“I bimbi non si ammalano, prima di vaccinarli sistemiamo le scuole”

Professor Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Ospedale di malattie infettive Spallanzani di Roma, è contrario alla vaccinazione dei bambini sotto 12 anni?

Non sono contrario in assoluto. Ma, uno, la malattia sui bimbi è rara, al “Bambin Gesù” di Roma neppure uno è finito in terapia intensiva, al massimo degenze di tre, quattro giorni; e anche il contagio resta molto basso. Due, serve a proteggere i più deboli? Abbiamo detto che tra i bambini anche il contagio è su numeri piccoli, quindi se non sono infetti non contagiano, anche perché tendenzialmente ormai dovrebbero stare con genitori vaccinati che li portano a scuola da insegnanti vaccinati. Tre, non possiamo andare sempre a rincorrere comunicati stampa delle case farmaceutiche: ne riparleremo, eventualmente, quando si pronunceranno le agenzie regolatorie. Al momento non ci sono evidenze scientifiche inoppugnabili.

Quindi ci sta dicendo che è un dibattito lunare?

Secondo me non ci sono le condizioni per fare questi vaccini ai bambini, i numeri dei trial sono troppo piccoli. D’altra parte c’è difficoltà a trovare adulti in questo momento per la sperimentazione degli anticorpi monoclonali, immaginate che ci possa essere la corsa a far sperimentare il vaccino anti-Covid sui bambini? Io mi chiederei come si proteggono i bambini, invece. Con la vaccinazione degli adulti lo abbiamo già detto. Poi con aule capaci, con distanze possibili, invece siamo ancora alle “classi pollaio”. I presidi e gli operatori scolastici denunciano questo almeno. Senza parlare degli impianti di ricircolo dell’aria vetusti… così avremo un inverno con dei poveri piccoli costretti a un’odiosa per loro mascherina ma con le finestre aperte a soffrire il freddo e, magari, ammalarsi.

Poi c’è il capitolo trasporti… anche qui non sono stati fatti grandi progressi o sbaglio?

Sì, da un anno e mezzo non è stato fatto niente, questo è sotto gli occhi di tutti. Riguarda i ragazzi più grandi, diciamo dai 14 anni, magari speriamo vaccinati. Ma che tipo di trasporti gli stiamo offrendo per portarli nelle scuole? Autobus nuovi e ampi, che permettono una giusta distanza? Sanificati? Non mi pare.

Non si vive di solo vaccino insomma…

Il vaccino è uno strumento fondamentale, strategico, che sta dando risultati incredibili. Ma non trasforma in Superman. Sconta una piccola percentuale di inefficacia e c’è il problema dei fragili che possono non produrre anticorpi. Per questo, per loro, serve la dose addizionale, da studi già solidi parrebbe molto utile. Mi concentrerei su questo, rispetto alla campagna vaccinale, insieme alla situazione degli over 50 che nel prossimo mese e mezzo andrebbero coperti, perché in Italia sono davvero ancora troppi a non aver ricevuto neppure una dose (più di tre milioni, ndr).

Lei ha anche un incarico di consulenza nella Federazione italiana giuoco calcio: si invoca da più parti un ritorno alla capienza del 100% negli stadi, cosa ne pensa?

È un falso problema. Uno stadio nuovo, funzionale, un’arena-salotto, con le giuste corsie per flusso e deflusso, puoi riempirlo. Solo pochi stadi in Serie A se lo possono permettere oggi. Dal punto di vista epidemiologico fanno più danni 20 mila persone in stadi fatiscenti pensati nel secolo scorso che 50 mila in uno stadio nuovo con tutti i crismi.

Altro che “boom Green pass”. Prime dosi giù: -33% in 15 giorni

Quattro giorni fa il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo ha annunciato un incremento generalizzato delle prenotazioni delle prime dosi “tra il 20 e il 40% rispetto alla scorsa settimana”. Era il 18, sabato scorso. Effetto-Green pass, secondo Figliuolo, dopo l’introduzione dell’obbligo del certificato verde nei luoghi di lavoro.

Qualche miglioramento c’è stato in alcune di quelle aree dove è più alta la percentuale della popolazione che non si è ancora vaccinata, tra indecisi, ritardatari, no vax. Se, però, si vanno a verificare i numeri rilevati i primi di settembre, si nota che le somministrazioni delle prime dosi stanno sensibilmente calando, invece. Dalle oltre 134 mila del 1° settembre (poi stabili a più di 115 mila nei due giorni successivi) sono scese progressivamente nella settimana compresa tra il 14 e il 20 (lunedì scorso). Periodo in cui hanno oscillato tra un minimo di poco più di 52 mila e un massimo di 85.310. In soli sette giorni, i primi di settembre, ne sono state fatte più di 733 mila. Nell’ultima settimana, fino all’altroieri, poco più di 492 mila. Il che significa quasi il 33% in meno. Inoltre, quando è stato approvato il decreto che prevede l’obbligo di vaccinazione per tutti i lavoratori (approvazione avvenuta il 16 e annunciata da due settimane) le prime dosi furono 61.882 e nei giorni immediatamente successivi non sono mai arrivate nemmeno a sfiorare quota 100 mila.

