La Legge del Dipende

Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall’altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci.

Ricapitoliamo. Il boss Bagarella – a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà – si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-’93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel ’94. Il medico mafioso Cinà – a cui a questo punto va la nostra solidarietà – si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l’assassinio di Salvo Lima (marzo ’92) e soprattutto dopo Capaci (maggio ’92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull’insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Quindi il fatto – cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante “minaccia a corpo politico dello Stato” attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros – sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l’unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D’Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il “dolo”, l’intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel ’92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel ’93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel ’95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra.
Nel ’94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l’ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e ’ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell’Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell’amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell’Utri), ma soltanto “tentata”. Così anche Dell’Utri può essere assolto “per non aver commesso il fatto”: cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale.
In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell’“embè?”. Bastava aver letto Sciascia: “Lo Stato non può processare se stesso”. E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

In amore, l’eroismo conta più dell’erotismo: vero, Giulietta?

Amore ed eroismo sono spesso considerati molto distanti. A prescindere che operino nello sport o nella scienza, gli eroi fanno parte della sfera pubblica; ed è per questo che il collegamento con l’amore può sembrare poco immediato, dato che si tratta dell’esperienza privata per eccellenza. Possono dunque esistere gli eroi dell’amore? E che cos’è l’amore eroico?

A questa e altre domande prova a rispondere Massimo Fusillo, docente di letterature comparate all’Università dell’Aquila, nel suo ultimo saggio Eroi dell’amore, pubblicato dal Mulino all’interno di una collana sugli eroi diretta dallo storico Carlo Galli, e che nei volumi precedenti ha affrontato i paladini della guerra, della libertà, della politica e dello sport.

Nel libro, Fusillo individua due linee tematiche in cui l’eroicizzazione dell’amore si concretizza: da un lato, c’è l’idealizzazione della coppia forte e fedele, quella che come in Romeo e Giulietta riesce a sfidare le convenzioni sociali; dall’altro, si contrappone invece la seduzione che sovverte il mondo, come il collezionismo libertino di Don Giovanni, esaltato anche se in negativo. L’intento dell’autore è dunque quello di indagare in parallelo l’amore romantico e la promiscuità sessuale, evidenziandone le incrinature e, al contrario, le intersezioni imprevedibili. In mezzo a questa dicotomia c’è anche una terza linea, che Fusillo identifica nell’amore non corrisposto, o corrisposto in modo inadeguato; quello che porta alla follia autodistruttiva, e in alcuni casi anche al suicidio, come in Madama Butterfly.

Per fare questa operazione, Fusillo prende in esame personaggi del cinema, del teatro e della letteratura di epoche e culture diverse, concentrandosi in particolare su quei casi in cui a prevalere è il melodramma, che altro non è che l’eccesso di passionalità.

All’interno del saggio Fusillo sottolinea inoltre come ci sia una disparità fra l’eroismo femminile e quello maschile nelle storie d’amore. Emotività, passionalità, devozione, sacrificio e rinuncia sono infatti prerogative che la cultura occidentale ha attribuito soprattutto alle donne, ed è per questo che l’autore ne ha approfittato per scandagliare il desiderio femminile nei secoli e nelle opere artistiche che hanno provato a immortalarlo.

Tra le pagine, non ci sono però solo personaggi provenienti dal mondo della finzione, ma anche persone realmente esistite come lady Diana; perché, spiega Fusillo, la spettacolarizzazione della vita privata segue ormai dinamiche narrative simili a quelle di cinema o tv.

Un’Arena per Battiato: rock, lacrime e fischi (a Sgarbi)

Partiamo dal contesto per rendere omaggio al festeggiato: martedì sera all’Arena di Verona si è celebrato “Franco Battiato e la meraviglia dei record”, La voce del padrone, a quarant’anni dalla pubblicazione. Sul palco un numero smisurato di artisti, quattro ore e trentadue di spettacolo, e ci torneremo, perché in mezzo a poesia, musica, ritardi, storia, cultura, commozione e contrattempi, La voce del padrone si è manifestata con la sua imprevedibilità grazie a Vittorio Sgarbi.

No, non ha cantato, forse avrebbe voluto, chissà. Vittorio Sgarbi era in platea, senza mascherina, con Al Bano, entrambi reduci da un premio ricevuto non lontano da Verona e convocati dalla sorella di Sgarbi, Elisabetta, nelle vesti di sirena: “Vittorio, perché non mi raggiungi all’Arena?”.

