Soldi, scippi e piazze divise. A Milano la destra s’incarta

La manifestazione unitaria del centrodestra a Milano, giurano tutti, alla fine si farà. Dovrebbe essere il 29 o il 30 settembre, appena dopo le tre piazze separate di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega, ognuna in autonomia per chiudere la campagna elettorale di Luca Bernardo. Ma il fatto che la manifestazione non abbia ancora una data, un luogo e i crismi dell’ufficialità – sempre che arrivino – la dice lunga sui rapporti interni alla coalizione, resi ingestibili dalla paura leghista di un sorpasso di Giorgia Meloni e dalla controffensiva di Matteo Salvini in Consiglio regionale, dove ha appena strappato due eletti di peso a FI, tra cui il presidente Alessandro Fermi.

E così il “povero” Bernardo, già in difficoltà nei sondaggi, si trova nel mezzo di una guerra interna. Domani FdI lo sosterrà con un maxi-evento in piazza Duomo a cui parteciperà anche Meloni, ma in queste settimane il partito ha fatto campagna più per sé che per il candidato sindaco.

Basti pensare che nel video social con cui FdI ha annunciato la manifestazione di domani, il nome di Bernardo non compare mai: “Sostieni Fratelli d’Italia”, si legge sopra la banda “Milano, piazza Duomo, 25 settembre ore 16:30”. Una situazione che peraltro si ripete sui manifesti elettorali che tappezzano la città, sopra cui i faccioni di Meloni e Salvini fanno scomparire i riferimenti al pediatra del Fatebenefratelli. Senza dimenticare le parole del capolista FdI, Vittorio Feltri, che in una intervista al Fatto ha stroncato Bernardo, ritenendolo un profilo “non all’altezza”.

L’obiettivo è solo quello di prendere un voto in più della Lega, che invece chiuderà la propria campagna lunedì con un incontro nel quartiere Niguarda. Fonti del Carroccio minimizzano gli imbarazzi, dando la colpa dei ritardi nell’organizzazione dell’evento unitario “alle fittissime agende” dei leader: “Cercheremo di trovare un luogo in periferia tra il 29 e il 30, vedremo se la mattina o il pomeriggio”. Anche da Forza Italia confermano l’impressione che la manifestazione possa essere “in mattinata”, sempre che “si riesca a far coincidere gli impegni”.

Ma quali inderogabili impegni potrebbero mai impedire la chiusura della campagna elettorale di una città come Milano, se i partiti credessero davvero a questa coalizione e alla sfida a Beppe Sala? E invece ancora si tentenna, con Bernardo che rischia di avere tutti i leader per sé in mezzo alla settimana e per giunta in pieno orario lavorativo. Qualcosa di molto lontano dalla piazza Duomo di FdI, ma anche dall’evento solitario di FI, che ha scelto di ritrovarsi domenica al Palazzo delle Stelline.

Presenti, tra gli altri, Antonio Tajani, i ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini e i due ras del partito in Lombardia e a Milano, ovvero Massimo Salini e Cristina Rossello. Problema: anche in FI il clima è pessimo. Qualche giorno fa, Luigi Amicone, consigliere uscente ricandidato e punto di riferimento dell’area cattolica, ha scaricato pubblicamente Bernardo e attaccato gli alleati: “Bernardo non se lo fila nessuno. La destra ha deciso di perdere a mani alzate”. Ieri, invece, il consigliere regionale Alan Rizzi ha sparato su una delle correnti del suo partito, quella che rimanda alla Gelmini e che si oppone alla federazione con la Lega: “I dirigenti scollegati dall’indirizzo del nostro leader politico – ha detto a Repubblica – sono dei traditori”. Tanto basta per intuire la poca voglia di una foto di famiglia col candidato sindaco in mezzo ai tre leader della coalizione. Ma Bernardo, dopo aver dovuto sopportare il fuoco amico e aver minacciato il ritiro pur di ricevere i finanziamenti promessi dai partiti, vuole almeno salvare le apparenze. Poi, ognuno per la sua strada verso le urne.

“Il cane, il pigiama, la pizza: la mia causa si chiama Virginia”

Cinque anni fa, quando Virginia Raggi fu eletta sindaca di Roma, il marito Andrea Severini scrisse la famosa lettera d’amore che scatenò quel misto di tenerezza e ilarità riservato solo a certe ingenuità sentimentali. Oggi, a pochi giorni dalle nuove elezioni amministrative, mentre quell’epistolare “Mi manchi, ti proteggerò sempre”, ci provoca ancora un sorrisetto cinico, Andrea è tornato.

E ha fatto di più: una pagina Facebook, “31 giorni con Virginia”, dove per 31 giorni (3 settembre-3 ottobre) racconta le faticose giornate della moglie in campagna elettorale. Soprattutto narra i suoi rari ritorni a casa, con lei che a mezzanotte si mette a fare jogging sulle scale del condominio o a cucinare piatti per cui è evidente che andrebbe commissariata almeno la sua cucina. Quando chiamo Andrea, ecologista dichiarato, è in bicicletta.