Il boom, insomma, non c’è stato. Certo, deve essere considerato che la platea della popolazione da vaccinare sta diminuendo sempre di più, visto che hanno già completato il ciclo più di 41 milioni di persone. E di conseguenza i numeri con il passare del tempo tendono a ridursi. Ma una vera rincorsa non sembra esserci stata. Ancor più dell’ultimo decreto del governo, ha cominciato a smuovere le acque l’estensione del certificato verde su treni a lunga percorrenza, aerei, traghetti. Ancora prima ha impresso una impennata l’obbligo di esserne in possesso per entrare in ristoranti, musei, palestre. E resta alta la percentuale di popolazione non vaccinata in alcune regioni: in Alto Adige, al primo posto in Italia con il 34,7% senza nemmeno la prima dose, in tre giorni, da venerdì scorso all’altro ieri, negli hub vaccinali sono state fatte duemila prime somministrazioni.

In Sicilia, dove il 31,6% della popolazione non è protetta, dal 17 al 20 settembre sono entrate complessivamente per la prima volta in un hub quasi 30 mila persone. In Campania, nello stesso lasso di tempo, 26.144; in Friuli-Venezia Giulia 3.895. Infine, ecco la Calabria: nemmeno 11 mila abitanti. E qui il tasso di non vaccinati raggiunge il 31,7%.

Anche Prodi tifa per l’asse coi 5S: “L’ho detto a Enrico Letta”

“Se non con il M5S, con chi si federa il Pd?”. È un Romano Prodi scoppiettante durante la presentazione del libro scritto con Marco Ascione, Strana vita la mia (edizioni Solferino), quello che dà la benedizione al progetto di Enrico Letta. Che prevede il rafforzamento (anche detto superamento e/o scioglimento) del Pd attraverso le Agorà e una sorta di Ulivo 2.0, alleato con i Cinque Stelle. Lo dice in chiaro a suo modo il segretario del Pd: “Sono pronto a modificare i punti cardinali della bussola, sapendo che la ripartenza sarà fuori dai punti cardinali che conosciamo e sono pronto a guidare questi processi”. D’altra parte racconta di una telefonata prima di accettare la sfida della leadership dei dem con il Professore, nella quale aveva di fatto già avuto il via libera all’alleanza con M5S. L’ennesimo bullone alla coalizione giallorossa, in una giornata in cui anche Giuseppe Conte dice che “al di là delle Amministrative, il dialogo con il Pd va avanti”.

La presentazione di ieri è un evento. Prodi assicura che non c’è stata alcuna “bacchettata” a Letta sul lavoro negli studi di Lucia Annunziata. Ma è il protagonista, anzi il mattatore dell’incontro. Occupa tutta la scena e si prende la briga di incoronare quello che chiama sempre e solo “Enrico” come una sorta di figlio piccolo. Così come riconosce una continuità tra i comitati che diedero vita al suo Ulivo con le Agorà. In prima fila ci sono la moglie, Flavia e la deputata vicina da sempre, Sandra Zampa. Nel pubblico si intravede Paola Severino. Si toglie qualche sassolino dalla scarpa, Prodi, quando dice che i famosi 101 furono di più, forse 120. Che adesso “hanno figli e nipoti”. Non ha dimenticato e non ha perdonato. Così ribadisce che no, non punta al Quirinale. Come ha detto negli scorsi giorni, anche per questioni di età. Una frecciatina a Sergio Mattarella: lui di anni ne ha 80, il Prof 82. Un modo per mettere i bastoni tra le ruote a tutti. Non a caso nelle sue parole si intravede una critica per niente velata a Joe Biden, soprattutto per l’approccio degli Usa alla Cina. E mentre definisce il proprio un “atlantismo adulto”, si sente invece una critica di sottofondo a Mario Draghi. Che è un atlantista oltranzista. Non risparmia nessuno, il Professore.

Comunali Sicilia: tornano Totò e i suoi compari

L’alleanza giallorosa da una parte e le molte intese trasversali dall’altra. Il centrodestra apparentemente spaccato, e il ritorno di alcune vecchi glorie, con la presenza del gattopardo per eccellenza: l’ex governatore Totò Cuffaro e la sua Democrazia cristiana.

È la Sicilia che torna al voto, in due diversi round: il 10 e il 24 ottobre. Alle urne andranno oltre 500 mila siciliani che voteranno in 46 su 391 comuni (11,7%).

