Nei giorni del confinamento obbligatorio, causa pandemia, durante le molteplici fughe dalla realtà in favore di un rifugio sicuro nel mondo della musica, sovente è capitato di sentirsi asfissiati dal pensiero di tornare ad assistere a un concerto dal vivo. Laddove il coinvolgimento fisico e sonoro è totale. Per questo c’era grande eccitazione per quello che è stato il primo vero concerto a cui ci è capitato di assistere, quello dei pisani The Zen Circus. E, da quanto visto, non è stato facile neppure per la band stare del tutto lontana dal suo pubblico: “Abbiamo cercato di prendere il lato positivo di un simile problema – ha spiegato il batterista Karim Qqru –, sfruttando la possibilità di lavorare su noi stessi, scoprendo quanto mancano alcune cose che davamo per scontate”.
In vent’anni di carriera, gli Zen, in un gioco irrefrenabile e inesausto, hanno cantato la tenebra e il caos primordiale, gli istinti anarchici del punk-rock, lo spregio di ogni limite e norma, e la fluidità di una vita che eternamente travolge le barriere artificiali dell’intelletto. Nel loro ultimo album, L’ultima casa accogliente, si erano mostrati fragili, provati, talvolta insicuri. Quell’ultima casa che è il corpo, il soggetto che è fil rouge che lega i brani oltreché la copertina del disco, in cui i tre Zen si mostrano nudi, dando un’idea di trasparenza intesa come debolezza, ma anche come purezza, nel senso drammatico e romantico del termine. “Venivamo da un periodo delirante, due dischi di fila, poi Sanremo, poi il nostro libro… ci saremmo voluti fermare comunque nel 2020. Quando il fermo non è stato più fisiologico ma una costrizione, ci siamo resi conto di quanto non riusciamo a star lontani dai concerti, di quanto siano importanti per noi, più di quanto pensassimo”. In poco più di due ore, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, gli Zen hanno infiammato il pubblico (che, come da protocollo, ha assistito allo spettacolo da seduto e con la mascherina) con una scaletta di brani di maggior successo, come Catene, Non Voglio Ballare, Il fuoco in una stanza, Come se provassi amore, L’anima non conta… La band pisana sembra aver trovato finalmente quella ribalta mediatica che merita, perché dal vivo le loro canzoni rendono ancora meglio che su disco, grazie alla loro presenza scenica, al loro dinamismo e alla loro tecnica. La conclusione ha regalato un brano che non sempre propongono come Mexican Requiem: complice la lunga attesa, non c’è voluto molto affinché la loro ecletticità musicale uscisse fuori prepotente e si creasse quella sinergia con il pubblico che ha reso magica ed esplosiva la serata.