Germania, cercasi mamma perduta

Più che una competizione politica, la campagna elettorale tedesca è stata una lunga, stremata cerimonia degli addii.

Addio ai 16 anni di Angela Merkel, eulogia sterminata delle sue ineguagliabili doti, necrologio che da mesi si sovrappone malinconicamente alle analisi su passato, presente e futuro. Non pianto, ma rimpianto che inonda ogni pensiero, paralizzando in anticipo chiunque sia chiamato a succederle alla cancelleria: forse il socialdemocratico Olaf Scholz, forse il democristiano Armin Laschet, in fondo non sembra importare molto. Forse di nuovo alleati, forse invece coalizzati ciascuno con altri partiti: Verdi o Liberali. Con la sinistra – la Linke – le coalizioni restano improbabili: il “nemico rosso” già governa in regioni e città, ma critica troppo la Nato. La logica dell’obituario esige che tutto resti così com’è. Come se ancora ci fosse lei: Mutti come la chiamano i tedeschi – Mamma. Di Mamma ce n’è una sola.

Scialbi tutti e due, Scholz e Laschet, non perché la natura li abbia fatti così, ma perché questa è la legge del necrologio cui si attengono quasi tutti i commentatori, soprattutto fuori dalla Germania. È commisurando le caratteristiche dei candidati al mirabile profilo della Merkel che il commentatore giudica, azzarda ipotesi di coalizioni, di politiche. L’occhio sgranato dei celebranti non vede quel che guarda. Vede solo quello di cui ha fin d’ora nostalgia, l’attimo che vorrebbe fermare perché così bello.

L’attimo di Angela Merkel non è stato eroico. Non è stato nemmeno carismatico, come ricorda lo storico Heinrich August Winkler. Gli attributi che sintetizzano i 16 anni di governo, e che si ripetono con impressionante monotonia, sono: pragmatismo in primis, e uso parsimonioso della parola, senso dell’utile, del management, della modestia.

Questo si cerca oggi di trovare, nei successori e anche ai vertici degli Stati europei: un sosia della Merkel.

Scholz e Laschet vanno bene se la imiteranno, se continueranno a disarmare l’immaginazione, se non saranno lì per risolvere le grandi crisi, ma per arrangiarsi e cavarsela nel breve termine (durchwursteln è l’ottimo verbo tedesco).

Sono anni che Angela Merkel è descritta come egemone in Europa, e oggi più che mai. La modestia pratica elude le ideologie, le visioni di lungo periodo, le scelte trasformatrici che durano nel tempo. Angela era così anche quando viveva nella Repubblica Democratica Tedesca: silenziosa e ligia. Quando i tedeschi dell’Est sfilavano nelle piazze lei non c’era. Fece capolino ben dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Kohl la scelse come pupilla.

Il management delle crisi è la dote merkeliana cui oggi si anela, ovunque. Anche quando si espresse con ferocia, e Berlino impartì le direttive alla trojka che piegarono e umiliarono la Grecia, riducendola quasi alla fame con l’assistenza della Banca centrale europea e della Commissione europea.

A volte la monotonia pragmatica s’interruppe, e Mutti improvvisò condotte inedite. Accadde quando annunciò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima, ma accrescendo poi la dipendenza da carbone e gas. E accadde soprattutto nel 2015, durante quella che viene chiamata crisi migratoria e fu invece crisi europea sulle migrazioni. La Merkel d’un colpo spalancò le porte ai migranti, soprattutto siriani. Furono circa 1 milione a entrare. Ma durò poco, tanto quanto bastava per ringiovanire un Paese sempre più vecchio. Le porte si richiusero, e Berlino fu la prima nell’Unione a imporre un accordo con la Turchia cui si chiese di non far partire i rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro.

Un’altra interruzione dell’utilitarismo pragmatico fu la messa in comune del debito europeo, al culmine della pandemia Covid: una soluzione sempre osteggiata dal dissimulato nazionalismo tedesco. Nato in Germania, l’ordoliberismo esigeva che ogni Paese membro “facesse i compiti in casa” prima di ricevere assistenza dall’Unione ed ecco che d’un tratto Merkel sconfessava gli ordoliberisti, accettava la lettera che Giuseppe Conte aveva scritto assieme ad altri otto leader dell’Unione in favore di una nuova solidarietà europea. Ne nacque il Recovery Plan, particolarmente generoso verso Italia e Spagna.

