Manu&Pompili, il duo ambientalista parla tanto e conclude poco

Dopo una battaglia di mesi, cortei e occupazioni, gli abitanti di Aubervilliers, appoggiati da Ong ambientaliste, hanno vinto: i giudici hanno sospeso il cantiere della piscina olimpica, un progetto da 33 milioni di euro, in costruzione alle porte di Parigi in vista dei Giochi del 2024, salvando così i “giardini operai”, gli amati orti urbani che, da decenni, gli abitanti di questa banlieue povera coltivano all’ombra dei loro palazzoni. I magistrati sospettano che il permesso di costruire non rispetti le norme urbanistiche. È una vittoria per gli ecologisti che da tempo denunciano l’erosione degli spazi naturali nell’Île-de-France. Almeno temporanea, dal momento che la battaglia giudiziaria, visti i risvolti politici e economici per Parigi con l’avvicinarsi della scadenza 2024, non si ferma qui.

Da quando Macron è all’Eliseo, promettendo una politica più green, i francesi hanno realizzato che, in materia di transazione ecologica, è spesso questione di compromessi, che per definizione urtano con i tempi dell’emergenza climatica. La Francia si è posta come obiettivo di raggiungere le “emissioni zero”  entro il 2050. Ci riuscirà? A febbraio, in una decisione storica, i giudici di Parigi hanno condannato lo Stato francese a versare un euro simbolico a quattro Ong per “inazione climatica”, non avendo tenuto gli impegni presi in passato in materia di riduzione dei gas serra. Tra le Ong, anche la Fondation Hulot, avviata da Nicolas Hulot, amato ex ministro della Transazione ecologica di Macron, che si è dimesso nel 2018 sotto le pressioni delle lobby e – sono parole sue – per la scarsa ambizione del governo in materia di clima. Già nel 2019, la corte di giustizia Ue aveva condannato la Francia per aver superato “sistematicamente” il valore tollerato di diossido d’azoto nell’aria dal 2010. Intanto, dopo un lungo dibattito, il Parlamento ha votato la Loi Climat, in vigore dal 24 agosto 2021, che ha ripreso la maggior parte delle misure proposte da una “Convenzione” di 150 francesi. Tra cui: riduzione dei voli interni a favore del treno, divieto di affittare case “colabrodo” (entro il 2028), dimezzamento del ritmo di artificializzazione dei suoli (entro il 2030). È nato anche il delitto di “ecocidio” che sanziona con dieci anni di reclusione e 4,5 milioni di multa chi danneggia “intenzionalmente” l’ambiente. “Facciamo entrare l’ecologia nella vita quotidiana dei francesi”, aveva detto Barbara Pompili, l’attuale ministra, che però ha dovuto accettare le deroghe sul divieto degli insetticidi neo nicotinoidi. La legge, nata ambiziosa, riscritta in parte per far piacere a potenti lobby industriali, ha deluso: “Lo studio di impatto ambientale – avevano scritto oltre 110 Ong – mostra che l’obiettivo di ridurre del 40% entro il 2030 le emissioni di gas serra non sarà mantenuto. Tantomeno quello del -55% adottato su scala europea”. Con i suoi progressi e i suoi limiti, la Loi Climat è entrata nel piano “di rilancio e resilienza” da 100 miliardi di euro (di cui 40 di crediti Ue), il 50% dei quali è destinato alla transizione ecologica. Di questi, 6,7 sono previsti per il rinnovo energetico, 7,2 per lo sviluppo delle tecnologie “verdi”, tra cui l’idrogeno decarbonato (2 miliardi nel 2021-22, poi 7 entro il 2030), e 8,8 per la “mobilità verde”, anche attraverso lo sviluppo della rete ferroviaria (4,7 miliardi), sapendo che la legge d’orientamento alla Mobilità del 2019 fissa la fine della commercializzazione dei veicoli a base di carburanti fossili entro il 2040.

Altri 3,2 miliardi sono destinati a modificare i modi di consumo e di produzione, 1,2 solo per la “decarbonizzazione” delle imprese. Malgrado le buone intenzioni, a dicembre, l’Alto Consiglio per il clima ha messo in guardia il governo perché i due terzi delle misure del piano rischiano in realtà di far aumentare le emissioni di gas serra. A meno di otto mesi dalle presidenziali, l’ecologia è nei programma di tutti i candidati all’Eliseo già dichiarati. Un dibattito si è acceso intorno alla pertinenza dello sviluppo degli impianti eolici, mentre una battaglia giuridica è in corso in Bretagna contro la costruzione di un parco offshore che violerebbe la Carta dell’ambiente. L’altro tema scottante è il nucleare e in particolare il futuro del progetto di costruzione di sei reattori EPR, come quello in cantiere dal 2007 a Flamanville, che accumula ritardi e costi supplementari. L’obiettivo dichiarato di Parigi è di portare la parte di nucleare nella produzione d’elettricità dal 75% al 50% entro il 2035.

