“No, ci sono varie zone d’ombra: è decisiva la durata delle misure”

Il decreto sul Green pass contiene “zone d’ombra” e “incongruenze”: così Roberta Calvano, costituzionalista dell’Unitelma Sapienza di Roma, sulle novità appena introdotte.

Professoressa, che idea si è fatta del decreto sul Green pass?

Rispetto al precedente decreto, l’allargamento degli obblighi a vaste categorie di lavoratori rende la misura più compatibile coi principi costituzionali, non comprimendo solo i diritti di alcuni. Ma restano delle perplessità.

Come la sospensione dello stipendio?

La compressione temporanea del diritto alla retribuzione (prevista per chi violi l’obbligo) può ritenersi in linea col dettato costituzionale, in ragione del bilanciamento con la tutela del bene di pari rango costituzionale della salute collettiva. La sospensione della retribuzione infatti può essere disposta per un tempo limitato, dato che gli obblighi del decreto hanno efficacia solo dal 15.10 al 31.12. Ma prolungare una misura di questo tipo sarebbe più difficilmente tollerabile dal punto di vista costituzionale. E non si potrebbe giustificare con lo stato d’emergenza nazionale, la cui durata massima è di 24 mesi.


È giusto che chi non vuole vaccinarsi paghi i tamponi?

Il problema è l’aggravio economico per poter esercitare il diritto al lavoro. Con questa “induzione” indiretta alla vaccinazione, il governo crea un deterrente per chi non vuole vaccinarsi. Temo che si rischi l’effetto contrario: questo meccanismo mi pare tenda a radicalizzare le posizioni degli incerti. Le ragioni della salute e dell’economia si erano già contrapposte nella prima ondata: oggi il principio costituzionale da bilanciare con quello alla salute è decisamente quello lavorista, anche alla luce del rischio che molti corrono di perdere il lavoro e a prescindere da ciò che dice il decreto sul diritto alla conservazione del posto.

Questi rilievi sollevano dubbi di costituzionalità o restano critiche politiche?

Il confine può apparire labile e dipenderà anche dalla durata delle misure. Certo è che restano alcune zone d’ombra: oltre a quelle citate, alcune incongruenze rendono meno efficace lo strumento del Green pass come arma di persuasione: è il caso di tribunali e cariche elettive, per cui sono previste importanti eccezioni.

Cioè?

Il decreto estende ai dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, indiscriminatamente, le limitazioni imposte agli altri lavoratori. Ai soli organi costituzionali viene lasciata autonomia nell’applicazione delle restrizioni: l’autonomia delle Camere e degli altri organi costituzionali certamente garantisce le loro funzioni, ma non deve essere intesa – e neanche deve sembrare – come orientata a creare privilegi. Dalla lettura del dl, parrebbe che per le cariche elettive, statali, di Regioni e Comuni, oltre che per quelle di vertice, non si applicheranno sanzioni né multe previste invece per i lavoratori, né la sospensione di “retribuzione, compenso o emolumento” per i giorni di assenza ingiustificata che derivano dal “rifiuto di munirsi o presentare il pass.

Un provvedimento come questo è preferibile all’obbligo vaccinale?

Prima di giungere a tale extrema ratio si sarebbe dovuta avviare una seria campagna informativa. Credo che l’obbligo vaccinale avrebbe comportato poi meno diffidenza e reazioni meno aspre nell’opinione pubblica preoccupata per il vaccino e per i diritti. Ci sarebbero state meno ambiguità e l’atteggiamento del governo sarebbe stato più trasparente.

Il gran pasticcio della sospensione: non c’è più, ma è come se ci fosse

Il pasticcio più grosso riguardava i magistrati. L’ultimo decreto sul Green pass (n° 127 del 21.9), quello che estende l’obbligo a 23 milioni di lavoratori ed è stato pubblicato solo ieri a sei giorni dall’approvazione, nella prima stesura prevedeva espressamente la decadenza dall’incarico per i magistrati senza lasciapassare dopo 15 giorni di assenza ingiustificata. L’hanno tolta. E hanno eliminato anche la sospensione del rapporto di lavoro per il pubblico impiego al quinto giorno di assenza. Resta in vigore, però, per il personale della scuola, i cui obblighi sono regolati dal decreto precedente, n° 111 del 6 agosto cosiddetto Green pass-bis, sulla cui conversione è in corso un difficile dibattito al Senato a colpi di fiducie: su questo punto, tuttavia, alla Camera non ci sono state modifiche. Anche per il settore privato, nel decreto 127, è saltata l’espressione “sono sospesi dalla prestazione lavorativa”. I nuovi obblighi varranno dal 15 ottobre.

