Gli italiani resteranno a terra o spenderanno di più con le low cost

Col decollo di Ita gli italiani resteranno a terra. E se saranno fortunati e troveranno posto a bordo lo dovranno pagare molto di più. Sono conseguenze ovvie della legge della domanda e dell’offerta applicata al trasporto aereo in questa fase particolare, caratterizzata dall’uscita dalla pandemia e dal drastico ridimensionamento dell’offerta nel passaggio da Alitalia a Ita. Con domanda in crescita e offerta in calo i prezzi non potranno che lievitare, come ogni manuale di microeconomia spiega a ogni studente universitario del primo anno.

Riguardo alla domanda non è vero per tutti i segmenti di mercato che la ripresa dalle conseguenza della pandemia sia lenta e i livelli di traffico ancora molto distanti da quelli precedenti il Covid. Si tratta di una credenza indotta dal dato generale che evapora tuttavia quando si passa a un’analisi disaggregata. Gli ultimi dati disponibili, relativi a luglio, mostrano che il numero di voli commerciali è stato solo il 59% di quelli dello stesso mese del 2019 e i passeggeri da essi trasportati, ancora meno, solo il 47%. Ma questi dati sono condizionati dalla debole ripresa dei segmenti internazionali, i cui voli erano solo la metà di quelli di prima della pandemia e i passeggeri solo il 40% verso l’Unione europea e neppure il 30% verso il resto del mondo. Tuttavia se guardiamo al segmento dei voli domestici, quelli con origine e destinazione in Italia, vediamo che sia i voli che i passeggeri erano già al 90% di quelli di due anni fa, vicinissimi a un pieno recupero.

In agosto i voli totali sull’Italia si sono portati al 75% di quelli di luglio 2019 ed è dunque probabile che quelli domestici siano saliti al di sopra del 100% del livello ante-Covid, conseguendo un pieno recupero degli effetti della pandemia. Per Alitalia, che si è sempre concentrata sui voli nazionali, sarebbe un’ottima notizia. Infatti i 12 milioni di passeggeri annui ante-Covid erano ben più della metà dei suoi clienti totali. Ma invece Alitalia sta per chiudere ed essere sostituita da Ita, il cui management non sembra tuttavia credere alla ripresa della domanda. Come riportato dal Corriere il 6 settembre, “sulle trattative (coi sindacati) potrebbero planare anche le ultime previsioni sul mercato Italia che sono meno rosee per i prossimi quattro anni e che, stando agli esperti internazionali, consiglierebbero a Ita una riduzione dei velivoli e del personale rispetto a quanto (poco, aggiungiamo noi, già) previsto dal piano industriale”.

In sostanza il mercato domestico è tornato sopra i livelli ante pandemia ma gli esperti internazionali, forse perché lo guardano da casa loro, non se ne sono ancora accorti e Ita, che è nata micro, ma teme già di essere troppo grande, non sarà in grado di trasportare i 12 milioni di vecchi clienti di Alitalia perché non sa dove metterli. Infatti per trasportarli la vecchia Alitalia aveva bisogno di circa 60 aerei della sua flotta di medio raggio, stimando 110 viaggiatori in media per volo e cinque voli quotidiani in media per aereo. Ma la nuova Ita partirà con soli 45 aerei di medio raggio e di essi almeno 15, ma forse anche 20, dovrà destinarli ai voli europei. Dunque con metà degli aerei l’offerta di Ita sui cieli nazionali si dimezzerà rispetto ad Alitalia e i passeggeri accolti a bordo saranno solo 6 milioni, 7 al massimo riempiendo di più gli aerei.

I restanti 5 o 6 milioni, forse di più, resteranno a terra, salvo trovare un altro vettore a cui tuttavia la scarsità di offerta che si è creata permetterà un consistente aumento dei prezzi. Sui 32 milioni di viaggiatori totali del segmento domestico un calo di capacità di 6 milioni corrisponde infatti a circa un quinto del mercato. E O’Leary di RyanAir ha già annunciato forti rincari da ottobre sui mercati europei a causa della caduta della capacità che ha interessato anche altre compagnie tradizionali. Così dall’autunno gli italiani faticheranno a volare, e dovranno spendere molto di per farlo ma anche per sostenere la Cigs dei dipendenti di Alitalia rimasti senza lavoro, i quali non produrranno più i voli sui quali essi avrebbero invece preferito viaggiare. In sostanza è come andare al ristorante e pagare per non essere serviti.