Ma Mutti non disse mai che la soluzione sarebbe stata strutturale, permanente, e tale da abolire i rigidi parametri fissati a Maastricht e inseriti nei Trattati dell’Unione. Fu un’iniziativa necessaria ma di eccezione, fece capire. E così dicono i successori: da Laschet il democristiano agli aspiranti Tesorieri nei futuri governi di coalizione (tra gli altri: il democristiano Friedrich Merz o il liberale Christian Lindner). Lo stesso Scholz, che forse favorirebbe il superamento di parametri che risalgono agli anni Novanta, non ha mai preconizzato a chiare lettere la loro riscrittura. Lo spettro dell’Unione delle Elargizioni (“Transfer Union”), di cui profitterebbero gli “sperperatori intrappolati nel debito” del Sud Europa, continua a ossessionare le élite tedesche, dalla Banca centrale nazionale all’Unione industriali: una paura cavalcata per anni dalla nuova destra impersonata da Alternativa per la Germania (Afd), nata nel 2013 durante la crisi greca.

Si è anche molto parlato dell’asse fra Macron e Merkel. Ma Berlino in realtà fa da sé, sia nei rapporti con Mosca (di volta in volta freddi e caldi) sia in quelli con la Cina.

La Cancelliera non ha sprecato molte parole neppure quando Emmanuel Macron ha ricevuto da Joe Biden la formidabile sberla che è consistita nell’accordo Usa-Australia-Regno Unito per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare, che ha affossato l’accordo franco-australiano con una mossa imperiale che smentisce ogni ipotesi sul declino Usa dopo il ritiro dall’Afghanistan. Troppo presto è stato scritto che lo schiaffo colpisce l’intera Unione, proprio mentre quest’ultima discute di comune difesa e perfino di autonomia strategica da Washington.

Non ci sarà mai accordo su simile autonomia, fino a quando Parigi non “europeizzerà” la propria atomica e fino a quando gli avamposti orientali dell’Unione (Polonia, Baltici) preferiranno la protezione militare statunitense garantita dalla Nato.

Berlino stessa, di fronte a una scelta radicale, non si farà trascinare in prove autentiche di indipendenza. Adenauer fu messo davanti a questa scelta da De Gaulle, alla fine degli anni Cinquanta, e rispose con un secco No.

Forse verrà il giorno in cui Berlino guiderà la trasformazione dell’Unione. Ma l’Eliseo dovrà cambiare rotta, e per smuoverlo non basterà di certo il pragmatismo tedesco.

 

La Trattativa e la sentenza segno dei tempi

Voglio leggere prima le motivazioni, è un opportuno salvagente politico che consente di tacere oggi (nel caso della sentenza d’Appello sulla trattativa Stato-mafia), per poi tacere anche domani, o dopodomani quando delle famose motivazioni si occuperanno forse soltanto i cultori della materia. Nel frattempo, chissà perché, mi ronza nella testa l’espressione “spirito del tempo”. Ovvero, riassumo, il concetto reso in tedesco come zeitgeist che indica la tendenza culturale predominante di una determinata epoca. Poiché in questa mia innocente evasione (in attesa delle motivazioni, ovvio) tempo è la parola chiave, per chiarirmi le idee provo a mettere in fila una breve cronologia degli eventi. Dal 1992, quando comincia la stagione delle stragi: l’uccisione di Falcone e Borsellino, il papello di Cosa Nostra con il ricatto allo Stato, le bombe a Firenze, Milano, Roma con la fallita ecatombe dello Stadio Olimpico. La “tendenza culturale predominante” era allora (forse qualcuno ricorda qualcosa) quella del terrore e dello sgomento, ma anche della più ferma e convinta solidarietà alla magistratura in prima linea contro le mafie. Poi arriva il 2018, con le condanne in primo grado al processo di Palermo sulla Trattativa: mafiosi, ma anche uomini dello Stato. Sullo spirito del tempo spirava allora il vento del cosiddetto “cambiamento”. Che si manifestò con la grande affermazione elettorale dei 5Stelle. Lotta alle mafie, alla corruzione, legalità, onestà/onestà. Giungiamo così all’altroieri. Sono trascorsi 30 anni dall’origine di tutto, il mondo è cambiato dieci volte, c’è stata la pandemia, oggi si tratta sul Green pass, i nostri bambini sono diventati padri di famiglia, e se provassimo a parlare di Trattativa ai nostri nipoti, ci guarderebbero con grande affetto. Lo zeitgeist è quello dell’unità nazionale. Su Totò Riina preparano una fiction, mentre Silvio Berlusconi corre per il Quirinale. Nella sua infinita saggezza, la giustizia italiana misura il tempo in una gigantesca clessidra trentennale (quarantennale se si stratta delle bombe fasciste). Dice l’Ecclesiaste che c’è un tempo per tutto: “Un tempo per uccidere e un tempo per guarire/un tempo per demolire e un tempo per costruire”. Sto forse insinuando che i giudici di Palermo hanno respirato lo spirito di questo nostro tempo solidale? Certo che no. Aspetto di leggere le motivazioni.