I due ospiti si sono seduti nei primi posti, e già qualche mormorio dalla pancia del pubblico si era sentito, ma Sgarbi quando vede un palco, un microfono, una prossima prima serata su Rai3 e migliaia di presenti non si trattiene, deve conquistarli; così decide di intervenire e di portare con sé il povero Al Bano, nelle vesti di Sancho Panza, Pinotto o dell’amico timido obbligato da quello sfrontato. I due, poi, vengono presentati da Umberto Broccoli, altra nota “dolore” dello show: ogni suo intervento (quattro totali) è stato accolto da un crescendo di rassegnazione psico-fisica e forse, tra i presenti, vedere Broccoli circondato dal duo Sgarbi-Al Bano è stato come dire “e no, questo è troppo”.

Ecco i fischi. E che fischi. Con i tre storditi che si guardavano, poi provavano a sedurre il pubblico, aspettavano in cerca di aggrappi mentali, di solidarietà, di pathos, forse anche per capire se potevano scaricare sull’altro cotanta protervia.

Macché. Oltre ai fischi pure gli ululati.

Fino a quando Vittorio Sgarbi, invece di invocare l’aiuto di Battiato e magari intonare Bandiera bianca, decide di vestire i panni di Alberto Sordi in Un americano a Roma (“A me m’ha fregato la malattia”) e abdica verso la parente stretta: “Saluto mia sorella!”. E dalla platea: “Salutame a soreta…”. Poi molla Al Bano e Broccoli e fugge dietro le quinte. Lì si consuma l’altra tragedia. La sorella non gradisce la scenata e si avvicina al prode per spiegargli due o tre cosette; lo stesso Vittorione tenta la fuga dalle colpe e butta la palla in tribuna aggrappandosi a un evergreen: “È pieno di fascisti! Fascisti! Fascisti! Fascisti!”.

I presenti ridono, ma ridono proprio tanto.

Per il resto il concerto, come dicevamo, è durato oltre le quattro ore e mezzo, uno spettacolo tra lo stile Ronconi e il sequestro di persona, e in un lasso di tempo può accadere sempre la qualunque.

Paola Turci (bravissima) canta Povera Patria e alla fine si commuove.

Gianni Morandi devastato dal direttore d’orchestra che gli stringe la mano ferita, intona alla perfezione Cosa resterà di me (cos’è il professionismo…).

Jovanotti vestito tra il pescatore bretone e un turista chic di Pantelleria balla su L’era del cinghiale bianco.

Alice, seduta su uno sgabello, è impegnata con tre pezzi (compresa La cura), piange, standing ovation e continua.

Morgan e i Bluvertigo tentano la difficilissima Shock in my town, si fermano per problemi tecnici (dal pubblico c’è chi urla “è colpa di Bugoooo”), riprovano. Perché l’accanimento?

Capossela, il più Battiato di tutti, si presenta con una torre in testa e delizia l’Arena con La torre.

Roberto Cacciapaglia apre l’esibizione e chiede al pubblico: “Nessun applauso alla fine, ma solo silenzio”. Forse ha temuto l’effetto-Sgarbi, visto che è toccato a lui riprendere dopo la fuga del senatore.

Colapesce e Dimartino liberano il pubblico dalle sedie con Bandiera Bianca e Sentimento Nuevo.

Gianna Nannini, da vera rocker, se ne frega delle parole esatte, si affida alle coriste per i lavori di bassa manovalanza, ma intona un Cuccurucucu da mani al cielo.

Mentre Fiorella Mannoia possiede La stagione dell’amore, regalando un altrove (speriamo la inserisca nel suo repertorio), un po’ come Diodato con E ti vengo a cercare, Mario Incudine ed Enzo Avitabile con Stranizza d’amuri e il sempre etereo Angelo Branduardi con Il Re del Mondo.

Alla fine dopo questa sfilata di artisti, di generi, di stagioni musicali, in teoria contrapposte, è sempre più chiaro un punto: Battiato è stato uno dei pochi capace di affrontare sonorità rock, classiche, pop, elettroniche, pure gotiche con una proprietà di linguaggio straordinaria. Ed è lui il maestro che ha insegnato a molti com’è possibile trovare l’alba dentro l’imbrunire.

“La risata? Dono di mia nonna” “Per lei ho quasi ucciso zio”

Nonna è l’amore della mia vita. Lei crede in me e mi dice sempre che sono fantastico, che posso diventare importante come chiunque altro al mondo, se mi ci metto d’impegno. Sa che vorrei diventare una stella del baseball, proprio come Bill Terry dei New York Giants. E anche se Nonna non sa assolutamente nulla del gioco, fa sinceramente il tifo per lui perché è il mio giocatore preferito. A volte, durante la stagione del baseball, mentre ascolto la partita a casa sua, lei mi chiede, di punto in bianco, “Zug mir, Bill Terry ha vinto, oggi?”. Uno strano ghigno, poi con finto disappunto: “Nooo, Nonna, lui è una prima base. Come fa a vincere?”. Quindi, lei volge gli occhi al soffitto come se possa offrire ogni risposta a ogni domanda che sia mai stata posta. E, alla fine, mi fa: “Sai una cosa, figliolo? Se Bill Terry fosse ebreo, penso che forse potrebbe vincere… con l’aiuto di Dio”. Questa è nonna Sarah.