Ita, il piano non si vede: “top secret” in Parlamento

Braccia conserte, qualche movimento delle mani per contenere una manciata di fogli e, soprattutto, pochissime risposte. Così ieri il presidente di Ita, Alfredo Altavilla, ha affrontato le due audizioni, alla Camera e al Senato, sul piano industriale della nuova compagnia di bandiera che spiccherà il volo il 15 ottobre con una flotta dimezzata di 52 aerei e con soli 2.800 dipendenti rispetto agli attuali 11 mila di Alitalia. Dell’ad di Ita, Fabio Lazzerini, nessuno ne ha sentito la voce. Eppure le due audizioni erano attesissime e, sulla carta, ricche di dati tanto da aver fatto ottenere dai vertici di Ita la loro segretazione.

La società a totale capitale pubblico, dopo lo strappo dell’altro ieri con i sindacati, ha invece deciso di andare avanti con il proprio piano: senza dettagli sui futuri accordi di leasing per aumentare la flotta e commerciali per riconquistare le tratte europee ed extra Ue ormai perse. Ma soprattutto Ita ha ribadito di adottare unilateralmente il proprio regolamento, avviando le chiamate ad personam. “Le assunzioni sono partite oggi (ieri, nda)”, ha comunicato Altavilla ribadendo che il contratto di lavoro applicato non segue il contratto collettivo nazionale, con salari che – stando ai sindacati – sono fino al 40% più bassi, ma che per i vertici Ita sono invece “assolutamente allineati” e “in alcuni casi superiori a quelli degli altri vettori tradizionali”.

“In base a quanto ascoltato, c’è la conferma che Ita ha messo a punto un piano al contrario: è partito dal reset del contratto collettivo, pur trattandosi di azienda pubblica. E solo tra un anno si vedranno i veri numeri del piano”, spiega la senatrice M5s Giulia Lupo, che più volte si è appellata con Pd e Leu affinché il governo intervenga. Richiesta che ora ha colto nel segno: sul piano industriale di Ita il 5 ottobre ci potrebbe essere una informativa del ministro del Tesoro Daniele Franco.

Anche se il presidente di Ita non ha fornito dettagli, sono i sindacati – in mobilitazione davanti la sede di Ita a Fiumicino, dove resteranno fino allo sciopero generale di venerdì – a fornire i dettagli del nuovo regolamento. Secondo Filt Cgil, lo stipendio mensile di un assistente che vola 60 ore sarà di 890 euro, contro il triplo che prende oggi. Importo che, però, viene calcolato con una tariffazione progressiva e una base fissa in busta paga. Sparita poi la quattordicesima e riposi saranno dimezzati. A distanza è andata in scena anche un’altra querelle tra Ita e l’ex compagnia di bandiera sul marchio Alitalia. Se per Altavilla il prezzo base di 290 milioni di euro viene bollato come “irrealistico”, i commissari di Alitalia confermano che la stima rappresenta un valore minimo certificato. Oggi si ricomincia.

Rai, altro conflitto d’interessi: un’autrice di Unomattina consulente della Carfagna

AUnomattina sembra esserci una sorta di pandemia. Tutti col vizietto della politica. Questa volta con un piccolo giallo. Dopo il caso di Marco Ventura, costretto a lasciare l’incarico di autore dopo esser diventato consigliere della presidente del Senato Casellati, spunta un altro autore col doppio incarico. Si tratta di Paola Tavella che, se da una parte risulta essere in forza a Unomattina dopo aver lavorato a Unomattina Estate come autrice, dall’altra è stata fino a pochissimo tempo fa (31 agosto) consulente del ministro per il Sud, Mara Carfagna. Un incarico che, come pubblicato dal sito trasparenza di Palazzo Chigi e riportato dal sito Vigilanza Tv, ha inizio il 14 febbraio 2021 e termina alla “scadenza del mandato governativo”. Senonché dal ministero si affrettano a spiegare che “Tavella non è più consulente”. E la stessa Tavella, dopo che il dem Andrea Romano aveva invitato la Rai a fare chiarezza, ha twittato: “Vorrei rassicurare che al momento nessun contratto mi lega al ministero del Sud, né alla Rai”. Fonti di Viale Mazzini, però, raccontano che, contratto o meno, Tavella a settembre è stata parte integrante della redazione di Unomattina, con tanto di presenza in redazione. Tanto che il consigliere Riccardo Laganà ha scritto all’ad Carlo Fuortes sollevando questioni di opportunità. Adesso, però, al ministero non ci lavora più, quindi il problema sarebbe risolto. Tavella, già autrice di programmi Rai, è stata consulente di Carfagna anche quando quest’ultima era vicepresidente della Camera. Ed è un personaggio noto: scrittrice, ex giornalista del manifesto, autrice di diversi libri, di cui il più noto è Il prigioniero, scritto con Anna Laura Braghetti, la brigatista che accudì Aldo Moro nel covo di via Montalcini, testo su cui Marco Bellocchio si è basato per il film Buongiorno notte.