Come nasce quest’idea bislacca della pagina “31 giorni con Virginia”?

Volevo raccontare Virginia in modo naturale, senza passare attraverso lo staff della comunicazione. Molti giornalisti mi chiamano dubitando che sia una mia idea, ma è così. Sono matto di mio.

Un po’ lo sospettavo.

Ecco, se ti ricordi la lettera che le ho scritto quando fu eletta…

E chi se la dimentica. Comunque, se Virginia si è avvicinata alla politica lo deve soprattutto a lei, giusto?

Ci siamo conosciuti e innamorati più di 20 anni fa all’associazione per la pace nel mondo. Abbiamo cominciato a frequentare un comitato di quartiere, io seguivo Beppe Grillo, ci siamo iscritti al Movimento e poi è andata come sapevo già.

Cioè?

Che lei è stata più forte di me.

Alle Comunali del 2013 vi eravate candidati entrambi.

Sì, io ho preso 120 voti, una cosa simile. Lei una marea.

Come commentaste la cosa?

E che vuoi commentare, era più brava di me e mi sono arreso. Ho continuato a fare l’attivista.

Tra gli avversari di oggi chi la innervosisce di più?

Gualtieri, perché fa parte dell’ala più vicina a noi e dice falsità senza proporre nulla, vergognoso.

La verità: lei e Virginia, la sera a letto, vi ritrovate a parlare di cinghiali?

I cinghiali sono mica una cosa facile come sembra, il sindaco non può occuparsi del contenimento, lo deve fare la regione.

Lei dipinge sua moglie come una specie di eroina. Poi però posta la foto di lei che cucina zucca ripassata e Philadelphia. Si rende conto?

Diciamo che sono più bravo io in cucina, lei sperimenta.

Niente da contestare neanche in cucina?

Ma come faccio, non ho il coraggio, con tutto quello che fa.

C’è qualcosa che è colpa della Raggi nella vostra vita?

Il disordine. Su questo mia moglie è una cosa incredibile, un vero macello. Lascia documenti e buste per tutta casa, lo studio sta esplodendo.

Vostro figlio Matteo che dice?

Si sta appassionando alla politica. Chiede più parchi giochi alla mamma.

Bello essere figlio di un sindaco e dire “mamma mi fai un parco?”.

Sì, ma qui evitiamo il conflitto di interessi, non nascerà un parco a Ottavia, il nostro quartiere, perché l’ha chiesto Matteo.

Lei nella pagina Facebook su Virginia si dipinge come l’ultima ruota del carro in casa. Racconta che perfino il cane Puffo le sta a distanza.

Il nostro cane, preso al canile, mi odia. Si fa accarezzare solo quando c’è Virginia a tavola.

Pure il cane ha deciso che Virginia è prima nella scala gerarchica?

Voglio pensare che abbia avuto problemi con un padrone che mi somigliava.

Pubblica foto di sua moglie col pigiamone di flanella “alla Fantozzi”, come dice lei. Gira sempre così?

Sì, ma con la vita che fa, come si può pretendere che stia in tiro, tutta truccata?

D’accordo, ma la tristezza delle foto di Virginia che mangia una pizza rossa scondita nel cartone specificando che “è la sua pizza preferita”?

Non solo non vuole la mozzarella, ma la taglia tutta a piccoli rombi e la mangia con la forchetta.

Un po’ da ossessiva compulsiva.

E il bello è che ha contagiato anche mio figlio.

S’è mai lamentato di qualcosa con lei?

No. Ho sposato lei e la causa. Qualche volta le dico “potevi avvertire che avevi cenato!”, ma in linea di massima organizzo tutto io per non affaticarla ulteriormente.

Scrive che appena sale in macchina con lei sua moglie si addormenta all’istante “tipo Cicciobello Rock quando lo inclini un po’”. Neanche di questo si lamenta?

Pensi, mi dà pace vederla dormire in macchina, mi sembra una delle poche volte in cui si affida a me totalmente.

Avete avuto una crisi anni fa, quando fu eletta sindaca.

L’ho riconquistata, conta questo.

Come ha fatto?

Le ho fatto sentire che c’ero, con pazienza. Siamo tornati insieme senza neppure accorgercene, con naturalezza.

Cosa vi aveva allontanati?

Lei non stava più bene con me, succede. Ha avuto bisogno di allontanarsi, ha vissuto tre mesi in un’altra casa, ma poi abbiamo capito che siamo fatti l’uno per l’altra.

Senta, se sua moglie viene rieletta ci dobbiamo aspettare un’altra lettera?

Ci stavo giusto pensando oggi, può essere.