Mi comprò un berretto da baseball, per rispetto alla mia ambizione. Il giorno in cui i miei genitori e io ci recammo a casa sua, lei me lo mise sul capo con tenera cura. Sulla visiera erano cucite le iniziali B.T. Per me, valeva almeno cento trilioni di dollari… Nelle serate calde, dopo aver cenato e messo via i piatti, ce ne stavamo sul portico, sprofondati in sedie di vimini, ascoltando una serie di programmi sulla sua radio Majestic. Era tutta di legno e a forma di cattedrale e il selettore arancio chiaro doveva essere accompagnato con una matita perché il pomello rotante si era rotto… Continuavamo ad ascoltare. Poi veniva quella emozione improvvisa, quella vertiginosa sensazione di fluttuare nell’aria pura… ascoltando Raymond Paige e la sua orchestra che suonavano il motivo Blue Moon in un allegro frastuono e l’improvviso intervento della centralinista Duane Thompson che ci collegava con l’“Hollywood Hotel”. Un posto immaginario fatto per grandi incantesimi, tutti pieni di avventura, mistero, esilarante comicità… che assaporavo, tanto che una volta esclamai: “Nonna, sai una cosa? Andrò a Hollywood per diventare una grande stella del cinema”. Al che lei mi strinse vigorosamente la mano e disse: “Fai buon viaggio”.

Mi ricordo di averla fatta ridere tanto forte da farle venire le lacrime agli occhi quando cacciavo di bocca una bella dose di frasi yiddish. Poi mi ricordo di quando mi nascondevo dietro il suo divano e piangevo silenziosamente. Lei mi diceva: “Non preoccuparti, figliolo, mamma e papà torneranno presto a casa. Va tutto bene, sii felice…”. Questo malgrado i suoi problemi personali. In seguito, avrei saputo perché. Ma, a cinque o sei anni, potevo solo rendermi conto che tutti i brutti momenti si verificavano quando era presente Sam Rothberg, il suo secondo marito.
Il primo marito, Joseph Brodsky, l’aveva resa vedova quattro anni prima che io nascessi. Quindi so molto poco di lui, a parte un paio di racconti frammentari venuti fuori da recenti riunioni di famiglia. Quello che ne viene fuori, comunque, dimostra che il mio nonno materno aveva condotto una vita difficile ma onesta. Come il clan dei Levitch, Joseph e Sarah Brodsky venivano dalla Russia. Lui faceva il sarto. Lavorava a cottimo sia in casa che in varie sartorie nei dintorni di Newark. Adorava la musica. Mia madre diceva che, quando era in Russia, la sua grande speranza era di poter diventare un pianista da concerto, ma i suoi genitori non potevano permettersi di pagargli le lezioni, figurarsi di compragli un piano. Ecco perché comprò lo Steinway durante gli anni dell’adolescenza di mia madre. Quando lei diventò abbastanza brava a suonarlo, lui sentì di aver raggiunto il suo scopo nella vita. In ogni caso, nonno Brodsky continuò a lavorare, a risparmiare e a provvedere alla famiglia fino al suo ultimo giorno.

Poi arrivò Sam Rothberg, completamente all’opposto per indole e temperamento. Noi lo chiamavamo “zio”. Si occupava del commercio di pellicce a New York e, quando sposò mia nonna, portò con sé quattro figli, una femmina e tre maschi. Era un uomo alto, massiccio, con i baffi, dagli occhi piccoli e dal frasario volgare; veniva su dalla cantina con del liquore fatto in casa – lo fabbricava personalmente – e poi faceva fuori due, tre bicchieri grandi di quella roba a cena, tanto quanto bastava per andare a letto… ogni sera.

“Kom essen!”. Pretendeva che tutti sedessimo a mangiare, senza perdere tempo, e non potevamo chiedere una seconda porzione senza il suo permesso, con quegli occhietti che ci scrutavano e il suo liquore pronto, accanto al piatto. A volte, quando diventava irascibile o cominciava a urlare, la nonna si voltava verso di me con uno sguardo protettivo, come per dire: “Posso affrontare la cosa”. Ma, altre volte, mentre giocavo di fuori, lo sentivo che le urlava contro: “No, no! Mai! Meglio che schiatti prima!”… e correvo verso casa per vedere se lei stava bene.
Una volta eravamo a tavola per la cena. Tutta la famiglia; zii, zie, cugini, stavamo tutti conversando piacevolmente. Poi accadde, all’improvviso. Schiaffeggiò la nonna. Non aveva neppure battuto ciglio. E vidi che stava per farlo di nuovo: “Che? Tu vuoi dire a me che non dovrei bere?!”. Mio zio Bernie lo inseguì e gli diede un pugno; io saltai dalla sedia – urlando “Ti ammazzo!” – come un moscerino sulle sue spalle, le mie braccia gli serravano il collo, appeso a lui con tutto il mio corpo. Continuavo a stringere e, se non mi avessero tirato via, gli sarei rimasto appiccicato finché non avesse smesso di respirare.