A ogni modo senza sospensione non cambia molto. Per i dipendenti pubblici e privati, infatti, restano il divieto di accesso ai luoghi di lavoro senza green pass, l’assenza è considerata ingiustificata “fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per i giorni di assenza ingiustificata non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”, si legge in termini sostanzialmente identici negli articoli 1 e 3 sul settore pubblico e quello privato. Solo per le imprese sotto i 15 dipendenti (articolo 3 comma 7) si legge ancora che “dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata (…), il datore di lavoro può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni, rinnovabili per una sola volta e non oltre il predetto termine del 31 dicembre 2021”.

Il giuslavorista Salomone “Il testo lasciava perplessi”

“Hanno ripulito il testo, che nella prima versione sollevava perplessità, specie per il settore privato, per l’evidente conflitto con il potere disciplinare del datore di lavoro, che è libero di utilizzarlo o meno. Se il dipendente è in ritardo o fa assenze ingiustificate, può anche non sanzionarlo. E tra le sanzioni c’è anche la sospensione”, spiega Riccardo Salomone, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Trento. Non è neppure vero, chiarisce il professor Salomone, che non cambia nulla: “Il lavoratore è assente ingiustificato senza conseguenze disciplinari, la retribuzione non è dovuta, ma per tutto il resto il rapporto c’è, non è sospeso. Per esempio è dovuta la malattia, l’anzianità prosegue. È un esonero legale dal versare stipendio e contribuzione. A me sembra che il governo abbia voluto rendere le cose più facili per le grandi aziende, creando un automatismo, senza che il datore di lavoro debba adottare specifici provvedimenti. È ragionevole – osserva ancora Salomone – perché le grandi imprese possono gestire le sostituzioni internamente con gli straordinari, lo spostamento ad altre mansioni, una migliore organizzazione, fermo restando che un sostituto a termine può sempre essere assunto perché nulla lo vieta. Per le piccole imprese sotto i 15 dipendenti, che nel nostro ordinamento differiscono dalle altre solo per la mancanza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dunque della tutela contro i licenziamenti, si premura di definire meglio: lì la sospensione c’è e richiede un provvedimento del datore di lavoro”.

Piccole imprese Rebus al 21° giorno

Resta, per la Confederazione nazionale dell’artigianato e altre organizzazioni delle piccole imprese, il problema del ventunesimo giorno. Nella prima versione il rinnovo dopo dieci giorni del contratto di sostituzione non c’era, ora ce l’hanno messo, ma si può fare una volta sola: “Dopo cosa succede?” si chiedono alla Cna. “E cosa succede se il lavoratore senza Green pass torna, stavolta con il Green pass, prima della scadenza del contratto di sostituzione?”. Per questo Cna chiede di incontrare il governo.

Inps Il fondo per le indennità

Il governo dovrebbe rifinanziare con 900 milioni di euro il fondo Inps che paga le indennità ai lavoratori in isolamento perché hanno avuto contatti stretti con persone positive al Covid-19. Come per la malattia. Lo scorso 6 agosto era esploso il caso, l’Inps aveva reso noto che i soldi non c’erano e quindi avrebbe smesso di pagare le indennità. Con tutto quello che significa in un Paese che si affida quasi esclusivamente ai vaccini e resta indietro su sorveglianza, contact tracing e, appunto, quarantene.

“È equiparabile all’obbligo vaccinale e rispetta la Carta”

L’obbligo diffuso del Green pass “è equiparabile all’obbligo vaccinale” e pertanto le limitazioni alle libertà individuali che ne conseguono rientrano nella legittimità politica e costituzionale. È netto il professore Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, secondo cui l’ultimo decreto potrà convincere i molti indecisi.

Professore ritiene che il decreto sul Green pass leda i diritti dei lavoratori?

No, affatto. Il punto da cui dobbiamo partire è che questo obbligo di Green pass equivale a una sorta di obbligo vaccinale indiretto, con l’obiettivo di immunizzare più persone possibile. La Costituzione prevede che con legge si possano disporre trattamenti sanitari obbligatori. Se si può imporre l’obbligo di vaccinazione, a maggior ragione si può, sempre con legge, imporre questa forma di obbligo indiretto e attenuato. Se la legge che impone ciò rispetta i criteri generali di proporzionalità e adeguatezza non vedo rischi di violazioni costituzionali.

La fase più acuta dell’emergenza è però passata.