Sarà soprattutto il banco di prova dell’alleanza nazionale giallo-rossa, che servirà per valutare l’asse Pd-M5S nell’isola, portata avanti dal segretario regionale Anthony Barbagallo e dal sottosegretario pentastellato Giancarlo Cancelleri. L’unione è riuscita però in soli 5 comuni (Adrano, Caltagirone, Lentini, San Cataldo e Favara), e in alcuni casi c’è stato il supporto del partito di Claudio Fava. Ma in diverse città il M5S andrà da solo, mentre il Pd viaggerà insieme all’Udc, ricevendo anche il sostegno da Forza Italia.

Sulla carta, appare disunito e frammentato il centrodestra. In molti comuni regge l’alleanza Lega e Forza Italia, che si troveranno dall’altra parte il duo Fratelli D’Italia-Diventerà Bellissima, partito del governatore Nello Musumeci. Una divisione dettata almeno al primo turno, probabile che in caso di ballottaggio il centrodestra torni a serrare le fila e ricompattarsi. Sarà interessante capire quanti voti riusciranno a portare al Carroccio siculo i nuovi acquisti, a partire dall’ex renziano e deputato regionale Luca Sammartino.

E se molti partiti hanno preferito nascondersi dietro liste civiche, torna in grande spolvero lo scudo crociato targato Salvatore Cuffaro. Totò “Vasa Vasa”, dopo aver scontato 7 anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio nel processo “talpe alla Dda”, e con la promessa che si sarebbe ritirato dalla politica per dedicarsi alla medicina e alle missioni in Africa, ha rifondato la Dc Sicilia. La Balena bianca si presenta in quattro comuni al fianco di Forza Italia, vecchio alleato di un tempo.

E se parliamo di vecchie glorie ed evergreen, non possiamo non citare il 78enne Nino Di Guardo, candidato sindaco a Misterbianco (Catania) dove ha già ricoperto la carica già 5 volte, tra il 1988 e il 2017, con una parentesi di due legislature alla regione. Proprio nel 2017, la sua amministrazione è stata sciolta per mafia, ma il tribunale civile di Catania ha dichiarato “insussistenti i presupposti per la declaratoria di incandidabilità”.

Ai piedi dell’Etna il centrodestra riabbraccia altre due vecchie glorie. Fabio Mancuso ad Adrano, 3 volte deputato regionale e 2 volte sindaco (2000-2008), finito in arresto nel 2011 con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti e condannato in via definitiva nel 2013 a otto mesi di reclusione e 2.500 euro di multa (pena sospesa).

E il 73enne Pippo Limoli a Ramacca, sfiduciato appena due anni fa dal consiglio comunale (poi commissariato) quando era sindaco. Vanta due legislature all’assemblea regionale e due da sindaco (1998 e 2003). Infine ci sono anche i casi di Vincenzo Combo a Canicattì (Agrigento) e Giuseppe Montesano a Vallelunga Platameno (Caltanissetta), entrambi sindaci per ben due volte dei rispettivi comuni. Vallelunga venne sciolto per mafia nel 2009 proprio quando c’era Montesano, decisione poi annullata dal Tar.

Riavranno un sindaco anche quei 10 comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, mentre sarà la prima volta nella storia di Misiliscemi, comune di circa 8 mila abitanti istituito lo scorso febbraio 2021, dopo che otto frazioni si sono scisse da Trapani. Saranno 15 invece le candidate sindache che proveranno a ottenere la fascia tricolore, a Lentini (Siracusa) saranno tre sui sei totali.

Più soldi che voti: la questua dei “$indaci”

Volantini, palchi, manifesti. Tutti i giorni in giro, cercando di far diventare popolari nomi e cognomi che magari nessuno ha mai visto prima. La campagna elettorale per le Amministrative costa e i partiti, sempre più al verde, non sono più disposti agli investimenti di un tempo. La settimana scorsa ha fatto rumore lo sfogo di Luca Bernardo, candidato della destra a Milano, che ha minacciato di ritirarsi se non fossero arrivati 50 mila euro da ogni partito della sua coalizione. Chi non ha la fortuna di benefattori privati deve allora sperare che le segreterie mantengano gli impegni. Oppure rivedere al ribasso il proprio budget.

Roma Raggi a “costo zero”

A Roma la sfida delle spese elettorali la vincono Enrico Michetti e Carlo Calenda, di misura su Roberto Gualtieri. La performance di Calenda non è una sorpresa: l’ex ministro ha una notevole capacità attrattiva sui benefattori privati. Imprenditori come Maurizio Tamagnini, Davide Serra, Alessandro Riello e la famiglia Bonomi hanno staccato assegni a 4 o 5 cifre. Parte delle donazioni sono state trasferite al comitato elettorale (80 mila euro tra giugno e luglio 2021). Calenda e le sue liste hanno preventivato 313 mila euro di spese. Il comitato Calenda sindaco da solo ne ha stanziati circa 64 mila (8 mila alla voce Comunicazione, 14 mila per spot tv e radio, 25 mila per stampa e affissioni).

