Fridays for Future: poca politica, tanta pratica

Le motivazioni le hanno scritte nero su bianco sul loro sito: scioperiamo perché “non abbiamo scelta, “perché la crisi è già qui, come hanno dimostrato i roghi e le ondate di calore di quest’estate”. E così ieri i Fridays for Future, il movimento nato nel 2018 dagli scioperi del venerdì di Greta Thunberg, è tornato in piazza per il Global Climate Strike, lo Sciopero Globale per il Clima, il primo “in presenza” dopo la pandemia. Da Bolzano a Catanzaro, sono state quasi 80 le città italiane in cui i ragazzi di tutte le età – dalle elementari all’università, ma c’erano anche intere famiglie, i Parents for Future e gli Extinction Rebellion – hanno sfilato con i loro colorati cartelli, mentre Greta Thunberg scioperava in una Berlino in piena campagna elettorale. La Germania come il Brasile, il Mali come la Scozia, e poi Bangladesh, Filippine, Zambia, Ucraina, Namibia, Sud Corea, Pakistan (d’ altronde il movimento ormai è in tutti i continenti e in 7500 città): ovunque i giovani hanno protestato all’insegna dello slogan “uproot the system”, sradichiamo il sistema.

Nelle piazze italiane si sono visti, come sempre, centinaia di cartelli fatti a casa. Alcuni critici – “Ministero della truffa ecologica” – altri soprattutto ironici: “Boil tortellini not our planet” (cuoci i tortellini non il pianeta), “Sopra i 40 gradi solo gli alcolici”, ma anche un beffardo “Il cambiamento climatico è più vero degli orgasmi di tua moglie”. In realtà, a parte i leader dei Fridays for future, critici verso Cingolani e le sue ultime dichiarazioni sugli ambientalisti “radical chic” (proprio gli attivisti hanno messo in atto un flash mob contro il caro bollette davanti all’Agenzia delle entrate di Milano), la massa dei manifestanti era fatta da bambini e studenti tanto consapevoli della crisi climatica quanto indifferenti verso la politica. Draghi? “Sì, so chi è, no, mi pare che di clima parli molto poco, più che altro si occupa di economia e di pandemia”, dice Francesca a Roma. Il ministro Cingolani invece, che nessuno, ma proprio nessuno lo conosce (“Boh, chi è”, “Quello calvo…”, “So’ tutti calvi”), è il vero assente di questa piazza poco mediatica e molto sudata. Questi ragazzi non masticano bene parole come decarbonizzazione e neutralità climatica, ma hanno capito di essere in un gran casino e che questo casino ha a che fare con le loro città sempre più torride, la siccità. E hanno paura. Così chiedono che chi conta intervenga, anche se non sanno bene come. Quello di ieri, comunque, è stato solo il primo dei grandi appuntamenti climatici che vedranno protagonisti i giovani dei Fridays. Il 1 ottobre sciopereranno a Milano con Greta Thunberg, in occasione della Youth Cop e della pre-Cop (la Cop è la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima), entrambe ospitate a Milano, città su cui sono puntati ora tutti gli occhi. Annunciando la manifestazione del 1 ottobre sul suo profilo Instagram, Greta ha ribadito quello che è il tema centrale del suo pensiero: “Chiediamo giustizia climatica, perché è l’unico modo per interrompere l’emergenza climatica”. Una convinzione poco ideologica e molto radicale. Perché molti ideali di sinistra, ormai, passano da qui. Non più dai partiti, ma da questi giovani che, più che mai, vogliono vivere.

L’Italia è ancora senza il suo inviato per il clima

Èstato promesso più volte nell’ultimo anno, ci sono decine di comunicati e di articoli che lo provano, il mese scorso c’è anche stato un incontro ufficiale per discuterne. Eppure dell’inviato speciale italiano per il clima non c’è ancora traccia.

“È un tema che riguarda tutti noi e ogni aspetto della nostra vita. Bisogna dare una risposta efficace, senza perdere tempo – aveva detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio a inizio estate –. Per questo abbiamo deciso di dotare il nostro Paese di una figura strategica in questo campo, cioè l’Inviato speciale per il cambiamento climatico, come già fatto da Usa, Regno Unito, Francia e Germania. Si tratta della persona incaricata di seguire i negoziati e di rappresentare l’Italia a tutti i tavoli internazionali”. Aveva anche fornito una scadenza, Di Maio: “Il prossimo passo ora è la sua nomina, che avverrà a settembre. Agiamo subito”. Subito è passato, così come è quasi trascorso settembre: non solo non c’è la nomina ma non c’è ancora neanche un nome.