Altre idee se vince?

Magari faccio un video nudo.

Non so se questa promessa porterà voti.

In effetti.

Il Pd è in ansia: Gualtieri ha l’incubo “terzo posto”

“Le elezioni a Roma sono le primarie del centrosinistra”. Tra chi sta lavorando per Roberto Gualtieri, la battuta gira. Neanche tanto battuta, per la verità. Perché a dieci giorni dal voto, la partita è apertissima. E anche se i dem raccontano di sondaggi da loro commissionati che darebbero l’ex ministro dell’Economia al 28% con arrivo certo al ballottaggio, l’incertezza regna sovrana. Perché sia Virginia Raggi che Carlo Calenda pescano nel bacino di voti di Gualtieri. E allora tutto è possibile. Sarà anche per questo che il candidato sindaco del Pd in questi giorni si può vedere mentre intrattiene cittadini nelle periferie, passeggia per mercati lontanissimi dalla Ztl e distribuisce volantini. Scoprendo non solo pezzi di città a lui sconosciuti, ma rivelando anche lati inediti del suo carattere.

Così, oggi, oltre a fare un’iniziativa sullo sport con Nicola Zingaretti (che di fatto è una specie di regista occulto di questa campagna), sarà alla Massimina e a Casal Lumbroso, sabato ai mercati di Montespaccato, Selva Candida e Trionfale. Domenica farà una biciclettata che parte da Santa Maria della Pietà, per trainare il messaggio che le ciclabili della Raggi sono piene di problemi. E così via fino a venerdì. Da registrare, in mezzo, un’iniziativa sulla cultura con Dario Franceschini, che ha capito che deve impegnarsi per poi poter rivendicare un eventuale risultato. Giovedì con Gualtieri a Primavalle ci sarà Enrico Letta. Il segretario sa che per lui la Capitale è vitale, pure se il suo apporto effettivo è stato molto relativo: troppo impegnato a Siena. Venerdì ci saranno 15 iniziative in 15 piazze periferiche. Scende in campo una potenza come Goffredo Bettini, ma pure Gianrico Carofiglio (in quota “Agorà” lettiane), Patrizia Prestipino, Roberto Morassut, Beatrice Lorenzin. E Marianna Madia, un’altra che si è vista poco.

Per fare il punto della situazione, qualche giorno fa c’è stata una riunione molto ristretta. La lista dei partecipanti la dice lunga sui riferimenti del candidato: c’erano Zingaretti, Bettini, Esterino Montino, Monica Cirinnà, l’immancabile Claudio Mancini e Michela De Biase, non solo consigliera regionale, ma anche moglie di Franceschini.

Nella distribuzione degli incarichi che seguirà alla corsa romana, pare ci sia già una competizione in atto: la De Biase, che sognava il Campidoglio e poco si è vista, punta al seggio di Roma 1 in Parlamento. Lo stesso che vorrebbe Zingaretti. Così come Franceschini, che si è messo a disposizione pure di Letta per la fine della campagna elettorale, ancora spera nel Quirinale. Se Draghi resta a Palazzo Chigi e Sergio Mattarella insiste sul no. Fermo restando che non è il solo del Pd ad avere tale ambizione. Ma queste sono le puntate successive della storia. Quella di oggi è “Roberto alla conquista di Primavalle e Casal Lumbroso”. Più o meno.

Conte e Raggi tentano la rimonta “Dobbiamo riprendere Michetti”

L’avvocato ovviamente in blu gioca di normalità: “Noi non siamo fenomeni”. E la sindaca che ci crede ancora rilancia: “Noi studiamo, serviamo le istituzioni”. In un parco romano in zona Alberone, quartiere di borghesia molto media, Giuseppe Conte e Virginia Raggi vanno di duetto. C’è da inseguire l’impresa, arrivare al ballottaggio, e l’ex premier che spesso riempie le piazze deve essere il traino, l’uomo che cambia la partita. “L’effetto c’è, siamo saliti di 4-5 punti nei sondaggi” giurano dal M5S. In Campidoglio ci sperano, eccome, nella rimonta, perché stando proprio agli ultimi sondaggi la sindaca sarebbe addirittura alla pari con il dem Roberto Gualtieri e a un soffio da Enrico Michetti, candidato del centrodestra che pare in discesa. Invece sembra in continua crescita Carlo Calenda, possibile ago della bilancia, visto che potrebbe succhiare voti soprattutto al candidato dem e a Michetti. Stime e umori scritti sull’acqua. Ma Raggi da lì (ri)parte. “Abbiamo superato i nostri avversari, ora noi puntiamo Michetti” assicura dal microfono. “I nostri avversari non vogliono fare confronti in tv” sibilano dal Movimento, mentre sotto il palco c’è parapiglia.