Conte e l’enigma di una popolarità senza populismo

 

“Intorno all’istituzione del talk show si crea una comunità; si tratta però di una comunità ossimorica, una comunità di individui uniti solo dalla loro autosegregazione e autoindipendenza”

(da “La società sotto assedio” di Zygmunt Bauman – Laterza, 2005 – pag. 179)

 

Critichiamo da troppo tempo la “politica spettacolo”, con l’uso e l’abuso dei talk show, per rimproverare ora a Giuseppe Conte la mancanza di verve comunicativa nelle sue recenti apparizioni in tv. Da neofita della politica, lui continua a fare “l’avvocato del popolo”, come si autodefinì all’esordio, con la pochette bianca nel taschino da gentiluomo meridionale. E piuttosto che impugnare il microfono per sparare frasi a effetto, slogan propagandistici, insulti o improperi, preferisce cederlo a un’anziana signora che l’ascolta nella piazza di Cavallino, provincia di Lecce, invitandola a salire sul palco e a raccontare la storia del figlio che ha utilizzato il Reddito di cittadinanza per poter mantenere due bambini adottivi. Senza rinunciare poi a rimbeccare con fermezza un contestatore no vax, nei giorni scorsi a Roma, durante un comizio a Villa Lazzaroni.

Fedele al suo mantra, “radicale nei principi, moderato nei toni”, il presidente del nuovo M5S non è un gladiatore da arena televisiva né tantomeno da rissa verbale. Lui rifugge dalle sceneggiate in tv. E forse anche per questo “difetto”, piace alla gente semplice che accorre a sentirlo nel suo tour de charme lungo la Penisola. Delle due, l’una: o l’abbiamo sopravvalutato prima o rischiamo di sottovalutarlo adesso.

Eppure, non si può dire onestamente che l’ex premier non abbia lanciato messaggi forti e chiari. Dalla vaccinazione di massa all’obbligo del Green pass, dalla contestata riforma della giustizia alla difesa del Reddito di cittadinanza fino al No sul ritorno al nucleare, ha espresso le sue opinioni senza ipocrisie o tartufismi.

Gli fa torto, perciò, chi lo definisce sprezzantemente “un democristiano”, magari dagli ex giornali dell’ex Fiat, che ha annoverato Umberto Agnelli senatore di quel partito. A suo tempo, in un’intervista al direttore del Fatto Quotidiano, Conte si dichiarò “moroteo” riferendosi al leader della sinistra dc trucidato dalle Brigate Rosse. E Antonio Padellaro ha già chiarito qui che quando l’ha paragonato per l’eloquio ad Arnaldo Forlani, l’ex segretario della Dc soprannominato “coniglio mannaro”, il suo voleva essere “un apprezzamento, sia pure in tono scherzoso”.

Nel saggio intitolato Giuseppe Conte, il carattere di una politica, scritto da Rita Bruschi e Gregorio De Paola, recensito in termini lusinghieri da Barbara Spinelli su questo giornale, si racconta “quel che si conosce poco di Conte: le letture, le convinzioni con cui è entrato in politica, il banco di prova che è stato il Covid e l’enigma, appunto, della sua persistente popolarità”. Una popolarità conquistata e finora mantenuta senza indulgere al populismo, senza concessioni alla retorica o alla demagogia. Forse più da uomo di governo che da leader politico, certamente né tribuno della plebe né capopopolo. La sua scelta di campo Conte l’ha fatta. E il campo è quello europeista, progressista, riformista. Contro le disuguaglianze e le ingiustizia sociali, contro la corruzione e il malaffare. A favore della legalità e dell’ambiente. Su questa linea, ha imperniato l’alleanza con il Pd, unica alternativa possibile al centrodestra, aggregando una larga maggioranza dei 5stelle. Lui è, per riprendere un titolo di Mario Pannunzio, un “estremista moderato”. Pazienza se va in tv e a volte risponde con qualche impaccio alle domande – più o meno capziose – del conduttore di turno: magari imparerà. Di questi tempi, meglio un po’ più di rigore e di sobrietà.

 

La sinistra dovrebbe diffidare del logoro “pacchetto Draghi”

Non brillano di fantasia gli ex veltroniani del Pd: ieri montiani, oggi draghiani; ieri sostenitori della tesi che il Pd dovesse fotocopiare l’agenda Monti e fare di lui il candidato premier del Pd; oggi propugnatori esattamente della stessa ricetta – programmatica e politica – questa volta affidandosi a Draghi perinde ac cadaver.

Può darsi che ci si arrivi, ma prospettarlo sin d’ora è sorprendente. In primo luogo, si diceva, un deficit di fantasia, una scorciatoia forse dettata dall’illusione di risparmiarsi una più complessa opera politica ricostruttiva, nonché l’indizio di una certa smemoratezza: prima meriterebbe chiedersi se non abbia qualche fondamento la tesi di chi rinviene nella stagione montiana una delle cause dell’esplosione dei populismi. Che non è improprio leggere anche come una risposta reattiva alle soluzioni tecnocratiche, alla sospensione di una fisiologica dialettica democratica.