Ma in queste ore un altro caso turba il sonno dei dirigenti Rai. È il nuovo sito d’informazione, Rai24, quello che avrebbe dovuto curare Milena Gabanelli. Ora è tutto pronto. “Si parte entro l’anno”, si è esaltato Fuortes con Andrea Vianello. Il progetto c’è già, mancano i giornalisti: ce ne sono 22 e ne servono una quarantina. Per questo è stato fatto un job posting interno che, però, ha scatenato un mare di polemiche: l’invito è aperto solo alle testate giornalistiche con sede a Roma e non alle regionali, che hanno personale più giovane e più adatto al web. Risultato: dai tg nazionali nessuno si vuole spostare, se non con mega promozioni. E dalle Regioni, dove il personale c’è, non può arrivare nessuno.

Tor Vergata, chiesti 34 mesi per l’ex rettore

Due anni e dieci mesi, più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. È la richiesta del pm Mario Palazzi nel processo all’ex rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, biologo molecolare di fama, accusato di tentata concussione e induzione alla corruzione nei confronti di due allora (2016) ricercatori, l’amministrativista Giuliano Grüner che oggi è prof ordinario alla Unipegaso e il chirurgo Pierpaolo Sileri, oggi sottosegretario ma anche vincitore di un posto da associato al San Raffaele di Milano. Il Fatto pubblicò gli audio anni fa. Novelli minacciava Grüner e cercava un accordo con Sileri per ottenere il ritiro dei loro ricorsi contro le chiamate dirette in cattedra, senza concorso, che li avevano danneggiati. Il rettore, ha detto Palazzi, non voleva che con i ricorsi “saltasse la baracca”, cioè le nomine già fatte (104 in tutto) con la procedura poi invalidata dal Consiglio di Stato. Il pm ha censurato la “concezione feudale” dell’università, in cui c’era “piena consapevolezza della scelta di evitare la valutazione comparativa tra diversi candidati”, cioè il concorso.

Torino, “A giudizio l’ex senatore Pd Stefano Esposito”

Sarà il 23 novembre al Tribunale di Torino l’udienza preliminare che dovrà decidere del rinvio a giudizio dell’ex senatore pd Stefano Esposito, dell’imprenditore Giulio Muttoni, ex patron della società organizzatrice di concerti Setup Live, del vicepresidente del consiglio comunale Enzo Lavolta (Pd) e altri 32 per i quali la Procura ha chiesto il processo con accuse, a vario titolo, di corruzione, turbativa d’asta, traffico di influenze illecite e rivelazione di segreti d’ufficio. La vicenda nasce da un’interdittiva antimafia alla società di Muttoni, sia perché un suo socio era amico di un uomo della ’ndrangheta, sia perché non aveva denunciato le estorsioni di biglietti di concerti da parte di un gruppo criminale. Per liberarsene, l’imprenditore avrebbe chiesto e ottenuto l’interessamento del senatore Esposito, già componente della Commissione antimafia. Visto il coinvolgimento di uomini delle forze dell’ordine e di un parlamentare, la Procura ritiene che il Senato e ministeri di Interno e Difesa siano persone offese nel procedimento.