Dini furbetto del quotidiano “Ridacci il Financial Times”

L’ affaire Dini scuote l’apatico mercoledì mattina del Senato. Sul tavolo della sala lettura di Palazzo Madama, dove i parlamentari possono sfogliare (gratis) i quotidiani nazionali e internazionali, è comparso da un giorno un foglio bianco con un messaggio perentorio: “Si invita il sen. Dini a desistere dal sottrarre il Financial Times alla lettura dei colleghi del Senato”. La lettera non è firmata, il contenuto è drammaticamente comico e il destinatario è illustre.

Lamberto Dini, classe 1931, novant’anni compiuti a febbraio, viene accusato senza mezzi termini di mettersi in tasca con poco rispettabile frequenza un giornale che appartiene a tutti i colleghi. Dini non ha più un seggio a Palazzo Madama dal lontano 2013, ma non è l’unico ex parlamentare che continua a frequentare le amate stanze: è una prerogativa di tutti gli eletti, di ogni epoca. Invece è l’unico – a quanto ne sappiamo – a essere accusato pubblicamente di fregarsi i giornali.

La storia è oggettivamente meravigliosa per una serie di ragioni. La prima è il profilo istituzionale di Dini, decano della politica italiana: già premier (1995-96), ministro del Tesoro (1994-96), ministro degli Esteri (1996-2001), presidente del Consiglio europeo (per sei mesi nel 1996), direttore generale della Banca d’Italia (1979-1994) e molte altre cose ancora, in una carriera eterna in cui ha frequentato praticamente tutti gli schieramenti della Seconda Repubblica.

Il secondo motivo è un po’ più volgare: la suddetta lunga carriera, a cavallo tra diverse munifiche istituzioni, ha garantito al presidente Dini una vecchiaia al riparo dagli stenti economici. Secondo i giornali che si sono occupati cinicamente delle sue finanze, l’onorevole somma ben due pensioni e un vitalizio: 7mila euro dall’Inps, 18mila euro dalla Banca d’Italia e 6mila euro di vitalizio. In totale fanno 31mila euro lordi al mese, una somma rispettabile. Grazie alla quale, tra le altre cose, ha potuto sopportare senza troppi patemi le lunghe ferie forzate in Costa Rica lo scorso anno, quando rimase prigioniero in (incantevole) terra straniera allo scoppio del Coronavirus (come ha raccontato lui stesso a Un giorno da pecora). Tutto sommato avrebbe forse le risorse personali per acquistare i giornali in edicola e invece secondo un accusatore – un collega anonimo – preferisce rubacchiarli al Senato: l’affaire Dini merita d’esser investigato. Interroghiamo gli eletti che transitano nella stanza dei giornali – la Sala del Risorgimento di Palazzo Madama – sotto gli occhi severi del busto di Mazzini, il grande ritratto del 1849 di Vittorio Emanuele II e il solenne soffitto ottocentesco con i cassettoni dorati.

Tra i senatori aleggia una certa ironica omertà. Il 5Stelle Marco Croatti: “Non ne so nulla! Non ho idea di chi abbia scritto quel messaggio – ride – ma indagherò”. Il dem Dario Parrini scappa via con un ghigno: “Non lo so e non mi piacciono i gialli”. Il leghista Stefano Candiani si scompiscia: “Credo Dini sia l’unico in tutto il Senato a leggere il Financial Times. Fa curriculum. E si domandi perché nessuno ruba il Fatto Quotidiano!”. L’ex berlusconiano Paolo Romani è laconico: “Ho visto di peggio”. Paola Binetti racconta un aneddoto: “Il presidente Dini lo vedo spesso, non so se l’accusa sia fondata ma non sarebbe il primo. Mi ricordo che anche Adriano Ossicini (compianto ex senatore cattolico e comunista, scomparso nel 2019) veniva qui, si faceva una mazzetta e se la portava a casa. Ma era un signore e poi i giornali li riportava tutti”. Una grillina di passaggio nasconde il sorriso sotto la mascherina nera: “Questa di Dini ormai è una leggenda, un fatto abbastanza noto”.