Secondo: affidarsi a una leadership altra da parte di un partito che si proclama democratico e (in senso buono) ambizioso – la tanto evocata, specie da quelle stesse parti, vocazione maggioritaria – non è un bel segnale.

Terzo: proprio i sedicenti liberal Pd furono i più strenui teorici della coincidenza (scolpita persino nello statuto) tra leader Pd e candidato premier. Che, in questo caso, sarebbe Enrico Letta, ma che evidentemente non fa al caso loro.

Quarto: è bizzarro, ma non casuale, che i cultori del bipolarismo che un tempo traguardavano addirittura al bipartitismo, cioè alla competizione tra offerte politiche nitidamente alternative, in grande anticipo e con tanto zelo, quasi fideisticamente, abbraccino la leadership di chi oggi presiede un governo di quasi unità nazionale. Nostalgie consociative? Provincialistica tendenza a fare il verso alla Grosse Koalition tedesca in un contesto incomparabile?

Quinto: a ben vedere, adottare Draghi quale guida politica senza chiedergli il permesso può essere una lusinga, ma anche una mancanza di rispetto. Egli oggi guida una diversa compagine e potrebbe non gradire.

Si comprende il calcolo delle convenienze: quella di porsi nella scia di un premier che gode di un largo consenso, di trarre vantaggio da quel patrimonio, ma dovrebbero pur contare le idee e i programmi autonomamente elaborati e proposti dal proprio partito. Muovendo di lì – da idee e programmi propri – per poi disporsi a organizzare un campo progressista largo e inclusivo (al centro e a sinistra) e per vivificare la partecipazione democratica dei cittadini. Piuttosto che affidarsi alla soluzione del “pacchetto Draghi” già confezionato.

O sinistra e democrazia partecipativa sono parole tabù per i liberali-liberisti Pd? Al neocentrismo renziano e alla propria autorappresentazione quale “partito governista” il Pd ha già pagato un prezzo salato. Si vuole tornare lì?

 

Sul green pass neanche Dostoevskij ha risposte

L’obbligatorietà, più o meno nascosta, del Green pass ha sollevato un problema di fondo che, irresoluto, insegue il genere umano dalla sua comparsa: se la libertà (la sicurezza) di tutti, o della maggioranza, abbia diritto di prevalere sulla libertà del singolo o se il singolo abbia il diritto di fare le sue scelte. Sul tema sono intervenuti sul nostro giornale Gad Lerner, autorevole firma del Fatto, e Carlo Freccero, intellettuale di lungo corso. Se dovessi replicare ai due risponderei con le parole che Sancio Panza rivolge a Don Chisciotte: “Mio signore, io purtroppo sono un povero ignorante e del vostro discorso astratto ci ho capito poco o niente”. Sia Lerner che Freccero non resistono infatti alla tentazione di buttarla in politica inserendo argomenti come il referendum di Matteo Renzi, il sovranismo, il futurismo.

Il dilemma è più diretto e allo stesso tempo molto più complesso e si incarna nell’eterno conflitto fra Autorità e Libertà. Risale almeno al Seicento quando si incanala nel duello intellettuale fra Blaise Pascal e Cartesio. Pascal sostiene che non esistono certezze assolute sulla natura umana, che è fluttuante nei suoi principi e nei suoi conseguenti costumi; Cartesio, al contrario, fonda il suo ragionare su una certezza opposta: esistono principi universali validi per tutte le genti. Questo dibattito si sviluppò non a caso nel Seicento, e ancor prima con Montaigne nel Cinquecento, all’epoca delle grandi esplorazioni che portarono quello che oggi chiameremmo Occidente a contatto con culture molto diverse dalle nostre. In un famoso capitolo dei ‘Saggi’, Dei Cannibali, Montaigne dice sostanzialmente: certo per noi i cannibali sono loro, ma ai loro occhi i cannibali siamo noi. Sarebbe molto istruttivo riprodurre l’intero capitolo perché è attualissimo da quando la Democrazia, vale a dire l’Illuminismo cartesiano, ha inteso proporsi come valore assoluto e universale. In termini meno antropologici e più politici, Flaubert dice: “Ma nessun potere è legittimo, nonostante i loro sempiterni principi. Ma, siccome principio significa origine, bisogna riferirsi sempre a un inizio (…) Così il principio del nostro è la sovranità nazionale, intesa in forma parlamentare… Ma in che cosa mai la sovranità nazionale sarebbe più sacra del diritto divino? Sono finzioni, l’una e l’altra”.