Un uomo prova a contestare a Conte il Green pass, e l’avvocato reagisce secco: “Vada al banchetto della Lega che è a dieci metri da qui, le pulsioni anti-scientifiche le scacciamo via”. Vuole scacciare i tentennamenti del M5S che fu, il nuovo capo, marcare il nuovo corso. Per questo con i cronisti si sofferma, ancora, sulla “cura delle parole”, un suo mantra: “È opportuno che tutti i gestori degli spazi web sottoscrivano un codice di comportamento per contrastare il linguaggio d’odio”. Ma ora c’è da pensare alle urne, e la linea è attaccare innanzitutto il centrodestra, erodere quei voti. “Salvini non si è ancora ripreso dal mojito” morde Conte. Insiste: “Il capo della Lega, Meloni e Renzi attaccano il Reddito di cittadinanza, ma vivono da sempre di politica”. Picchia ancora: “Salvini ha detto che il M5S vuole aumentare le tasse, affermazioni così false che rischiano di far perdere credibilità a tutta la classe politica”. Insomma, bisogna sfondare a destra. “C’è un alto tasso di indecisi” ricorda Raggi, e quelli in parte deve riprenderseli. Ne parlano anche i parlamentari che affollano il retropalco, dove però non c’è l’assessore regionale Roberta Lombardi, durissima in una chat interna sulla sindaca (“Non scarichi le colpe sui rifiuti”). Ieri l’ex premier le ha telefonato per chiederle di evitare altri dardi. “Ma io e Giuseppe parliamo spesso” spiegava ieri Lombardi a chi l’ha sentita. Invece Conte e Raggi ragionano di strategia. L’ex premier – raccontano – le avrebbe consigliato di cercare di prendere qualche voto agli avversari “anche nelle loro roccaforti”. Ovvero di non fare campagna solo nelle periferie, dove c’è lo zoccolo duro dei suoi sostenitori, ma di provare a recuperare consensi anche nella Roma della Ztl, cioè del centro. Quella, per intenderci, che pare riserva di caccia per Gualtieri e Calenda. Per questo Raggi continua a ricordare ai dem l’accoltellamento di Ignazio Marino. E sempre per questo a giorni annuncerà alcuni nomi per la sua nuova giunta. “Esponenti della società civile” dicono con la consueta formula, utile per ammiccare a ogni sfumatura di elettorato. Potrà davvero servire?

Di sicuro Conte, dopo il reciproco gelo degli scorsi mesi, ha fatto il suo per la sindaca. E sarà con lei nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale, venerdì 1° ottobre (forse alla Bocca della Verità). Poi ci saranno le urne. E se la sindaca non dovesse farcela, a quel punto l’ex premier sarà quasi obbligato a sostenere Gualtieri, anche con un appello pubblico.

Troppo importante ribadire l’asse con Letta e il Pd. “Ma a Roma non ci sta capendo nulla nessuno e la partita è ancora aperta”, sussurra un big: contiano, naturalmente.

Salvini non vota la fiducia e perde Morisi

Sarà che la questione stavolta lo riguardava in prima persona, perché in Senato avrebbe dovuto votare anche lui. E così, dicendosi “free vax”, Matteo Salvini ieri mattina ha dato il via libera ai suoi: “Sul Green pass sono orgoglioso che la Lega lasci libertà di coscienza, di voto”. E ancora: “I parlamentari sono liberi, la Lega non è una caserma”. E così, per la terza volta in una settimana, molti senatori leghisti hanno deciso di non votare la fiducia sul decreto Green pass II per scuola e trasporti: in tutto sono stati 19 su 64. Quasi un senatore leghista su tre era assente. Poco meno rispetto al 40% di due giorni fa, ma comunque un segnale. Tanto più che tra gli assenti c’è proprio Salvini, impegnato in Calabria per la campagna elettorale, ma anche molti salviniani come Lucia Borgonzoni e Giulia Bongiorno, per non parlare della folta truppa no Green pass del Carroccio a Palazzo Madama: nel voto di ieri mancavano Alberto Bagnai, Armando Siri, Simone Pillon, Rosellina Sbrana e Roberta Ferrero. A reggere la barra del gruppo parlamentare al Senato sono stati soprattutto i governisti del Nord. L’ennesima spaccatura che fotografa una sempre maggiore insofferenza dentro il partito: al Nord in molti non capiscono la linea “di lotta e di governo” del segretario chiedendo il congresso; al Sud i ras e gli amministratori imbarcati negli ultimi anni stanno scendendo dal carro di Salvini.