Gazzetta del Mezzogiorno ancora chiusa per i ricorsi (e Caltagirone punta su Bari)

Non c’è pace per La Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano di Bari più diffuso in Puglia e Basilicata, dopo il fallimento delle due società che facevano capo all’editore siciliano Mario Ciancio: cioè la “Mediterranea” proprietaria della testata e la “Edisud” che la gestiva e pubblicava. Continua la guerra di carte bollate intorno alla proprietà del giornale, assente ormai dalle edicole dall’inizio di agosto in seguito alla contesa giudiziaria fra il gruppo Ladisa (ristorazione commerciale) e il gruppo Miccolis (autobus, lavori portuali, bonifiche e smaltimento dei rifiuti). Quest’ultimo, attraverso la sua società “Ecologica”, s’era aggiudicato la competizione per acquisire la testata, con il parere favorevole dei curatori e del comitato dei creditori. Ma, proprio alla vigilia della scadenza dei termini, la “Ledi” dei fratelli Ladisa – che aveva assunto intanto la gestione temporanea del quotidiano – ha presentato un reclamo al Tribunale fallimentare di Bari, invocando alcuni presunti vizi procedurali, su cui ora il giudice dovrà pronunciarsi. Si allungano così i tempi per il ritorno in edicola del giornale che vanta 134 anni di storia, durante i quali non aveva mai interrotto le pubblicazioni, neppure durante il fascismo. Alla scadenza del 31 luglio, quando è terminato il contratto provvisorio di affitto, la “Ledi” ha improvvisamente ritirato l’impegno a prorogarlo fino all’assegnazione definitiva delle testata, lasciando i lettori pugliesi e lucani senza la loro Gazzetta. E ora, mentre la partita sembrava chiusa in attesa dell’omologa del Tribunale, questo ricorso ha provocato un ulteriore slittamento dei termini a danno della testata, dei suoi redattori e dei suoi poligrafici rimasti da due mesi senza lavoro. Nel frattempo, gli stessi Ladisa hanno avviato una trattativa con il gruppo Caltagirone, già editore del Messaggero, del Mattino, del Gazzettino di Venezia e del Corriere Adriatico, per acquistare il Nuovo Quotidiano di Puglia che ha allestito in tutta fretta un’edizione di Bari, aggiungendola a quelle di Lecce e di Taranto. A quanto pare, però, la richiesta di circa 8 milioni di euro avrebbe fermato finora l’operazione. La tattica dilatoria messa in atto da “Ledi” sul piano giudiziario per la vertenza Gazzetta potrebbe favorire così l’espansione di Francesco Gaetano Caltagirone in Puglia, dove si dice che sia interessato soprattutto all’Acquedotto pugliese, tra i più grandi d’Europa, che serve oltre 4 milioni di persone ed è utilizzabile per installare qualsiasi tipo di cablatura.

“Alcuni prelati mi volevano morto”: il Papa accusa chi prepara il Conclave

In Vaticano c’è aria di conclave. Ma non perché Papa Francesco stia male o sia in procinto di dimettersi, come pure qualcuno nelle ultime settimane ha provato a far credere. Indiscrezioni alimentate dall’intervento al colon a cui Bergoglio si è sottoposto il 4 luglio scorso al Policlinico Gemelli di Roma. L’aria di conclave è alimentata da chi, in Vaticano, ma è più corretto dire tra i cardinali elettori, sta già lavorando per la successione di Francesco.

A denunciare queste manovre è stato lo stesso Pontefice in un colloquio a porte chiuse con i suoi confratelli gesuiti slovacchi durante il suo recente viaggio nel cuore dell’Europa e riportato da padre Antonio Spadaro sul prossimo quaderno della Civiltà Cattolica: “Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene. Fare quell’intervento chirurgico è stata una decisione che io non volevo prendere: è stato un infermiere a convincermi. Gli infermieri a volte capiscono la situazione più dei medici perché sono in contatto diretto con i pazienti”. Il riferimento del Papa è a Massimiliano Strappetti, l’infermiere del Vaticano che lo ha convinto a sottoporsi all’operazione.

All’interno del Collegio cardinalizio le manovre per non arrivare impreparati al conclave che dovrà eleggere il successore di Francesco sono in atto già da tempo. Del resto, la preoccupazione abbastanza diffusa tra gli eminenti elettori è quella di non replicare lo choc seguito alle dimissioni inattese di Benedetto XVI. Situazione che portò, appena un mese dopo, all’elezione di Bergoglio arrivato secondo nel conclave che aveva eletto Ratzinger otto anni prima. Incontri conviviali, riunioni, confronti a tratti anche aspri sono all’ordine del giorno tra i porporati che saranno chiamati a entrare nella Cappella Sistina quando si aprirà la Sede Vacante.

