Niente conflitti né costi ripartiti. La visione miope di “super Mario”

Quando ieri mattina ho visto comparire nel titolo di Repubblica.it la parola “incoronazione” prima ancora che Draghi tenesse il suo discorso agli industriali, ho capito l’antifona. Ormai in quegli ambienti devoti perfino la definizione di “De Gaulle italiano” viene ritenuta insufficiente. Pensando al dopo, la sempiterna vocazione italica al culto dell’uomo forte secerne umori monarchici pure fra tanti ex repubblicani.

Se Mattarella eccezionalmente ha voluto insediare un governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, neanche questo a Confindustria basta più. Il panegirico di Bonomi e l’ovazione tributata a Draghi esplicitano una richiesta ulteriore: vogliono assicurarsi che l’unica formula politica ammissibile in futuro, prima del rinnovo del Parlamento ma anche dopo, sia un patto di sottomissione volontaria dei partiti al “dittatore benevolo” riservatoci dalla buona sorte. La parola “patto”, in effetti, è stata adoperata più volte da Draghi, specie nelle sue conclusioni, quando ha concentrato la sua attenzione sulle relazioni industriali. Non prima, però, di aver rassicurato sulle tasse i benestanti seduti di fronte a lui, ripetendo lo slogan demagogico che mal gli si addice: “Questo è il momento di dare, non di prendere”. Con tanti saluti a una più equa ripartizione delle risorse, che non reputa compito del suo governo.

Draghi lo ha fatto capire citando un “amico straniero” che attribuisce agli “infelici anni Settanta” l’incepparsi della crescita italiana. Il motivo? Le cattive relazioni industriali, cioè il conflitto sociale. Questo sarebbe l’errore da non ripetere. Peccato che gli storici dell’economia ricordino proprio quel decennio come l’ultima stagione in cui porzioni significative di ricchezza nazionale vennero dirottate dalle rendite e dai profitti al lavoro dipendente.

Minacce al reporter del Caruana-gate: “Vado via da Malta”

“Fino a quattro anni fa, prima della morte di Daphne, qui la mafia era una cosa che esisteva solo nei film o nelle cronache che arrivavano dalla Sicilia. Dopo la conclusione dell’inchiesta indipendente sull’omicidio, ora tutti si sono resi conto che la mafia esiste e che sono necessarie leggi speciali per contrastarla”. Manuel Delia è il reporter che più di tutti nell’isola ha continuato il lavoro iniziato da Daphne Caruana Galizia, la reporter fatta saltare in aria con la sua macchina il 16 ottobre del 2017, dopo aver scoperchiato un presunto caso di corruzione internazionale con protagonisti esponenti apicali dell’allora governo guidato da Joseph Muscat. Per l’omicidio è in attesa di processo come mandante l’imprenditore Yorgen Fenech. E proprio da Fenech – dice Delia, giornalista indipendente che segue l’inchiesta sul suo blog e scrive editoriali per il The Sunday Times – gli sono arrivate alcune delle minacce che lo hanno portato alla decisione: “Lascio Malta per qualche mese, per garantire sicurezza alla mia famiglia, sperando di poter rientrare il prima possibile”.

Che tipo di minacce hai ricevuto?

Non si tratta di qualcuno che è venuto a dirmi “ti uccido”, ma di una serie di azioni volte a intimidirmi e a screditare il mio lavoro da giornalista. Un paio di settimane fa, in tribunale, Fenech ha chiesto alla polizia di aprire un’indagine penale contro di me. Mi fa causa per una storia che ho pubblicato sul mio blog, di cui tutti gli altri media si sono occupati. Sempre nelle ultime due settimane il mio account email è stato clonato, sono partite email destinate a media maltesi: in alcune di queste si fingeva una conversazione tra me e l’avvocato della famiglia di Daphne, nella quale noi due affermavamo di aver nascosto prove che avrebbero scagionato Fenech al processo. Anche il mio blog è stato clonato, ne hanno creato un altro praticamente identico, sul quale vengono pubblicati articoli che stravolgono le mie posizioni sull’indagine nei confronti di Fenech. Un’altra cosa che succede da qualche tempo è che ricevo chiamate da numeri sconosciuti, nel cuore della notte, tutte le notti, e quando rispondo, dall’altra parte ci sono persone che ridono, o che mi fanno sentire audio di discorsi pubblici che ho tenuto. Tutto questo mentre in tv, sul canale One, di proprietà del partito laburista, si continua a parlare di me: dicono che il leader del partito di opposizione è un burattino nelle mie mani.