Basti pensare che tutti e 5 gli europarlamentari che hanno lasciato il Carroccio erano stati eletti al centro-sud: l’ultima è stata la no-vax Francesca Donato, ma prima di lei c’erano stati gli addii di Vincenzo Sofo, Andrea Caroppo, Lucia Vuolo e Luisa Regimenti. Ma negli ultimi mesi la Lega in tutta Italia ha perso una cinquantina di consiglieri comunali, dirigenti e sindaci da Nord a Sud. Il dato più pesante riguarda il Meridione dove l’espansione della Lega sta fallendo. L’emorragia c’è stata soprattutto in Calabria con l’addio dei consiglieri Marisa Cavallo, Giancarlo Cerrelli, Salvatore Caetano e Vincenzo Granata ma anche a Napoli con l’uscita di Enzo Moretto e perfino ad Aprilia, feudo di Claudio Durigon, dove hanno lasciato i consiglieri comunali Roberto Boi e Francesco Renzi. Ieri intanto è arrivata la notizia che anche Luca Morisi, spin doctor di Salvini e ideatore della “Bestia” ha lasciato la guida dell’attività social della Lega. Lo ha annunciato in chat in serata ai suoi. Ufficialmente per motivi familiari ma dietro al suo addio ci sarebbero anche disaccordi politici: Morisi, per esempio, è sempre stato pro-vaccini. Salvini però prova a coprire tutti questi addii imbarcando parlamentari: ieri è arrivato il deputato renziano Francesco Scoma e presto lo seguirà il senatore di FI Luigi Vitali.

Consulta, legittimo l’uso dei dpcm del governo Conte

L’uso dei Dpcm da parte del governo di Giuseppe Conte per contenere la pandemia è stato legittimo. Lo ha stabilito la Consulta che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di pace di Frosinone a cui si era rivolto un cittadino per impugnare una multa di 400 euro. Una sanzione che gli era stata inflitta dai carabinieri di Trevi nel Lazio perché violando le norme di attuazione del lockdown varate da Palazzo Chigi nella primavera del 2020, “si spostava a piedi in assenza di comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o di motivi di salute, all’interno del Comune”.

Secondo la Consulta, chiamata a decidere della legittimità dei decreti legge 6 e 19 del 2020, non c’è stata, attraverso questi provvedimenti, alcuna delega di funzione legislativa al presidente del Consiglio come ipotizzato nel ricorso. In particolare la Corte ha ritenuto “inammissibili le censure al dl 6, perché non applicabile al caso concreto. Ha poi giudicato non fondate le questioni relative al dl 19, poiché al presidente del Consiglio non è stata attribuita altro che la funzione attuativa del decreto legge, da esercitare mediante atti di natura amministrativa”.

Rincari azzerati per pochi. Per gli altri sconto minimo

La temuta maxi-stangata non ci sarà solo per 3 milioni di italiani che beneficiano del bonus sociale elettrico e gas, mentre per tutte le altre famiglie le bollette dei prossimi mesi resteranno comunque pesantissime. Dopo giorni (e notti) di passione per il governo, fitti tavoli tra i ministri dell’Economia e della Transizione energetica, Daniele Franco e Roberto Cingolani, e svariate soluzioni ritenute poi impraticabili, ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto da 3 miliardi di euro che riuscirà a sterilizzare solo una parte degli aumenti delle bollette degli ultimi tre mesi dell’anno agendo sui cosiddetti “oneri di sistema” per luce e gas e solo sull’Iva per il gas. Per azzerare i rincari per tutte le famiglie e le imprese servirebbero fino a 9 miliardi. “Anche se oggi è difficile fare i conti, visto che le quotazioni dell’energia elettrica e del gas per il calcolo finale delle tariffe verranno rilevate dall’Arera (l’Authority del settore, ndr) il prossimo 28 settembre, lo stanziamento previsto dal governo riuscirà a contenere un terzo della stangata annunciata due settimane fa dal ministro Cingolani con aumenti fino al 40%”, spiega il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli.

In pratica, il decreto – filtrato come bozza – prevede 2 miliardi di euro per ridurre gli oneri di sistema elettrici a 36 milioni di famiglie e 6 milioni di piccole imprese fino a 16,5 kW di potenza disponibile. Si tratta della procedura utilizzata già a giugno, quando il governo ha stanziato in extremis 1,2 miliardi per tagliare questa voce che pesa sulla bolletta per oltre il 20% e dove entrano le componenti più diverse (dagli incentivi alle rinnovabili ai costi di smantellamento delle centrali nucleari). Ma tre mesi fa l’intervento del governo è arrivato quando, di fatto, l’Arera aveva già comunicato gli aumenti. Mentre questa volta si è deciso di intervenire stanziando 3 miliardi, qualunque sia il rincaro finale.

Per agire sugli oneri di sistema, il governo ha stanziato 700 milioni di euro dei proventi delle aste dei permessi Ets (in pratica le tasse che le aziende pagano per inquinare e che sono aumentate vertiginosamente dopo il tumultuoso aumento dei prezzi della CO2) e altri 1,3 miliardi arriveranno dal trasferimento alla Cassa per i servizi energetici e ambientali. Sul fronte del gas, per tutti gli utenti (famiglie e imprese) l’Iva (oggi al 10 e al 22% a seconda del consumo) sarà portata al 5% e gli oneri di sistema azzerati grazie a 480 milioni di euro.