Il Comitato Enrico Michetti Sindaco dichiara una previsione di spesa di 315 mila euro. I donatori non sono noti, ma lo staff del candidato fa sapere informalmente che la maggior parte dei fondi arrivano dalle donazioni di parlamentari ed eletti di centrodestra. Anche la campagna di Gualtieri è sostenuta per lo più dal Pd e costerà 290 mila euro. L’investimento più alto sono i 160 mila per la propaganda, tra i quali spicca la cifra per la “pubblicità dinamica” (i cartelloni su autobus e mezzi pubblici): ben 90 milaeuro. La campagna di Virginia Raggi invece è un mistero: il preventivo di spesa del M5S e delle liste collegate alla sindaca è in bianco, recita “0 euro”. Il consuntivo finale ovviamente sarà diverso, ma dallo staff della sindaca non si sbilanciano sulle cifre: sarà una campagna “frugale e in economia”, a seconda delle donazioni raccolte. Per ora tra i finanziamenti pubblici a favore della Raggi sono noti i 19.200 euro raccolti dal “Comitato per Virginia” e i 32.535 euro versati da alcuni parlamentari grillini nel “Comitato M5S per Raggi”.

Milano Bernardo “nababbo”

Stando ai preventivi consegnati in Comune da ogni lista, la coalizione di Luca Bernardo è la più spendacciona: 825 mila euro, contro i 230 di Beppe Sala e alleati. È la civica del candidato di destra a fare impressione, dichiarando spese per 350 mila euro (soprattutto in manifesti, 120 mila). Ma rispetto alle previsioni, i partiti sembrano aver mollato Bernardo, forse intuendo che la sfida sarà proibitiva e che dunque non valga la pena svenarsi. La Lega, per esempio, aveva promesso 110 mila euro, ma tramite il commissario cittadino Stefano Bolognini ha fatto sapere che il finanziamento sarà più o meno della metà. Fratelli d’Italia, fin da subito più defilato nel sostenere Bernardo, si fermerà tra i 25 e i 50 mila: le spese maggiori, spiegano al Fatto fonti di primo piano, sono per l’affitto dei palchi e per l’impianto di luci, soprattutto in occasione della manifestazione di piazza Duomo di sabato.

Dall’altra parte, Beppe Sala ha due vantaggi. Come sindaco utilizza le strutture del Comune per la comunicazione istituzionale, che però a ridosso delle elezioni diventa comunque strumento di campagna elettorale. In più, Sala ha diversi sponsor esterni rispetto ai partiti, come Antonio Belloni, manager di Luis Vuitton, che gli ha donato 10 mila euro, o la società di servizi Wave srl, che ha scucito 20 mila euro. Ma a sinistra il più grande benefattore è Gianfranco Librandi, deputato renziano che ha inaugurato il comitato elettorale del sindaco con 50 mila euro. Cifre fuori portata per la 5 Stelle Layla Pavone: fonti del M5S confermano che l’intera campagna elettorale costerà intorno ai 30 mila euro, finanziati quasi del tutto con le donazioni dei parlamentari locali e dei consiglieri regionali e spesi in manifesti e volantini, oltreché per l’affitto di una sede in Porta Romana.

Napoli Campagna low cost

A Napoli il Comune non ha ancora reso pubblici i bilanci preventivi presentati dalle liste. I candidati principali – Gaetano Manfredi per Pd e M5S, Catello Maresca per la destra e Antonio Bassolino come indipendente – non forniscono dettagli, ma dai partiti qualche indicazione arriva. Il Pd, qui guidato da Marco Sarracino, ha appena rimesso in piedi conti disastrosi e se la dovrebbe cavare con poco più di 10 mila euro. Fronte M5S, uno dei primi a bonificare in sostegno alla lista è stato Roberto Fico, che ha donato 5 mila euro. Con lui Gilda Sportiello, sua fedelissima, che ha donato 2.500 euro. Brutti guai invece per Maresca: già ostracizzato da FdI, si è visto bocciare la lista della Lega, che quindi ha quasi smesso di fare campagna. Resta FI: un berlusconiano di peso ci fa sapere che si resterà sotto i 50 mila euro, assorbiti in gran parte dai costi di tipografia. Dallo staff di Bassolino, invece, non forniscono cifre ma lasciano intuire l’andazzo: “L’attività del comitato è legata al volontariato e alle piccole donazioni”.