Indecisi, la mossa “benefici personali”

Il successo del programma di vaccinazione Covid-19 dipende dalla partecipazione di massa. La messaggistica concisa e persuasiva diventa fondamentale, in particolare, dati i livelli sostanziali di esitazione sui nuovi vaccini. Siamo tutti concordi che proprio questo è stato un punto debole in tutta la campagna vaccinale. Il problema non è solo italiano. Un’interessante pubblicazione su Lancet, dal titolo “Effect of different types of written vaccination information on Covid-19 vaccine hesitansy in the UK” (Effetto di diversi tipi di informazioni scritte sulla vaccinazione in tema di esitazione al vaccino contro il Covid-19 nel Regno Unito) riporta importanti risultati, che potrebbero essere d’aiuto alla sanità pubblica. Una prima considerazione sui gruppi in studio è che nella popolazione fortemente titubante (in media 10% in tutti i Paesi europei) l’informazione sui benefici personali riduce l’esitazione in misura maggiore rispetto alle informazioni sui benefici collettivi. Informare le persone che un vaccino Covid-19 è sicuro ed efficace, senza nascondere alcune inevitabili reazioni indesiderate, aumenta l’accettazione rispetto a una condizione di assenza di informazioni o di eccessive rassicurazioni. Fornire informazioni sul beneficio dell’immunità collettiva della vaccinazione non ha mostrato alcun effetto complessivo della popolazione sull’accettazione del vaccino. Ciò è la conseguenza del fatto che coloro che sono riluttanti sono, solitamente, i meno aperti a una visione collettiva. Uno dei punti critici sollevati dai titubanti è la velocità con la quale questi vaccini sono stati proposti. Il rapporto rischio/beneficio avrebbe potuto giocare un ruolo importante unitamente all’informazione dell’esistenza di aspetti ancora poco conosciuti. Lo studio mostra che informazioni brevi e accuratamente elaborate possono modificare la volontà di essere vaccinati per Covid-19 di coloro che sono più fortemente titubanti. Importanti, ma difficili da gestire, le informazioni nelle pagine web online. È necessario ulteriore lavoro per sviluppare messaggi che siano persuasivi per l’importante gruppo di persone attualmente dubbiose.

 

È così che vincerà il modello cinese

Da giovane non ho mai sventolato il libretto rosso e da vecchio non ho alcuna intenzione di dedicarmi allo studio dello Xi Jianping pensiero. I maoisti nostrani vestiti da guardie rosse mi facevano piuttosto ridere. Ma nel 2021, lasciatemelo dire, quella con la Cina è una guerra fredda che non ci conviene. Per intuirlo, basterebbe non lasciarsi irretire dalla nostalgia di un’alleanza atlantica che va disfacendosi e non rinascerà di certo in funzione anticinese.

Quando la Nato si formò per tenere a bada Stalin e il blocco sovietico, la Cina era uno dei Paesi più poveri della terra. Ci ha messo meno di settant’anni per candidarsi a prima potenza economica mondiale: il sorpasso sugli Usa ormai è molto più di una probabilità. Passerò per veterocomunista e filocinese se suggerisco che da quel modello (che si calcola abbia sollevato dalla povertà 800 milioni di persone), per quanto autocratico e dirigista, purtuttavia avremmo qualcosa da imparare? Di certo il modello cinese esercita già il suo fascino su altre nazioni meno sviluppate. E, qualora la guerra fredda si inasprisse, non mi stupirebbe vederlo conseguire consensi oggi impensabili anche nelle nostre società rese fragili dall’accrescersi di disuguaglianze e povertà. Guai se in troppi cominceranno a pensare che la libertà sia un lusso cui vadano anteposte maggiori tutele sociali.

Sapremo nei prossimi giorni se lo scoppio della bolla immobiliare cinese provocato dal crac di Evergrande avrà effetti devastanti dentro al sistema cinese che aveva ripreso a crescere impetuosamente dopo l’effetto Covid. Di certo sarebbe un guaio anche per noi: le nostre economie sono legate a doppio filo.

Ma intanto, dopo la disfatta in Afghanistan, la storia si è messa a correre in fretta e a suscitare scalpore è ancora una volta l’ennesima frattura del campo occidentale: la Francia che denuncia la “coltellata alla schiena” e richiama i suoi ambasciatori da Washington e Canberra a seguito della cancellazione di una fornitura di sommergibili all’Australia per 56 miliardi di euro.

È ben comprensibile che l’Australia, pur essendo una nazione grande quasi quanto la Cina, si senta minacciata dall’espansionismo di Pechino. Corre ai ripari formando con gli Usa e il Regno Unito una specie di Nato dell’Indo-Pacifico che esclude gli europei: la cosiddetta Aukus. Ne ottiene in cambio sommergibili più potenti, alimentati da reattori nucleari. Ebbene, basterebbe ricordare che gli australiani sono solo 25 milioni mentre i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni per rendersi conto che nessuna cortina di ferro, e nessuna deterrenza nucleare, potrà fermare un riequilibrio – speriamo pacifico – di quell’area, ormai divenuta il nuovo motore trainante dell’economia mondiale.

