Ha fatto bene Valerio Onida a richiamare alcuni capisaldi del nostro sistema costituzionale per lo più ignorati dalla discussione prematuramente avviata intorno al prossimo passaggio al Quirinale. Una discussione già viziata in radice da un eccesso di personalizzazione, come se tutto potesse essere ridotto al destino di due pur autorevoli protagonisti: Mattarella e Draghi. Per tacere del malcelato (e assai incerto) calcolo delle convenienze dei partiti con specifico riguardo alla data delle elezioni politiche.
Nell’ordine. Primo: le elezioni politiche sono previste per il 2023. Inopportuno strologare su altre date. Secondo: la Costituzione non contempla il divieto di un secondo mandato del presidente della Repubblica, ma di sicuro non lo incoraggia, come si evince dal cosiddetto semestre bianco e dai sette, lunghi anni del suo mandato. Sette anni, appunto, e non un mandato a termine, tantomeno negoziato o comunque preordinato. Come si conviene alla più alta istituzione di garanzia cui giova la stabilità, che i Costituenti hanno voluto anche a scavalco delle consultazioni politiche. Terzo: sì, vi è stato un precedente, quello del bis di Napolitano, ma esso semmai avvalora la tesi di chi lo sconsiglia. Sia per la congiuntura eccezionalmente critica che l’ha prodotto. Sia per il controverso bilancio di un secondo mandato contraddistinto da un suo esercizio spintosi al limite estremo delle prerogative del Quirinale. Quasi da dominus della vita politica. Quarto: nulla da eccepire su una eventuale, immediata ascesa di Draghi al Quirinale. L’uomo ne ha i titoli, sarà pure fungibile, l’importante è preservare la ferma consapevolezza della profonda differenza di natura e funzioni delle due alte cariche – capo dello Stato e premier – designate nella Carta.
Vi è invece chi propugna la continuità di una premiership di Draghi a valle delle prossime elezioni politiche. Un po’ troppo per un esecutivo figlio di uno stato di necessità. Anche chi apprezza l’esecutivo in carica dovrebbe considerare la sua configurazione eccezionale, quella di un governo – Mattarella dixit – privo di una sua “formula politica”. Non è inutile rammentarlo: la regola costituzionale contempla che, in una democrazia parlamentare, i governi siano espressione di maggioranze che si formano in parlamento – e il prossimo ancora non lo conosciamo – e che, comunque, di regola, esse (maggioranze) a loro volta attingano la loro legittimazione dal voto degli elettori. I quali devono pur contare qualcosa. Proprio il presidente della Repubblica, chiunque egli sarà, all’atto del conferimento dell’incarico al primo ministro, avrà il dovere di considerare la volontà espressa nel voto dai cittadini. In breve: chi fa troppi calcoli prenotando i posti fa i conti senza l’oste (gli elettori).
D’accordo, siamo dentro una congiuntura speciale, ma sarebbe bene che chi ha una sensibilità democratico-costituzionale, anziché sollevare polveroni su una inesistente dittatura sanitaria, vigilasse piuttosto su eventuali torsioni nel rapporto tra corpo elettorale e organi costituzionali: parlamento, governo, presidenza della Repubblica. I cultori del “gollismo de noantri” possono attendere. Un mutamento della forma di governo in senso semipresidenziale non può essere praticato a Costituzione vigente.