Evergrande inizia a pagare i debiti: restano i timori sul possibile impatto in Usa e Ue

La crisi di liquidità di Evergrande, secondo operatore immobiliare cinese in ginocchio per 267 miliardi di euro di debiti (circa il 2% del Pil 2020 della Cina), potrebbe scatenare una recessione nella Repubblica Popolare e, anche senza contagio finanziario, impattare sull’economia mondiale. Per questo il governo di Pechino si muove rapidamente: a dispetto di annunci precedenti, la società di Guangzhou ieri ha affermato che oggi onorerà un pagamento in scadenza. Ma le preoccupazioni restano. Le ha espresse Kenneth Rogoff, professore di Economia ad Harvard, sul blog del Centro di ricerca di politica economica Cepr. Secondo Rogoff, l’economia cinese si è ripresa bene dalla pandemia, crescendo dell’8% nel 2020 e del 12% nel semestre scorso. Tuttavia, la variante Delta, molto più virulenta, e la crisi del settore immobiliare – che tra produzione e servizi “vale” il 29% del Pil di Pechino – potrebbero impattare pesantemente sulla crescita cinese anche senza contagi finanziari e pure se i problemi bancari fossero contenuti. In un recente studio, Rogoff e Yuanchen Yang hanno spiegato che le autorità cinesi esercitano un’enorme influenza sul mercato immobiliare e in passato hanno usato strumenti per rafforzare e stimolare il mercato. Ma il problema non è mantenerne solo la stabilità, ma anche le dimensioni produttive e occupazionali. Oggi la Cina è più dipendente dalle costruzioni di quanto non fossero l’Irlanda e la Spagna prima della crisi globale del 2008 e molto più degli Usa al culmine della bolla immobiliare nel 2005. Intanto la superficie media pro-capite delle case in Cina rivaleggia con Germania e Francia, mentre i rapporti medi tra prezzi residenziali e reddito annuo superano un multiplo di 40 a Pechino, Shanghai e Shenzhen rispetto ai 22 di Londra e ai 12 di New York. Rogoff ne conclude che l’attuale dimensione del settore immobiliare cinese rispetto al Pil non potrà essere facilmente conservata. L’economista non è il primo a sottolineare i rischi. Già ad agosto 2019 uno studio di Moody’s esaminava le possibili ripercussioni globali di una crisi del debito della Cina, che potrebbe causare una recessione nazionale. Questa, fuori del canale finanziario, contagerebbe la domanda di materie prime da Paesi sudamericani come Messico, Argentina, Brasile, Colombia, Cile, Perù e Venezuela, colpendo gli Stati del Sud-Est asiatico legati alla Cina nei beni intermedi e impattando su tutte le economie sviluppate, in primis Usa e Germania.

Torino: “Damilano ancora presidente della Film Commission, è ineleggibile”

Una grana che rischia di ostacolare la corsa del candidato sindaco di Torino del centrodestra, Paolo Damilano. L’imprenditore delle acque minerali, secondo tutti i sondaggi, è in vantaggio contro il dem Stefano Lo Russo ma, come ha rivelato nelle ultime ore il capogruppo di Liberi e Uguali, Marco Grimaldi, con un’interrogazione in consiglio regionale, Damilano sarebbe ineleggibile alla carica di sindaco di Torino. In caso di elezione e di ricorso, dunque, rischierebbe di decadere. Perché? Secondo quanto documentato dal consigliere di opposizione alla giunta leghista in Piemonte, infatti, il candidato del centrodestra a Torino non si sarebbe ancora dimesso da presidente della Film Commission, la Fondazione che ha tra i soci proprio la Regione Piemonte e il Comune di Torino. Damilano, fino all’accettazione della candidatura, voluta dalla Lega, era membro del Cda della Film Commission dal maggio 2013 e presidente dallo stesso giorno per due mandati. Secondo l’articolo 60 del decreto legislativo 267 del 2000 non è eleggibile alla carica di sindaco colui che ricopre una carica all’interno di un “istituto, consorzio o azienda” dipendente dall’ente per cui ci si candida. Sempre la stessa norma prevede che non esistano cause di ineleggibilità nel caso in cui l’interessato cessi “dalle funzioni per dimissioni, trasferimento, revoca dell’incarico o del comando, collocamento in aspettativa retribuita per legge”. Ergo: Damilano si sarebbe dovuto dimettere entro il 4 settembre, giorno della presentazione delle liste. Peccato che, a quanto ha dichiarato ieri il candidato e l’azienda nella risposta all’interrogazione in commissione, formalmente le dimissioni non sarebbero mai state comunicate alla Regione. La Film Commission ha spiegato che il mandato di Damilano sarebbe scaduto il 16 agosto, 45 giorni dopo l’approvazione dell’ultimo bilancio del 30 giugno. Ma secondo Grimaldi, che cita diverse sentenze della Cassazione e il precedente dell’ex consigliere di FdI Maurizio Morrone, non basta: Damilano avrebbe dovuto dimettersi prima della presentazione delle liste. Ieri il candidato del centrodestra si è detto “tranquillo” e ha spiegato di aver “seguito l’iter legale per uscire dalla Fondazione della Film Commission”. Poi, ha concluso, “se dovesse esserci qualcosa lo affronteremo”. I Radicali hanno già annunciato che faranno ricorso in caso di elezione. E in quel caso il rischio decadenza è più che concreto.