Sì, ma si è sempre detto che la pandemia non si sarebbe esaurita fino a quando non avremmo raggiunto quasi la totalità della popolazione con la vaccinazione. Dobbiamo necessariamente arrivare a numeri molto alti per evitare la diffusione del virus e delle varianti.

I numeri dei contagi giustificano provvedimenti così severi?

Sulla situazione reale, mi baso su quanto dicono gli scienziati e so che rilevano l’importanza di continuare a vaccinare. Perciò una misura che favorisce le vaccinazioni non è solo ragionevole, ma anche opportuna.

È giusto che chi non vuole vaccinarsi paghi i tamponi?

Chi non è vaccinato perché non ha la possibilità di farlo per problemi sanitari individuali, giustamente è esente dalla spesa e potrà fare il tampone gratuitamente. Ma chi invece ha tutte le possibilità di vaccinarsi e non lo fa, rendendo così più difficile raggiungere l’obiettivo della vaccinazione di massa, credo sia giusto che non pretenda di mettere il costo dei tamponi a carico della collettività.

L’Italia però è l’unico Paese occidentale a prendere misure così drastiche.

Preferisco ragionare su che cosa è bene per l’Italia, che è stato il primo Paese europeo a fare i conti con la pandemia e da subito ha capito che la vaccinazione sarebbe stata uno strumento chiave.

Dunque non teme pericoli di incostituzionalità?

No, una volta che c’è una legge: vale anche qui il bilanciamento tra le ragioni della salute pubblica e la libertà individuale.

Non era meglio evitare ambiguità e adottare l’obbligo vaccinale diretto?

Nei fatti cambia molto poco, ma un obbligo diretto comporterebbe anche che si debbano prevedere sanzioni per chi non ottempera, e controlli più estesi e complessi. Con lo strumento del Green pass, questo aspetto è più facilmente gestibile: la sanzione consiste nella impossibilità di accedere alle situazioni (ad esempio di lavoro) che richiedono l’immunizzazione.

Le proteste sarebbero state più forti?

Non so come avrebbero reagito gli italiani, anche se già non da oggi esistono vaccinazioni obbligatorie. In ogni caso, mi auguro che il decreto sia sufficiente per raggiungere l’obiettivo.

La voce del padrone

Da quando han cominciato a votare contro le élite politiche, finanziarie ed editoriali, gli elettori godono di pessima fama. Sono populisti, giustizialisti, poco riformisti, scarsamente moderati, insufficientemente europeisti, non abbastanza atlantisti e affetti da una preoccupante cultura anti-impresa. I padroni del vapore e i loro pennivendoli li avevano avvertiti: votate come vi diciamo noi, cioè i soliti B. o Renzi, che poi fa lo stesso. Ma quelli niente: non ne han voluto sapere. E sono stati puniti: il solito banchiere al governo. Eravate contro l’establishment e gli inciuci? E noi vi piazziamo la quintessenza dell’establishment sostenuto da un inciucione. Così imparate. Ora però abbiamo un problema: prima o poi si vota, al più tardi nel 2023. E quei rompicoglioni degli elettori hanno financo la pretesa di decidere da chi farsi governare. Con l’aggravante, sondaggi alla mano, di non essere guariti dalla grave patologia chiamata democrazia. Infatti i politici più popolari sono Conte e la Meloni. Come si fa? Semplice: si decide nelle segrete stanze chi deve governare gli italiani, così quelli si adeguano e votano bene oppure se ne stanno a casa e lasciano votare chi vota bene. Lo spiegava ieri, nel 40° anniversario de La voce del padrone di Franco Battiato, il sincero democratico Stefano Folli su Repubblica (un ossimoro: dovrebbe chiamarsi almeno Monarchia): siccome Conte riporta su il M5S nei sondaggi e riempie le piazze, “assistiamo al rapido tramonto di Conte”, un “declino veloce e forse inarrestabile” (l’ha deciso lui).

Quindi “il centrosinistra deve chiedere a Draghi di proseguire la sua opera a Palazzo Chigi”. E – tenetevi forte – “dovrebbe farlo il centrodestra non meno del centrosinistra”. Destra e sinistra con lo stesso premier. Qualcuno domanderà: ma gli elettori che ci stanno a fare? E in quale Paese, a parte Cuba, la Russia e qualche repubblichetta delle banane, tutti i partiti indicano lo stesso capo del governo? Beata ingenuità: è proprio questo che sognano lorsignori e i loro manutengoli a mezzo stampa. Anzi, non si limitano a sognarlo: lo confessano nero su bianco. Sentite il seguito del piano Folli, che delizia: “Offrire una base politica a Draghi, magari senza bisogno che egli si candidi formalmente alle elezioni”. Ecco, Draghi “formalmente” non si candida, se no poi la gente capisce: si candidano tutti gli altri per poi re-issare SuperMario sul trono regale. I programmi, le idee, le diverse visioni dell’Italia e del mondo, naturalmente la sovranità popolare, cioè la Politica e la Democrazia, possiamo scordarcele: “Tra un anno (cioè subito prima delle elezioni, ndr) occorrerà fare delle scelte in vista del dopo”. Prima si decide, poi si vota: non è meraviglioso?