Qual è la tua paura principale?

Le elezioni si avvicinano, l’atmosfera si sta riscaldando, i social media sono pieni di odio. La mia paura non è che Fenech mandi qualcuno a farmi del male, non so se questo succederà. Mi spaventa il fatto che, in questo clima, qualcuno potrebbe prendere l’iniziativa pensando di fare gli interessi del Paese. Già due anni fa mia moglie era a fare shopping e due uomini l’hanno assalita, picchiata. C’è stato il processo, è venuto fuori che questi erano due ragazzi che gestivano una sezione del partito laburista in un villaggio dell’isola.

Il governo Muscat, che secondo l’inchiesta indipendente è stato responsabile indiretto dell’omicidio di Daphe, è stato rimpiazzato dall’attuale premier Robert Abela, anche lui laburista. Oggi (ieri per chi legge, ndr) Abela ha assicurato che “saranno prese le misure necessarie per garantire la sicurezza” tua e della tua famiglia. Ti fidi?

Sono contento che il premier abbia detto queste cose e abbia condannato le minacce che ho ricevuto, questa cosa non sarebbe successa con il suo predecessore. Spero e credo che la polizia indagherà su quello che mi sta succedendo e garantirà sicurezza alla mia famiglia. Io però ho delle responsabilità, ho tre figli giovani e credo che in questo momento sia meglio per la mia famiglia che io stia lontano da Malta per un po’.

Il lavoro di Daphne era concentrato sulla corruzione a Malta, sugli scarsi controlli antiriciclaggio delle banche. Cos’è cambiato da allora?

Certe notizie che Daphne aveva scoperto sono diventate inchieste giudiziarie, come quella sulla Pilatus Bank. L’ex capo di gabinetto di Muscat, Keith Schembri, è a processo per corruzione e riciclaggio per fatti avvenuti prima del suo incarico politico. L’ex commissario europeo John Dalli, già ministro degli Esteri qui a Malta, è accusato di corruzione. Il governo è sotto pressione perché dopo l’omicidio Malta è stata declassata a Paese grey list dalla Financial Action Task Force (organizzazione mondiale contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, ndr). Questo ha portato a qualche cambiamento, ma il cuore del problema, Electrogas – che è il motivo per cui è stata uccisa Daphne – dev’essere ancora toccato. Electrogas è la società energetica al centro del progetto promosso da Fenech, e Fenech è anche l’intestatario della società di Dubai che, secondo i Panama Papers, doveva pagare 2 milioni di euro a due società offshore, una di Keith Schembri, allora capo di gabinetto di Muscat, e l’altra di Konrad Mizzi, al tempo ministro dell’Energia. Questo livello non è ancora stato toccato.

Onorato indagato per bancarotta a Milano “Soldi usciti dai bilanci per spese personali”

Vincenzo Onorato, patron dei traghetti Moby e Tirrenia, quest’ultima controllata dalla Compagnia italiana di navigazione (Cin), e il figlio Achille Onorato, amministratore delegato di Moby spa, sono indagati dalla Procura di Milano per bancarotta fraudolenta, reato con pene fino a 10 anni. L’inchiesta, coordinata dal pm Roberto Fontana, che ha delegato il lavoro al Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza, nasce dopo che Moby Spa, nei mesi scorsi, ha presentato al Tribunale fallimentare di Milano una proposta di concordato preventivo, come farà anche Cin debitrice per 180 milioni nei confronti di Tirrenia in amministrazione straordinaria. Il concordato presentato da Moby e accettato a luglio, nella sostanza, è una implicita dichiarazione di fallimento. Da qui l’avvio del fascicolo penale con le iscrizioni di Onorato e figlio alle quali, prima dell’estate, hanno fatto seguito alcune attività investigative. Al centro dell’indagine vi è l’ipotesi che Onorato, presidente del Cda di Moby, e altri soggetti abbiano “drenato” soldi dai conti di Moby e di Cin in parte per pagare spese anche personali non del tutto giustificate a bilancio. A far da timone all’indagine, un documento depositato agli atti. Si tratta di un allegato al piano di concordato commissionato da Moby a uno studio di commercialisti. A pagina 1 si legge: “Si è proceduto a segnalare ulteriori trasferimenti di denaro da Moby verso vari soggetti esterni al gruppo che risultano meritevoli di attenzione”. Il conto finale delle uscite è di 11,2 milioni, tra il 2015 e il 2020. Della lista fa parte villa Lilium a Porto Cervo (Sardegna) pagata 4,5 milioni e acquistata come location di rappresentanza. I commercialisti hanno chiesto a Moby il motivo dell’acquisto “senza ricevere (…) ulteriori informazioni”. Altri 2,8 milioni sono stati spesi, anche da Cin, per l’affitto di due jet da una società di diritto inglese. Mezzo milione è andato per le spese di due appartamenti in centro a Milano, uno abitato da Achille Onorato. Circa 700mila euro sono stati usati per l’affitto di supercar Maserati, Rolls Royce, Aston Martin. La lista comprende i pagamenti ai partiti per 400mila euro e 900mila euro per lobbying con il Parlamento, il governo e la Commissione europea. Ci sono poi 1,2 milioni pagati alla Casaleggio associati per la creazione e i contenuti del sito Marittimi.it. Su questo punto, sempre a Milano, è aperto un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli.