Torino Budget più alti

A Torino la campagna elettorale più dispendiosa è quella di Stefano Lo Russo, candidato sindaco del centrosinistra. Le sei liste che lo appoggiano hanno preventivato di spendere 526.500 euro. Il Pd ne ha messi a budget 142 mila, Sel 15mila euro, i Moderati 170 mila, ma il contributo maggiore è della lista del suo ex rivale, Francesco Tresso: 245 mila euro. Quanto è stato speso finora? Dallo staff di Lo Russo dicono di “non conoscere la cifra totale, perché ogni lista gestisce il budget in autonomia: ma il comitato per Lo Russo Sindaco ha speso circa 200 mila euro al momento”. No comment su questo tema, invece, dal candidato del centrodestra Paolo Damilano. Il patron della Cantina di Barolo conta, grazie alle sette liste collegate, su un budget di 393 mila euro, di cui quasi la metà arriva dalla sua lista personale. Lega e FdI hanno preventivato 50 mila euro a testa. “Ma”, spiegano dal comitato di Damilano, “nessuno dei due partiti ha messo queste risorse sulla lista personale del candidato sindaco, quei soldi vengono spesi dai partiti per le loro liste: questo noi lo sapevamo, quindi nessun caso Bernardo, qui a Torino”. Infine c’è Valentina Sganga, candidata M5S: la previsione a bilancio era di spendere 42.500 euro, finora non è arrivata neanche alla metà. Un portavoce di Sganga dice che al momento sono stati usati solo 11.500 euro.

Certificato verde: al seggio servirà solo agli scrutatori

Il problema del Green pass per votare non se lo sono nemmeno posto: “Ti immagini il casino? Ci sono anche limiti costituzionali”, tagliano corto varie fonti di governo. Però c’è il tema dei presidenti di seggio e degli scrutatori, almeno per i ballottaggi delle Comunali in programma il 17 e il 18 ottobre e quindi dopo il 15, il giorno indicato per l’entrata in vigore dell’ultimo decreto che ha esteso l’obbligo a tutti i lavoratori del pubblico e del privato. Gli addetti ai seggi, a differenza degli elettori e anche dei rappresentanti di lista, hanno un rapporto di servizio con l’amministrazione, peraltro retribuito, sia pure temporaneo: secondo alcune fonti governative rientrano nella previsione. Il testo, almeno quello circolato nei giorni scorsi in attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, lo impone non solo al “personale” ma “altresì a tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa o di formazione o di volontariato presso le amministrazioni”. Se la vedranno Viminale e Salute.

Per il primo turno (3-4 ottobre) c’è già un protocollo datato 25 agosto a firma di Luciana Lamorgese e Roberto Speranza. Prevede il distanziamento ai seggi, le code all’esterno e le sanificazioni ma non accenna alle certificazioni verdi, che pure ci sono da aprile e tra luglio e agosto sono state rese obbligatorie per i clienti di bar e ristoranti al coperto, piscine e palestre, cinema, teatri, stadi e musei, treni a lunga percorrenza, navi che collegano più regioni, aerei, quindi per il personale della scuola e infine per tutti i lavoratori del pubblico e del privato, ma appunto solo dal 15 ottobre. Limitare ai “greenpassati” il diritto di voto era in effetti costituzionalmente sconsigliabile. Del resto il governo lo impone per concerti e altri eventi all’aperto, ma non nell’esercizio della libertà religiosa, altro primario diritto costituzionale, come se chiese e moschee fossero meno a rischio di un teatro; né ci sono obblighi per clientela di centri commerciali e negozi e per chi si ammassa sui treni regionali.

Lady No Vax va via, ma Borghi e i duri restano: “Vinceremo”

Nessuno seguirà, per il momento, Francesca Donato. Ma nella Lega tutti ne parlano. In modo diverso. L’ala dura e pura no Green pass non lascerà il partito, ma farà le sue battaglie dall’interno provando a spingere la Lega fuori dal governo; quella più governista invece ne prende le distanze. Ancora le due Leghe. E stavolta con un elemento in più che preoccupa la pancia del Carroccio. Marco Zanni, capogruppo al Parlamento europeo e molto vicino a Matteo Salvini, è stato il primo a usare una parola che fino a ieri sembrava utopia nella Lega: “Scissione”. Difficile che avvenga adesso, qualcuno parla di una resa dei conti dopo le Amministrative. Chissà.