Si tratta di una figura importantissima in quella che viene definita “diplomazia climatica” e che è prevista dall’articolo 5 del decreto legge 23 giugno 2021 n. 92 sulle “Misure urgenti per il rafforzamento del ministero della Transizione ecologica”. Si prevede che l’inviato speciale sia nominato dal ministro degli Affari Esteri e dal ministro della Transizione Ecologica (dunque Di Maio e Roberto Cingolani) e che la sua azione sia quindi supportata e coordinata, come pure è ovvio, da entrambi i dicasteri al fine di “consentire una più efficace partecipazione italiana agli eventi e ai negoziati internazionali sui temi ambientali, ivi inclusi quelli sul cambiamento climatico”. I due ministeri devono fornire “supporto tecnico e organizzativo”. I soldi ci sono: l’incarico porta in dote 250 mila euro per il 2021, 350 mila per il 2022 e altri 250 mila per il 2023. Manca invece un curriculum che metta d’accordo i due ministeri su una figura che – è questo il punto – sia “di raccordo” e non sostitutiva o decisionale. Di fatto, alla nomina tiene particolarmente Di Maio. Per Cingolani, di cui è difficile reperire anche solo una parola in proposito, al momento sembra essere per lo più un passaggio inevitabile su cui ad agosto si è raggiunto comunque un’intesa. A oggi, infatti, è il ministro a trattare in materia di ambiente e di clima e la figura che si ricerca, che avrebbe soprattutto un ruolo di tipo diplomatico, deve essere di spessore politico e riuscire ad affiancare il ministro, senza sostituirlo. Il parallelismo che viene fatto di solito è con John Kerry, l’inviato scelto dal presidente americano Biden. Negli Stati Uniti, però, i temi ambientali sono per lo più coperti dal ministero dell’energia quindi di fatto c’era una casella vacante.

Fonti del Movimento Cinque Stelle vicine a Di Maio, ieri, spiegavano che sono stati presi in considerazione molti curricula, ma nessuno al momento pare soddisfare i requisiti. La ricerca non è facile (diversamente da quanto trapelato finora non ci si concentrerà esclusivamente su candidate donne) ma il ministro conta di poter chiudere il dossier al ritorno da New York dove sta partecipando alla 76esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Anche perché il tempo stringe: nell’agenda del futuro inviato ci sarebbero già dovuti essere alcuni appuntamenti importanti, dall’ormai andato Food Systems Summit dell’Onu di questi giorni agli eventi a cui potenzialmente l’inviato speciale potrebbe ancora prendere parte last minute (magari ‘alleggerendo’ il ministro Cingolani che è alle prese con la gestione tecnica e politica dei rincari energetici e di una transizione sempre più necessaria) come la Cop15 di Kunming sulla biodiversità a ottobre e la Cop26 di Glasgow sul clima a novembre che sarà, oltretutto, preceduta dalla PreCop di Milano. La Cop26 di Glasgow, oltretutto, sarà organizzata dalla Gran Bretagna e dall’Italia che presiederà anche il G20 del 30-31 ottobre a Roma. L’ambiente? Sarà ovviamente al centro dell’agenda.

Giovani e miocardite, studio canadese: “Dati errati, è 1 su 20 mila”

L’Università di Ottawa (Canada) ha pubblicato uno studio sulle “vaccinazioni e sviluppo di miopericardite”, con dati estremamente interessanti, che sono stati ripresi e citati nell’articolo del Fatto “rischio miocardite tra i più giovani: un caso su mille” pubblicato giovedì 23 settembre. Il team canadese – coordinato da Andrew Crean docente dell’Università –, era arrivato a sostenere che vi fosse un caso di miocardite/pericardite ogni 1.000 vaccini, in particolare nei giovani. Alcuni giorni dopo dei commenti sul sito Medrxiv, hanno posto l’attenzione su un possibile errore nel calcolo. Il paper era un preprint, approdato anche su twitter, dove Andrew Crean, ha ricevuto altre sollecitazioni. Finché ha risposto, in un modo estremamente inconsueto a un tweet di un medico di famiglia, che chiedeva spiegazioni sui dati. Altri commenti si sono aggiunti, finché Crean in una sola riga e senza spiegare quali siano stati i possibili errori, ha scritto “Sì, è meno di 5 su 100.000. Molto più coerente con i rapporti precedenti”. Quindi una media di 1 caso di miocardite ogni 20 mila vaccini circa, invece che 1 su mille. Lontano anche da un altro studio israeliano, e ripreso da Science, dove si accertava 1 caso di miocardite su 3.000/6.000 uomini di età compresa tra 16 e 24 anni. Dopo il tweet è stato inevitabile approfondire la questione. Nel caso in cui si voglia ritirare o modificare uno studio, i criteri sono altri. Come abbia fatto un team di ricerca di alto livello a sbagliare in modo così improbabile è di certo un mistero, dal momento che hanno tenuto conto di dati molto dettagliati, come singole risonanze magnetiche (per altro pubblicate nel paper).