L’intervento assume però soprattutto una forte valenza sociale: il decreto interviene a vantaggio delle famiglie che già beneficiano del “bonus” luce e gas e che da luglio arriva in automatico in bolletta a chi ne ha diritto. Si tratta di 3 milioni di nuclei potenzialmente interessati, di cui 2,5 milioni anche per il gas. È attraverso 450 milioni che si sterilizzeranno totalmente gli aumenti delle famiglie che hanno un Isee inferiore a 8.265 euro annui e dei nuclei numerosi (Isee 20.000 euro annui con almeno 4 figli). Ma nell’elenco ci sono anche i percettori del reddito o della pensione di cittadinanza, gli utenti in gravi condizioni di salute e chi utilizza le apparecchiature elettromedicali. Per gli altri la stangata è solo ridotta di un terzo.

Dal Jobs act ai ristori: le imprese hanno il loro “Sussidistan”

Sarà pur vero che l’ingratitudine è figlia della superbia, ma così si esagera. Un anno fa dal palco della sua prima assemblea, il leader di Confindustria si scagliò contro il “sussidistan”, cioè i ristori stanziati dal governo: “Abbiamo bisogno di una visione diversa dai sussidi” per “sostenere i settori in difficoltà”. In quel momento, il conto a spanne segnava quasi 50 miliardi: a tanto ammontava la quota destinata alle imprese di quanto messo in campo per combattere gli effetti della recessione innescata dal Covid. Oggi quella cifra è più che raddoppiata e da ieri si aggiungono nuove richieste di sostegno alle aziende (lo leggete nel pezzo a sinistra) avanzate dal leader confindustriale.

Nei giorni scorsi è toccato all’ex viceministro dell’Economia, Antonio Misiani (Pd), mettere in fila i numeri per replicare agli attacchi di Bonomi: “In due anni i governi Conte-bis e Draghi hanno stanziato per le imprese 115 miliardi tra aiuti diretti, sgravi fiscali e misure di settore. Altri 32 miliardi sono stati destinati agli ammortizzatori sociali e a misure di decontribuzione. Le imprese hanno inoltre usufruito di 216 miliardi di crediti erogati con garanzia dello Stato”.

Da Bonomi, “che lamenta una presunta ‘propaganda anti-impresa’, ci piacerebbe ascoltare ogni tanto il riconoscimento del valore e dell’efficacia di queste scelte”. Ecco, si diceva, l’ingratitudine. Il capitolo imprese ha sempre fatto la parte del leone nei provvedimenti varati a partire dal febbraio 2020 – inizio della pandemia – crescendo addirittura nel tempo. Per dare l’idea, l’ultimo decreto, il “Sostegni bis” del maggio 2021, destinava al capitolo ben 27 dei 39 miliardi di risorse mobilitate. Dal conto totale peraltro mancano misure di rafforzamento patrimoniale come i 44 miliardi a valere sul “Fondo patrimonio destinato” affidato alla Cassa Depositi e Prestiti per ricapitalizzare aziende di grandi dimensioni in difficoltà.

Gli attacchi martellanti di Bonomi a qualsiasi tentativo degli ultimi due anni di mettere un argine al laissez-faire caro a un certo mondo confindustriale (dal blocco dei licenziamenti alle norme anti-delocalizzazioni) hanno grande eco sulla stampa, ma non è certo il primo né sarà l’ultimo dei leader degli imprenditori che chiede e incassa sostegni pubblici. Il predecessore Vincenzo Boccia nel suo primo anno ottenne l’inserimento in manovra di una cifra astronomica destinata alle imprese: tra industria 4.0, sgravi alle assunzioni, tagli all’Ires e via dicendo: il pacchetto valeva quasi 80 miliardi nel triennio. Ai tempi di Giorgio Squinzi e di Matteo Renzi la Confindustria è andata perfino oltre, quasi dettando le riforme al governo dello statista di Rignano. Il Jobs Act è stato anticipato da un documento di lavoro dell’associazione, di cui ne riprese i capisaldi, a partire dall’eliminazione dell’articolo 18. Proprio per gonfiare i numeri che servivano a dimostrare l’efficacia della riforma, il governo Renzi l’accompagnò con quasi 20 miliardi (nel triennio) di sgravi alle assunzioni, in buona parte – stando ai dati Inps – finita a sussidiare contratti che sarebbero stati siglati comunque.