Ma se non c’è un principio, un qualsivoglia credo, una ‘roccia’ come la chiama Cartesio, cui ancorarsi, nasce lo straziante grido di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”. Si sarebbe tentati di credere che fra Libertà e Autorità l’uomo scelga istintivamente la prima. Ma non è così. L’uomo ha bisogno dell’Autorità, altrimenti non si capirebbe come mai per millenni, alle volte esplicita più spesso mascherata, sia sempre esistita un’Autorità. Il fatto è, anche se spiace ammetterlo, che l’uomo ha bisogno dell’Autorità perché lo libera dal torturante dilemma della scelta e nello stesso tempo gli lascia un quid inesplorato che lo sciolga dalle certezze dogmatiche. Lo chiarisce splendidamente Dostoevskij nell’apologo del Grande Inquisitore inserito nei Fratelli Karamazov. Siamo nel Cinquecento, Cristo è tornato sulla terra perché la Chiesa di Paolo ha tradito il suo messaggio libertario. Il Grande Inquisitore, il novantenne cardinale di Siviglia, lo fa mettere immediatamente nelle più profonde segrete della città e gli fa questo discorso: “Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana e dell’antropofagia, poiché, avendo cominciato a edificare la loro torre di Babele senza noi, andranno a finire con l’antropofagia! Ma verrà pure un giorno che la fiera s’appresserà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi , e ad annaffiarli con lacrime di sangue. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa sarà scritto: ‘MISTERO!’”. L’antilluminista Dostoevskij coincide dunque da una parte con l’illuminista Cartesio, che fonda la ragione moderna, perché riconosce che l’uomo ha bisogno di una certezza, di una qualsiasi certezza, ma d’altro canto se ne distacca profondamente perché proprio la certezza è ciò che lo uccide (“Amleto, chi lo capisce? È la certezza, non il dubbio che uccide” Nietzsche). Detto in termini più semplici: se io vivo in una stanza (mondo) dove tutto è illuminato, dove conosco anche il più piccolo pulviscolo, che altro mi resta da fare se non tirarmi un colpo di pistola?

Si potrebbe aggiungere con Eraclito che il problema è risolto in quanto irrisolvibile: “Tu non troverai i confini dell’Anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione” e aggiunge che “la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana”.

Il mediocre problema del Green pass, che in fondo, e in questo sono d’accordo con Freccero, nasce solo dalla paura, un’abbietta paura della morte, sconosciuta in questi termini dalle generazioni che ci hanno preceduto anche solo di una cinquantina d’anni, ha avuto se non altro il merito di togliere il dibattito pubblico, almeno per un po’, dagli infimi temi della politica per portarlo su una questione di fondo. Ma poiché siamo dei nani seduti sulle spalle di giganti non saremo proprio noi ad arrivare là dove non sono arrivati Pascal, Cartesio, Dostoevskij. Ci rimane però il piacere, da non sottovalutare, della dialettica.

 

I programmi in televisione: dal Grande Fratello Vip a Beautiful e Carabinieri

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Canale 5, 21.20: Grande Fratello Vip, reality. Il filosofo Paul Virilio divide i tempi moderni in tre ere: l’era della logica formale (pittura, incisione, architettura, che finisce nel XVIII secolo), l’era della logica dialettica (fotografia e cinematografia, che finisce nel XIX secolo), e l’era della logica paradossale, che inizia con l’invenzione della videografia, dell’olografia e dell’infografia. Oggi, spiega Virilio, esistono solo il tempo reale e il tempo differito, dove da una macchina di guerra è possibile vedere il futuro dell’imminente arrivo del proiettile sul bersaglio. Siamo dunque nell’epoca della dissuasione, non in quella della seduzione di cui scriveva Baudrillard 25 anni fa. In questa nostra epoca, gli armamenti a energia cinematica (le armi a irradiazione) creano un’estetica che Paul Klee aveva anticipato dicendo: “Ora gli oggetti mi guardano”. Insomma, non siete voi a guardare questa puttanata condotta da Alfonso Signorini, ma è questa puttanata condotta da Alfonso Signorini a guardare voi.

Rai 3, 21.20: Hammamet, film propagandistico. Il regista Gianni Amelio racconta gli ultimi sei mesi di vita di Craxi buttandola sul patetico dei suoi problemi di salute, che è come se uno facesse un film su Mussolini parlando della sua ulcera gastrica. Il risultato è un’agiografia, guardacaso prodotta dal socialista Agostino Saccà, già direttore generale della Rai, quello che col direttore di Rai1 Fabrizio Del Noce chiuse il programma di Enzo Biagi, casualmente ottemperando all’editto bulgaro di Berlusconi; per poi dire, mesi dopo, che Biagi se n’era andato “di sua spontanea volontà”. Presentando il film, il settimanale Sorrisi e canzoni TV (Mondadori, cioè Berlusconi) contribuisce all’operazione revisionista scrivendo di Craxi “in esilio in Tunisia”, invece che “latitante in Tunisia”. Sono certo che il direttore di Sorrisi, l’amico Aldo Vitali, non si sia accorto del refuso (rivelando la nostra amicizia, comunque, gli ho appena stroncato la carriera). Un bel test per scremare amici e conoscenti? Chiedetegli “Craxi: in esilio o latitante?”.