Willy, il testimone: “I Bianchi arrivati solo a lite finita”

“Sembrava tutto finito, ma poi sono arrivati i fratelli Bianchi”. A parlare è Gianmarco Frabotti, uno dei testimoni al processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso il 5 settembre 2020 a Colleferro, vicino a Roma. Nell’aula della Corte d’assise di Frosinone dove, riporta il Corriere, erano presenti, seppur in via telematica, tutti gli indagati, accusati di concorso in omicidio volontario aggravato da futili motivi: i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l’unico a non essere in carcere. “Gabriele Bianchi è andato spedito verso Willy e l’ha colpito in petto con un calcio frontale – ha proseguito Frabotti –. Ha sbattuto contro una macchina, è caduto e Marco Bianchi l’ha colpito con un pugno in faccia. Da allora non si è più rialzato”. In aula è stata letta, poi, un’intercettazione in cui Gabriele parla di Omar Shabani, che lo chiamò quella sera per intervenire nella rissa e ora ripete agli amici di sentirsi “responsabile”. “Ma questo è impazzito?”, domanda Gabriele.

Fanpage, Gip oscura l’inchiesta su Durigon: il generale Zafarana ne chiese il sequestro

Due videoinchieste di Fanpage.it finiscono nel mirino di un “sequestro preventivo” con l’indicazione dei link da oscurare nell’ambito di un fascicolo per diffamazione a mezzo stampa. Si tratta di due reportage sull’ex sottosegretario della Lega, Claudio Durigon, costretto poi a dimettersi per le polemiche sulla sua proposta di sbianchettare i nomi di Falcone e Borsellino da una piazza di Latina per sostituirli con quello del fratello di Mussolini. Il giudice ha ordinato di schermare i video di “Follow the Money”: era fine aprile, si ascolta l’esponente del Carroccio dire che non bisognava preoccuparsi delle indagini della Procura di Genova sui 49 milioni di euro della Lega “perché il generale della Finanza l’abbiamo messo noi”.

Si procede su querela di Giuseppe Zafarana, il comandante della Finanza che ha sollecitato in denuncia il sequestro perché si ritiene diffamato dal secondo servizio di Fanpage, di luglio, col quale si precisa che quel generale è lui. Con una ricostruzione su un presunto indebolimento delle forze messe in campo dai vertici della Finanza, che Zafarana smentisce e respinge.

Per rafforzare le motivazioni del sequestro, il Gip aggiunge: “In considerazione delle non chiare e verosimilmente illecite circostanze nelle quali è stata captata la conversazione dell’on. Durigon all’insaputa dello stesso”. L’inchiesta è “contro ignoti”, anche se il servizio è firmato e Fanpage ha, ovviamente, un direttore responsabile, Francesco Cancellato. Che commenta: “Precedente pericoloso e intimidatorio”. Procedere contro ignoti potrebbe rendere più complicato agli avvocati del sito opporsi al provvedimento.

È un provvedimento singolare, “grave e inaccettabile”, secondo l’Ordine e il sindacato dei giornalisti. Ignorerebbe quanto stabilito da una sentenza della Cassazione a sezioni unite che nel 2015 stabilì che “il giornale online, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa”. Il decreto è firmato dal Gip di Roma, Paolo Andrea Taviano. Il magistrato fu candidato alle elezioni regionali del Lazio e alle Politiche nel 2013 con i neofascisti del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore.