Per capire cosa ne pensa la pancia del Carroccio bisogna andare al Senato, dove le due anime si scontrano più ferocemente. Qui la settimana scorsa la senatrice Roberta Ferrero ha organizzato un convegno di negazionisti secondo cui il Covid si può curare con la liquirizia e un antiparassitario per cavalli. C’era anche il senatore Alberto Bagnai che ha rilanciato il referendum sul Green pass e sul caso Donato è imbarazzato perché i due sono molto vicini: “Lasciatemi in pace, mi sto occupando di questioni economiche” dice. E poi scappa via. Ferrero invece spiega che quella di Donato “è una sua scelta”, ma lei rimane “nel partito sostenendo Matteo Salvini”. La linea dei duri e puri però la dà Claudio Borghi. Niente scissioni ma il leader dell’ala no Green pass nel Carroccio spinge Salvini a dare battaglia nel governo durante il semestre bianco: “Non sono in grado di proiettare l’orizzonte di governo indefinitamente in futuro – dice – sono preoccupato per quota 100, tasse sulla casa, Mps e la ratifica del Mes. Nodi che verranno al pettine molto presto”. Poi Borghi attacca anche i governatori e Giorgetti che ogni giorno fanno il controcanto a Salvini: “I governatori rispondono in primis alla loro gente e i ministri tendono a essere soprattutto dalla parte delle loro controparti istituzionali. Ma devono sforzarsi per capire che un partito nazionale ogni tanto deve portare avanti anche battaglie minoritarie”. L’altro che, dicono, potrebbe seguire Donato e uscire presto dalla Lega è il deputato Guido De Martini, unico ad aver votato contro la fiducia sul pass. I nordisti lo vogliono fuori, lui per il momento non se ne va e ribadisce: “Io sono contro all’obbligo vaccinale e al Green pass”.

Poi c’è l’ala governista, quella vicina a ministri e governatori che ormai le spacconate di Borghi&C. non le sopporta più. Massimiliano Panizzut, deputato molto vicino a Massimilano Fedriga, lo dice dritto: “Sono in Lega da 30 anni e di gente che se n’è andata ne ho vista tanta, Donato aveva idee troppo radicali”. Poi spiega: “Noi siamo pro vax e favorevoli al green pass, abbiamo chiesto agli italiani un sacrificio enorme e adesso dobbiamo riaprire”. Panizzut, sulla linea di Fedriga, conclude dicendo che la Lega “deve stare in questo governo”. Anche il senatore Stefano Lucidi, pur ritenendo impossibile un “processo a Salvini”, elogia il lavoro dei governatori leghisti: “Il loro contributo è fondamentale”. Christian Invernizzi, considerato vicino a Giancarlo Giorgetti, è ancora più diretto: “Nella Lega non ci possono essere posizioni come quella di Donato – dice – e la ricostruzione secondo cui Salvini è in ostaggio di Giorgetti è fantasiosa e manca di rispetto a tutti”. Roberto Calderoli, che esprime la voce della vecchia Lega bossiana, invece l’uscita di Donato la commenta così: “Io sto ai fatti: abbiamo votato sì al Green pass e alle misure anti pandemia. Altre posizioni non sono ammesse”. Anche i fedelissimi del segretario fanno cerchio intorno al capo. Su Donato lasciano che sia Salvini a parlare (“Arrivederci e grazie”) ma in privato la descrivono così: “Aveva toni da fascista”. Stefano Candiani parla di malavoglia dell’europarlamentare perché, dice, si “è squalificata da sola pubblicando le sue chat private”. E poi spiega che in questo governo la Lega “deve stare per evitare di lasciare il Paese a Pd e M5S”. Almeno fino alle Amministrative. E dopo? “Vedremo…”.

Parlamento: niente diaria ed espulsioni per i disobbedienti

C’è chi l’ha già detto che farà succedere un macello e adesso è ora di capire se fa sul serio. Come nel caso di Gianluigi Paragone già senatore del M5S traslocato oggi al Gruppo misto che ha annunciato ai quattro venti di essere pronto a fare cose pazze laddove il governo, come ha poi fatto, avesse esteso l’obbligo di certificazione verde per tutti gli inquilini di Palazzo: “Non solo non esibirò alcun Green pass per entrare in Parlamento. Forzerò ogni blocco e se mi dovessero mettere le mani addosso, li denuncerò alla Procura”. Ma poi ci sono anche altri irriducibili, forse non pronti a sfondare gli ingressi con l’ariete ma ad armare un casino sì: il leghista Claudio Borghi, per dire, prima che Matteo Salvini si piegasse al Green pass draghiano, ha minacciato di rivolgersi alla Consulta nella speranza che spazzi via le norme oggi estese anche agli organi di rilievo costituzionale. Ma quest’ultima minaccia è acqua fresca: ai piani alti di Camera e Senato il pensiero è tutto per chi proverà ad aggirare i controlli, per le possibili baruffe, per i commessi costretti come straordinario a incollarsi di peso i parlamentari che si rifiutassero di mostrare la carta che prova l’avvenuto vaccino o che si è chinato il capo almeno al tampone. Quanti saranno?