Alla fine gli aneddoti più maliziosi – come è comprensibile – arrivano da fonti che pretendono di restare anonime. Un senatore meridionale dei 5Stelle legge la lettera, si fa una grassa risata e racconta: “Quella dei giornali non è l’unica passione del presidente Dini… si porta a casa anche le bustine di zucchero dal bar della buvette”. Il più perfido di tutti è un parlamentare del Pd. Commenta la foto su Whatsapp, non è affatto garantista: “Lo vedo tutte le mattine. Dini arriva, scrocca la colazione, legge i giornali e ne fotte alcuni”.

Gli argomenti dell’accusa sono spietati. L’autore materiale della lettera resta anonimo. Pure i commessi del Senato negano ogni addebito: “Non ne sappiamo niente. Dev’essere una goliardata”. Uno degli uomini in divisa si alza dalla scrivania, un po’ stizzito, e sequestra il foglietto: a 48 ore dal primo avvistamento, il j’accuse a Lamberto Dini scompare dal grande tavolo di legno della sala dei giornali del Senato della Repubblica.

Commercio, Biden gela Johnson

Boris alla conquista dell’America, missione fallita. Dalla visita ufficiale alla corte di Joe Biden, il primo ministro britannico doveva riportare almeno un cenno di impegno da parte degli Usa a chiudere presto i negoziati per un accordo commerciale bilaterale fra i due alleati. È un pilastro fondamentale della retorica Brexit: libero dai vincoli dell’Unione europea, il Regno Unito doveva trasformarsi in Global Britain e concludere accordi vantaggiosi con mezzo mondo. Il predecessore di Biden, Trump, aveva promesso di dare la priorità al trattato: ma la nuova Casa Bianca ha altri interessi, altri problemi, altri interlocutori, tanto che già lunedì Johnson aveva messo le mani avanti con i giornalisti britannici al seguito: “Joe ha altro a cui pensare adesso”, aveva anticipato. “Preferisco avere un buon accordo, che funzioni davvero per il Regno Unito, piuttosto che averlo presto”.

L’ostacolo? Brexit, paradossalmente. Ovvero il protocollo nord-irlandese, cioè l’assetto dell’accordo fra Londra e Bruxelles sull’Irlanda del Nord, che Londra minaccia di violare con misure che rischiano di mettere in forse il processo di pace raggiunto, grazie anche alla mediazione americana, con gli accordi del 1998. L’amministrazione di Joe Biden, lui stesso di origine irlandese e con forti legami elettorali con la diaspora irlandese negli Usa, ha chiarito che l’accordo bilaterale è strettamente collegato al rispetto di quegli accordi, e non si farà se il processo di pace verrà messo a rischio. Il presidente Usa lo ha ribadito a margine del colloquio con Johnson: “Non vorrei davvero vedere nessuna modifica degli accordi irlandesi che porti al ritorno di un confine fra le due Irlande”. Insomma, Downing street ha le mani legate, tanto da prendere in considerazione misure alternative: funzionari britannici hanno fatto ventilare l’ipotesi che Londra tenti di entrare nell’Usmca, l’accordo commerciale fra Usa, Messico e Canada. Ma lo farebbe dalla porta di servizio, e i Paesi membri potrebbero porre condizioni pesanti. Ieri una inchiesta di OpenDemocracy avanzava l’ipotesi che il prezzo da pagare per il trattato con Washington sia anche un altro: il piatto ricchissimo dell’accesso indiscriminato, da parte di colossi Usa del settore assicurativo, farmaceutico e medicale, ai dati dei britannici, soprattutto quelli dell’Nhs, il servizio sanitario nazionale. Secondo indiscrezioni, per i negoziatori americani “il libero flusso dei dati è una assoluta priorità” nelle trattative. Dopo Brexit, non c’è più la regolamentazione europea a proteggere la miniera d’oro della privacy digitale.

Il clima non porta voti: Greta tradita dai Verdi

Berlino

Dietro al Bundestag c’è un piccolo accampamento con un cartello: sciopero della fame per la giustizia climatica. “I politici dicono che ci riceveranno dopo le elezioni. Sono 25 giorni che non mangio e da oggi smetto anche di bere”. Henning Jescthke, 21 anni, studente universitario, è sdraiato sopra un pallet e due cuscini. A iniziare lo sciopero della fame sono stati in sei. Hanno una richiesta semplice e diretta: un incontro pubblico con i tre candidati cancellieri. Il gruppo di ambientalisti vuole impegni affinché il prossimo governo agisca contro l’emergenza climatica. Dai tre partiti un’unica risposta: nein. Con il passare dei giorni due attivisti sono stati portati in ospedale, altri tre hanno interrotto lo sciopero. “Anche se i Verdi entreranno nel governo non cambierà nulla – dice lo studente – abbiamo letto il programma, parlano di economia verde, ma non vogliono farsi carico dal cambiamento. Siamo il quarto Paese più ricco al mondo, dobbiamo prenderci questa responsabilità”. Domani le strade di Berlino saranno teatro della più grande manifestazione di questo periodo elettorale.