“Breath Ghosts Blind”, a Milano va in scena la “messa laica” di Maurizio Cattelan

Uno dei primi principi (tra i tanti) in cui bisogna credere per partecipare a quel party domenicale chiamato messa è la transustanziazione: quando in pratica vino rosso e cialde di pane lì per abbeverare e sfamare gli invitati diventano il Corpo e il Sangue del festeggiato defunto ma risorto: Cristo. Proprio come in chiesa, dove bisogna scorgere la vita di fronte alla morte, richiede la stessa fiducia nell’intangibile la nuova mostra di Maurizio Cattelan: Breath Ghosts Blind (a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolì, fino al 20 febbraio), che segna il suo ritorno artistico a Milano dopo anni d’assenza dalle discusse Tre bambini impiccati (2004) in piazza XXIV Maggio e L.O.V.E. (2010), l’enorme dito medio in piazza Affari.

Qui abbiamo un titolo tripartito, che richiama la trinità, per una esposizione che non a caso l’artista padovano classe 1960 porta alla Fondazione Pirelli HangarBicocca che con la sua struttura interna allungata e semicircolare ricorda proprio una chiesa: vestibolo, navata e abside. Così, nella prima sala, “Piazza”, troviamo Breath, una scultura in marmo bianco di Carrara che rappresenta un uomo in posizione fetale e un cane, uno di fronte all’altro distesi per terra. Un respiro, dunque, che può essere sia all’unisono di due esseri legati tra loro, ma anche l’alito mancante di un sonno senza risveglio. A vigilare sulla scena, tutti attorno nella lunga sala centrale, centinaia di piccioni in tassidermia che l’artista aveva già utilizzato nel ’97 per l’installazione Tourists alla Biennale di Venezia (in polemica per aver trovato il Padiglione italiano abbandonato e abitato da volatili durante un sopralluogo). Ora sono i Ghosts, veri e propri “fantasmi” oscuri e inquietanti che sembrano fissarci lungo la passeggiata, tra paura e fascinazione, che ci conduce alla terza sala dove ci aspetta Blind, l’opera in resina nera composta da un alto monolite e la sagoma di un aereo che lo interseca. Nella sua atroce bellezza, è chiaro il richiamo all’attentato dell’11 settembre 2001 voluto da Cattelan, lui che quel giorno era a New York.

Ma dov’è la vita in questa processione mortifera? È nel viaggio di ritorno, quando guardiamo per la seconda volta quello che già si è visto. Cattelan ci costringe a una palpitante escursione mentale nella morte che però prevede un’uscita, una salvezza. In questo senso, armato del potere trasformativo dell’arte, mentre partecipiamo a questa sua messa laica dove smaterializza e decostruisce la sofferenza contemporanea – come quando si torna al posto dopo l’eucarestia – ci libera da ogni male e dalla prigionia degli orrori della Storia.

Zorba balla da solo il sirtaki: Kazantzakis ne fa un’Odissea

A ogni svolta il Mani apre i suoi teatri con rappresentazioni senza tempo. Sospesi dentro onde di calore, gli ultimi dèi anamorfici approfittano di un turismo ancora debole per rapide comparse. Questa è una terra di suggestioni, di miti, anche recenti. Scendendo verso la spiaggia di Kalogria mi imbatto subito nella statua dedicata a Nikos Kazantzakis, un mezzobusto in bronzo su una colonna di marmo. Più in giù appare un grande murale rivolto verso il mare con i ritratti di Zorba e Kazantzakis, firmato Skitsofrenis.

Ci troviamo nei pressi di Stoupa, sei chilometri sotto Kardamyli, dove Patrick Leigh Fermor nella sua invidiabile casa celebrava questa terra straordinaria, il popolo ruvido e indomito del Mani. Sulla spiaggia di Kalogria molti anni fa un giovane intellettuale imbottito di filosofia e un vagabondo aperto a tutte le avventure davano vita a una danza destinata a fare il giro del mondo. Era il 1917 e Nikos Kazantzakis, messo da parte il suo dottorato su Nietzsche divenne direttore di una miniera di lignite. Per la verità questo impiego gli permetteva di schivare la guerra in quanto addetto alla produzione di materiale utile all’esercito. Scelse come capo degli operai Georgios Zorba, che aveva conosciuto sul Monte Athos.