Agenas, due anni al capo Coscioni “Tentata violenza”

Vincenzo De Luca e l’Agenas hanno un problema. Il consigliere per la sanità del governatore Pd della Campania, nonché presidente dell’agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali, è stato condannato a 2 anni in appello per tentata violenza privata. Si tratta di Enrico Coscioni, cardiochirurgo di Salerno e braccio destro per la sanità di De Luca da almeno sei anni. E proprio al 2015 risalgono le vicende per le quali è stato condannato: le pressioni che Coscioni, appena nominato nello staff di De Luca uscito vincitore dalle regionali, avrebbe esercitato nei confronti di tre manager delle Asl per indurli a dimettersi, prospettando in caso contrario contenziosi e ritorsioni. Uno dei tre, Salvatore Panaro, ha denunciato e si è costituito parte civile, difeso dall’avvocato Carlo De Stavola. Panaro era il commissario dell’Asl Napoli 3, e Coscioni gli disse “che stai a fare con Postiglione tanto tra tre giorni ti mandiamo via… (…) i sindaci non ti vogliono (…) tu devi andare via”. In primo grado Coscioni era stato assolto per tentata concussione.

Verbali Amara, il Csm licenzia la Contrafatto

È stata licenziata dal Csm Marcella Contrafatto, l’ex segretaria di Piercamillo Davigo a Palazzo dei Marescialli, accusata dalla Procura di Roma di aver inviato in forma anonima al consigliere Nino Di Matteo, che ha denunciato, un plico coi verbali segreti di Piero Amara, l’ex legale esterno dell’Eni che a Milano ha parlato della presunta loggia massonica Ungheria. La decisione del plenum è stata presa in seduta segreta ieri sera. Quei verbali finiti a Di Matteo, al Fatto e a Repubblica, in forma anonima, sono gli stessi che il pm milanese Paolo Storari aveva consegnato a Davigo quando era consigliere, perché voleva “autotutelarsi” dai presunti rallentamenti dell’indagine a opera del suo ufficio. È questa la versione di Storari ai pm di Brescia che lo accusano, insieme a Davigo, di rivelazione di segreto. Su denuncia di Storari sono indagati, invece, per omissione di atti d’ufficio il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, che hanno respinto l’accusa con memorie che contengono anche mail e messaggi Whatsapp di Storari.

Trattativa, la lettera di Mangano alla moglie: “Parlò di Berlusconi”

Oggi è il giorno del giudizio: nel primo pomeriggio, i giudici della Corte di assise di appello di Palermo emetteranno la sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafia. Nel frattempo emergono nuove circostanze: come i telegrammi inviati dal boss Vittorio Mangano nel 1996 mentre era detenuto. E in uno di questi “è presente un riferimento” a Silvio Berlusconi. È quanto risulta dagli ultimi atti depositato dall’accusa a processo. Per capirne la portata però bisogna rimettere in fila i pezzi, partendo proprio da ciò che emerso durante il dibattimento. Ma procediamo con ordine.

Con l’accusa di minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, sono finiti imputati: il co-fondatore di Forza Italia ed ex senatore, Marcello Dell’Utri e gli ufficiali dell’Arma Mario Mori e Antonio Subranni (condannati tutti a 12 anni in primo grado), l’ex colonnello Giuseppe De Donno (8 anni) e i boss Nino Cinà (12 anni) e Leoluca Bagarella (28 anni). Avrebbero turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati.