Gimbe, prime dosi -41% in 14 giorni. Niente effetto pass

Per il momento il “boom” vaccinazioni da effetto Green pass non si vede. A certificarlo, la Fondazione Gimbe: “Crollano i nuovi vaccinati – si legge nel consueto report settimanale – in sole due settimane si sono ridotti del 41%, con poco più di 486.000 prime dosi somministrate nella settimana dal 15 al 21 settembre”. Una netta flessione rispetto alla timida ripresa (831 mila dosi) della prima settimana di agosto. Resiste infatti lo zoccolo duro dei “no vax” ultracinquantenni (quasi tre milioni ancora senza nemmeno una dose, circa 800 mila in attesa della seconda dose), ma frena anche la fascia 12-19 anni.

Pochi giorni fa il commissario all’emergenza Covid, generale Figliuolo, aveva annunciato un “boom di prenotazioni fino a +40%”. Dunque è possibile che nei prossimi giorni la tendenza possa invertirsi, ma anche su questo punto Gimbe è assai scettica: “Stante l’attuale e ingiustificata indisponibilità pubblica dei dati sulle prenotazioni – sostiene il presidente della Fondazione Nino Caltabellotta – non è possibile sapere in che misura questi numeri saliranno nelle prossime settimane per effetto dell’estensione dell’obbligo di Green pass sui luoghi di lavoro”.

Complessivamente i numeri del report confermano una fase pandemica tutto sommato sotto controllo, con una generale riduzione dei contagi settimanali (media mobile giornaliera a 4.097 casi) e un generale calo dei posti letti occupati nei reparti Covid (-5,5%) e in terapia intensiva (-6,9%), mentre i decessi (389 contro i 394 della settimana precedente) sono sostanzialmente stabili. Rimane tuttavia l’incognita scuola, che a meno di due settimane dall’inizio delle lezioni presenta già il conto di decine di classi in quarantena in tutta Italia. Al momento, comunica Gimbe, il 53,1% degli studenti tra i 12 e i 19 anni ha completato il ciclo vaccinale contro il 32% senza nemmeno una dose. Tra gli insegnanti, invece, resiste un 5,9% di zoccolo duro no vax.

L’Istituto superiore di Sanità, intanto, ha aggiornato i dati sui contagi, ricoveri e decessi in relazione allo stato vaccinale per classi di età. Tra il 23 luglio e il 22 settembre sono decedute complessivamente 1.175 persone, di cui 539 al di sotto degli 80 anni (135 under 60): 476 erano non vaccinate, 117 avevano completato il ciclo vaccinale, ma di questi 100 erano di età compresa tra 60 e 79 anni. Tra gli over 80 i decessi nello stesso periodo sono stati 582, 294 non erano vaccinati, 288 sì. In questa fascia di età la popolazione non vaccinata al 21 agosto (data di riferimento dell’Iss) era del 6,2%, oggi è al 4,3% (allo 0,5% tra gli ultranovantenni), dunque l’incidenza tra i non vaccinati è enormemente più alta rispetto a chi si è immunizzato, nonostante (il noto effetto paradosso) il numero dei morti sia sostanzialmente lo stesso.

Le stime dell’Iss sull’efficacia vaccinale nella popolazione italiana di età superiore ai 12 anni si mantengono su livelli molto alti: i vaccini proteggono dal contagio al 76,9%, al 93,1% dal ricovero in ospedale, al 95,4% dal ricovero in terapia intensiva, al 95,7% dal rischio di morte.

Vaccini in gravidanza, ministero e Iss: “Non prima del 4° mese”

Dovrebbero cambiare le regole sulla vaccinazione anti-Covid delle donne incinte. La circolare della Salute, in vigore da agosto, dice che la somministrazione “non è controindicata” ma lascia tutto alla “valutazione medica” caso per caso, scaricando di fatto sui ginecologi. Il confronto tra Salute e Istituto superiore di sanità è in corso: la soluzione dovrebbe essere raccomandare l’immunizzazione solo dal secondo trimestre di gravidanza. Nel primo, infatti, sono stati osservati effetti avversi generalmente non gravi, soprattutto stati febbrili, che possono creare problemi. Purtroppo i trial che hanno preceduto le autorizzazioni dei vari vaccini non coinvolgevano donne incinte, è normale che ci voglia tempo per capire.