Ieri Bonomi ha avvisato il governo in vista della manovra d’autunno. Le richieste non sono nuove: via l’Irap (dopo il taglio varato ai tempi del Conte-2) e rimodulazione dell’Ires, l’imposta sul reddito delle società. A inizio anno si era scagliato contro la prima versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo giallorosa, rea di “non avere dietro una visione di politica industriale”. Non si sa se sia poi arrivata, ma a guardare i numeri si torna sempre all’ingratitudine.

Il Pnrr targato Draghi destina in “trasferimenti alle imprese”, cioè sussidi, quasi il 19% dei 191 miliardi previsti fino al 2026 attraverso le 6 missioni (transizione ecologica, digitalizzazione etc.), dietro solo agli investimenti in costruzioni (32,6%). Tradotto in soldoni, parliamo di quasi 35 miliardi (in lieve calo rispetto al piano targato giallorosa, che peraltro li cifrava in maniera poco chiara). Il grosso è costituito dal “Piano transizione 4.0”, cioè crediti d’imposta per investimenti in beni tecnologici: vale 14 miliardi ed è la spesa per singola voce più elevata di tutto il piano (1,7 miliardi solo quest’anno). E questo a non citare i 10 miliardi destinati a alle grandi opere ferroviarie previsti nel “fondo complementare”, finanziato in deficit, che accompagna il Pnrr e che certo non dispiacciono a Confindustria. Ma, evidentemente, ancora non basta.

Il cashback si restringe con la scusa dell’equità

C’è un piano per ammazzare il cashback, stravolgendone obiettivi e finalità, pur di snaturare la misura per incentivare i pagamenti elettronici voluta dall’esecutivo Conte-2, che aveva messo sul piatto 4 miliardi per il biennio 2021-2022. Il premier Mario Draghi, a fine giugno, ha imposto lo stop del meccanismo fino a fine anno, incassando l’ok della maggioranza, eccetto i 5Stelle ai quali è rimasto il contentino della promessa, sulla carta, di farlo ripartire, migliorato, nel gennaio 2022. Ma ora, secondo quanto riporta Milano Finanza, senza smentite del ministero dell’Economia, sarebbe già pronta la riformulazione della misura con un robusto ridimensionamento delle spese, da 1,5 miliardi a 500 milioni l’anno. E, soprattutto, con un cambio di platea: non più tutti i cittadini che utilizzano bancomat, carte di credito e app per fare acquisti, ma solo chi rientra nelle fasce di reddito più basse.

Un’evidente stortura che dovrebbe giustificare proprio la decisione presa da Draghi tre mesi fa. Quando il 30 giugno il premier ha annunciato lo stop al cashback, ha infatti spiegato che si trattava di una “misura regressiva destinata a indirizzare le risorse solamente verso le categorie e le aree del Paese in condizioni migliori”, visto “che la maggiore concentrazione dei mezzi alternativi al contante si registra tra gli abitanti del Nord e, più in generale delle grandi città, con un capofamiglia di età inferiore ai 65 anni, un reddito medio-alto e una condizione diversa da quella di operaio o disoccupato”. Elementi, questi forniti da Draghi, che tuttavia non hanno ancora evidenza comprovata: non è dimostrato che siano state solo queste categorie a trarre i maggiori benefici dal cashback. Mentre nessuno ha mai osato accusare di regressività gli altri svariati bonus che nel frattempo hanno allungato la già copiosa lista di incentivi previsti (terme, tv, bici, casa…).

Di certo c’è che gli 1,5 miliardi risparmiati dal congelamento del cashback vengono ogni giorno spostati tra la riforma degli ammortizzatori sociali (per cui servono oltre 4 miliardi) o per la delega fiscale da 2 miliardi. Eppure la misura che si è fissata lo scopo di sostenere un programma anti-evasione ha funzionato: ha stimolato l’uso dell’app Io, ha incentivato la digitalizzazione e ha permesso a oltre sei milioni di italiani di ricevere 893 milioni di euro di rimborsi per il primo semestre. Un’operazione che ha avuto un enorme riscontro tra i giovani e che, continuano a sostenere M5S e Pd, si ripaga da sola. Senza la sospensione, i dati sui consumi avrebbero raggiunto i 14 miliardi entro fine 2022 con 2,5 miliardi di nuove entrate per lo Stato e senza introdurre nessuna nuova tassa.

La riformulazione allo studio ha quindi un solo scopo: non l’equità, ma il taglio dei costi della misura. Così, secondo Mf, il governo starebbe ragionando sull’introduzione di tetti massimi di rimborsi, la diminuzione del numero di transazioni obbligatorie o anche il superamento delle stesse spese che solitamente si fanno a dimostrazione che il cashback fa aumentare i pagamenti tracciati. Questo, però, è già certificato, come la riduzione del nero e dell’evasione fiscale. Ma la colpa è della regressività…

Confindustria si inchina a Draghi “È il nostro uomo”. E batte cassa

Spesso la Confindustria è stata filogovernativa, talvolta la passione è sfociata in uno scambio di amorosi sensi. Con l’accoglienza riservata ieri a Mario Draghi si è raggiunto lo stato di devozione. Alla sua seconda assemblea annuale, il presidente Carlo Bonomi non è riuscito a trattenersi accogliendo il premier. “Draghi non è un uomo della Provvidenza, non è uomo della possibilità, è un uomo della necessità, come De Gasperi, Baffi e Ciampi”, ha spiegato invocando l’applauso. Il premier riceve una lunga standing ovation, si alza e ricambia. Prende ovazioni ogni volta che si pronuncia il suo nome. Gli attriti all’epoca del Conte-2 sono archiviati.