Il cardinale di New York, Timothy Michael Dolan, ha da tempo inviato a tutti i porporati il volume del teologo cattolico statunitense George Weigel, notoriamente acceso critico di Francesco. Il testo si intitola Il prossimo Papa e negli Usa è stato pubblicato da Ignatius Press, la casa editrice ultraconservatrice molto legata al cardinale Raymond Leo Burke, tra i principali oppositori papali nel Collegio cardinalizio, e all’ex nunzio a Washington, monsignor Carlo Maria Viganò, che ha chiesto perfino a Bergoglio di dimettersi per la gestione dei casi di pedofilia del clero. Recentemente il testo di Weigel è stato tradotto in italiano e pubblicato da Fede & Cultura. Nella lettera di accompagnamento con la quale Dolan ha inviato il libro ai suoi confratelli, si legge: “Sono grato alla Ignatius Press per aver messo a disposizione del Collegio cardinalizio questa importante riflessione sul futuro della Chiesa”.

Nel 2013 il porporato americano, insieme a tutti gli altri dieci cardinali elettori statunitensi, votò convintamente per Bergoglio. Ma, già pochi mesi dopo la fumata bianca, non nascose la sua delusione per un pontificato che nelle Congregazioni generali pre conclave si era prospettato riformatore, accusandolo di avere, invece, disatteso quelle premesse.

Era stato proprio Dolan, dopo le dimissioni di Benedetto XVI, a incassare, in modo più o meno esplicito, l’endorsement del cardinale Camillo Ruini, escluso, però, dal conclave a motivo dell’età avanzata. La mossa di Dolan è indicativa perché, soprattutto negli Usa, la critica al pontificato bergogliano è abbastanza forte. Non a caso, Francesco, parlando con i gesuiti slovacchi, ha raccontato che “c’è una grande televisione cattolica che continuamente sparla del Papa senza porsi problemi. Io personalmente posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo: è opera del diavolo. Io l’ho anche detto ad alcuni di loro. Sì, ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto. A me, a volte, viene a mancare la pazienza”.

Loggia Ungheria, primi riscontri dei pm sulle rivelazioni di Amara

Una perquisizione. Un nuovo deposito di documenti. E i primi riscontri ad alcune dichiarazioni di Piero Amara. Le indagini sulla presunta loggia Ungheria, svelata dall’ex legale esterno dell’Eni Piero Amara, proseguono a Perugia e, per alcune vicende, anche a Potenza e Firenze.

Nei giorni scorsi è stato perquisito il coindagato di Amara (per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete) Giuseppe Calafiore. La perquisizione di Calafiore disposta dalla Procura di Perugia era mirata: gli investigatori della Guardia di Finanza cercavano alcune registrazioni delle quali Amara aveva più volte parlato anche in tv. Registrazioni in possesso di Calafiore che però finora non aveva mai depositate. La perquisizione non è andata a buon fine, poiché le registrazioni in questione non sono state trovate, ma Calafiore – assistito dall’avvocato Alberto Gullino del foro di Messina – ha deciso di portarle personalmente in procura. Al Fatto risulta che siano almeno tre e che, in qualche modo, stiano riscontrando alcune dichiarazioni di Amara il quale, nel frattempo, sta scontando in carcere la sua condanna per corruzione.

il dato è importante e non soltanto perché anche le registrazioni consentono – soprattutto alle Procure di Perugia e Potenza, guidate rispettivamente da Raffaele Cantone e Francesco Curcio – di continuare a distinguere, nel fluviale racconto di Amara, il vero dal falso. Il punto è che il lavoro investigativo sta portando gli inquirenti verso una direzione: nelle dichiarazioni di Amara, a quanto pare, del vero c’è. E sono previsti ulteriori interrogatori, disposti da tutte le Procure che si occupano di lui, inclusa quella di Milano, nei quali Amara (assistito dall’avvocato Salvino Mondello) dovrà ulteriormente precisare e dettagliare le dichiarazioni legate alla loggia Ungheria e che nei giorni scorsi avete letto in esclusiva sul Fatto Quotidiano.

Non è stata ancora depositata però la lista dei presunti affiliati che, secondo Amara, Calafiore avrebbe conservato all’estero. Non è proprio una lista, peraltro, ma la fotografia di un elenco ripresa a insaputa del suo proprietario e anche incompleta.