Abbiamo chiesto all’istituto un chiarimento sulla puntualità dei dati. La risposta è arrivata dall’ufficio comunicazione: “Grazie per il vostro interesse su questo argomento. In risposta alla vostra email, vi preghiamo di accettare questa dichiarazione dell’Hearth Institute dell’Università di Ottawa: siamo spiacenti che un documento preprint che cita dati errati abbia portato a una informazione imprecisa sull’incidenza della miocardite post-vaccinale. I vaccini Covid-19 sono sicuri e si sono dimostrati efficaci contro la malattia. Invitiamo chiunque non abbia ancora ricevuto l’iniezione a vaccinarsi”. Lo studio è ancora presente su Medrxiv, e non sono state apportate rettifiche.

L’Iss: “Vaccini in gravidanza, nessun rischio per il neonato”

La linea è netta. La vaccinazione è “raccomandata” alle donne incinte, con i vaccini a mRna Pfizer/Biontech e Moderna, a partire dal quarto mese. Nei primi tre mesi, invece, “la vaccinazione può essere presa in considerazione dopo valutazione dei potenziali benefici e dei potenziali rischi con la figura professionale sanitaria di riferimento”, si legge nella circolare emanata ieri dal direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, sulla base di una nota elaborata dall’Italian Obstetric Surveillance System (ItOss) dell’Istituto Superiore di Sanità, coordinato da Serena Donati. Il Fatto aveva anticipato ieri i contenuti del provvedimento. La circolare del 4 agosto diceva solo che la vaccinazione “non è controindicata”, lasciando ogni valutazione a medici di famiglia e ginecologi.

La gravidanza non è uno specifico fattore di rischio in relazione al contagio e alla malattia grave da Sars-CoV-2, le possibilità di finire in terapie intensiva però crescono quando le donne hanno più di 30 anni e/o sono affette da diabete, ipertensione e obesità, nonché fra le donne provenienti da Paesi a forte pressione migratoria “verosimilmente a causa di una maggiore difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari”.

Gli esperti dell’Iss rilevano che “sono poche le donne cui è stato somministrato il vaccino nel primo trimestre”. Segnalano che alcuni studi “descrivono il rischio di malformazioni associate alla febbre materna (spesso indotta dal vaccino, come noto, ndr) nel primo trimestre di gravidanza, segnalando un aumento significativo del rischio dei difetti di chiusura del tubo neurale”. E ricordano che “la febbre è stata segnalata nel 3% delle donne vaccinate dopo la prima dose e nel 25% dopo la seconda”. Questo, dunque, giustifica la cautela nel primo trimestre di gravidanza.

Sulla base di studi israeliani e non solo, i vaccini in gravidanza sono efficaci come per la popolazione generale. “Alcuni ricercatori – si legge nella nota ItOss – hanno dimostrato la presenza di anticorpi nel sangue cordonale e nel latte materno in risposta all’infezione in gravidanza, suggerendo una possibile immunità passiva nel neonato e i passaggio degli anticorpi attraverso il cordone ombelicale è stato descritto anche a seguito della inoculazione dei vaccini a mRna”. È una risposta alle perplessità sollevate ieri, su queste pagine, dal professor Andrea Crisanti, preoccupato proprio per l’assenza di studi sui neonati figli di donne vaccinate.

Quanto alle donne in allattamento, “l’efficacia della vaccinazione è ritenuta analoga a quella rilevata tra le donne non in gravidanza. I vaccini autorizzati sono tutti vaccini non vivi e vi è unanime consenso che non esista plausibilità a sostegno di un possibile danno al neonato nutrito dal latte di madre vaccinata. L’mRna viene degradato rapidamente senza entrare nel nucleo cellulare e nel latte materno non non è stata rinvenuta alcuna traccia di mRna correlato al vaccino. I vaccini a vettore virale non sono in grado di replicare, per cui per tutti i vaccini autorizzati in Italia è biologicamente e clinicamente improbabile che possa verificarsi alcun rischio per i neonati allattati”. Anzi “è ipotizzabile che il lattante possa acquisire una protezione aggiuntiva contro l’infezione”. Esclusi, infine, problemi di fertilità indotti dal vaccino

Covid-19 in ritirata? Il Cts: “Monitoriamo i bambini”

Ancora un nuovo, lieve miglioramento. Anche questa settimana la curva dell’epidemia da Covid-19 in Italia mostra infatti parametri in calo, dall’indice di trasmissibilità Rt all’incidenza. La fotografia che emerge dal monitoraggio della Cabina di regia induce dunque a un cauto ottimismo, ma con un’incognita: ora i riflettori sono puntati sull’andamento dei contagi tra i più piccoli. E anche se è presto per poter valutare l’impatto della riapertura delle scuole, i dati evidenziano che le infezioni tra i bambini sono stabili e non più in diminuzione.