La frattura determinata da Aukus verrà probabilmente ricomposta sul piano diplomatico, ma evidenzia un’insanabile divaricazione di interessi nelle relazioni con la Cina tra gli Usa e i singoli Paesi europei, Germania in testa, già precedentemente emersa di fronte alla richiesta americana di boicottaggio della rete 5G di Huawei. E poi nel tentativo sostanzialmente fallito di convocare un G20 straordinario sull’Afghanistan da parte del nostro Draghi. Intanto pure l’Italia subirà un danno economico dall’accordo Aukus, preceduto a giugno dall’annullamento di una fornitura di nove fregate militari all’Australia da parte di Fincantieri, per un ammontare di 23 miliardi.

Se questo è lo scenario – un Occidente sempre meno compatto nelle sue relazioni commerciali e strategiche con la Cina – restano da interpretare le possibili ripercussioni esterne delle recenti svolte impresse da Xi Jinping alla politica del suo paese. C’è chi le semplifica brutalmente nella formula: “Ritorno al comunismo”. Troppo facile. Per restare agli slogan, meglio sarebbe storpiarne un altro a suo tempo in gran voga: “NON fare come in Russia”.

Traduzione: il Partito-Stato cinese, dopo l’apertura all’economia di mercato che nel 2000 portò all’ingresso nel Wto e avviò una politica neocoloniale in Africa e America Latina, ha iniziato ad adoperare metodi brutali per non restare ostaggio dei nuovi oligarchi com’è avvenuto nella Russia post-comunista.

Il 2021 si è aperto con l’esecuzione della condanna a morte di Lai Xiaomin, top manager della società di gestione crediti deteriorati Huarong, accusato di distrazione di fondi aziendali e bigamia. Prima fatto scomparire per mesi e poi ridotto al silenzio il fondatore di Alibaba, Jack Ma, magnate in precedenza potentissimo. Minacciosamente indotta a tagli di bilancio la famiglia Zhang che controlla la Suning (ne sappiamo qualcosa noi interisti, con la vendita forzata di Lukaku), peraltro invischiata nella crisi immobiliare di Evergrande. Vietato ai minorenni l’uso dei videogiochi per più di un’ora al giorno, e il colosso Tencent china la testa… potremmo continuare.

Orbene, lungi da noi auspicare un colpo di pistola alla nuca per i capitalisti disonesti, ma il messaggio giunge forte e chiaro. Così lo ha riassunto il segretario a vita Xi in un discorso del 17 agosto scorso: “Dobbiamo regolamentare i redditi eccessivamente alti e incoraggiare le imprese ad alto reddito a restituire di più alla società”. Con metodi più civili, non dovremmo aspettarci qualcosa del genere anche dai leader politici nostrani? Alla direttiva di Xi, “ripulire e regolare i guadagni non ragionevoli per favorirne la redistribuzione”, fa seguito l’obiettivo: “Una prosperità condivisa, requisito essenziale del socialismo e caratteristica chiave della modernizzazione cinese”.

Inquieta sapere che il Xi Jinping pensiero dal 1º settembre scorso è diventato materia di studio obbligatoria nelle scuole, con apposito sussidiario. Ma nessuno può negare la sua brutale aderenza allo spirito dei tempi. Anche chi vuole difendere i valori fondamentali della democrazia farebbe bene a non aggirare lo scoglio della crescente ingiustizia sociale. Se la Cina è diventata superpotenza egemone, lo deve anche alla capacità del suo regime di rispondere a una conflittualità sociale mai sopita: lo testimonia l’ondata di aumenti dei salari minimi, dopo il Covid.

Altro che guerra fredda.

 

“Venghino” al mercato dei no pass

Lunedì sera, a Otto e mezzo, Andrea Scanzi, attraverso argomenti inoppugnabili cercava di spiegare la necessità del Green pass all’avvocatessa Olga Milanese, che rappresenta il comitato che ha indetto i quattro referendum per abrogare il “subdolo strumento di discriminazione”. Era per forza di cose un dialogo tra sordi poiché mentre l’uno si appellava al buon senso e ai valori di umana solidarietà, l’altra, da professionista seria, parlava in rappresentanza della propria clientela. Tanto che quando Andrea ha ricordato le centotrentamila vittime della pandemia (130.000: proviamo a contarle una per una), per un attimo ho temuto che, come in certi noir