Resta il fatto che, come abbiamo spiegato negli articoli precedenti, in alcuni casi Amara è stato già smentito. Le sue dichiarazioni hanno per esempio determinato un fascicolo per corruzione, nei riguardi del magistrato Marco Mancinetti, terminato con l’archiviazione di quest’ultimo e l’invio degli atti alla Procura di Milano per valutare l’ipotesi di calunnia nei confronti di Amara e dello stesso Calafiore che, anche in questo caso, aveva depositato una registrazione a supporto delle dichiarazioni dell’ex legale esterno Eni. Le registrazioni, questa volta, avrebbero invece fornito qualche riscontro in più. Le Procure impegnate nelle indagini sembrano quindi vicine a confermare la veridicità di alcune vicende raccontate da Amara. Poche, ma comunque inquietanti.

“A mia insaputa”: Fini, Scajola, Polverini. Quando i politici sbattono sul mattone

D’accordo i soldi, il prestigio, il potere, lo status: ma vuoi mettere col vecchio mattone? La Casta ha un feticismo immobiliare: case e casali, appartamenti, attici, ruderi, terreni e villini; politici in genere prudenti che sacrificano carriere ultradecennali sull’altare del catasto, teste che rotolano per un affare imperdibile o un rogito bizzarro. Il governatore sardo Christian Solinas, coi suoi strambi preliminari mai finalizzati da 200mila euro, è l’ultimo epigono di una lunga genìa di incauti.

Il caso più celebre e tragico è quello di Gianfranco Fini. L’uomo che ha portato i postfascisti al governo sarà ricordato sempre e per sempre per la famigerata “casa di Montecarlo”, l’appartamento monegasco che il cognato Giancarlo Tulliani acquistò dalla fondazione di Alleanza Nazionale (con i soldi riciclati del “re delle slot” Francesco Corallo). Lo scoop che ha massacrato Fini fu pubblicato sul Giornale di Berlusconi (anno 2010, erano i tempi del “che fai, mi cacci?” e della scissione finiana), il dossier fu confezionato da Valter Lavitola, micidiale spicciafaccende di Silvio. “Il Cavaliere mi diede 500mila euro per trovare quelle informazioni” ricorda ‘Valterino’, che oggi gestisce un ristorante di pesce a Roma. Il brutale destino di Fini l’ha sorpreso: “Per colpa di quella casa l’hanno letteralmente squagliato”.

Fatale fu anche il mezzanino in via del Fagutale numero 2, il gioiello da 180 metri quadri con vista sul Colosseo di Claudio Scajola. O meglio, abitato da Scajola ma pagato in larga parte da Diego Anemone, l’imprenditore della “cricca” del G8 aquilano. Correva sempre l’anno 2010: “Sciaboletta” ci mise 600mila euro, Anemone 1 milione tramite l’architetto Angelo Zampolini, più 100mila di ristrutturazioni. Scajola prima si coprì di eterno ridicolo abbozzando una difesa leggendaria: poteva anche darsi che la casa fosse pagata da Anemone, ma “a sua insaputa”. Poi si dimise da ministro dello Sviluppo economico. Nel 2014 è stato assolto dall’inchiesta penale, ma per la rabbia e l’imbarazzo ha detto di non esser più riuscito a metter piede nella “disgraziatissima casa”.

Immobili, immobili e ancora immobili. I 550 metri quadri (+200 di terrazza) di Ciriaco De Mita in via Arcione, centro storico di Roma, sono un manifesto del crepuscolo della Prima Repubblica. Nel 1988 la casa fu ristrutturata con i fondi del Sisde e De Mita finì di fronte al Tribunale dei ministri. La sua famiglia, che pagava un canone quasi simbolico (tra i 3 e i 4mila euro), l’ha acquistata per meno di 3 milioni e mezzo nel 2011, forse la metà del valore di mercato.

La pasionaria Renata Polverini perse l’innocenza la prima di innumerevoli volte per la casa popolare di San Saba (Roma): un affitto da 380 euro al mese, cioè la quota sanzionatoria per gli inquilini abusivi. Tale era infatti il marito di Renata, Massimo Cavicchioli, che occupava l’immobile illegalmente dalla morte della nonna nell’89 (lo scandalo scoppiò nel 2011, poi i due si sono separati e Cavicchioli è stato sfrattato).