Canale 5, 13.40: Beautiful, soap. Liam va a trovare Finnegan e gli chiede se il suo interesse per Steffy è solo professionale. Finnegan esce il cazzo dal culo di Steffy e gli risponde.

Rai 1, 23.35. Porta a Porta, attualità con Bruno Vespa. La Rai è una società per azioni quasi interamente controllata dal ministero dell’Economia e finanziata dai cittadini con il canone (circa 2 miliardi di euro ogni anno). La guida della Rai è in mano al Cda, composto da un presidente e da otto membri, che nominano il direttore generale e i direttori di rete e dei Tg. A nominare il Cda sono organi politici: il Parlamento tramite la commissione di vigilanza (che sceglie 7 consiglieri); e il governo tramite il ministero dell’Economia (che nomina l’altro consigliere e il presidente). Altrove, invece, le nomine avvengono con bandi pubblici, e i Cv sono sempre trasparenti online: è il caso della BBC. In compenso, da 25 anni noi abbiamo “Porta a Porta”. IL PRESIDENTE DELLA BBC: “Che culo!”.

Rete 4, 10.50: Carabinieri, fiction con Manuela Arcuri. Un’auto parcheggiata viene distrutta da una bomba rudimentale. Un’altra auto parcheggiata, appartenente allo stesso proprietario, era stata distrutta da una bomba rudimentale nella stessa via un mese prima. Manuela Arcuri indaga per capire se i due incidenti sono collegati.

 

Giorgia fa partire il nastro, ma scambia i No Vax di destra per i centri sociali

Nel meraviglioso qui pro quo in cui è incappata l’altra sera Giorgia Meloni a Torino, durante il comizio di sostegno al candidato di centrodestra, si presenta il lato psicoanalitico della politica. Giorgia era intenta a illustrare le sue doti di oppositrice al sistema quando, da un lato della bellissima piazza Castello, s’è levato un vocìo confuso ma ripetuto. Erano contestatori! È stato in quel momento che il motore di Giorgia ha cambiato marcia, e la voce tono e il corpo postura. Rossa in volto, la carotide tesa e l’urlo: “Mai avuto paura di voi. Fate solo pena. Ridicoli. Pagliacci, rivoluzionari finanziati dal sistema. Pagatevi gli affitti dei centri sociali”, ha detto sussultando e così anche la platea, misurata e seduta, l’ha abbracciata in un applauso liberatorio. Erano sicuramente “zecche rosse”, il diavolo che veniva a scuotere l’armata di destra, pacifica e combattente.

E invece… Il Foglio, riferendo l’episodio, ha spiegato invece che si trattava di militi senza casa, nel senso che il loro leader era stato sloggiato, presumiamo per turbolenze ideologiche, proprio da Fratelli d’Italia. Erano destri, anzi destrissimi, ora combattenti contro il vaccino e per questo contro la Meloni, accusata di essere “vaccinista”, e questa sarebbe la sua colpa capitale.

Quindi non zecche ma forse fasci, non centri sociali ma piccolo borghesi, non per il comunismo ma contro il Green pass.

Giorgia Meloni, rientrando in sé dopo la filippica, ha proseguito e concluso vittoriosamente il comizio. Non sapeva ed è stata felice di aver dato ciò che doveva “alle guardie bianche dei poteri forti”.

Così ha detto, così pensava che fossero. E mai e poi mai avrebbe immaginato che a destra le si presentasse ancora altra destra a darle pena.

Di straordinario, in questo piccolo e confuso battibecco, la trasformazione lessicale e fisica, come se nel suo corpo e nella sua mente fosse stato inserito il nastro del Fronte della Gioventù. Strabiliante infatti la velocità in cui Giorgia si è ritrovata in assetto di guerra.

È stato un falso allarme, però istruttivo.

Dopo la stretta Usa, tocca alla Cina: Pechino mette fuorilegge Bitcoin&C. (che crollano)

Giornata campale, ieri, per il bitcoin: le principali autorità finanziarie della Cina hanno vietato il trading e l’estrazione (mining) di criptovalute, facendo crollare i corsi dei criptoasset e i titoli delle principali società legate alla blockchain. La repressione di Pechino è arrivata al divieto generale di ogni transazione. Dieci Authority cinesi, tra le quali la Banca centrale, quelle sui mercati finanziari, le Borse e i cambi hanno unito le forze in una collaborazione di dimensioni mai viste sinora contro tutte le attività cripto dichiarate “illegali”. Già a maggio la Cina aveva vietato a istituti finanziari e società di pagamento di fornire servizi alle transazioni in criptovaluta. Divieti simili erano stati emanati anche nel 2013 e 2017, ma si sono dimostrati di ardua attuazione.