Dell’Utri il ruolo di “mediatore”

La Procura generale di Palermo contesta a Dell’Utri un ruolo di ‘mediatore’ tra Stato e mafia, nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia del 1994. Nella sentenza di primo grado, infatti, è spiegato che Dell’Utri avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte, nel 1994, per parlare delle modifiche legislative alle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al neonato governo Berlusconi. Dell’Utri – secondo le accuse – percepì i messaggi di Mangano come minacce e le riferì al presidente del Consiglio, che venne “a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”.

Mangano però, oltre a essere il boss di Porta Nuova, era stato anche lo “stalliere” della villa San Martino di Arcore, residenza della famiglia Berlusconi, tra il 1973 e il 1975, per poi finire in arresto nell’aprile 1995 dopo alcuni anni di latitanza, con l’accusa di omicidio.

Nella requisitoria del sostituto procuratore generale Giuseppe Fici vengono citate le dichiarazioni rese in aula il 19 settembre 2019 dal collaboratore di giustizia Francesco Squillaci, uomo d’onore della famiglia Ercolano-Santapaola. “Cosa Nostra diede il messaggio di votare Forza Italia, perché Berlusconi, letteralmente, poteva aggiustare la giustizia in Italia – dice Fici –, Squillaci indica nel decreto Biondi (Alfredo, ndr) del ’94, il cosiddetto salva-ladri, il primo segnale in questa direzione. Riferisce inoltre che nel 1995 il padre (Giuseppe, ndr), come ebbe a dirgli, fu detenuto insieme a Vittorio Mangano e che costui in quel periodo scriveva spesso telegrammi a Berlusconi, circostanza questa riscontrata in atti, Mangano disse a suo padre che Berlusconi era la persona giusta che poteva aiutare la mafia”.

La difesa dell’ex senatore Tesi senza riscontri

Per Francesco Centonze, avvocato dell’ex senatore, la tesi non avrebbe riscontri: “Alcuni collaboratori dicono che c’è stata un’indicazione della mafia a votare Forza Italia, ma nessun riferimento a Dell’Utri. Non c’è nulla sul presunto incontro tra Vittorio Mangano e il senatore”. Poi in aula, durante le controrepliche, il pg Fici afferma: “C’è una relazione di servizio della direzione del carcere di Porto Azzurro, dove si fa riferimento alla documentazione che è stata tenuta, ma non anche i telegrammi bloccati all’indirizzo di Berlusconi. Non vi è traccia di questi telegrammi, vi è traccia di documentazione a un onorevole di Forza Italia e alla moglie in cui in uno di questi si fa riferimento a Berlusconi, ma nient’altro”.

I telegrammi di cui parla il pg sono quelli inviati da Mangano nel 1996 durante la detenzione nel carcere di Pisa. Uno risale al 26 febbraio 1996. In questo caso – come scritto nella nota della casa circondariale di Porto Azzurro – Mangano ha “richiesto di inviare una lettera ESPRESSO alla propria moglie”, Marianna Imbrociano. Questo telegramma è l’“unico manoscritto ove è presente un riferimento all’onorevole Silvio Berlusconi”. Il contenuto di quella lettera è sconosciuto: non sappiamo che riferimenti abbia fatto Mangano su Berlusconi e perché li abbia indirizzati alla consorte. Questo telegramma, come altri due, non è agli atti. C’è solo la richiesta formulata dalla procura generale al ministero di Giustizia e al Dap, e la conseguente risposta degli uffici del comando della polizia penitenziaria di Porto Azzurro.

Prima del telegramma del 26 febbraio, Mangano ne ha inviati altri due. Risalgono al 22 febbraio 1996: “Il primo indirizzato – si legge negli atti depositati dall’accusa – all’onorevole Pietro Di Muccio (all’epoca facente parte di Forza Italia), e il secondo indirizzato alla moglie, dei quali si sconosce l’eventuale inoltro”. Questi altri due telegrammi dunque non sono indirizzati a Berlusconi, come diceva Squillaci, e inoltre – come invece scritto nel documento della casa circondariale – non presentano “nessun riferimento” all’ex premier.