Nel ’94 un esordiente Silvio Berlusconi fu accolto festante. Il presidente Luigi Abete lo salutò come “il collega di ieri”. “Sembra copiata dal programma di governo”, scherzò il Cavaliere commentando la relazione annuale. Draghi non replica la scena, eppure Bonomi ce la mette tutta. Spiega che la sua “mano ferma” ha già compiuto miracoli: “Ha mutato energicamente su finalità e governance le prime 80 pagine del Piano nazionale di ripresa e resilienza”; “sta scrivendo le riforme fondamentali prima inesistenti come produttività e concorrenza”; “ha ridefinito la campagna vaccinale in pochi mesi”. Bonomi scorge in “ogni azione la trasmissione al Paese, ai mercati e al mondo, di una nuova fiducia verso la credibilità dell’Italia”. “Ecco perché noi imprese non esitiamo a dire che ci riconosciamo nell’operato del governo Draghi, che ci auguriamo continui a lungo l’esperienza”. Tradotto: il premier resti fino al 2023 e oltre, i partiti non ostacolino le riforme e “non attentino alla coesione del governo pensando alle Amministrative, o con veti e manovre in vista della scelta per il Quirinale”.

La visione del leader confindustriale – il primo di cui non si sa quale impresa possegga – non è particolarmente originale. C’è il disprezzo per i politici (“persuasi di conoscere già la verità e rifiutarne qualsiasi negazione”, dice citando Einaudi) e l’idea che l’economia sia affare delle aziende, uniche vere custodi delle ricette giuste per il Paese. La ripresa in atto (+6% il Pil nel 2021), ça va sans dire “è merito dell’industria: non lo diciamo vantandocene, semplicemente richiamiamo ciò che è un fatto”. E qui Bonomi presenta il conto.

Il primo riguarda la transizione ecologica, i cui obiettivi “devono essere credibili”. Se la prende con l’agenda Ue Fit for 55 e l’obiettivo del dimezzamento della Co2 al 2030 usando l’armamentario classico dell’industria: troppa ambizione; l’Ue “pesa solo per l’8% delle emissioni”; ma soprattutto serve “supporto per i necessari investimenti”, cioè soldi. Il secondo è il fisco: 3 miliardi per la riforma sono “pochissimi”, va “abolita l’Irap” e tagliata l’Ires. Bonomi illustra bene cosa si aspetta dalle “riforme”: “I servizi pubblici devono aprirsi ai privati, basta gestioni in house degli enti locali”; stessa cosa per il servizio sanitario e per i servizi per l’impiego “totalmente inefficienti, a differenza delle agenzie private”. Non manca l’appello ad accelerare sugli sblocca cantieri e l’attacco al blocco dei licenziamenti superato a luglio. Infine la riforma degli ammortizzatori sociali: “Non sia a carico delle imprese”. Si appella ai sindacati per un nuovo “patto per l’Italia”.

Un anno fa, Bonomi attaccò duramente dal palco il premier Giuseppe Conte contestando “la politica dei bonus” (cioè i ristori). “Servono a tutelare il tessuto sociale”, replicò Conte ricordando che per gran parte erano andati alle imprese. A Draghi tocca ben altra accoglienza, ma l’ex Bce evita di farsi trascinare da tanto affetto. Ricorda che la crescita è soprattutto un rimbalzo dalla maxi-recessione del 2020 e che i 500 mila nuovi occupati sbandierati da Bonomi “per tre quarti sono a termine”; che due milioni di famiglie sono in povertà e che la transizione ecologica “è una necessità”. Prende applausi quando promette che non ci sarà redistribuzione (“Non alzeremo mai le tasse”) e quando accoglie la proposta di Bonomi di un grande “patto economico e sociale” con i sindacati (che ha convocato per il 27), alludendo forse al precedente del ’93 del governo Ciampi. Il premier attribuisce alla “rottura delle relazioni degli anni 70 le origini del declino dell’Italia”. Una visione curiosa: quella rottura avvenne a danno dei lavoratori (la famosa “politica dei sacrifici” enunciata dal leader Cgil Luciano Lama nel ’78) e il patto del ’93 avviò la stagione della moderazione salariale. I lavoratori italiani già tremano.