Il governo di Pechino vede le criptovalute come una minaccia per la sua sovranità monetaria, specie ora che si fa più prossima la crisi finanziaria del gigante dell’immobiliare Evergrande con possibili ricadute sistemiche. La blockchain e le criptovalute, decentralizzate e ingovernabili per design, potrebbero fornire un canale a un’eventuale fuga di capitali. La Banca centrale cinese ha affermato che il governo di Pechino “reprimerà risolutamente la speculazione sulla valuta virtuale e le relative attività finanziarie e comportamenti scorretti, per salvaguardare le proprietà delle persone e mantenere l’ordine economico, finanziario e sociale”. La mossa arriva mentre le autorità finanziarie di molti Paesi, tra i quali gli Stati Uniti, stanno fissando paletti sempre più stretti nel timore che l’elevatissima volatilità dei criptoasset possa minare il controllo dei sistemi finanziari e monetari, promuovere il riciclaggio e danneggiare i risparmiatori.

Dopo la notizia, il bitcoin ha perso oltre il 9% per poi sprofondare in serata a 36mila euro (-11%). Il tonfo ha trascinato anche altre criptovalute minori. Nonostante il crollo, alcuni analisti ritengono che il giro di vite non indebolirà i corsi globali delle criptovalute a lungo termine. La Cina rimane un mercato crittografico essenziale. La mossa arriva a pochi giorni dalla decisione del Tesoro Usa che il 21 settembre ha sanzionato un exchange di criptovalute per il suo sostegno al riciclaggio dei riscatti pagati in criptovalute agli autori di attacchi hacker ransomware. I pagamenti di ransomware hanno superato i 340 milioni di euro nel 2020, il quadruplo del 2019.

Cloud della P.A. Ecco l’offerta di Tim e Cassa

Una concessione in esclusiva di 13 anni e un giro d’affari di 5 miliardi con margini notevoli. Sono questi, in sintesi, i numeri della proposta per il cloud della Pubblica amministrazione che la cordata formata da Cassa depositi e prestiti insieme a Tim, Sogei (la società del Tesoro per i servizi digitali) e Leonardo si appresta a fare al ministero della Transizione digitale guidato da Vittorio Colao. Il testo ha ricevuto mercoledì il via libera di Cdp, giovedì è toccato a Tim. Entro fine mese arriverà il via libera anche degli altri partner. La proposta è assai attesa da Colao e compagnia, visto che è la cordata gradita al governo e di fatto è stata messa in condizione di vantaggio rispetto a potenziali rivali.

Nei giorni scorsi il Fatto ha raccontato le pressioni informali arrivate dal Tesoro in direzione del Poligrafico dello Stato per evitare che partecipasse al bando per la realizzazione del Polo strategico nazionale (Psn), dove migreranno i dati della P.A. centrale e poi di quella locale. L’Istituto ha replicato di aver preso la decisione di ritirarsi da solo, anche se era pronto a partecipare insieme a Fastweb con una proposta ormai definita. Il ministero ha deciso che lo schema dev’essere quello del “Partenariato pubblico-privato”: chi vuole partecipare deve trovare una partnership con una società a controllo pubblico. Solo che, visto il clima, tutte si sono sfilate, compresa Fincantieri (controllata da Cdp). Nei giorni scorsi una trentina di parlamentari capitanati da Raphael Raduzzi (Misto) hanno depositato un’interpellanza urgente sulle presunte pressioni chiedendo al Tesoro di venire a rispondere in aula: “Ci troveremmo davanti non solo ad un palese conflitto d’interessi, con il ministero in campo sia da arbitro che da giocatore – spiega Raduzzi – ma pure a una limitazione palese della concorrenza a favore della cordata di Tim-Cdp”. Il ministero dovrà rispondere forse l’otto settembre, dopo la pausa elettorale.

Colao ha chiesto le proposte entro fine settembre, per poter selezionare la migliore e avviare la gara. In campo ci sono Aruba-Almaviva, il “Consorzio Italia Cloud” (prive però di un partner pubblico) e la cordata di Cdp-Tim.

Stando ai documenti dell’offerta, quest’ultima prevede la costituzione di una società con il 45% del capitale in mano a Tim e il resto ai soci a controllo pubblico (20% Cdp, 10% Sogei, 25% Leonardo). A Cdp spetta la nomina dell’ad (e a cascata del management di primo livello), a Tim quello del presidente (senza poteri esecutivi). È stata già stilata una bozza del contratto di concessione che affiderebbe il Psn e i servizi cloud alla Pa in esclusiva per 13 anni, al termine del quale dovranno restituire asset, dati, piattaforme e altro allo Stato o al concessionario subentrate (previo indennizzo degli investimenti non ancora ammortizzati). Il business plan spiega bene la portata dell’operazione: stima 4,6 miliardi di ricavi di cui 1,1 di utili, con un margine lordo del 24-26%. Numeri potrebbero salire visto che il 90% arriva dai servizi “core” (migrazione dati e gestione del cloud), e solo 10% da quelli legati ai “servizi professionali” alla P.A., che sembrano sottostimati. È anche previsto un meccanismo compensativo in caso i ricavi dovessero risultare troppo bassi. Resta da capire se qualcuno avrà la forza di sfidare la super cordata.