Perché dopo il 15 ottobre, la deadline entro la quale bisognerà mettersi in regola con il decreto di Palazzo Chigi (ma non è escluso che Camera e Senato si adeguino prima), rischia di succedere il finimondo e si incrociano le dita: la speranza è che alla fine nessuno si metta a fare storie agli ingressi né sceneggiate di sorta in aula. Insomma che anche chi scalpita alla fine digerisca le nuove regole se non per convinzione, per obbedienza al partito. Ma se non dovesse accadere? Lo scenario peggiore è che gli eventuali renitenti al Green pass debbano esser placcati agli ingressi e che qualcuno trattenuto sull’uscio o sbattuto fuori sul marciapiedi, decida davvero di denunciare chi osi sbarrargli il passo. O addirittura menar le mani: il timore insomma è che finisca a botte, magari a favore di telecamere. Un’eventualità che non può esser esclusa a priori. Per questo sono giorni che la questione è all’attenzione dei collegi dei questori dei due rami del Parlamento. L’estensione dei controlli imposti dal nuovo decreto che riguardano il personale non impensieriscono più di tanto: sulle nuove disposizioni a cui stanno lavorando gli uffici preposti alla sicurezza e alla prevenzione oltre che il medico competente, si va più o meno sul velluto.

Tutt’altra musica per quel che riguarda deputati e senatori: la strada maestra è impedire tout court l’accesso a Palazzo agli eletti sprovvisti di certificazione. Ma potrebbero esserci altre soluzioni: per esempio quella di farli entrare comunque per evitare che a qualcuno non salti in mente di invocare la menomazione delle prerogative costituzionali, salvo poi far scattare immediatamente le espulsioni per violazione delle regole. Ossia cartellino rosso, con allontanamento dai lavori fino a 15 giorni con annessa perdita della diaria, che andrà previsto in ogni caso per punire sia chi rifiuti apertamente di esibire il Green pass sia per chi riesca in qualche modo gabbare i controlli.

Il precedente che viene invocato in fatto di sanzioni di questo genere è quello che riguarda Vittorio Sgarbi che, per via della sua rivendicata “allergia” alla mascherina (obbligatoria alla Camera praticamente dall’inizio della pandemia) è stato espulso più volte.

Green pass 2, la vendetta: 50 “salviniani” disertano

Che sia la giornata più difficile da quando Matteo Salvini siede al governo lo si capisce dai tabulati della Camera dove nel pomeriggio si vota la fiducia sul decreto Green pass II, quello per scuola e trasporti. Passa con 413 sì e 48 contrari, ma nella Lega si notano solo le assenze: non votano 52 deputati su 132. Il 40 per cento del gruppo parlamentare. E a marcare visita sono tutti salviniani: oltre a Claudio Borghi (assente per motivi di salute), non ci sono Claudio Durigon, Massimo Bitonci, Alessandro Pagano, Barbara Saltamartini, Alberto Stefani e così via. Un segnale, perché il segretario è ancora contrario al Green pass e c’è da trattare sul terzo decreto, quello per i lavoratori, su cui la Lega annuncia già le barricate in aula (“è invotabile” dice Claudio Borghi) che è stato firmato ieri sera dal presidente Mattarella. A reggere la barra della maggioranza in aula ci pensano le truppe vicine ai governatori del Nord e a Giancarlo Giorgetti. Fanno riferimento a loro buona parte dei deputati che vota sì alla fiducia. La Lega è spaccata. Visibilmente.

Una frattura che in mattinata si era manifestata con l’addio dell’europarlamentare no vax Francesca Donato, che non aveva sopportato il sì della Lega in Consiglio dei ministri sul pass per i lavoratori. “Nel partito ormai prevale la linea dei governatori e di Giorgetti” ha detto Donato a Repubblica che ha pubblicato le sue chat con il capogruppo della Lega al Parlamento europeo Marco Zanni che arriva a ipotizzare perfino “una scissione” nel partito o un “evento traumatico nel governo”. Donato poi ha ribadito in una lettera: “Sono passati decreti liberticidi e discriminatori che sono incompatibili con il nostro ordinamento”. Dal Carroccio le avevano chiesto di lasciare dopo le Amministrative ma lei ha deciso di andarsene subito. L’europarlamentare apertamente no-vax non si iscriverà ad alcun gruppo a Bruxelles, ma presto potrebbe passare nelle file di Fratelli d’Italia o di Italexit di Gianluigi Paragone. “Chi va via lo ringrazio, lo saluto e tanti auguri” la risposta gelida di Matteo Salvini. Per il momento nessuno seguirà Donato e l’ala di Borghi, Bagnai e Siri viene considerata una minoranza “responsabile”. E dunque i fedelissimi del capo parlano di “caso isolato”. Ma tutto è rimandato a dopo le comunali quando una sconfitta nelle grandi città e il sorpasso di FdI potrebbe far scoppiare lo scontro interno. “Il clima è da notte dei lunghi coltelli” sussurra un big. Nonostante il segretario manifesti sicurezza – “non ho alcun timore per l’unità del partito” – ieri sono stati i due governatori più in vista, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, a commentare l’uscita di Donato come se fosse una loro vittoria. “Nella Lega non c’è spazio per i no vax” dice il presidente del Friuli mentre Zaia spiega che senza il Carroccio Donato “non sarebbe diventata parlamentare”. Nel pomeriggio Salvini pubblica su Twitter una foto con i governatori e Giorgetti: “Uniti si vince!”. Quasi un richiamo.