L’onorevole forzista
La visita in carcere nel 1995

Pietro Di Muccio (completamente estraneo al processo) è stato vicepresidente vicario del gruppo Forza Italia e anche componente della Commissione Affari costituzionali. Perché Mangano abbia scritto proprio a Di Muccio non lo sappiamo, e non sappiamo nemmeno il contenuto del messaggio, visto che non è presente agli atti. È certo però che l’1 novembre 1995, quattro mesi prima del telegramma, il deputato forzista insieme al collega di partito Giorgio Stracquadanio, si recò nel carcere di Pianosa, dove era detenuto Mangano. A Radio Radicale (18 febbraio 1996), Stracquadanio spiega come andarono le cose: “Siamo andati nell’isola, abbiamo visitato tutta la struttura penitenziaria, abbiamo parlato con tutti i detenuti di tutte le sezioni, e abbiamo ricevuto notizie sul loro stato di salute e sulla loro condizione di detenzione. Nessun’altra domanda è stata fatta”. L’episodio è citato anche nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere legata alla richiesta del Tribunale di Palermo che nel marzo 1999 aveva chiesto l’arresto di Dell’Utri. “Sulla vicenda del trasferimento di Mangano Vittorio dal carcere di Pianosa – si legge nella relazione – il gip riferisce che l’11 novembre 1995 il deputato Pietro Di Muccio di Forza Italia, in visita a Pianosa, colloquiò con il Mangano e che il direttore di Pianosa, dottor Pier Paolo D’Andria, ha prima negato (‘non ha avuto colloqui’) e poi con altri fax precisato che il medesimo ‘ha avuto contatto’ con il detenuto”.

Rischio miocardite tra i più giovani: “Un caso su mille”

“L’incidenza di miocarditi post-vaccino è di 1 caso ogni 1.000 dosi nei giovani maschi”. È quanto emerge da uno studio coordinato da Andrew Crean, professore di Medicina all’Ottawa Heart Institute. Il trial ha coinvolto 32.379 persone vaccinate con dosi a mRNA. È uno degli studi più importanti realizzati finora che mette in relazione vaccini, sintomi e risonanze magnetiche cardiache. Dal 1º giugno al 31 luglio 2021 sono state analizzate 15.997 somministrazioni di Moderna e 16.382 di vaccino Pfizer e sono state identificate 32 reazioni avverse gravi: 18 pazienti con diagnosi di miocardite, 12 di miopericardite e 2 di pericardite. I tassi di segnalazione più elevati sono stati tra i maschi tra i 18 e i 24 anni. Il rapporto tra i sessi era di 2 femmine su 29 maschi. Nella maggior parte dei pazienti, l’insorgenza dei sintomi è iniziata nei primi giorni dopo la vaccinazione con corrispondenti anomalie nei biomarcatori e prima verifica all’elettrocardiogramma. La risonanza magnetica cardiaca ha confermato alterazioni miocardiche e pericardiche acute con la presenza di edema dimostrata con mappatura dei tessuti: “I nostri casi – si legge tra le conclusioni della pubblicazione di Andrew Crean – dimostrano una stretta associazione temporale tra il vaccino mRNA e il successivo sviluppo dei sintomi in un lasso di tempo relativamente breve. La risonanza è stata in grado di identificare il coinvolgimento a livello tissutale inoltre, in un terzo dei casi, la funzione ventricolare sinistra era lievemente depressa, ma non ci sono state riammissioni o decessi. Sarà necessario un ulteriore follow-up per accertare gli esiti a lungo termine”.

Uno studio simile, coordinato da Ari Robicsek con il Dipartimento di Malattie Infettive del Providence Regional Medical Center Everett di Washington, ha descritto la necessità del trattamento dell’insufficienza cardiaca nel 40% dei pazienti con miocardite (nonostante l’assenza di precedenti episodi di insufficienza cardiaca) e della terapia intensiva nel 10%.

La miocardite può essere trattata per tempo e scomparire in alcuni giorni, tuttavia, può anche danneggiare in modo permanente il cuore, causando insufficienza cardiaca. Nei casi più gravi, l’insufficienza cardiaca può richiedere un dispositivo di assistenza ventricolare. Aver avuto questa patologia è un rischio importante per il successivo sviluppo di insufficienza cardiaca, infarto, tromboembolie, aritmie e morte cardiaca improvvisa, questo quanto riportato dalla overview della Mayo Clinic.

L’incidenza di malattie cardiache infiammatorie dopo il vaccino mRNA rimane un punto fondamentale nella valutazione rischi/benefici per classi d’età, lo studio canadese aggiunge dettagli che finora non erano stati così ben indagati. Uno studio israeliano, nell’aprile 2021, aveva già evidenziato una relazione sequenziale tra il vaccino mRNA e miocardite, la maggior parte dei casi in giovani uomini, sani, con un’incidenza fino a 25 volte superiore rispetto il normale tasso nella popolazione (pre pandemia). In questo rapporto l’incidenza di miocardite andava da 1 caso su 3.000 a 1 su 6.000 in seguito alla vaccinazione nei giovani.