Kazantzakis era letteralmente stregato da Zorba, con lui veniva sfiorato dal dubbio che si potesse imparare tutto dalla vita senza ricorrere a fiumi di libri. Forse le lezioni di Bergson, a cui Kazantzakis aveva assistito a Parigi, si materializzavano in questo vagabondo, incarnazione sa maniere dell’elan vital. Nel suo libro lo scrittore arriva a dire: “Ero caduto così in basso che se avessi dovuto scegliere tra innamorarmi di una donna o leggere un buon libro sull’amore, avrei scelto il libro”. Zorba gli opponeva la sua filosofia primordiale: “I matrimoni onesti non sanno di niente; vivande senza pepe… Solo la carne rubata è saporita”. Appena arrivato a Kalogria il vagabondo si buttò su una ex prostituta per sottrarla a un triste pensionamento e regalarle un ultimo sprazzo di felicità attiva.

Molti anni dopo, appresa la morte di Zorba a Skopje, Kazantzakis cominciò a scrivere il romanzo su di lui, gli cambiò il nome in Alexander e ambientò la vicenda a Creta. Nel 1946 uscì Zorba il greco. Fu ignorato in patria, ma in Francia venne premiato come miglior libro straniero e diventò un successo imprevisto e travolgente. Il romanzo vendette milioni di copie nel mondo, Kazantzakis venne candidato al Premio Nobel, il film di Michael Cacoyannis, con l’indimenticabile Anthony Quinn, vinse tre Oscar, il sirtaki di Mikis Theodorakis scalò le classifiche di tutti i juke-box d’Europa, divenne un balletto rappresentato all’Arena di Verona e ora è una specie di secondo inno greco. Alla morte del musicista, lo scorso 2 settembre, sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale.

Parlando con la gente attorno alla spiaggia si scopre che il mito di quella strana coppia è ancora vivo. Un barista mi suggerisce di andare alla punta Nord dove ci sono le casette di Kazantzakis e Zorba. Fuori dai due minuscoli bungalow, su un dosso che domina la spiaggia, c’è un simpatico signore settantenne che si sta gustando il tramonto con un bicchiere di vino. Si chiama Konstantinos. “Sì”, dice invitandomi a bere con lui, “questa era la casa di Zorba e Kazantzakis, ora ci abito io con mia moglie. È un peccato che il film lo abbiano girato a Creta e non qui. Zorba ha ballato su questa spiaggia”. In realtà le due casette di Konstantinos corrispondono alle descrizioni del romanzo, ma è passato molto tempo.

Il clamoroso successo del film cannibalizzò il libro e la sua fortuna si fermò. In Italia circolava solo l’edizione Martello del 1955, tradotta dal francese. Nel 1966 dopo l’arrivo del film Mondadori comprò i diritti e scaraventò il titolo direttamente negli Oscar. La prima traduzione dal greco è stata fatta solo nel 2011 grazie a Nicola Crocetti, che quest’anno ha tradotto e pubblicato anche il monumentale poema Odissea di Kazantzakis, 33.333 versi. Chissà se Crocetti ci ridarà anche il bellissimo Quaderni di guerra del sergente Costula di Stratis Myrivilis.

Il sole tramonta sulla spiaggia di Kalogria, i turisti lasciano le sdraio. “Sono tempi di Covid”, dice Konstantinos, “altrimenti questa notte avrebbe visto la gente danzare il sirtaki sulla spiaggia attorno ai fuochi, sotto la luna. Proprio come cento anni fa Zorba con Kazantzakis”.

“Io, il canto e il mago Eduardo”. “Così è nata la Compagnia”

Dopo più di quarant’anni, i membri originari della Nuova Compagnia di Canto Popolare tornano a suonare insieme: Eugenio Bennato, Giovanni Mauriello e Patrizio Trampetti si sono appena ritrovati al Festival di Capri in omaggio a due vecchi compagni di musica recentemente scomparsi, Corrado Sfogli e Carlo D’Angiò.

Bennato, come vive questa storica “Reunion”?

Mi incuriosisce molto: incontrare i miei vecchi compagni di strada è un momento significativo. Siamo rimasti sempre in contatto, ma un concerto tutti insieme è la prima volta che succede dal momento della mia fuoriuscita dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare. Sono pezzi che non faccio da cinquant’anni.