Lo scorso 8 settembre Jama, una delle riviste più autorevoli del mondo, ha pubblicato un articolo intitolato “Aborti spontanei a seguito della vaccinazione Covid in gravidanza”, sulla base di un lavoro coordinato da Malini De Silva dell’Health Partners Institute nel Minnesota sui dati di migliaia di donne residenti negli Usa. Le conclusioni sono rassicuranti, alcuni dati meno. “C’è un aumento del rischio grezzo di aborto del 37% nel gruppo delle gestanti vaccinate da 16 a 24 anni, rispetto al gruppo non-vaccinato”, osserva commentando l’articolo Marco Cosentino, direttore della Farmacologia medica all’Università dell’Insubria a Varese. Nello studio “sono state coinvolte 38.643 gestanti di età 16-24 anni, di queste 1.394 sono state vaccinate (entro la 19esima settimana), mentre 37.249 non sono state vaccinate. Nel primo gruppo si sono registrati 69 aborti (il 5,2%), mentre nel gruppo delle non vaccinate 1.364 (quindi, il 3,8%)”. La differenza è appunto il 37% e nelle altre fasce d’età non c’è. “Non si evincono altre informazioni che possono essere ponderate per ridurre i fattori di confondimento”, spiega Cosentino. Non le ha ottenute neanche scrivendo a Jama.

Ma quanto rischiano le donne incinte con il Covid? Secondo il Jvci (Comitato per la vaccinazione) del governo britannico, “il rischio per le donne incinte e i neonati è generalmente basso” e “solo circa il 2% dei neonati nati da madri Covid-positive risultano positivi nelle prime 12 ore di vita”. C’è una specie di spartiacque tra le prime 20 settimane e le successive. Secondo alcuni studi il rischio di parti prematuri con l’infezione cresce fino a 2/3 volte. E la vaccinazione delle donne incinte è consigliata. Come in Germania dove la Stiko, la Commissione sulle vaccinazioni, sottolinea che “i decorsi gravi e le complicanze di un’infezione da Sars-CoV-2 sono rari nelle donne in gravidanza” ma in presenza di “malattie preesistenti (come obesità, ipertensione arteriosa o diabete mellito), il rischio di una malattia grave aumenta”. La commissione speciale del Robert Koch Institut di Berlino osserva che “i dati di sicurezza sono limitati” e “non forniscono alcuna indicazione della frequente insorgenza di gravi effetti avversi (…); soprattutto aborti fino alla 19esima settimana di gravidanza, parti prematuri, nati morti o malformazioni (…) Le donne incinte ancora non vaccinate dovrebbero ricevere una somministrazione di due dosi a partire dal secondo trimestre”. Come si intende fare in Italia.

Molto scettico sulla vaccinazione delle donne incinte è Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia di Padova: “Bisognerebbe acquisire più dati, i vaccini sono nuovi, devono essere valutati sulla prospettiva del nascituro. Mi farebbe piacere vedere che la distribuzione in vivo non arrivi alla placenta, al feto, all’embrione, nel caso in cui accadesse sarebbe una esposizione antigenica del feto, che è da evitare. Il sistema immunitario dei nascituri – osserva il professore – impara a riconoscere ciò che è proprio e ciò che estraneo, è un processo noto come tolleranza”. E del resto, aggiunge, “tutti i vaccini vivi attenuati sono sconsigliati nelle donne in gravidanza, mentre non sono sconsigliati vaccini proteici o inattivati. La questione centrale ora è che non esistono evidenze per i vaccini Rna”.

“Ci fu l’intimidazione, ma i colletti bianchi l’hanno fatta franca”

Antonio Ingroia, oggi avvocato, fino a qualche anno fa vestiva i panni della pubblica accusa della Procura di Palermo proprio nel processo sulla Trattativa e sui depistaggi di Stato. Conosce bene il processo, giunto ieri a sentenza di secondo grado.

È rimasto sorpreso?

Sorpreso no, perché c’era stata già l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino. Ci poteva stare quindi una riforma parziale della sentenza, ma nella mia previsione non mi aspettavo che venissero assolti tutti i colletti bianchi.


Che significato ha questa sentenza?