Non sono stati i partiti politici a organizzarla. Lo sciopero internazionale per il clima dei Fridays for Future avrà nella Capitale tedesca una presenza massiccia. Ci sarà anche Greta Thunberg, che ha già detto: “Non siamo lobbisti dei Verdi. Il movimento, noi giovani, ci sentiamo ancora politicamente traditi”. I due candidati che si contendono la cancelleria tedesca trattano come kryptonite l’attivismo ambientale. Mentre gli attivisti sfileranno sotto la Porta di Brandeburgo, Armin Laschet sarà nell’estremo ovest del Paese e Olaf Scholz terrà un comizio a Colonia con Anne Hidalgo sindaca di Parigi e futura candidata dei socialisti francesi alla presidenza. Per i Verdi la questione è più spinosa. La scorsa primavera, con la candidatura di Annalena Baerbock, il partito aveva scalato tutti i sondaggi, superando l’Spd e l’Unione Cdu-Csu. Le inchieste indicavano come i tedeschi volessero cambiare passo sulla questione ambientale. Poi è arrivata l’estate e passata la novità i Grüne hanno perso terreno. Le inondazioni che hanno colpito l’ovest della Germania sono il segno dei cambiamenti climatici. 220 morti, intere cittadine distrutte dal fango e dalla pioggia. E nonostante Armin Laschet faccia uno scivolone mediatico dietro l’altro, i Verdi hanno continuato a perdere punti nei sondaggi. L’elettorato tedesco è composto per oltre il 60% da ultracinquantenni. La questione ambientale non è un fattore decisivo come possono esserlo inflazione e salario minimo. Oggi il partito di Baerbock è al terzo posto ed è parte di ogni probabile coalizione di governo. Ma non saranno i Verdi a dettare l’agenda, nemmeno sulla transizione ecologica.

“I negoziati per formare il nuovo esecutivo saranno lunghi, forse i più lunghi della Repubblica Federale” dice Franco Delle Donne, politologo argentino. “Ci sono troppi partiti con percentuali molto simili, per formare un governo dovranno mettersi d’accordo in tre. Nel 2017 Merkel non ci riuscì”. Alla sua ultima rielezione la cancelliera tentò di formare una coalizione Germania: Cdu-Csu (nero), Spd (rosso), Fdp (giallo). Ci vollero cinque mesi, l’esperimento naufragò e venne riproposta la Grosse Koalition. “Merkel resterà al governo per la gestione corrente fino a dopo l’inverno” conclude l’analista. Scholz è avanti nei sondaggi. Markus Söder, il leader bavarese dei conservatori, ha detto che se l’Unione non sarà il primo partito non farà parte del governo. Per Scholz, considerando i Verdi come suoi alleati naturali, si aprono due strade: i liberali o la sinistra. Con FDP (gialli) si formerebbe la coalizione semaforo. L’altra possibilità, la coalizione con Die Linke, è lo spauracchio agitato in questi ultimi giorni dai conservatori: “Il ritorno al socialismo”.

La lobby dell’auto contro l’euro 7

Sul tavolo c’è la decisione sull’Euro 7, il nuovo sistema che regola le emissioni nocive delle auto nell’Ue. Dice l’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) che ogni anno i fumi di scarico per strada causano 400 mila morti premature nel Vecchio continente. Per dare un termine di paragone, è la stessa quantità di persone che ogni anno nascono in Italia.

La Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha dato mandato a un gruppo di esperti provenienti da varie nazioni, riuniti nel comitato Clove, di stabilire i nuovi standard di emissioni. Le proposte sono state pubblicate per la prima volta per una consultazione alla fine dell’anno scorso, ed entro dicembre 2021 la Commissione dovrà decidere quali saranno i nuovi standard.

Riguarderanno 100 milioni di auto a benzina e a gasolio che verranno vendute nell’Unione europea a partire dal 2025, data di entrata in vigore del sistema. La partita rischia di fare molto male ai grandi produttori di automobili e camion esposti soprattutto in Ue.

Il comitato Clove ha proposto tagli drastici rispetto agli standard Euro 6 sulle emissioni nocive per la salute: l’ossido di azoto scenderebbe a un quarto del livello attuale, le emissioni di particolato diminuirebbero di oltre l’80%. Per i carmakers vorrebbe dire investire parecchio per costruire motori nuovi. Quindi meno profitti e meno dividendi a fine anno. Infatti finora i big dell’auto non sono stati con le mani in mano, anzi. Lo documenta uno studio appena pubblicato da Transport & Environment, associazione internazionale che sei anni fa ha contribuito a svelare lo scandalo Dieselgate.