un attimo prima del plot, la seria professionista replicasse: niente di personale. Siamo tutti sostenitori, ci mancherebbe altro, della necessità del dialogo costruttivo nei confronti di chi è ancora restio a vaccinarsi, e non lo fa sulla base dei più diversi e rispettabili timori. Però, cercare di convincere chi sostiene le ragioni dei No vax, e No pass (ma anche dei No Aspirina e dei No supposte, se fosse necessario) per farne un uso politico, professionale o di visibilità mediatica, be’ trovo ciò non soltanto inutile ma anche un tantino ingiusto. Proviamo infatti a metterci nei panni di un paio di leader, casualmente di destra, consapevoli che nel serbatoio elettorale ci sono alcuni milioni di non vaccinati, difficilmente intercettabili dalla sinistra e dal centro Sì vax e Sì pass. E dunque potenzialmente disponibili alla (loro) causa. Chiaro che cercheranno di reclutarli, magari con una strizzatina d’occhio e un frasario ambiguo. La stessa campagna per il No potrebbe valere per i giornali in crisi di copie. O per i talk in crisi di audience. O per i pensatori in crisi di solitudine. O per i legali a corto di cause (buone o cattive non si butta nulla). È la legge della domanda e dell’offerta. E i morti? Effetti collaterali. “Venghino siori venghino”. È il mercato bellezza. E tu, Andrea, non puoi farci niente.

Mail box

 

Pd, l’asso nella manica rimane il voto ai 16enni

Scrive ieri sul Fatto Quotidiano Salvatore Cannavò: “Il tema del lavoro è il grande rimosso, non solo del Partito democratico, ma del quadro politico”. Negli anni Settanta tale tematica era al centro dell’agenda politica, perché in quel contesto socio-economico i rapporti di forza tra capitale e lavoro erano sostanzialmente in equilibrio. Oggi, purtroppo, il primo prevale in misura schiacciante sul secondo, il che ha lacerato il tessuto sociale, provocato gravissime disfunzioni e peggiorato le condizioni di lavoro riducendo il lavoratore a merce usa e getta. Nessuna autocritica seria da parte del Pd, ma solo spot superficiali e zero analisi dei processi sociali. Quando il Pd governava, ha fatto scempio dello Statuto dei lavoratori, lasciato sul terreno 5 milioni di poveri assoluti, e altri milioni di lavoratori precari usa e getta. I dem ormai rappresentano i ceti medio alti che con la crisi hanno incrementato il proprio reddito in sintonia con i processi della globalizzazione che hanno determinato la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e proletarizzato i ceti medi. Alle Politiche il Partito democratico stravinse ai Parioli di Roma, nel centro di Milano e a Bologna fece eleggere Pier Ferdinando Casini. La deriva destrorsa era già evidente ai tempi dei governi Prodi, quando iniziarono le liberalizzazioni selvagge. I post comunisti volevano accreditarsi a tutti i costi come gli interlocutori più affidabili del neo capitalismo, e così si sono lasciati sedurre dalle sirene del neo liberismo diventando più lealisti e realisti del re. Tra l’altro il termine sinistra scompare dal nome del partito: Pd e non più Democratici di Sinistra. A causa di questi errori, che Enrico Letta ignora, il malcontento dei ceti più fragili è stato intercettato dalle destre. Ma Letta, la volpe che viene da Parigi, ha un asso nella manica: il voto ai 16enni. Che statista!

Maurizio Burattini

 

Conte sa di avere stampa e tv puntate contro di lui

Ho letto l’articolo che Selvaggia Lucarelli ha dedicato a Giuseppe Conte: lo critica con la sua solita ironia perché non prende mai una posizione netta circa i vari argomenti e in questo caso alle domande di Formigli. Certo, se Formigli gli avesse chiesto cosa pensa del Reddito di cittadinanza che la destra vuole eliminare, Conte avrebbe risposto che per farlo dovrebbero passare sul suo cadavere! È una risposta sufficientemente incisiva secondo la Lucarelli? Quindi se le domande che gli fanno portano solo a polemiche inutili Conte fa bene a bypassarle. La Lucarelli è sicuramente consapevole che Conte ha i fucili puntati da parte di quasi tutta la stampa e tv, le quali a ogni discussione o polemica che fa ne fanno un polverone che riecheggia per giorni.

Ilaria Gotti

 

Cara Ilaria, sullo stile comunicativo di Conte il dibattito è aperto. L’”informazione” italiana la conosciamo bene. Ma, se le risposte di un politico sono loffie, non può essere colpa delle domande.