Con D’Angiò avete condiviso la fondazione, nel 1967, della Nuova Compagnia di Canto Popolare: com’era il vostro rapporto?

Io e Carlo eravamo amici fraterni: è uno dei più grandi artisti che ho conosciuto. Abbiamo scritto insieme uno dei pezzi più importanti della storia della musica popolare, Brigante se more. Lui uscì dalla Compagnia poco prima di me, e ci siamo ritrovati per fondare Musicanova, la formazione in cui esordì la giovane Teresa De Sio.

Lei se ne andò dalla Compagnia prima di Gatta Cenerentola nel ’76: perché?

Volevo scrivere nuova musica, e nel contesto della Compagnia, dedicata com’era al solo revival, avevo difficoltà. Inoltre lì c’era una forte componente teatrale: il teatro presuppone una finzione scenica, mentre invece la musica, specialmente quella popolare, è verità che cambia sera dopo sera.

Col gruppo successivo, Musicanova, si andava verso un repertorio originale, ad esempio la scelta di presentare Tammurriata nera in chiave folk…

Esistono musicologi per i quali la cultura popolare sarebbe andata persa. Con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, e poi dopo con Musicanova e i Taranta Power, abbiamo fatto in tempo a salvare la cultura musicale popolare. Chiaramente correndo rischi, ma a me i rischi interessano poco: a me interessa che la chitarra battente oggi sia uno strumento che entra nelle sale da concerto; a me interessa che la tammurriata sia tornata in auge; mi interessa che la Notte della Taranta sia capace, con un pubblico di 150.000 persone, di sovvertire l’ordine delle cose nel mondo globalizzato. Questo è molto più importante dei distinguo pedanti dei musicologi.

Quindi la musica popolare è in continuo divenire?

La musica popolare, se viene reiterata come in un museo, si esaurisce: deve essere collegata alla storia, alla realtà. Se non ci fosse venuto in mente di parlare di briganti la nostra musica sarebbe finita. Partendo dalla tradizione popolare si va nel presente per proiettarsi nel futuro. Venti anni fa l’Italia non era nei festival internazionali della world music, così come invece erano presenti la Spagna col suo flamenco e il Portogallo col suo fado. Adesso esiste anche la taranta, esiste anche la musica del Sud Italia e la chitarra battente è entrata nel novero degli strumenti pregiati per l’attività concertistica.

Torniamo indietro: che ruolo ebbe nel lancio della Compagnia Eduardo De Filippo?

De Filippo venne a sentirci nel ’72 al Teatro Esse di via Martucci, a Napoli. Dopo il concerto, nei camerini, senza esibirsi in elogi o frasi fatte ci disse: “Quando c’è il popolo dietro non si può sbagliare”. Dopodiché ci portò nel suo teatro, il San Ferdinando, per presentarci al suo pubblico, e poi sempre nel ’72 ci portò al Festival dei Due Mondi di Spoleto: al bar c’era Samuel Beckett che parlava con Luchino Visconti. Era presente tutta la cultura europea. È stata incredibile la capacità di quell’uomo, che era già una leggenda, di incuriosirsi e andare a vedere quello che facevano dei ragazzi della sua città.

Lei ha sempre avuto un rapporto conflittuale con lo show business. Come vive oggi questo rapporto?

Giorni fa sono stato in concerto a Genova: la mattina dopo mi hanno invitato al museo di Fabrizio De André, dove mi hanno dato da suonare la sua chitarra. Ecco, la sua è una figura in cui mi sono rispecchiato: entrambi siamo lontani da qualsiasi genere di arruffianamento del pubblico e attenti solo allo spessore delle cose che comunichiamo attraverso parole e note.

Le ultime notizie da Lampedusa, isola senza giornali

I giornali che non arrivano più a Lampedusa, il nostro piccolo continente nero, l’isola salvagente dell’Africa disperata, segna la inarrestabile corsa all’indietro dell’Italia interna, minore, o – come in questo caso – della terra di frontiera. Il distributore non manda più giornali all’unica edicola ancora resistente perché il volo dedicato è stato soppresso.
La connessione a Internet ha subìto nelle scorse settimane un black-out di 15 giorni per via dei problemi al cavo sottomarino. Lampedusa è quasi al buio perché la Regione Siciliana, secondo quanto riferisce il sindaco Martello, non concede il nullaosta ai lavori di costruzione della rete e sebbene i fondi non manchino (26 milioni di euro stanziati nel 2011, venti milioni nel 2013) anche il depuratore non esiste, come pure l’ammodernamento del centro meccanizzato di raccolta dei rifiuti.