Abbiamo chiesto un parere a Martin Kulldorff, epidemiologo alla Harvard Medical School: “Sappiamo che i vaccini possono causare miocarditi nei più giovani. Sappiamo anche che i giovani possono e si infettano e sappiamo che il rischio di malattia grave è basso e il rischio di morte irrilevante ma, ad oggi, non è stato dimostrato che i benefici delle vaccinazioni superino i rischi per i bambini/adolescenti”.

Alla variabile delle reazioni avverse si è aggiunta una dichiarazione di Detlev Krüger, fino al 2016 Direttore dell’Istituto di virologia Charité a Berlino, rilasciata alla Zdf: “Non è corretto dire che il vaccino non ha effetti a lungo termine, non lo sappiamo”. Aggiungendo un tassello importante al dibattito sulle vaccinazioni nei giovanissimi.

Colpo grosso Big Pharma: intascati 31 mld in più

È il settembre del 2020 quando Sandra Gallina, capo negoziatore per i vaccini contro il Covid della Commissione Ue, promette ai membri dell’Europarlamento che le dosi sarebbero costate tra i 5 e i 15 euro. Oltre, disse, non sarebbe stato “conveniente”. Non sapeva che quel limite sarebbe crollato sotto le pressioni dei produttori dei vaccini. Un anno dopo, infatti, due dei quattro fornitori dell’Ue hanno gonfiato i prezzi: alcuni documenti arrivati al Financial Times rivelano che il vaccino Pfizer costerà 19,5 euro € al posto dei 15,5€ precedenti. Una dose di Moderna 25,5 dollari, più dei 22,50 del primo accordo (anche se meno dei 28,50 del secondo).

Secondo la People’s Vaccine Alliance, associazione di cui fanno parte più di 70 organizzazioni umanitarie, l’Europa potrebbe aver pagato 31 miliardi di euro in più. La valutazione si basa su uno studio dell’Imperial College di Londra, che dimostra che i vaccini a mRNA potrebbero essere prodotti in massa tra gli 1,18 e i 2,85 dollari. Un profitto per dose del + 794% per Moderna e +1.838% per Pfizer. A maggio e giugno sono stati stretti accordi per 2,1 miliardi di dosi fino al 2023.

Investigate Europe ha parlato con uno dei sette negoziatori europei per i vaccini, lo svedese Richard Bergström, che difende il risultato: “I vaccini di Moderna e Pfizer dovrebbero costare più di 100 dollari a dose, questa era l’opinione dei mercati e degli analisti”, dice. E giudica quello appena concluso “un ottimo affare”. Ma Bergström non è proprio neutro nella trattativa visto che è stato consigliere dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e soprattutto direttore generale della Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche. Viene, insomma, dalla cosiddetta lobby di big pharma. Gli altri delegati nominati dai Paesi membri per negoziare (esclusi Bergström per la Svezia e César Hernandez per la Spagna) non si conoscono.

“Non posso controllare i negoziatori – si lamenta Mohammed Chahim, deputato olandese del Parlamento Ue e membro del comitato per la sanità –. Il Parlamento dovrebbe essere coinvolto nelle discussioni. La mancanza di trasparenza alimenta lo scontento per i vaccini”. Inoltre, gli accordi sono rimasti segreti per molto tempo, nonostante i 3 miliardi di accordi anticipati di acquisto (Advanced Purchase Agreement, APA) per garantire gli ordini ed eliminare i rischi di produzione per le aziende farmaceutiche. “I contratti sono stati resi pubblici solo dopo mesi di pressioni da parte della società civile, di membri dell’Europarlamento e del mediatore europeo”, spiega Olivier Hoedeman del Corporate Europe Observatory. Per accedere ai documenti, questa Ong ha inviato due richieste per la libertà di informazione alla Commissione nel settembre del 2020. Oltre ai contratti sono stati identificati 365 documenti interni, ma ne sono stati resi pubblici solamente 80. “Sfortunatamente sono stati censurati così tanto che la loro divulgazione ha fornito zero trasparenza significativa” dice Hoedeman e spiega che l’Ue non è riuscita a usare i suoi poteri negoziali per impedire a Pfizer, Biontech e Moderna di ottenere un monopolio sui vaccini a mRNA.