M. Trav.

 

Lavoro, servono tamponi anche per chi è vaccinato

Poniamo, ma diamolo pure per certo, che a fine ottobre, per effetto del decreto “Super Green pass”, tutti i lavoratori saranno vaccinati. Visti i contagi sempre più alti anche tra vaccinati (vedasi gli operatori sanitari) e anche morti tra gli stessi (vedasi l’ultimo caso di un ex banchiere astigiano), non dovrebbero obbligare al tampone rapido, almeno una volta a settimana (il lunedì), tutti i lavoratori? A carico del datore di lavoro, ovviamente, essendo una misura di sicurezza sul lavoro. Altra cosa da chiarire è, per gli addetti a uno sportello aperto al pubblico (riscossione tributi, anagrafe, posta o banca, eccetera), se dovranno richiedere e verificare il possesso del passaporto sanitario all’utenza, nella maggior parte composta da non lavoratori: pensionati, stranieri residenti in Italia, inoccupati o con reddito di cittadinanza e così via. P.s. Tra ottobre e novembre, come dicevo, tutti i lavoratori saranno vaccinati. Se tra loro c’è ancora qualcuno che ha dei dubbi tra la scelta di vaccinarsi o tamponarsi ogni 48 ore, gli ricordo solo che quest’ultima opzione è pericolosissima: in caso, infatti, il tampone risulti positivo, sarebbero costretti a una “quarantena” (minimo 10 giorni di clausura in casa), con grave danno anche per la propria azienda.

Stefano Masino

 

La transizione ecologica è più difficile del Covid

Al ministro Cingolani e al governo dei (presunti) Migliori bisogna far sapere che affrontare la crisi ambientale globale sarà ben peggio che gestire la pandemia. E allora serve un pensiero e conseguenti progetti ambientalisti non solo radicali (se poi sono chic, che male c’è?) e oltranzisti, ma addirittura antagonisti. Perché non se ne verrà a capo senza un rovesciamento globale del sistema su cui oggi si regge il mondo. Non saranno sufficienti né la transizione digitale né quella energetica. Sarà necessario cambiare totalmente i paradigmi dell’economia e del mercato. L’imbroglio ecologico non può continuare. E se continuiamo ad affidarci ai rappresentanti del potere finanziario, siamo fritti (e non solo in senso figurato).

Valter

 

Per il Quirinale vedrei bene Lorenza Carlassare

Mi piacerebbe che la prossima presidente della Repubblica potesse essere Lorenza Carlassare, nonostante l’età avanzata. Donna e costituzionalista, eviterebbe eventuali assalti, o addirittura stravolgimenti della Carta costituzionale, di cui ci sarebbe tanto bisogno che venisse applicata e non continuamente stravolta a seconda del vento che tira!

Luca Bussandr

“Ingiusto pagare l’Iva: per me è ‘Ida’, Imposta Dolore Aggiunto”

Buongiorno, sono un pensionato di 80 anni e ho passato circa 60 anni felici con la mia Signora. Lei dal 2000 ha iniziato a manifestare decisamente problemi di memoria e comportamentali, nel suo caso, dovuti al morbo di Alzheimer. Saranno state le cure attualmente disponibili, e sicuramente la mia vicinanza e quella dei figli, il motivo per cui la malattia è degradata lentamente. Da dieci mesi è ospite in una Rsa, perché non ero più capace di gestirla adeguatamente. Quello che avevamo programmato per il nostro futuro è scomparso. Lei passa le giornate nel suo nuovo mondo (non riconosce me, i figli e nipoti), gli addetti mi dicono che è serena, io invece vivo di ricordi e nel dolore.

Ho letto che ci sono iniziative per ridurre o togliere l’Iva agli assorbenti per le donne (bene), e alcune realtà l’hanno tolta. Ma ci sono anche altri casi in cui l’Iva è un’imposta penalizzante, in situazioni di per sé già difficili. La retta che pago alla Rsa incide circa il 65 per cento della mia pensione ed è soggetta a Iva del 5 per cento. Come certamente sapete, il servizio Rsa per le persone come la mia Signora è considerato “temporaneo”, cioè è soggetto a revisione ogni tre mesi, come se una persona potesse guarire da questo mostro di malattia, che invece nel tempo ti riduce a un rudere umano.

Ci sono inoltre problemi, sia economici sia burocratici per alcuni medicinali (ad esempio: piano terapeutico ogni sei mesi dal neurologo, la fornitura di olio con cannabis per il dolore, che oltre al costo è un’odissea per averlo, ecc.). Mi permetto di chiedervi, come vi è possibile, di coinvolgere chi di competenza, per eliminare l’Iva al 5 per cento: se non è possibile per la burocrazia italiana, almeno non venga chiamata Iva, ma Ida (Imposta Dolore Aggiunto).

Scusate, ma dovevo cercare di farvi comprendere cosa può attendere le persone, come me, verso il termine della vita. Ringrazio per l’attenzione. Buon Lavoro.

Alessandro Simoni

Democrazia, i valori universali resistono contro il relativismo

Riassumerei la questione in modo drastico: “Alcuni popoli hanno valori e cultura diverse dai nostri, e dobbiamo pienamente rispettarli come loro devono rispettare i nostri”. Si chiama “relativismo culturale”, ed è un problema annoso. Per la tolleranza delle idee c’è Voltaire con la celebre frase (mai scritta, ma attribuitagli) “Detesto ciò che pensi ma sono pronto a morire per lasciartelo dire liberamente”. Poi per la tolleranza “pratica” c’è il viaggiatore settecentesco James Cook, che osservava che in alcune isole polinesiane era normale l’infanticidio, e questi trovavano intollerabile il cannibalismo di altri, e viceversa, e Cook riteneva che l’unica cosa da fare in entrambi i casi era cercare di convincerli, non accopparli. Cioè la questione del “relativismo culturale” nasce in Europa con l’Illuminismo 250 anni fa, più o meno.