Sembra, anzi è, una procedura di retrocessione dell’isola che più di ogni altri in Europa ha fronteggiato, subìto, sostenuto il più straordinario e imponente processo di migrazione. La geografia, che la colloca in faccia alla Libia, davanti alle coste nordafricane, legata da un soffio di mare al continente umano che fugge verso nord, stabilisce quindi che l’onere della civiltà non sia più compatibile con gli interessi dell’economia nazionale.

I giornali di carta hanno perso appeal e certo Lampedusa è l’ultima delle postazioni svuotate, liberate dall’idea che anche quella piccola comunità possa decidere come informarsi se è certo, come del resto lo è, che non tutti i suoi abitanti possiedono tablet e connessione, che esiste un diritto costituzionale all’informazione e che i giornali di carta, oramai residuato del Novecento, continuano a essere per tanti, soprattutto per coloro che hanno più anni, uno strumento indispensabile, un amico decisivo, un bisogno quotidiano.

Ma agli editori, dentro una crisi profonda e a quanto pare irreversibile, il microscopico mercato lampedusano non può interessare. E non interessa al distributore che dovrebbe sopportare costi alti per poche copie. Uguale per Internet, uguale per tutto.

Lampedusa esiste solo quando l’Italia è in difficoltà, esiste solo perché sistemata in mare non infastidisce i connazionali quando la riserva della disperazione si abbatte e viene stipata nel suo famigerato hotspot.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. I soldi che prima il governo Berlusconi e poi quello di Enrico Letta stanziarono, ed erano appunto destinati a opere di prima necessità, fognature, illuminazione, depurazione, restano fermi in banca. “Non abbiamo ancora la possibilità di spendere”, ripete il sindaco. Berlusconi decise di acquistare una villa come operazione sentimentale, lui abituato a dare alle magioni di lusso il senso della vita. Un atto di amicizia compassionevole, diciamo.

Lampedusa serve all’Italia solo quando l’Italia ne ha bisogno. Poi, com’è il caso piccolo ma emblematico dei giornali che neanche più sono distribuiti, si stacca la spina, si recede dal contratto di solidarietà, dal minimo senso della coabitazione. È un destino comune a tanti piccoli centri dell’Italia interna, quella che Manlio Rossi Doria chiamava l’osso distinguendolo dalla polpa, la fascia costiera, quella ricca e urbanizzata.

Ma Lampedusa, a differenza dei piccoli borghi che sopravvivono sul crinale dell’Appennino, ha il mare che la separa da tutti noi, anzi la costringe all’isolamento, alla retrocessione a comunità di frontiera dove si arriva se non c’è mare grosso, si va in ospedale se le onde non sono alte. Altrimenti si aspetta.

Le uniche amiche di Lampedusa che negli anni resistono sono le tartarughe che anche nelle scorse settimane hanno proceduto a una grande schiusa sulla meravigliosa Spiaggia dei Conigli. E c’è da dire però, e per fortuna, che questa estate l’isola ha vissuto l’effervescente presenza di turisti finalmente numerosi, e fin quando ci sono stati loro le cose, per le tasche dei residenti, sono andate meglio.

Poi settembre, l’autunno alle porte. E quindi: bye bye Lampedusa.

Trudeau e il voto: un capriccio costato 600 milioni di dollari

Justin Trudeau ha vinto le elezioni, ma ha perso la scommessa. Il partito dei liberali canadesi non raggiunge i 170 seggi necessari per ottenere la maggioranza perduta ormai due anni fa e il premier rimane ancora a capo di un governo di minoranza, saldo in sella al potere di Ottawa, ma senza davvero controllare le redini dell’esecutivo. Non agguanta l’ampio suffragio a cui ambiva, il vero motivo per cui il premier 49enne aveva indetto queste elezioni anticipate a metà agosto scorso, durante la quarta ondata dell’emergenza sanitaria. Urne bandite, hanno detto sin da subito i suoi detrattori, solo per mera ambizione personale. Eletto nuovamente da “milioni di canadesi per un piano progressista” e per “superare la pandemia e arrivare a giorni più luminosi”, dopo la timida vittoria ai seggi, Trudeau ha promesso subito “un reale cambiamento” ai cittadini delusi che non sentivano la necessità di queste legislative anticipate. Queste preferenze, dunque, delegittimano più che rafforzare. Non è una vera vittoria: quella che il premier canadese ha celebrato ieri è solo una sconfitta minore rispetto a quella dell’avversario, il conservatore Erin O’Toole. Per il suo rivale “i canadesi hanno rispedito Trudeau indietro con un’altra minoranza, ma al costo di 600 milioni di dollari e divisioni ancora più profonde in questo grande Paese”. Costate quasi 500 milioni di dollari americani, queste urne hanno riproposto quasi il medesimo risultato delle elezioni bandite nell’ottobre 2019, quando i liberali ottennero solo 157 seggi, solo uno in più rispetto a oggi. L’opposizione conservatrice ne detiene adesso 123, seguono gli indipendentisti del Quebec, la sinistra del Nuovo Partito democratico e Verdi. Per gli esperti queste cifre raccontano davvero solo il disincanto della fetta dello stesso elettorato canadese che favorì l’ascesa del primo ministro nel 2015: oggi, sette anni dopo, si ritrova politicamente più debole di allora, ma alla boa del suo terzo mandato.