Punta il dito contro la confindustria europea dell’auto, le 15 società che costituiscono l’associazione Acea. Sono le cosiddette italiane Stellantis, Ferrari e Cnh, più tutti gli altri grandi nomi del settore: Bmw, Daimler, Honda, Toyota, Hyundai, Renault, Ford, Daf, Jaguar, Land Rover, Volvo, Volkswagen. Queste società – si legge nel rapporto, basato sui dati del registro pubblico europeo – nel solo 2020 hanno speso per fare lobbying a Bruxelles 9 milioni di euro, e una parte di questa somma è stata investita proprio per annacquare le nuove regole sulle emissioni. Lo studio accusa Acea anche di propagandare falsità. Dopo la pubblicazione delle proposte del comitato Clove, l’associazione dei grandi costruttori di auto ha commentato così il sistema Euro 7: “Si tradurrebbe in pratica in una situazione molto simile a un divieto di veicoli alimentati da un motore a combustione interna, compresi i veicoli elettrici ibridi”. Transport & Environment dice che questa è una bugia con finalità precise. “Le affermazioni dell’industria automobilistica… sono assolutamente infondate e progettate per mettere l’opinione pubblica contro il nuovo regolamento delle emissioni. Questo argomento è diretto in particolare ai governi dell’Ue con grandi industrie automobilistiche come la Germania e la Francia, per ottenere supporto e creare paura per i posti di lavoro e la produzione declino”.

È stata la stessa Commissione europea a spiegare più volte che l’Euro 7 “non ha l’obiettivo di mettere fine al motore a combustione interna”, ma Acea continua a insistere sul punto. Così come su quello dei costi delle auto Euro 7, troppo alti. Anche questa è un’argomentazione che contrasta con quanto dice la Commissione, secondo cui “l’adozione di una tecnologia di emissioni più pulita per soddisfare gli standard Euro 7 aggiungerebbe tra 100 e 500 euro al prezzo di un’auto: meno di una verniciatura su un modello come la Golf o la Fiesta, che può costare oltre 700 euro. Per i camion, invece, la conformità aggiungerebbe meno dell’1% al costo totale di proprietà, calcolato su cinque anni”.

L’Euro 7 non segna quindi la fine del motore a combustione interna, né comporta aumenti di costo rilevanti: questi due, secondo Transport & Environment, sono solo alcuni degli “sporchi trucchi” usati dalle grandi case d’auto per resistere al cambiamento. La questione di fondo è però politica, perché alla fine sarà la Commissione a dover scegliere se imporre limiti alle emissioni più o meno bassi rispetto alle proposte degli esperti. Secondo Carlo Tritto, responsabile di T&E Italia, “adottando in sede europea un ambizioso standard Euro 7, il governo italiano potrebbe dimostrare di voler affrontare seriamente il gravissimo problema della bassa qualità dell’aria, che causa ogni anno nel Paese più di 65.000 morti premature e per cui Roma ha ricevuto ben tre procedure di infrazione”. La decisione della Commissione è attesa a fine anno.

Giuseppe Conte attira folle (e i musicisti si lamentano)

Nota stonata: Giuseppe Conte assembra, incolla, stringe in un unico alito la folla plaudente. La stringe e la costringe nelle piazze d’Italia. Ovunque sembra così. Fedez, il conducator dei palcoscenici, si è abbattuto immediatamente contro il Palazzo contestando i divieti altrui (“fate cagare!”). Nel corso della giornata sono giunte altri dispiaciute considerazioni. Nella consueta mitezza, quella di Ermal Meta: perché lui può e noi no? Il mondo dello spettacolo è infatti rinchiuso nei vincoli della normativa anti-Covid, mentre lui, l’avvocato del popolo, comizia entusiasta da sud a nord. Nessuno se ne sarebbe accorto se lo stesso Conte fosse stato zitto. Invece uno dei mille post

sul suo tour è finito sotto gli occhi dei cantanti… “Ciao Cosenza!” e tutti con le mani alzate, e i corpi a sussultare e le urla. Entusiasmo straniante vista la particolare pandemia che ha colpito la politica, che versa in uno stato letargico e nessuno se la fila più. E però, stando così le cose, anche Ermal Meta su twitter, ha segnalato a stampa, giornalisti di radio, tv e giornali, l’incredibile ressa che stava avvenendo intorno a Conte: “Quindi da domani la capienza degli spettacoli torna alla normalità?”, ha giustamente domandato.

È la prima volta, e ha appunto dello strabiliante, che la canzone invidi alla politica i fan. “Ora anziché annunciare un concerto, devi annunciare un comizio, così te lo lasciano fare”, ha scritto Francesca Michielin, collega di Meta e, in questo caso, concorrente di Conte. “Siamo contenti per lui”, lo ha punzecchiato Enrico Ruggeri.