Ma veniamo allo specifico: la democrazia. Innanzitutto nasce davvero in Occidente, in Grecia (e non solo ad Atene: già alcuni compagni di Alessandro Magno criticavano il servilismo orientale a cui il loro capo troppo presto si era abituato). Recentemente alcuni illustri volonterosi (il più famoso è il Nobel Amartya Sen, indiano), hanno sottolineato che la tolleranza per il diverso ci fu secoli fa anche in India e Cina. Ma si trattava di “despoti illuminati”, riguardava solo la libertà filosofica e religiosa, non il potere politico, e durò solo durante il regno di costoro (i sudditi probabilmente nemmeno se ne accorsero). Ma la democrazia (intesa come libere elezioni) fa anche orrendi scherzi. Hitler andò al potere con la maggioranza relativa dei voti, e, se si fosse votato liberamente in Algeria 50 anni fa, tutti concordano che avrebbe vinto un partito islamico che intendeva abolire le elezioni (ci fu poi una terribile guerra civile). Se per democrazia poi si intende più genericamente il consenso della maggioranza, non c’è dubbio che questo è stato altissimo anche per Mussolini, Mao e Stalin. Allora è evidente che il volere della maggioranza non basta, è facilmente manipolabile. Occorre aggiungere anche la libertà di informazione (e la tutela delle minoranze). E non basta ancora: un’informazione libera può benissimo non raggiungere sostanziali quote della popolazione non istruite. E nemmeno l’istruzione è del tutto sufficiente per una libera scelta: forse occorre anche un minimo di “libertà dal bisogno”, per usare uno dei concetti chiave del marxismo, ma anche del già citato Amartya Sen. Gruppi sociali in situazioni di povertà possono essere indotti, da quelli da cui dipendono per uscire dalla loro condizione (capitalisti o politici), a fare scelte che non condividono. E, infine, ovviamente, è indispensabile l’esistenza di partiti diversi per cui votare.

Alla luce di quanto sopra, proviamo a discutere delle condizioni estreme di una libera scelta politica, anche in merito alla scelta politica stessa, cioè quella tra democrazia “all’occidentale” e non-democrazia, o meglio una delle pseudo-democrazie care ai regimi totalitari, che possono anche essere chiamate alla cinese “armonia confuciana” o alla russa “democrazia guidata”, ma che democrazie non sono. Quali sono queste condizioni? Alcuni le chiamano “metavalori”, perché vengono a monte delle decisioni politiche correnti (cioè più ambiente o più crescita, più difesa o più eguaglianza, ecc.). Abbiamo visto che probabilmente sono la libertà di informazione, un ragionevole livello di istruzione, diversi partiti politici e un minimo di eguaglianza economica. Senza queste pre-condizioni, un voto che scelga una non-democrazia, non sembra possa essere accettato. È un limite invalicabile al “relativismo culturale” (all’“ognuno a casa propria è libero di farsi gli affari suoi”).

Questo non significa che abbia senso fare la guerra a questi regimi. Ma la guerra può essere anche giusta e di successo, o avremmo Hitler e i fascisti padroni d’Europa. Battersi con tutti i mezzi ragionevoli per le proprie idee è sacrosanto, pur ricordando sempre che i valori sono dell’oggi, non certo universali nel tempo.

 

Italia alla rovescia. Il “Sussidistan” va bene solo se ingrassa le imprese

A giudicare da titoli e titoloni che i giornali hanno dedicato ieri e l’altroieri alla vittoria in tribunale dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, sembrerebbe di vivere nel Paese dei Soviet. Di colpo, tutti accanto ai lavoratori licenziati, anche se il giorno prima, quando quelli (e altri) erano scesi in piazza sotto lo striscione “Insorgiamo”, avevamo letto al più qualche trafiletto, piccole foto-notizie, spigolature non più lunghe delle noterelle acchiappa-click tipo il cane che conta fino a sei e la gara di velocità per lumache. Insomma, alla buon’ora: una òla per il tribunale che dà ragione ai lavoratori (bene, benissimo), e quasi niente per le lotte degli stessi lavoratori, che minacciano un autunno caldo, e non si fa, signora mia.