Rispetto ad AstraZeneca e Johnson & Johnson, Moderna, Pfizer e il suo partner tedesco Biontech stanno usando la nuova tecnologia a mRNA, che si stima sia meno costosa da produrre. Eppure i prezzi sono più alti.

Insieme, i loro profitti sui vaccini superano i 60 miliardi di dollari nel 2021 e 2022. La sola Biontech potrebbe dare un impulso all’economia tedesca pari allo 0,5% quest’anno. “Sono state avide – dice Anna Marriott, guida politica della People’s Vaccine Alliance –. I contribuenti hanno pagato tre volte: prima con i miliardi alla ricerca, poi con i prezzi gonfiati che prosciugano i fondi pubblici e pure con la frequente elusione delle tasse”.

Secondo alcune fonti, se da una parte Pfizer/Biontech e Moderna hanno preteso somme ingenti dall’Ue, dall’altra hanno nascosto le informazioni su costi e profitti. Investigate Europe ha parlato con due negoziatori chiave che hanno preso parte alla prima fase di approvvigionamento. A condizione di rimanere anonimi, hanno rivelato che avevano le mani legate a causa dei contratti lucrativi che erano già stati firmati dagli Stati Uniti. “Trump ha creato un mercato basato su segretezza e prezzi alti”, ha detto un negoziatore aggiungendo che, durante i lockdown, il fattore fondamentale era la velocità, non la tariffa. “Big Pharma è molto brava a mettere pressione” ha detto l’altro, sostenendo che alcune aziende all’inizio volevano quattro volte il prezzo accordato. “Se non firmi tu i loro contratti, lo faranno altri”. Entrambi argomentano che una maggiore trasparenza avrebbe messo gli europei in difficoltà contro i concorrenti internazionali. “L’intero sistema si basa sul fatto che la competizione sul prezzo sia migliore quando le trattative sono segrete – conferma Richard Bergström –. Concordano sia le aziende, sia la parte pubblica perché così tutti otterranno accordi migliori”. Inoltre, aggiunge, il costo sarebbe stato molto più alto se gli stati membri non avessero unito le forze.

I negoziatori vogliono comunque essere giudicati per i risultati della campagna di immunizzazione. E nonostante l’inizio lento, secondo la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen più del 70% degli adulti è stato inoculato: “L’abbiamo fatto nel modo giusto perché l’abbiamo fatto nel modo europeo”, ha detto. Tuttavia, ha anche ammesso che meno dell’1% delle dosi globali sono state somministrate in Paesi a basso reddito, un “tradimento” del mandato europeo di “promuovere i vaccini come bene pubblico globale”, accusa Ellen’t Hoen, direttrice del gruppo di ricerca Medicines, Law and Policy. Nonostante l’impegno nel programma Covax, il blocco europeo rimane uno degli oppositori della sospensione dei brevetti proposta da Sud Africa e India. La Commissione Ue non ha commentato i prezzi dei contratti mentre un portavoce di Pfizer ha detto che dipendono dai redditi dei Paesi, con sconti significativi durante la pandemia. Biontech e Moderna non hanno rilasciato dichiarazioni.

 

Cinghiali, caccia e rifiuti. Da dove nasce l’invasione

Due milioni e 300 mila cinghiali appartenenti a una specie importata 20 anni fa a scopo venatorio dal sud-est Europa, oggi minacciano città, coltivazioni e una fetta di ecosistema italiano. Le famigliole di suini selvatici che passeggiano per il quadrante nord di Roma (ma non solo) sono definite scientificamente Sus Scrofa Linnaeus. Solo tre giorni fa, a Torino, si è verificato l’ennesimo incidente stradale (se ne contano uno ogni due giorni in tutto il Paese). Una specie “infestante” che, spiegano gli esperti, si riproduce a una velocità nettamente superiore alla “nostra” Sus Scrofa Italicus.