Secondo l’ultimo monitoraggio, l’Rt medio è stato pari a 0,82, in diminuzione rispetto alla settimana precedente quando era 0,85. Anche l’incidenza per il periodo 17-23 settembre è scesa, ed è pari a 45 casi ogni 100 mila abitanti rispetto ai 54 della scorsa settimana. Dati positivi anche per le ospedalizzazioni: il tasso di occupazione in terapia intensiva dei malati Covid è in lieve diminuzione e si colloca al 5,4% rispetto al 6,1% della settimana passata, mentre il tasso di occupazione in aree mediche diminuisce leggermente al 6,8% dal 7,2%. In questo quadro, cala pure il livello generale di rischio e sono quattro le regioni che questa settimana risultano classificate a rischio moderato: Piemonte, Sudtirol, Trentino e Valle d’Aosta. Le restanti 17 risultano classificate a rischio basso. Un trend che trova riscontro nei dati del bollettino quotidiano del ministero della Salute, che segnala 3.797 nuovi positivi nelle ultime 24 ore (rispetto ai 4.061 di giovedì) e 52 vittime in un giorno (ieri erano state 63). Il tasso di positività è dell’1,4%, stabile, e sono in diminuzioni i ricoveri nelle ultime 24 ore: sono 489 i pazienti in terapia intensiva (-16) mentre i ricoverati nei reparti ordinari sono 3.553 (-97).

Vari i fattori che hanno contribuito al trend di miglioramento dei parametri epidemici, ha spiegato alla consueta conferenza stampa al ministero della Salute il direttore della Prevenzione, Gianni Rezza, il quale ha però invitato a non abbassare la guardia. Qualche segnale, da valutare, però sta emergendo: “La curva sta lentamente decrescendo e anche nelle fasce di età più giovani c’è una decrescita, tranne che nella fascia 0-9 anni. Nell’ultima settimana cioè – ha evidenziato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro – la fascia di età 0-12 mostra una stabilità, e dunque non continua la decrescita dei casi delle scorse settimane, e questo è un tema che stiamo monitorando con attenzione”. Sul tema scuola interviene anche il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che annuncia: “Sulla possibilità che a scuola la quarantena venga ridotta, e che sia limitata a compagni di banco senza che venga estesa a tutta la classe se i test risultassero negativi per tutti, ci si sta lavorando”.

Intanto i settori di sport e spettacolo chiedono il ritorno alla normalità, materia che sarà trattata dal Cts la prossima settimana.

Il silenzio dei 5S che “aspettano le motivazioni”

Il comunicato è scarno e porta la firma collettiva dei deputati 5Stelle che siedono in commissione Giustizia. A poche ore dalla sentenza di appello sulla Trattativa Stato-mafia, che ha visto assolti i politici e condannati gli uomini di Cosa Nostra, il Movimento 5 Stelle reagisce con inconsueta morigeratezza alla chiusura – seppure non definitiva – di una pagina della giustizia. Non una qualsiasi, sia chiaro. Piuttosto la madre di tutte le campagne antimafia che da sempre sono nel Dna grillino. “Non è cambiato nulla, la nostra adesione a quella battaglia resta totale”, ripetono in coro. Ma l’aggiunta, per di più doverosa, è “aspettiamo le motivazioni”. È quello che hanno scritto ieri i deputati nel comunicato, è quello che ripetono ai piani alti del Movimento. Vogliono aspettare tre mesi, insomma, per ragionarci su. La stessa linea scelta dal Pd che però, a differenza loro, non ha mai sposato la causa. E pazienza se intanto il centrodestra esulta e la ola sull’assoluzione di Marcello Dell’Utri va in onda a reti unificate. Solo Giulia Sarti, la deputata che storicamente ha più messo la faccia sul tema, ha voglia di replicare: “La Trattativa c’è stata e i fatti non si possono mettere in discussione – dice al Fatto – e Dell’Utri ha una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa e rimane provato il suo sistematico favoreggiamento a Cosa Nostra. Abbiamo sempre detto che al di là delle responsabilità penali esistono quelle morali, etiche e politiche, che rimangono gravissime per i fatti che sono accaduti”.