Detto che il trattamento è tecnicamente discriminatorio ed è fuori discussione e che il punzecchiato, cioè Conte, ha subito proposto di portare al 100% la capienza degli spettacoli dal vivo, in questa polemica ci sembra invece da annotare quel che ai più parrebbe un dettaglio. La camomilla contiana, il suo eloquio tardo forlaniano produce effetti capovolti e inconsueti: invece di allontanare avvicina, invece di addormentare sveglia, invece di buttare giù tira su. Se ne sono accorti i cantanti. Ed è questa la novità.

Elezioni a Milano, pistola & figli d’arte (e record d’indecisi)

La campagna elettorale più noiosa di sempre. A Milano Giuseppe Sala, ricandidatosi, tardi e di malavoglia, per mancanza di alternative personali, è costretto a vincere per assenza di concorrenti. Il povero Luca Bernardo fa quello che può (cioè pochissimo, però fatto male), ma i milanesi non se ne accorgono. Sala resta il candidato unico. In una città contendibilissima (al primo mandato Beppe aveva vinto per una manciata di voti), questa volta il centrodestra ha preferito non giocare la partita e mandare in campo una squadra grigia, litigiosa, inconsistente. Sulla carta, Bernardo è il candidato sindaco più ricco d’Italia: 825 mila euro per la campagna elettorale. In realtà i partiti che lo sostengono (si fa per dire) danno per persa la partita e i soldi non glieli vogliono dare, con conseguente nervosismo del pediatra-candidato che manda messaggi vocali in cui minaccia: “O mi date i soldi o me ne vado”. Non hanno neppure messo il suo nome sui simboli elettorali (a parte la declinante Forza Italia): i milanesi troveranno “Salvini” scritto sul simbolo della Lega e “Meloni” su quello di Fratelli d’Italia, che gioca per strappare i voti di destra al Carroccio. Abbandonato Bernardo al suo destino, la destra ha ridotto le comunali di Milano a un derby tra Salvini e Meloni (con Giorgia che è data all’11 per cento, a soli tre punti sotto il 14 di Matteo).

Quel gran pezzo del Bernardo è restato senza voce dopo la fuga del suo portavoce, ma un genio dadaista che gli scrive i testi evidentemente c’è ancora: “Chi vota Sala è un vero pistola”, ha vergato in una lettera a La Verità. È parlare di pistola in casa del pistolero, visto il porto d’armi del pediatra che ha ammesso di aver portato il revolver anche in ospedale, chissà perché e chissà da chi minacciato in passato.

Programmi? Boh. Si fatica a vederli, a destra e a sinistra. “Discontinuità!”, proclama Sala, per dire che cambierà gli assessori che gli sono venuti a noia, sostituendo i suoi amici (Roberto Tasca, Roberta Cocco, Roberta Guaineri) con amici nuovi. Sala il Re Sole di Varedo lancia il suo slogan: “Milano sempre più Milano!”. Quindi indica come nuovo assessore al Bilancio uno di Salerno. Niente contro Salerno (in quella città sono di casa), ma è curioso che a tenere i cordoni della borsa della più ricca città d’Italia sarà scelto un fan di Craxi, Emmanuel Conte, il cui intervento più memorabile in consiglio comunale è stato quello per chiedere di dedicare a Bettino una via (di Milano, non di Salerno).

Sì, Emmanuel, cresciuto a pane e politica, figlio di quel Carmelo Conte che ai bei tempi di Tangentopoli era uno dei “quattro viceré di Napoli”, insieme a Paolo Cirino Pomicino, Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo, con cui si spartiva il potere in Campania e a Roma. Già nel 2016 Carmelo è salito di persona a Milano per dare una mano al figlio in campagna elettorale (ne ha fatte tante, è un superesperto) e anche questa volta pare sia prodigo di consigli e sostegni.

Dentro questa piccola commedia elettorale di pistola e figli d’arte, è nascosta una vera tragedia: a due settimane dal voto, con ben 13 candidati sindaco, il 47 per cento dei milanesi è indeciso e forse non andrà a votare. Già nel 2016 gli elettori al ballottaggio furono soltanto il 51,8 per cento dei milanesi. Se questa volta si scendesse sotto il 50, sarebbe un colpo per la democrazia, una sconfitta per tutti. Ma che importa, tanto comunque a Milano gli affari vanno avanti, i valori immobiliari salgono, gli affitti crescono, l’aria s’avvelena, il consumo di suolo aumenta, gli scali ferroviari saranno cementificati, il Meazza sarà abbattuto, arriveranno perfino le Olimpiadi della neve nella città dove non nevica e forse sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno. E la narrazione canterà, soave: “Milano, place to be”.