La storia politica è fatta di tanti affitti particolari: Giulio Tremonti e i 4mila euro in contanti al deputato Marco Milanese (che ne pagava a sua volta 8mila), Matteo Renzi e la casa pagata da Marco Carrai, Roberto Calderoli e quella pagata dalla Lega. Svariati ministri sono inciampati sul mattone: Pietro Lunardi pagò 4 milioni un palazzo che ne costava 8 (e apparteneva a Propaganda Fide), persino i sobri montiani Filippo Patroni Griffi e Vittorio Grilli finirono sulla graticola per affari immobiliari strabilianti a canoni parecchio lontani da ogni ipotesi di mercato, proprio loro che nel mercato hanno tanta fede.

E poi c’è la storia inversa, quella di Antonio Di Pietro. Anche lui “squagliato”, come Fini, agli occhi dell’opinione pubblica. Un’inchiesta di Report gli attribuì la bellezza di 54 proprietà immobiliari. In verità erano “particelle catastali”, scrive Marco Travaglio in Bugiardi senza gloria: “Un singolo terreno può comprenderne una decina. Si gioca con le parole, puntando alla confusione”. Gli immobili di proprietà della famiglia Di Pietro in verità erano 11, i suoi personali 3 (invece di 54). Ma la carriera politica è in archivio.

“Il mio terreno? Mica lo sapevo a chi vendevo…”

Se gli affari immobiliari di Christian Solinas fossero una serie tv, l’ultima puntata s’intitolerebbe: “Non so chi compra i miei terreni”. E racconterebbe di come il 4 novembre 2020 il governatore sardo si sia recato nello studio del suo notaio per firmare un preliminare di vendita di alcuni rustici di sua proprietà per 550mila euro, e di come solo allora abbia saputo che l’acquirente era Roberto Zedda. Un imprenditore da almeno 15 anni in affari con la Regione. Fino a quel momento, infatti, Solinas ignorava l’identità di chi si stava impegnando a versargli oltre mezzo milione di euro entro il 30 giugno 2021 e di chi pochi minuti dopo gli avrebbe dato una caparra da 200mila euro, promettendo di versarne altri 50mila entro 10 giorni. A raccontarlo è lo stesso Solinas, che lunedì ha rotto il silenzio sull’inchiesta del Fatto sulle sue compravendite: i due preliminari sottoscritti nel 2013 (per 40.350 mq di terreno a Capocaccia) e nel 2021 (per i ruderi a Santa Barbara) dal governatore con due imprenditori in affari con la regione. Vendite che hanno visto passare di mano due caparre da complessivi 400mila euro e delle quali all’Agenzia delle Entrate non risultano i rogiti.

Il Fatto ha poi rivelato come Solinas, subito dopo la “vendita” dei ruderi, il 2 dicembre 2020, Solinas abbia acquistato una villa da 1,1 milioni, grazie a un mutuo da 880mila euro concessogli dal Banco di Sardegna. Unica garanzia, la villa stessa. Operazione sulla quale la Procura a giugno ha aperto un fascicolo senza indagati, come anticipato dal Fatto.

Lunedì, Solinas ha dato la sua versione. In un post su Facebook ha spiegato che per vendere i ruderi aveva messo un annuncio su un sito (senza riportarne né il nome né la data dell’inserzione). E ha aggiunto di “aver conosciuto l’amministratore della società promissaria acquirente (Zedda, ndr) solo in occasione della sottoscrizione del contratto preliminare dinanzi al notaio”. Poi ha confermato che “l’atto definitivo non è ancora stato stipulato” perché il venditore avrebbe chiesto una dilazione di tre mesi. A testimoniare il tutto ci sarebbero due Pec che però Solinas non ha pubblicato.

Il governatore ha parlato anche del secondo preliminare (2013), che non è stato mai seguito da un rogito perché l’acquirente “è venuto a mancare”. E aggiunge che il contratto è stato “consensualmente risolto con gli eredi, ai quali ho restituito per intero la caparra”. Anche in questo caso, la spiegazione appare molto lacunosa. Il preliminare fissava la scadenza per firmare il rogito al 30 maggio 2014 e il compratore, Antonello Pinna, è deceduto ad aprile 2016, ben 23 mesi dopo la scadenza del termine. Dulcis in fundo, il presidente non spiega quando ha restituito la caparra.