Che qualcosa sia andato storto, nella risposta politica del Movimento ai fatti di giovedì, è opinione piuttosto diffusa: “C’è stato qualche problema organizzativo e di coordinamento – riflettono – ma è dovuto solo al fatto che siamo tutti impegnati in giro per l’Italia per le Amministrative”. Anche Giuseppe Conte, giovedì, era diviso tra Roma e gli altri Comuni del Lazio al voto. E anche lui non ha detto nulla sulla sentenza. “È il nuovo corso, vi ci dovete abituare”, dice un esponente di rango del Movimento. E il nuovo corso, a seguire il suo ragionamento, è quello inaugurato quattro mesi fa con le scuse di Luigi Di Maio all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, vittima della gogna mediatica dei Movimento. “Scontiamo il rispetto per le sentenze e per la magistratura – analizza una fonte – che in questo caso è venuto prima della denuncia delle responsabilità politiche, sulle quali la nostra condanna rimane ferma”. Credono, tra i 5Stelle, che la sentenza di giovedì sia un sintomo della “restaurazione fortissima” che è in atto nel Paese. E ricordano, per contro, che nel 2018 fu proprio la sentenza di primo grado sulla Trattativa a sbloccare l’impasse nella nascita del primo governo Conte. Era l’aprile del 2018, il convitato di pietra al tavolo dei gialloverdi era Silvio Berlusconi e fu proprio la condanna di Marcello Dell’Utri, numero 2 di Forza Italia, a dare l’alibi a Matteo Salvini per spiegare all’ex Cavaliere i motivi per cui i 5Stelle non potevano accettare il dialogo con gli azzurri. Tant’è che oggi c’è chi si spinge a immaginare dove andrà a finire la parabola: “Dell’Utri è stato fatto santo e tra un po’ noi mandiamo Berlusconi al Quirinale”.

“Trattativa senza reato”. Ecco cosa non torna

Una farsa. Anzi: una bufala. Di più: un teorema. Nel day after della sentenza di secondo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia i titoli di quasi tutti i giornali del Paese tradiscono una venatura di soddisfazione. Un sentimento che diventa palese nei commenti entusiasti di alcuni politici del centrodestra. In un dibattito mediatico estremizzato da vent’anni di veleni, spesso alimentati in palese malafede, le decisioni della corte d’Assise d’Appello sono diventate un assist perfetto per provare a radere al suolo qualsiasi pezzetto di verità giudiziaria precedentemente accertata. E che la stessa corte presieduta da Angelo Pellino, nonostante le assoluzioni, sembra confermare. Ma andiamo con ordine.

Per alcuni quotidiani, tipo La Verità, la sentenza di Palermo vuol che la Trattativa non esiste. E invece la decisione della corte d’Assise d’Appello di assolvere Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno perché il fatto non costituisce reato, vuol dire esattamente l’opposto: il fatto è stato commesso e il fatto è appunto aver interloquito con i mafiosi.

Bisognerà aspettare le motivazioni per capire se i carabinieri siano stati assolti perché nelle loro azioni non c’era dolo, e quindi non c’era la consapevolezza di trasmettere la minaccia di Cosa nostra allo Stato, innescando in Totò Riina la convinzione che le stragi fossero una strategia che pagava.

L’unico imputato che si è visto confermare integralmente la condanna di primo grado è Antonino Cinà, il mafioso accusato di aver fatto da “postino” del papello con le richieste di Totò Riina per far cessare le stragi. Secondo la maggior parte dei quotidiani la condanna di Cinà sommata alle assoluzione di Mori, De Donno e Subranni vuol dire semplicemente che trattare con la mafia non solo era una decisione lecita e legittima, ma addirittura auspicabile. Su questo punto sarà particolarmente interessante leggere le motivazioni, visto che i giudici del processo di primo grado avevano chiaramente scritto nero su bianco come non potesse “ritenersi lecita, in via generale, una trattativa da parte di rappresentanti delle Istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”.

Intanto, dopo mesi di religioso silenzio, ieri è tornato a parlare Marcello Dell’Utri, che a Repubblica è arrivato a dichiarare: “Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi”. Ora: dall’assoluzione di giovedì s’intuisce che per la corte d’Assise d’Appello non c’è alcuna prova che l’ex senatore abbia trasmesso la minaccia mafiosa – stop alle stragi in cambio di leggi favorevoli a Cosa nostra – al governo del suo amico Silvio. In più a Leoluca Bagarella (condannato ieri a 27 anni), mandante di quella richiesta estorsiva tramite Vittorio Mangano, è stato derubricato il reato: da minaccia al governo Berlusconi a tentata minaccia.