È una sentenza double face, che conferma la sostanza dell’impianto accusatorio della Procura di Palermo, perché nel momento in cui condanna i mafiosi, riconosce che la minaccia c’è stata. La condanna di Antonino Cinà è cruciale, perché è l’uomo del ‘Papello’. Ieri è arrivata la conferma che il ‘Papello’ c’è stato ed è anche arrivato a destinazione al governo. Dopo di che, gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri, sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Quindi non sarebbero stati consapevolmente e intenzionalmente portatori di una minaccia dei mafiosi. Sarebbero stati portatori dei messaggi che provenivano dalla mafia, e presumo, ma questo lo leggeremo nelle motivazioni della sentenza, lo avrebbero fatto perché davvero ritenevano ed erano convinti che bisognava ‘trattare’ perché lo Stato non poteva tenere la linea di intransigenza.

Quindi ambasciator non porta pena?

Se fosse così, non posso condividere un’impostazione del genere, non posso condividere che non sia penalmente rilevante che un uomo dello Stato si faccia portatore di un richiesta da parte della mafia, in piena stagione stragista, nella consapevolezza che quella richiesta contiene una minaccia.

L’ex senatore Dell’Utri è stato assolto per non aver commesso il fatto, quindi potremmo dire che non ci fu pressione sul governo Berlusconi del 1994?

Questo si, Bagarella è stato condannato per tentata minaccia, mentre Dell’Utri è stato assolto con formula piena. Evidentemente significa che non venne portata nessuna minaccia a Berlusconi e al suo governo. Però un pm malizioso potrebbe dire non aveva bisogno di usare minacce per convincere Berlusconi a fare qualche favore alla mafia. Ma se Bagarella ha tentato di portare la minaccia, sembrerebbe che lui qualcosa ha fatto, con qualcuno ha parlato, e questo qualcuno potrebbe essere, direttamente o indirettamente, Dell’Utri. Solo che poi l’ex senatore a sua volta non ha veicolato questa minaccia da parte di Cosa Nostra, o quantomeno non è dimostrato.

Cosa risponde a chi sostiene che tutta la storia relativa alla Trattativa sia stata una bufala?

È una tesi smentita dalla sentenza stessa, perché nel momento in cui i giudici hanno condannato Cinà, stanno dicendo esattamente il contrario, ovvero che la Trattativa, o meglio la minaccia, c’è stata.

Cosa resta agli italiani di questa vicenda, di uno dei processi più delicati e complessi della storia?

Ho paura che una sentenza simile abbia ripercussioni psicologiche sull’opinione pubblica. Mi lascia un sapore amaro pensare che gli italiani, che magari non conoscono bene tutte le sottigliezze del diritto penale, possano credere che nel nostro Paese come al solito ci sia una classe dirigente, prevalentemente i colletti bianchi, che la fa franca, mentre i mafiosi fanno la fine dei capri espiatori altrui.

La Trattativa dei boss all’insaputa dello Stato

Gli uomini di Stato sono stati tutti assolti. I mafiosi sono stati condannati come in primo grado. Questo è il verdetto ‘asimmetrico’ della Corte di Assise di Appello nel Processo Trattativa.

Il reato contestato è il 338 del codice penale che non punisce la trattativa in sé, ma la minaccia a corpo dello Stato tesa a condizionarne l’attività.

In soldoni, la tesi dell’accusa accolta dalla sentenza di primo grado e bocciata in appello era questa: Cosa Nostra ha fatto saltare in aria nel 1992-1994 giudici, scorte, basiliche, musei e strade per ricattare lo Stato (governi Amato, Ciampi e Berlusconi) e ottenere che calasse le braghe cambiando le leggi antimafia e le condizioni carcerarie dei boss in cambio della fine delle bombe.

I mediatori di questa minaccia, nella tesi accusatoria, sarebbero stati all’inizio i carabinieri del Ros imputati (i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno) e poi, dopo la vittoria di Berlusconi nel 1994, il suo fido collaboratore Marcello Dell’Utri. Tutti gli ambasciatori della ‘Trattativa’ in primo grado sono stati ritenuti colpevoli del reato ex articolo 338.

A rappresentare nel processo ‘L’Antistato’ c’erano Leoluca Bagarella, cognato e reggente del Capo dei Capi Totò Riina, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Bagarella aveva preso 28 anni e in appello scende di un solo anno, a 27. Il medico mafioso Cinà, imputato come postino delle richieste della mafia, si vede confermare i 12 anni, come Brusca, condannato ma prescritto per l’attenuante della collaborazione.