Nella Capitale, in particolare, questi “nuovi” cinghiali si sono impossessati della Riserva Naturale dell’Insugherata, polmone verde fra le consolari Cassia e Trionfale, di competenza dell’Ente RomaNatura, organico alla Regione Lazio. Non esiste un censimento locale, di certo sono tanti ed escono dal loro recinto verde a caccia di cibo. L’argomento è diventato da tempo motivo di polemica nei confronti della sindaca Virginia Raggi, ispirando perfino una canzone di Max Pezzali. In base alla legge 157 del 1992, in realtà il controllo della fauna selvatica e del prelievo venatorio spetta alle regioni. “RomaNatura – spiega Valentina Coppola, presidente dell’associazione Earth Roma – dovrebbe assicurare la corretta recinzione dei corridoi verdi, ma sono talmente ampi che servirebbe un investimento milionario”. E infatti a fine luglio, nella delibera sul collegato al bilancio, la Regione Lazio ha introdotto la possibilità per gli agricoltori muniti di porto d’armi di abbattere i cinghiali che invadono le loro proprietà.

E in città? Per il controllo della popolazione suina la Regione si affida (anche) alla Polizia provinciale della Città metropolitana (ente guidato da Raggi) che però dopo la riforma Delrio conta solo qualche decina di unità su tutto il territorio. Il 27 settembre 2019, il Comune di Roma ha sottoscritto un protocollo d’intesa che permette alla Polizia locale di Roma Capitale di ricevere le segnalazioni e avvertire le Asl locali (sempre di competenza regionale) per procedere alla rimozione e all’abbattimento dei cinghiali. Ma la collaborazione fra enti non ha portato frutti. Così il 2 settembre scorso Raggi si è fatta ricevere dal procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, e gli ha consegnato un esposto contro la Regione.

Ma perché le famigliole di cinghiali si mischiano al traffico, rischiando anche la vita? “In cerca di cibo – dice ancora Coppola – che trovano in abbondanza. Innanzitutto, a causa della crisi rifiuti e dei cassonetti stracolmi”, ma anche “per colpa dell’irresponsabilità di cittadini che danno loro da mangiare. Un comportamento illecito “che dovrebbe essere sanzionato dalla Polizia locale”.

L’indagato Renzi scimmiotta B.

Cravatta verde Lega, accanto a lui Francesco Bonifazi, appoggiato (e non seduto) sullo scranno in posa plastica, Matteo Renzi – intervenendo in Senato per annunciare il sì di Italia Viva alla riforma Cartabia – pronuncia quello che aveva annunciato nella Enews come “un intervento difficile, uno dei più difficili” della mia carriera. L’aula del Senato lo ascolta tra il distratto e il perplesso, in quello che sembra una sorta di déjà-vu di altri attacchi contro la magistratura, in momenti decisamente più importanti della sua carriera politica. Eppure, a sentirlo parlare, lui che di indagini a suo carico ne ha già tre, tra le righe si intravedono più obiettivi. Il primo, come sospettano alcuni senatori, è di difesa preventiva: se stesse per arrivargli un altro avviso di garanzia, l’ex premier ha già pronta la motivazione politica. Il secondo è di posizionamento: la riforma Cartabia è “un ottimo primo passo” che “ci toglie dalla riforma Bonafede”. Ma lui si colloca idealmente a destra: “C’è stata una parte di quest’Assemblea e di quella della Camera, in particolar modo a sinistra, che ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie che riguardavano un’altra parte della politica, quella che stava nell’emiciclo di destra. C’è una responsabilità politica della sinistra nell’aver cercato di strumentalizzare questo e della destra nell’aver risposto con leggi ad personam”.

Il posizionamento include tirare dalla sua Di Maio che “ha detto parole chiare sull’uso barbaro e incivile, da parte dei 5Stelle nel 2016, della questione giudiziaria”, in contrapposizione a Bonafede. Mentre parla di “trent’anni di lunga guerra tra magistratura e politica”, Renzi cita la “profezia” di Massimo Bordin, allora direttore di Radio Radicale, sui magistrati che sarebbero arrivati ad arrestarsi tra loro. Non manca il passaggio sul fatto che due dei personaggi del pool di Mani Pulite, “gli unici due rimasti, oggi siano alle carte bollate tra di loro”. Il riferimento è allo scontro tra Francesco Greco e Piercamillo Davigo. Poi passa all’attacco del sistema delle correnti della magistratura e parla del punto “più basso” del Csm. Abbozza pure un’autocritica, ma che fosse Luca Lotti, insieme a Luca Palamara e Cosimo Ferri, a orientare le nomine dei magistrati è un dato più che acquisito. A proposito di responsabilità. Non evita di annunciare la necessità di riformare il Csm, regno delle correnti. Tanto da arrivare a un paragone “epocale”: “La correntocrazia dentro la magistratura del 2021 è come la partitocrazia nella politica del 1991”. Si arriverà a una legge di riforma del Csm, con il resto della maggioranza? Da valutare, spiegano da Iv. Infine, il passaggio che suona personale: “Quando le correnti dicono di voler stringere un cordone sanitario intorno al senatore X o Y, non si deve preoccupare quel senatore, ma il Senato”.