Quindi per i giudici la richiesta estorsiva della mafia al primo esecutivo di Forza Italia non si è concretizzata. Resta da capire, dunque, per quale motivo il 13 luglio del 1994 il governo Berlusconi decise di varare il decreto Biondi, noto anche come “Salvaladri”: fece molto scalpore soprattutto perché venne considerato un provvedimento per salvare gli inquisiti di Tangentopoli e tra le polemiche decadde. Al suo interno, però, c’era pure una norma di cui non si accorse quasi nessuno: obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole.

Nell’agosto del 1995 sarà il governo tecnico di Lamberto Dini a varare un nuovo ddl, con i voti bipartisan di centrodestra e centrosinistra (contrari solo Verdi e Lega): tra le altre cose rendeva la custodia cautelare più breve e più difficile da applicare, l’arresto per reati di mafia da obbligatorio diventava facoltativo, la norma che prevedeva l’arresto in flagranza per testimoni reticenti veniva abolita. Insomma non esattamente “leggi contro i mafiosi”. Ma non solo. Perché le leggi pro mafia negli anni successivi alle stragi le hanno fatte tutti: la destra ma pure la sinistra. E a volte sono norme che somigliano molto a quelle del papello.

Nel 1996 al governo arriva l’Ulivo e Forza Italia va all’opposizione: ad agosto alcuni senatori del Ccd presentano un disegno di legge per consentire la dissociazione dei mafiosi. È uno dei passaggi del famoso papello di Riina, consegnato da Cinà. In quel pezzo di carta c’è anche un’altra richiesta: la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara.

Desiderio esaudito nel 1997 dall’allora guardasigilli Giovanni Maria Flick. Alla fine della legislatura, siamo nel febbraio del 2001, il centrosinistra fa in tempo ad approvare la legge Fassino-Napolitano che riduce i benefici e gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, e impone loro di raccontare tutto quello che sanno entro sei mesi: non è l’abolizione dei pentiti, come chiedeva sempre Riina col papello, ma poco ci manca.

Il ritorno di Forza Italia al governo, è segnato poi dalla riforma del 41bis, che a dicembre si trasforma da misura straordinaria e provvisoria a stabile. Sembra una legge più severa e invece una volta stabilizzato il regime del carcere duro per mafiosi è pure più semplice da revocare. E negli anni successivi molti boss usciranno dal 41bis: tutto questo senza più sparare un colpo.

Marino attacca il Pd: meglio Raggi

Ignazio Marino non si è dimenticato di chi l’ha fatto fuori nel 2015. E tra i sicari che il 30 ottobre firmarono davanti a un notaio – invece che in Aula – la sua cacciata dal Campidoglio e la rivale Virginia Raggi, l’ex sindaco di Roma ha perdonato la seconda. Anzi, il lungo post che ieri ha pubblicato su Facebook ha tutto il sapore di un endorsement nei confronti della sindaca uscente. “Devo riconoscere – ha scritto – che, inaspettatamente, Virginia Raggi ha voluto pubblicamente chiedere scusa per alcune azioni ingiuste e ingenerose. Credo che si tratti di scuse vere: l’esperienza e la riflessione nella vita portano a valutare se stessi e a maturare. D’altra parte coloro che agirono sottraendo ai Romani il diritto di giudicare non hanno mai avviato un dibattito sulle loro azioni ed, evidentemente, le ritengono irrilevanti se questo non impedisce alle loro coscienze di ricandidarsi”.

Un pensiero, quello di Marino, arrivato solo all’ultimo: “Sono stato molto combattuto nel decidere se scrivere questa riflessione. Per settimane mi sono chiesto se volevo davvero espormi alle critiche che naturalmente genererà. Alla fine ho deciso di fare ancora una volta ciò che sento giusto e non quello che mi sembra più conveniente”. Come convenienza è stata quella dei 26 consiglieri comunali che fecero decadere Marino dalla carica di sindaco, senza però votare la sfiducia, e tra cui ci sono 5 candidati ora in lista con Roberto Gualtieri. “Sulla base del mio programma di idee – continua il post – stavo lavorando con mille ostacoli, fino a quando un gruppo di ‘Onorevoli Consiglieri’ ha deciso di tradire quel progetto di trasformazione che avrebbe fatto bene alla città. Un gruppo di persone che non ha neanche avuto il coraggio di votare una sfiducia ma si è rifugiato nello studio di un notaio. È poco serio che il PD candidi adesso quelle stesse persone ad amministrare Roma. Non posso essere silente di fronte a questa ennesima giravolta di chi pensa al potere come un sostantivo e non come un verbo: poter fare, poter cambiare, poter costruire”. Alle parole di Marino sono seguite subito quelle di Virginia Raggi. “Caro Ignazio”, ha risposto sui social, “Come te, amo profondamente Roma, la nostra città. E mi trovo d’accordo su diverse delle idee da te proposte. L’esperienza maturata in questi anni mi ha portata a chiederti scusa per alcuni gesti che non rifarei e a poter dire con contezza che da sindaco avevi provato ad avviare un cambiamento che questa città richiede”.