Cosa significa questa sentenza?

Le motivazioni arriveranno tra qualche mese e dunque per ora si possono solo azzardare ipotesi basate sul dispositivo. Bisogna distinguere i due segmenti della ‘minaccia a corpo dello Stato’. Il verdetto è infatti diverso per gli alti ufficiali del Ros, assolti con la formula ‘il fatto non costituisce reato’, mentre Marcello Dell’Utri è stato assolto ‘per non aver commesso il fatto’. Qual è il fatto che esiste ma non costituisce reato per i carabinieri?

Il capo di imputazione nei confronti di Mori e compagni era sostanzialmente quello di aver contattato, su incarico di esponenti politici, l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, come ambasciatore delle richieste dei vertici di Cosa Nostra, instaurando una trattativa che aveva a oggetto reciproche concessioni: la mafia concedeva la fine delle stragi e incassava un’attenuazione della repressione dello Stato.

A leggere il dispositivo di ieri sembra di capire che la Trattativa tra Cosa Nostra e i carabinieri finalizzata a stoppare le stragi sia ritenuta un fatto provato. Tanto che il regista della minaccia, cioè il boss Bagarella e il ‘postino’, cioè il medico mafioso Cinà, sono stati condannati come in primo grado.

Il nodo da sciogliere per dare una logica al verdetto è dunque questo: perché il fatto Minaccia-Trattativa è avvenuto solo per la mafia e non costituisce reato per i presunti mediatori, cioè per il Ros?

Bisognerà attendere le motivazioni, ma dal dispositivo sembra di capire che per i giudici non sia stato un reato per il Ros andare a trattare con il mafioso Vito Ciancimino per capire cosa si doveva fare per far cessare il ‘muro contro muro’ tra Totò Riina e lo Stato.

Il fatto dunque esiste, ma è reato per i boss che volevano mettere in ginocchio lo Stato, non per il Ros che non voleva aiutare la mafia, ma voleva altro. Quindi manca l’elemento soggettivo del dolo, necessario per condannare chicchessia per un delitto.

Si potrebbe ipotizzare una motivazione simile: i carabinieri hanno sì veicolato la minaccia della mafia allo Stato, che puntava a influenzarne le politiche repressive, ma volevano far finire le stragi e non rinforzare Riina nel convincimento di farle come poi accaduto contro la loro volontà.

Le ipotesi sono due: o i giudici hanno creduto totalmente al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno quando hanno sostenuto di aver contattato Ciancimino perché volevano capire, grazie a lui, come si poteva arrestare Totò Riina, e non per trattare la fine delle stragi in cambio di qualcosa. Oppure si potrebbe ipotizzare che i giudici di appello, a differenza di quelli di primo grado, abbiano accolto la tesi del professor Giovanni Fiandaca. In un articolo uscito su Il Foglio nel 2013, l’illustre penalista sosteneva che “gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso”. Ecco perché il fatto non costituirebbe reato. Secondo la tesi del professor Fiandaca, qui manca il dolo. L’azione di Mori e De Donno, come scriveva il penalista, mirava a “l’obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose – e non già di supportare Cosa Nostra nei suoi attacchi contro lo Stato”.

Diversa la questione per Marcello Dell’Utri, assolto per non aver commesso il fatto. In primo grado l’ex senatore di Forza Italia era stato condannato come messaggero della minaccia di Cosa Nostra al governo di Silvio Berlusconi nel 1994. E con lui per questo era stato condannato Bagarella.

Nella sentenza di appello, ieri i giudici hanno riqualificato il reato di Bagarella in tentata minaccia.

Decisivo nel ricostruire questo segmento della Trattativa del 1994 era stato il collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza. Aveva raccontato che il suo amico Vittorio Mangano era andato a Como nel 1994 a incontrare Marcello Dell’Utri per chiedere di intervenire sul governo Berlusconi in favore della mafia. I mandanti erano Bagarella e Brusca. In primo grado i giudici gli avevano creduto, nonostante Cucuzza invece fosse stato ritenuto inattendibile sul punto dai giudici del processo per concorso esterno in associazione mafiosa a Dell’Utri.