Resta sul campo, la proposta di inventarsi qualcosa per rimediare all’incidente belluino delle grandi aziende che vengono qui, prendono soldi per insediarsi, incassano contributi pubblici, e poi decidono di andarsene dove i lavoratori costano meno, magari licenziando con un sms, le famose delocalizzazioni. E qui – scusate la noia – scatta quello che potrebbe sembrare un dibattito culturale, il famoso “che fare”. Perché la proposta di penalizzare in qualche modo chi prende i soldi e scappa non piace per niente a Giorgetti (Lega), a Bonomi (Confindustria) e a Draghi (Draghi). Si era cominciato parlando di sanzioni abbastanza significative: una multa pari al due per cento del fatturato e la creazione di una black list, cioè niente contributi pubblici per qualche anno a chi ha fatto il furbo ed è finito nella lista. Apriti cielo. Da Confindustria hanno cominciato a metter mano ai fazzoletti, piangendo amare lacrime sulla “penalizzazione” delle aziende, e lo stesso ministro dello Sviluppo economico – descritto dalla stampa buontempona come il leghista che ci sta con la testa (la testa di Bonomi) – ha detto che così si scoraggia a investire in Italia. Cioè si scoraggia chi investe qui e scappa subito dopo, ma questo è un dettaglio. Insomma, la solita solfa, il chiagni e fotti che ben conosciamo.

Per fortuna ci sono le indiscrezioni dei giornali che ci illuminano su come la pensa Draghi (domani parlerà a Confindustria e forse sapremo), e cioè così: non bisogna punire i cattivi, ma premiare i buoni. Dunque, a quel che si è capito, limitare le sanzioni per chi scappa lasciando all’improvviso sul lastrico centinaia di famiglie, e dare invece incentivi a chi si comporta decentemente, cioè investe, assume, produce e guadagna. Risultato: un altro bonus per chi fa impresa, che prenderebbe così aiuti, incentivi, facilitazioni o sconti solo per il fatto di comportarsi come sarebbe giusto, normale e lecito.

Anche tendendo molto l’orecchio, a fronte di questa impostazione culturale (dare soldi a chi si comporta normalmente anziché toglierli ai manigoldi), non si colgono le grida dei liberisti, quelli contrari ai sussidi, allo Stato che mette il naso nell’economia privata, alla famigerata giungla normativa. Cioè: tutti contrari ai sussidi, a meno che i sussidi non arrivino alle imprese, nel qual caso niente da dire, anzi hurrà! Il famoso “Sussidistan” di cui parlò Bonomi riferendosi ai poveri aiutati dallo Stato, diventa di colpo una mano benedetta, un toccasana, qualcosa da applaudire con convinzione se invece va a premiare il famoso libero mercato, libero di allungare il cappello per il prossimo obolo – pardon, incentivo – che sarebbe tra l’altro l’ultimo di una lunga, lunghissima serie per il capitalismo assistito d’Italia.

 

Perché Draghi non mette la faccia: meglio le veline

L’aver delegato altri membri del governo a tenere la conferenza stampa sugli obblighi di “green pass” anti-Covid, dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, potrebbe aver confermato la convinzione di quanti ritengono – erroneamente – che il premier Mario Draghi sia poco interessato alla sua esposizione mediatica. In realtà non “metterci la faccia” – quando teme rischi per la sua immagine – è un classico nella sua strategia di comunicazione, che è sempre stata attentissima perfino ai dettagli nei dispacci di agenzie di stampa. Ed era impostata per sostenere con determinazione le sue ambizioni, che ha realizzato guidando la Banca d’Italia, la Banca centrale europea (Bce) e ora il governo.

Draghi ha sempre gradito comunicare in riunioni riservate, dove alcuni giornalisti venivano ammessi con l’impegno di rispettare le regole di confidenzialità attribuite al centro di studi politico-economici Chatham House di Londra. È un metodo molto usato da lobby semi-segrete di banchieri e grandi investitori multinazionali, che poteva starci negli anni di Draghi nella banca privata Usa Goldman Sachs. Ma, quando si ricoprono incarichi pubblici, non dovrebbe sempre prevalere il dovere di massima trasparenza?