E quindi Salvini sa che non può restare immobile ma deve rilanciarsi. Cercare di limitare i danni alle amministrative puntando su cavalli di battaglia che non dividano il partito: tasse, bollette e Quota 100. Oggi sarà a Milano per annunciare l’arrivo di alcuni consiglieri regionali da Forza Italia: Mauro Piazza, Alan Rizzi e Alessandro Fermi. Poi arriverà il momento in cui i contendenti nella Lega dovranno giocare le loro carte e Salvini ha già la sua: dopo le amministrative ventilare che nel 2022 “si andrà al voto”. Ergo: la Lega uscirà dal governo indipendentemente dall’elezione di Draghi al Quirinale. “Questo governo doveva completare la campagna vaccinale e scrivere il Recovery: adesso manca la legge di Bilancio e poi non ha più ragion d’essere” è il ragionamento di Salvini con i suoi. Un modo anche per evitare il congresso chiesto dall’ala nordista. Oppure anticiparlo prima del voto per non dare il tempo ai governatori di trovare una leadership alternativa e lanciare un referendum su di sé nel partito. Perché un conto sarebbe imporlo il congresso, un altro subirlo.

La tara del Colle

Come in salumeria, dove il prosciutto si pesa al netto della carta, urge una tara alle parole degli autocandidati al Colle al netto delle captatio benevolentiae che lanciano agli avversari per strappare voti. Il più comico, anche perché pluri-recidivo, è Luciano Violante, che regala una mega-intervista al Giornale di B. per dire che B. ha ragione: “I giudici non devono riscrivere la storia”, “alcuni magistrati sono stati accecati”, abbasso “il manipulitismo” e viva la schiforma Cartabia, “un buon inizio” che fa “passi in avanti”. Sullo stesso filone – sinistra che cerca voti a destra – c’è Prodi, che prima nega di puntare al Colle e poi definisce la perizia psichiatrica a B. una “follia italiana” (in realtà la perizia sulle condizioni psicofisiche dell’imputato è prevista dalla legge per chi non si fa processare marcando continuamente visita) e lo loda per una fantomatica “scelta europeista”.

Nemmeno B. aveva osato tanto. Ma, sentendolo dire da Prodi, ha finito per crederci e ieri ha inviato un video-messaggio al Ppe dal mausoleo di Arcore o dalla piramide di Cheope per autoelogiarsi come il quarto fondatore dell’“Europa cristiana” dopo De Gasperi, Adenauer e Schumann. Lui che ancora il 21.8.2017 proponeva su Libero fra le risate generali di tornare alla lira, anzi alla “AM-Lira” post-bellica, affiancandola all’euro con un simpatico sistema “a due monete: una nazionale per le transazioni domestiche e una comune per le transazioni internazionali”. Lui che era sceso in campo da antieuropeista sfegatato: “L’Europa è un male per l’Italia” (15.4.94). “Per l’Italia è difficile stare in Europa… Dovremo pagare multe all’Ue o addirittura riuscirne fuori” (23.4.97). “Non si possono accettare provvedimenti pericolosissimi (la superprocura e il mandato di cattura europei, ndr): vi immaginate cosa significa concederli a qualunque pm d’Europa?” (7.12.2001). “L’Europa è percepita come un freno allo sviluppo… Il Gulliver europeo è bloccato dagli ominidi, dai burocrati Ue” (20.3.05). “L’euro di Prodi ci ha fregati tutti” (28.7.05). “Prodi ha svenduto la lira all’euro con un cambio sfavorevole” (24.1.06). Per non parlare di quando collezionò la più leggendaria figura di merda all’Europarlamento inaugurando il semestre di presidenza italiana. Prima insultò il capogruppo del Pse: “Signor Schulz, in Italia un produttore sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò”. Poi insolentì l’intera Aula che protestava: “Siete tutti dei turisti della democrazia!” (2.7.03). Ieri è riuscito a dire restando serio: “Il nostro partito è l’Europa”. Fortuna che era laccato e leccato come un sanitario Ideal Standard abbronzato. E nessuno l’ha riconosciuto.