Bisognerà attendere le motivazioni, ripetiamo allo sfinimento, però il dispositivo di ieri lascia presagire una terza via.

Il boss Bagarella è condannato in appello solo per ‘tentata minaccia’ perché ha provato (senza riuscirci dunque) a condizionare Berlusconi con le stragi inviando Mangano a parlare con Dell’Utri.

Evidentemente, per i giudici di appello, non è provato però che la minaccia sia arrivata da Palermo a Milano. Perché Mangano non ha fatto il suo dovere o perché non è provato che Dell’Utri, dopo averla ricevuta da Mangano, abbia trasferito la minaccia al premier.

D’altro canto nella sentenza di primo grado i giudici ammettevano che non c’era una prova diretta del passaggio della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi. C’era solo una prova indiretta di tipo logico: “Non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della ‘pressione’ o dei ‘tentativi di pressione’ (…) inevitabilmente insiti negli approcci di Vittorio Mangano”. Secondo la Corte di Assise di Appello invece evidentemente è possibile dubitare e condannare Bagarella assolvendo Dell’Utri.

“Nomi sbagliati, ma Meloni sale al Nord”

Professor Roberto Biorcio, Matteo Salvini continua a collezionare piazze semivuote, mentre quelle di Giuseppe Conte sono piene. Che ne pensa?

Per la Lega, fare il partito di lotta e di governo non paga più. Le divisioni degli ultimi giorni sul Green pass, certe fibrillazioni interne e i tentennamenti del leader diventano un problema quando devi riempire le piazze. C’è meno entusiasmo. Le persone dovrebbero scendere in piazza per cosa, per sostenere il Salvini di lotta o quello di governo? Nel 2019 gli era riuscito il miracolo di mettere insieme elettorato del Nord e quello populista anti-establishment. Quella fase, però, ora è finita.

Salvini rischia?

Per la prima volta emergono critiche, ma credo che nessuno sia in grado di insidiarne la leadership. Né i governatori leghisti, né qualcuno della truppa governativa. Il timone resterà a lui, ma dovrà imparare a gestire meglio il malcontento interno, specie quello che soffia dal Nord.

La conquista del Sud, però, è fallita.

Sì, ma la prospettiva di Lega nazionale è ancora l’unica percorribile per una forza che si candida a governare il Paese. Escluderei il ritorno alla ridotta padana.

E Conte?

Il successo del suo tour è una sorpresa ed è segno della volontà, nel M5S, di celebrare una rinnovata unità dopo lo scontro Conte-Grillo. Ora hanno una figura cui guardare e si affidano a lui, e i sondaggi sono in risalita. Mettiamoci poi che l’ex premier gode di consensi che vanno oltre l’elettorato pentastellato, una fiducia che è riuscito a conquistarsi nei suoi mesi a Palazzo Chigi. Se poi tutto questo riuscirà a tradursi in voti, è tutto da vedere.

Insomma, i pentastellati hanno ancora un futuro…

Sembra di sì e con Conte alla guida si è conclusa la trasformazione da partito del “vaffa” a forza responsabile e di governo. Conte incarna perfettamente la nuova veste. D’ora in avanti, però, conteranno i contenuti e le alleanze.

Alle Amministrative Salvini rischia di essere superato a Milano da Giorgia Meloni. E anche per i 5 Stelle non si prevedono grandi risultati…

Nel centrodestra hanno contato certe scelte sbagliate sui candidati. Il fatto che Fdi potrebbe superare la Lega nel capoluogo lombardo ha più una valenza simbolica che altro. Però la crescita della Meloni al Nord è da tenere d’occhio. M5S, invece, andrà bene laddove è alleato col Pd.

Dem e 5 Stelle sono obbligati a stare insieme?

È l’unica strada se vogliono avere possibilità di vittoria alle prossime elezioni.

Qualcuno all’inizio vedeva proprio in Conte il candidato premier ideale del centrosinistra…

Ora, con l’avvento del governo Draghi, le cose sono un po’ cambiate, ma quella dell’ex premier è una carta che la futura coalizione si potrà giocare, insieme ad altre.

Nel Pd qualcuno pensa pure a Draghi.

Non credo che l’attuale premier abbia alcun interesse a candidarsi alle elezioni. Potrebbe tornare in gioco solo se, dopo il voto, si verificasse una situazione di stallo. Sempre che nel frattempo non sia stato eletto al Colle.