Autostrade-governo, il parere top secret che chiude la guerra

Vietato fare domande e soprattutto vedere le carte: sul regolamento dei conti bonario tra lo Stato e Autostrade per l’Italia, che chiude il contenzioso relativo al danno provocato dal crollo del Ponte Morandi di Genova, nessuno deve sapere. Nemmeno i parlamentari della Repubblica possono infatti avere accesso agli atti più delicati di questa vicenda, che si avvia alla conclusione con passaggio della proprietà del concessionario autostradale al consorzio guidato dalla pubblica Cassa Depositi e Prestiti insieme ai fondi esteri Blackstone e Macquarie. Ma è inutile chiedere lumi sul ricco passaggio di proprietà niente affatto punitivo per Atlantia, il colosso targato Benetton che controlla Autostrade.

A metà settembre, il senatore Mattia Crucioli (Alternativa C’è) si è visto rifiutare dall’Avvocatura dello Stato la possibilità di conoscere i contenuti del parere sull’atto transattivo che chiude la partita tra la concessionaria autostradale e lo Stato. Per capire di cosa parliamo serve fare un passo indietro. A giugno scorso, Cdp e Atlantia hanno siglato l’accordo: il 100% del capitale di Autostrade viene valutato 9 miliardi (ad Altantia, che ne possiede l’88%, andranno poco più di 8 miliardi, a fronte di un valore a bilancio di 6). L’operazione si chiuderà a inizio 2022, solo dopo che saranno ultimati una serie di passaggi. Il via libera è subordinato a due atti: il primo è il Piano economico e finanziario (Pef) della futura Autostrade pubblica, il secondo è l’atto transattivo che chiude il contenzioso. Quest’ultimo è, in sostanza, l’accordo con cui lo Stato decide di non procedere alla revoca della concessione dopo il crollo del Morandi, ma di accettare l’indennizzo di 3,4 miliardi (al netto dei danni diretti già saldati) messo sul piatto dal concessionario. Come tutti gli atti transattivi va sottoposto al parere dell’Avvocatura dello Stato, il cui compito è spiegare se la mossa è nell’interesse della parte pubblica. Il problema è che il documento è avvolto dal mistero. Il mese scorso i parlamentari di Alternativa C’è hanno depositato un esposto alla Procura di Roma e alla Corte dei Conti denunciando profili di illegittimità nella compravendita di Autostrade. Il 13 settembre, Crucioli ha scritto all’Avvocatura e al ministero dei Trasporti per poter visionare il parere. L’Avvocatura ha risposto due giorni dopo, negando l’accesso. Perché? Diffonderlo ancorché a beneficio di un parlamentare intenzionato a esercitare le proprie prerogative, violerebbe il segreto professionale. “Sono sottratti all’accesso, in virtù del segreto professionale e al fine di salvaguardare la riservatezza nei rapporti tra difensore e difeso, i pareri resi in relazione a lite in potenza o in atto e la inerente corrispondenza”, si legge nella risposta del Segretario generale, Paolo Grasso. Eppure parliamo di un parlamentare della Repubblica, che gode di ampi poteri di sindacato ispettivo. E, soprattutto, dell’atto più importante di un contenzioso che ruota attorno a uno dei più grandi disastri della rete stradale nazionale.

I contorni, peraltro, sono ancora più confusi. Il Mit aveva inizialmente risposto a Crucioli che un parere non era stato richiesto, riferendosi però alla compravendita di Autostrade. Al Fatto ha invece confermato che il parere è stato chiesto, ma non ha spiegato quando. Fonti vicine al dossier spiegano che la richiesta sarebbe arrivata tra l’8 e il 10 agosto, dopo la firma del memorandum di intesa tra Cdp e soci e Atlantia. Il ministero non conferma, ma non è nemmeno chiaro se il parere sia stato fornito.

Senza l’atto transattivo non si può procedere. Dopo la firma, infatti, andrà inviato al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) che deve approvare l’intero pacchetto, compreso il Piano economico finanziario. Tutto è rimasto fermo in attesa che si chiudesse il negoziato tra Cdp e Atlantia. Al Cipe toccherà scrivere la parola finale, soprattutto sciogliere il nodo riguardo al Pef. Quello proposto da Autostrade e approvato dal ministero l’autunno scorso è stato stroncato dall’Autorità dei Trasporti perché concede aumenti dei pedaggi tali da rendere la concessione perfino più remunerativa di quella targata Benetton, a danno degli automobilisti. Ministero e Autostrade si sono adeguati solo in minima parte, e ora i tecnici del Cipe (il dossier deve passare dal Nucleo per la regolazione dei servizi di pubblica utilità) dovranno prendersi la responsabilità di avallare il tutto. Chissà se almeno in quel caso si potrà sapere con quale motivazione.