Giorgetti “caccia” Morisi e conta le truppe al Nord

Di vittime, politicamente, ne hanno già mietute due. Entrambe eccellenti. Prima Claudio Durigon scaricato con un’alzata di spalle da Giancarlo Giorgetti (“Al governo bisogna stare attenti a quando si parla”) e dal silenzio dei governatori. E adesso Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini e ideatore della “Bestia” social della Lega. Dietro l’addio del 48enne guru social del Carroccio ci sono sicuramente motivazioni personali (questa è la versione ufficiale) ma anche di più: un certo disagio sull’ambiguità della linea “di lotta e di governo” del Carroccio, ma soprattutto l’ostracismo dell’ala governista che non sopportava più i modi di fare e la comunicazione da populista della porta accanto di Morisi. “Quando si sta al governo non si può comunicare tutto e subito come all’opposizione”, spiega un parlamentare vicino a Giorgetti.

Che Morisi fosse finito in mezzo anche allo scontro tra Salvini e Giorgetti lo si era capito anche nelle ultime settimane. Raccontano che, durante i primi Consigli dei ministri dell’èra Draghi, 4-5 membri della squadra della comunicazione di Morisi si spostassero al ministero dello Sviluppo economico mentre Giorgetti partecipava alle riunioni a Palazzo Chigi. Un modo per coordinare la comunicazione leghista durante i Cdm e far uscire sulle agenzie, sui siti e sui social cosa stava succedendo in chiave leghista. A marzo e aprile, alla vigilia dei Consigli dei ministri, il Mise diventava una succursale di via Bellerio: i funzionari del ministero in diverse occasioni si sono visti arrivare Salvini spesso accompagnato dai suoi fedelissimi tra cui Durigon, in quel momento di casa al Tesoro. Quando però ad agosto, tra Salvini e i ministri si è rotto qualcosa sui primi decreti Green pass, con la sconfessione della linea del segretario, tutto si è fermato: Giorgetti ha imposto che in via Veneto non entrasse più nessuno della squadra di Morisi e della comunicazione della Lega. Secondo qualcuno, nelle ultime settimane, c’erano state anche delle frizioni tra Salvini e Morisi: il guru lamentava di non essere “più ascoltato” dal segretario. Di certo c’è che i numeri della “Bestia” – un sistema editoriale in grado di automatizzare i contenuti delle pagine “Matteo Salvini”, “Lega” e “Noi con Salvini” – negli ultimi sei mesi avevano risentito dell’effetto Draghi. La macchina si era inceppata e i numeri sono crollati: in quanto a crescita dei follower, Salvini è stato superato da Giuseppe Conte (più un milione contro i 700 mila del leghista) e tallonato da Giorgia Meloni a 600 mila. Le interazioni settimanali si sono dimezzate passando da 10 milioni a 5 mentre è stato sorpassato dalla leader di FdI sull’engagement (3,5 a 7,6%) e sulle interazioni per post (0,3 a 1,2%). Tutto questo nonostante in due anni la “Bestia” sia costata 400 mila euro al partito.

E così, dopo Durigon e Morisi, l’ala governista guidata da Giorgetti e dai governatori – Zaia, Fontana e Fedriga – può rivendicare un altro successo. Ma non si fermerà qui ed è già pronta a chiedere i congressi dopo le Comunali. Un primo assaggio arriverà oggi da Varese, feudo del ministro dello Sviluppo economico, dove si terranno gli “Stati Generali” della Lega Lombarda. Un appuntamento pre-elettorale, ma anche un modo per organizzare le truppe del nord Italia: oltre a Giorgetti ci sarà Fontana, Garavaglia, Centinaio e Locatelli. Ai 200 sindaci leghisti lombardi spiegheranno cosa sta facendo il governo nazionale. Un modo per iniziare a contarsi e rivendicare che la linea della Lega non è quella di Salvini, ma la loro. Il leader non ci sarà e manderà solo un saluto. Intanto anche Luca Zaia manda segnali: i suoi uomini stanno mettendo all’indice i 10 salviniani veneti che nei giorni scorsi non hanno votato in aula sul Green pass. Una frattura che difficilmente si ricomporrà.

Schedature e soldi alla destra: il vero volto degli industriali

L’esaltazione del circo mediatico per le ovazioni di Confindustria a Mario Draghi fa pensare a Lenin. I “migliori” del Paese, infatti, tanto amati dalla borghesia, sembrano confermare la tesi leniniana sui governi come “comitati d’affari” o, più prosaicamente, che esistono i “governi dei padroni”.