Draghi, 20 fiducie in 7 mesi tolgono di torno le Camere

Quella votata ieri pomeriggio al Senato con 200 sì e 27 no alla riforma Cartabia sul processo penale (oltre 50 gli assenti nella maggioranza) è stata la quarta fiducia in quarantott’ore messa dal governo Draghi. Un’imposizione per evitare che i decreti arrivino a scadenza e, soprattutto, per scongiurare spaccature nella maggioranza con la Lega che minacciava fuoco e fiamme sul Green pass. Così il governo ha posto la fiducia sulla riforma del processo civile e due sul penale al Senato e una alla Camera sul decreto Green pass II per scuola e trasporti. L’uso della fiducia per accorciare i tempi e silenziare il dibattito però non è piaciuto all’opposizione di Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni che ha parlato di “democrazia alla deriva” perché “il Parlamento è mortificato”.

Eppure quella di ieri sul penale non sarà l’ultima fiducia di settembre: la prossima settimana il governo ne metterà un’altra sempre al Senato per convertire in legge il decreto Green pass II approvato ieri alla Camera. Così si arriverà a 20 voti di fiducia in 7 mesi: una media di 2,8 al mese. Secondo i dati di OpenPolis è un record tra i governi degli ultimi vent’anni, battuto solo dall’esecutivo di Monti, molto simile a quello di Draghi, con una media di 3 fiducie al mese. Il governo Conte-2, che ha dovuto agire nel pieno dell’emergenza Covid, ed è stato più volte accusato di schiacciare il Parlamento aveva una media inferiore rispetto a quella di Draghi: 2,2 al mese. Se il governo giallorosso, spesso accusato dai giuristi come Sabino Cassese di “disprezzare” il lavoro delle Camere, aveva posto una fiducia ogni 14 giorni (39 in tutto), quello di Draghi in sette mesi fa già peggio: una ogni 11. Numeri che fanno impressione alla luce del fatto che questo è il terzo esecutivo con il sostegno più largo nella storia della Repubblica italiana, inferiore solo a Monti e Andreotti nel 1978. Le fiducie si rendono necessarie proprio perché la maggioranza è ampia ma molto divisa.

Più bassi i numeri dei governi Gentiloni e Renzi con 2 al mese, mentre la fiducia è stata meno utilizzata dagli esecutivi di Letta (1,11), Berlusconi (1,07) e Conte-1, che si è fermato nell’agosto del 2019 a una fiducia al mese. Ma il governo Draghi non svilisce solo il Parlamento approvando le norme a colpi di fiducia. Anche l’iniziativa legislativa, che per Costituzione spetterebbe in primis al Parlamento, è praticamente tutta in mano al governo. Alle due Camere restano solo le briciole: tutto il lavoro di Camera e Senato riguarda disegni di legge di iniziativa governativa o conversioni di decreti approvati in Cdm. Secondo i dati di OpenPolis , fino a oggi il governo Draghi ha approvato 37 disegni di legge di iniziativa governativa a fronte di solo 6 di iniziativa parlamentare. Se nelle ultime tre legislature la media delle leggi proposte dal governo ha sempre superato il 75% del totale, l’esecutivo guidato da Draghi nei primi sette mesi ha un altro record negativo: da quando è nato, l’86,4% delle leggi approvate sono di iniziativa governativa, il più alto di tutti negli ultimi 10 anni. Appena sotto il Conte-2 con l’85,3% e poi il governo Letta con l’83,3%. Spesso questi dati che dimostrano l’annullamento del Parlamento vengono motivati con l’emergenza Covid ed è in parte vero. Ma i numeri dimostrano come questa tendenza sia iniziata molto prima della pandemia visto che, dal 2008, ben 5 eseutivi su 8 avevano dati superiori alla media del 75%. Se prendiamo tutti gli atti emanati relativi al Covid (739) solo in 26 c’è stato un coinvolgimento delle Camere (il 3,5%). Infine, l’ultimo record negativo del governo Draghi riguarda i decreti legge: con oltre 4 dl al mese è il peggior esecutivo degli ultimi otto.