Frustate “democratiche”: Biden respinge i migranti

L’avesse fatto la polizia di frontiera a cavallo di Donald Trump, le grida di scandalo sarebbero state altissime. Anche perché il magnate presidente avrebbe probabilmente elogiato i suoi agenti. Invece, l’ha fatto la polizia a cavallo del Texas – ‘trumpiana’ a prescindere – ora che presidente è Joe Biden: il coro di condanna c’è, la Casa Bianca ha preso le distanze. “Orribile”, dice la portavoce Jen Psaki. A poche ore del debutto di Biden all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, un video che mostra agenti della polizia di frontiera a cavallo usare le redini come frusta contro migranti, in gran parte haitiani, che cercano di entrare negli Usa dal Messico traversando il Rio Grande suscita rabbia e indignazione.

“Usate le vostre donne per passare? Ecco perché il vostro Paese è una merda”, urla un agente, che, con il suo cavallo, quasi travolge un uomo sulla riva del fiume, mentre intorno è un fuggi fuggi. Lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico, il recente arrivo di quasi 15 mila persone ha innescato una nuova crisi umanitaria. A New York, Biden assicura: “La terremo sotto controllo”. Ma, finora, la sua Amministrazione non ha affrontato in modo convincente la questione migranti, tra sentenze della magistratura che hanno cancellato alcuni suoi provvedimenti e ripristinato i decreti di Trump, mentre la pressione dei richiedenti asilo alla frontiera è molto cresciuta. Biden deve camminare sul filo tra rispetto dei diritti umani e controllo degli ingressi negli Usa, osservanza degli impegni elettorali e attenzione all’opinione pubblica. Sul video, la Psaki è drastica: “Ho visto alcune immagini, non ho il contesto completo, ma non so immaginare quale contesto le renderebbe appropriate”. Il caso è imbarazzante per tutta l’Amministrazione e specie per Alejandro Mayorkas: il ministro dell’Interno, il primo ispanico in quel ruolo, figlio di rifugiati cubani, ordina un’inchiesta. Biden, tuttavia, conferma la decisione di rimpatriare tutti i migranti: “Non è il momento di venire”, avverte la Psaki, malgrado le turbolenze politiche e il recente terremoto abbiano aumentato il flusso di haitiani in fuga. Ieri, sei aerei sono partiti dagli Usa per Haiti carichi di migranti respinti. Il presidente ha deciso di portare il numero dei rifugiati ammessi sul suolo statunitense a 125 mila l’anno a partire dal primo ottobre, ma la decisione non dovrebbe riguardare quanti fuggono dall’Afghanistan e da Haiti. In questi giorni, gli Stati Uniti stanno accogliendo migliaia di esuli dall’Afghanistan, molto spesso persone che hanno collaborato con le forze occidentali, e intendono pure favorire l’ingresso di dissidenti o perseguitati dall’America centrale e dal Myanmar.

Del flusso da Haiti, il Segretario di Stato Antony Blinken ha parlato lunedì col premier Ariel Henry: “La migrazione illegale pone gravi rischi ai migranti e alle loro famiglie”, gli ha detto. Dal canto suo, Medici senza frontiere, presente al confine tra Messico e Usa, denuncia le condizioni di vita degradanti dei migranti in attesa di provare a varcare il confine: decine di migliaia di persone sono bloccate in condizioni estremamente precarie “a causa – sostiene Msf – delle politiche di asilo fallimentari e delle deportazioni di massa dagli Stati Uniti”.

Da metà settembre, un team di emergenza di Msf è a Tapachula, estremo sud del Messico, dove circa 40.000 migranti vivono ammassati: arrivano da Venezuela, Guatemala, El Salvador, Honduras, Haiti e Cuba; sono per la maggior parte donne e bambini, da mesi in un limbo senza prospettive, servizi di base o opportunità lavorative.