio come è stato fatto nella trasmissione di Piazzapulita a Conte, il quale ha risposto con infinita pazienza ed educazione come è suo costume, anche se dall’espressione del volto si capiva ciò che pensava degli “inquisitori”. Sarei stata curiosa di vedere come i suddetti si sarebbero comportati se avessero dovuto rivolgersi ai Migliori, anche se il Migliore manco sarebbe intervenuto. Ma si sa, i monarchi non fanno campagna elettorale, ma demandano tale compito ai loro cortigiani.

Rita da Savona

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento ad alcuni articoli apparsi oggi sulla stampa Moby precisa che era a conoscenza di un fascicolo nel quale venivano svolte indagini, rispetto alle quali la Società, sin dal primo momento, ha offerto la più ampia collaborazione e trasparenza. Abbiamo affidato alla magistratura la nostra versione dei fatti che riteniamo essere del tutto legittimi. Confidiamo nel lavoro della magistratura rispetto alla quale nutriamo massima fiducia e stima.

Moby Spa

Vax o no. “Vanno rispettate le scelte di tutti”. “Ma non sulla pelle degli altri”

 

Buongiorno a tutti. Vedo che anche Antonio Padellaro difende a spada tratta l’intervento di Andrea Scanzi con Olga Milanese a Otto e mezzo di qualche sera fa.

Sicuramente se lo sarà visto… praticamente nessuno faceva parlare l’avvocatessa (no-vax, ndr) e, quando accadeva, tutti a scuotere la testa come se fosse la visionaria di turno, se non peggio.

Rischiare di non lavorare per aver fatto una scelta non obbligatoria, o doversi fare minimo tre tamponi settimanali a pagamento, ci fa capire dove siamo arrivati. La discussione sarebbe lunga: ripeto, io sono vaccinato, ma non sopporto più che chi non la pensa come la maggioranza sia considerato uno stupido guidato da chissà quali interessi, se non il rispetto dei diritti fondamentali di tutti noi. Buona giornata e buon lavoro.

Andrea Fraschetti

 

Gentile Fraschetti, potrei concordare con lei se in gioco non ci fosse la vita delle persone. Forse non era mai successo prima che fossimo chiamati a decidere su questioni di libertà così connesse a un rischio per la salute che può essere definitivo. Ho il massimo rispetto per le persone che si battono per un principio. Ma chi specula sulla pelle del prossimo per un uso politico, mediatico, e comunque per ragioni di convenienza, merita solo disprezzo.

Antonio Padellaro