Questa lettura, mistica ed estasiata, muove dall’assioma che quelli riuniti sotto l’ombrello di Carlo Bonomi siano davvero i paladini degli interessi del Paese, l’avanguardia illuminata che decide le migliori sorti di un Paese.

Cos’è stata davvero Confindustria, invece, lo racconta un volume che sta per uscire in libreria a cura di Elio Catania (Confindustria nella Repubblica, Mimesis) giovane storico, collaboratore di Aldo Giannuli come perito dell’inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia, in grado di leggere e accumulare migliaia di pagine di documenti.

La tesi è secca: Confindustria non ha svolto in Italia solo la funzione di rappresentanza degli interessi dei suoi associati, ma si è incaricata di condizionare gli equilibri della democrazia italiana. “I documenti ci dicono – scrive Giannuli nella prefazione – che la Confindustria ha giocato la sua forza per ostacolare l’accesso delle masse nel sistema di potere del Paese”. E molti suoi esponenti, e strutture, “hanno più che rasentato anche lo sbocco eversivo del colpo di Stato e hanno finanziato la peggiore destra eversiva”.

Per dimostrare queste accuse si utilizzano fonti qualificate, spesso inedite, e che provengono dall’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno, dalle Commissioni parlamentari di inchiesta, dai documenti relativi alla strage di piazza della Loggia e dall’inchiesta del giudice Guido Salvini. La documentazione è amplissima e rende il testo particolarmente interessante. Il lavoro fatto nell’immediato dopo guerra per frenare le lotte operaie, il lavorìo interessato sul quadro politico per impedire l’evoluzione del centrosinistra negli anni 60 e in particolare il ruolo avuto nella strategia della tensione.

Nel capitolo che riguarda le stragi ci sono testi come la nota della Questura di Genova del 29 marzo 1969 che dà conto di “una ristretta riunione di alti esponenti della finanza e della politica di centrodestra, allo scopo di esaminare la situazione dell’ordine pubblico e di ricercare eventuali strumenti idonei a neutralizzare le spinte eversive”. Tra i partecipanti, Giacomo Costa “fratello del presidente della Confindustria”, Angelo Costa. Gli industriali hanno paura delle mobilitazioni operaie dentro e fuori la fabbrica. Il gruppo Fiat, che con gli Agnelli voleva porsi come riferimento dei giovani industriali più innovatori, in realtà si attrezzava ristrutturando l’Ufficio Servizi generali affidandolo all’ex colonnello Sios-Aeronautica (i servizi segreti) Mario Cellerino che, durante il celebre processo sulle schedature in azienda, viene definito così dal sostituto procuratore Morelli: “Incrementa e organizza il servizio all’interno come l’attività informativa propria della Fiat”. E infatti le schede sui lavoratori passano “da 203.422 del periodo 1949-66” (17 anni) “alle 150.655 degli anni 1967-71” (4 anni). L’Ufficio Affari riservati racconta dello “stato d’animo” di preoccupazione negli incontri riservati in casa Agnelli, dove le preoccupazioni per le lotte operaie sono esplicite. E quindi anche i contatti con la destra eversiva come il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese o anche Ordine nuovo di Pino Rauti. Un ricevimento con oltre cento persone all’Hotel Turin alla fine degli anni 60 vede insieme esponenti della estrema destra e dirigenti della Fiat.

Non scherza nemmeno Montedison: in una lettera del 18 settembre 1969, il giornalista Lando Dell’Amico scrive a Bruno Riffser, direttore della raffineria Sarom (Attilio Monti): “Carissimo Riffser, ho versato come d’accordo lire 18.500.000 al giornalista Pino Rauti. Dovrei reintegrare la somma a fine mese in conto Eiridania. Come ho fatto notare stamani per telefono al Cavalier Monti, per esborsi straordinari di questa entità non sono (ancora) attrezzato”.

A sapere di questi legami erano, ovviamente, anche i servizi informativi Usa. Un telegramma dell’Ambasciata in Italia racconta del Fronte Nazionale descrivendolo come un’organizzazione con “ampi contatti nella società italiana tra cui industriali, sindacati e personale militare in attività”. La Cia scrive che “il Fronte Nazionale riceve presumibilmente assistenza finanziaria da molti industriali e uomini di affari”. Tra i nomi citati ci sono ancora Costa, Fassio, tra i tre più importanti armatori italiani, ancora Monti e Di Faina (probabilmente Faina, presidente della Montecatini, ndr). La Confindustria di governo, ma anche di lotta. Estrema.