Secondo le regole di Chatham House, tutto quello che il Draghi di turno dichiara – anche rispondendo a specifiche domande – può essere riportato, ma senza mai attribuirlo all’intervistato e all’organismo che rappresenta. Di fatto parla come fonte anonima. Ne consegue che questi incontri stile Chatham House possano produrre anche disinformazione e “veline” verbali, che il giornalista ammesso in genere è chiamato a diffondere (se vuole essere ancora invitato). A Draghi va riconosciuto ben altro livello di stile e di competenza rispetto a come questo opaco metodo di comunicazione è stato attuato – per esempio – dalla Commissione europea di Bruxelles. Il Corriere della Sera rivelò il caso del commissario Ue finlandese Olli Rehn, che organizzava colloqui con giornalisti fidati in stile Chatham House nella sauna della sede centrale: imponendo anche il “dress code” del suo Paese (nudo integrale). In più, chi voleva essere ammesso a colloqui riservati con commissari Ue, a volte doveva far pubblicare dal suo giornale interviste promozionali e addirittura “bozze di lavoro” di euroburocrati spacciate per anticipazioni di decisioni dell’Ue, mentre la Commissione europea può solo proporre le direttive (i poteri decisionali spettano al Consiglio dei governi, con l’approvazione dell’Europarlamento per alcune materie). Draghi era interessato a comparire soprattutto sul Financial Times di Londra e sul Wall Street Journal di New York, i quotidiani di riferimento della finanza internazionale. Ha evitato i programmi tv, marcando così una netta distanza dai “tecnici da talk show” tipo l’ex premier Mario Monti o dai politici chiassosi come Matteo Salvini o Matteo Renzi. Una esposizione mediatica globale l’ha già acquisita negli otto anni alla Bce, dove rendeva note le posizioni ufficiali in conferenze stampa internazionali nella sede di Francoforte o in audizioni pubbliche nell’Europarlamento a Bruxelles e Strasburgo. Per comunicare senza “metterci la faccia” non conosceva solo il metodo Chatham House. Quando partecipava alle riunioni – sempre segrete – dei capi di Stato e di governo dell’Ue e dei ministri dell’Eurogruppo, “casualmente” trapelavano alcune indiscrezioni sui suoi interventi, che non poteva non gradire. Dalle stesse fonti anonime non uscivano i fatti che potevano offuscare la sua immagine: tipo un acceso scontro all’Eurogruppo con il ministro delle Finanze greco Euclid Tsakalotos, che portò il presidente della riunione a imporre ai due di andare a chiarirsi fuori dalla stanza. Draghi può irritarsi, se contestato con domande imbarazzanti. Vari giornalisti sospettavano che, da presidente della Bce, avesse assunto a capo della comunicazione il corrispondente del Financial Times da Francoforte, Michael Steen, anche per eliminare una voce potenzialmente critica. Tra i corrispondenti da Bruxelles si ricorda una conferenza stampa di un Eurogruppo/Ecofin informale, dove Draghi – nell’introduzione – anticipò di non voler trattare il tema più delicato del giorno per la Bce. E apparve contrariato, quando un giornalista gli rivolse proprio la domanda non voluta per fargli capire che solo i reporter possono decidere cosa chiedere. In seguito Draghi eliminò la presenza del presidente della Bce agli incontri con i giornalisti di Bruxelles negli Eurogruppo/Ecofin informali e delegò i suoi vice a “metterci la faccia” al suo posto. Un po’ come ha fatto nella conferenza stampa sui discussi obblighi di “green pass”. Da premier dovrebbe però dimostrare sempre la massima trasparenza. E chiarire di aver rinunciato alle regole di Chatham House.

 

Giubbotti di salvataggio, dinosauri in centro e delfini allo specchio

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Lo yoga è utile, ma ridicolo. Tutte quelle posizioni strane! Ce n’è una in cui posso sentire distintamente le mie palle che dicono alle mie orecchie: “Cosa stai facendo, Daniele?”.

Evitare le banche dove, quando fai un versamento, il cassiere ridacchia e il direttore si frega le mani.

Anni fa ho conosciuto una donna cui piaceva fare sesso spesso e in modo rumoroso. Purtroppo era anche come le piaceva mangiare.

Draghi ha lanciato un allarme contro il riscaldamento globale. In effetti, stamattina in centro ho visto un dinosauro. Non può essere un buon segno.

Domanda: cosa si deve fare quando si vede un animale in via d’estinzione che mangia una pianta in via d’estinzione?

Quando gli insetti domineranno la Terra, spero si ricordino con gratitudine di quando li spruzzavamo di Raid.

Proteste di sindacati e lavoratori per la nuova Ita. Io ho capito che l’Alitalia era in crisi vent’anni fa, quando mi sono accorto che il giubbotto di salvataggio funzionava a monetine.

I delfini riescono a riconoscersi allo specchio. Tranne quando hanno appena stuprato una murena e si vergognano di guardarsi in faccia.

Un marito ha assassinato la ex anche questa settimana. Gli investigatori hanno compilato una lista degli oggetti di cui l’uomo si sarebbe servito per l’uccisione, compresi un piede di porco, una vanga, acido muriatico, idraulico liquido e candeggina. E lui: “No, quelle erano solo cose che usava per struccarsi”.

335 anni fa nasceva a Danzica il fisico D.G. Fahrenheit, l’inventore del termometro a mercurio. Pare fosse un tipo palloso, ma a furia di chiedere ai passanti cosa dovesse farne della sua invenzione scoprì il termometro rettale.

Studi recenti dimostrano che il termometro rettale è il modo migliore per misurare la temperatura di un bambino. E per fargli capire chi è che comanda davvero in famiglia.

Visto in anteprima il nuovo film di Moretti. La mia ragazza ha dovuto iniettarmi una siringa piena di adrenalina nel cuore per tenermi sveglio.