Che gran bel circo gli Zen Circus (dal vivo): finalmente un concerto degno di tal nome

Nei giorni del confinamento obbligatorio, causa pandemia, durante le molteplici fughe dalla realtà in favore di un rifugio sicuro nel mondo della musica, sovente è capitato di sentirsi asfissiati dal pensiero di tornare ad assistere a un concerto dal vivo. Laddove il coinvolgimento fisico e sonoro è totale. Per questo c’era grande eccitazione per quello che è stato il primo vero concerto a cui ci è capitato di assistere, quello dei pisani The Zen Circus. E, da quanto visto, non è stato facile neppure per la band stare del tutto lontana dal suo pubblico: “Abbiamo cercato di prendere il lato positivo di un simile problema – ha spiegato il batterista Karim Qqru –, sfruttando la possibilità di lavorare su noi stessi, scoprendo quanto mancano alcune cose che davamo per scontate”.

In vent’anni di carriera, gli Zen, in un gioco irrefrenabile e inesausto, hanno cantato la tenebra e il caos primordiale, gli istinti anarchici del punk-rock, lo spregio di ogni limite e norma, e la fluidità di una vita che eternamente travolge le barriere artificiali dell’intelletto. Nel loro ultimo album, L’ultima casa accogliente, si erano mostrati fragili, provati, talvolta insicuri. Quell’ultima casa che è il corpo, il soggetto che è fil rouge che lega i brani oltreché la copertina del disco, in cui i tre Zen si mostrano nudi, dando un’idea di trasparenza intesa come debolezza, ma anche come purezza, nel senso drammatico e romantico del termine. “Venivamo da un periodo delirante, due dischi di fila, poi Sanremo, poi il nostro libro… ci saremmo voluti fermare comunque nel 2020. Quando il fermo non è stato più fisiologico ma una costrizione, ci siamo resi conto di quanto non riusciamo a star lontani dai concerti, di quanto siano importanti per noi, più di quanto pensassimo”. In poco più di due ore, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, gli Zen hanno infiammato il pubblico (che, come da protocollo, ha assistito allo spettacolo da seduto e con la mascherina) con una scaletta di brani di maggior successo, come Catene, Non Voglio Ballare, Il fuoco in una stanza, Come se provassi amore, L’anima non conta… La band pisana sembra aver trovato finalmente quella ribalta mediatica che merita, perché dal vivo le loro canzoni rendono ancora meglio che su disco, grazie alla loro presenza scenica, al loro dinamismo e alla loro tecnica. La conclusione ha regalato un brano che non sempre propongono come Mexican Requiem: complice la lunga attesa, non c’è voluto molto affinché la loro ecletticità musicale uscisse fuori prepotente e si creasse quella sinergia con il pubblico che ha reso magica ed esplosiva la serata.

Working Class Hero: torna Andy Capp a farci sorridere

Maschilista come pochi. Campione assoluto di quello che si chiama politicamente scorretto. E simbolo di una parte della classe operaia britannica, o della piccolissima borghesia, assai sciovinista e qualunquista. Un tipaccio smargiasso, insomma, e beone, interessato solo alla birra, al football e ai giochi da pub: biliardo, freccette. Dannatamente inglese, con il suo eterno berretto e la cicca in bocca. In altre parole, Andy Capp: ovvero il disoccupato (o fancazzista) più felice del mondo.

Inventato da Reg Smythe (1917-1998), che era nato in una famiglia povera di Hartlepol, città portuale del Nord Est dell’Inghilterra, l’asso del fumetto debuttò nel 1957 nell’edizione di Manchester del Daily Mirror, ma il suo enorme successo convinse gli editori a promuoverlo sull’edizione nazionale già nell’aprile del ‘58. Poi venne tradotto in 14 lingue; in Italia a pubblicarlo furono dapprima la rivista Eureka e La Settimana Enigmistica, che italianizzò Andy e la moglie Flo in Carlo e Alice.

Ora il vecchio Andy, immutabile e immutato, viene riproposto attraverso le strisce inedite in Italia che Roger Mahoney e Roger Kettle hanno scritto e disegnato, dopo la morte di Smythe, per il Daily Mirror. Il primo dei volumi si intitola Andy torna in campo (Signs Books, pagg. 208, euro 20), con la traduzione di Filippo Grando e una nota introduttiva di Alessandro Bottero: esce in questi giorni. È il ritorno di un eroe-antieroe delle nuvole parlanti che, come scrive Bottero, seppure con un “linguaggio intensamente, profondamente, totalmente inglese, anzi, a voler essere precisi, di una parte ben definita della società inglese, la piccolissima borghesia o classe operaia che vive nei sobborghi e ha una vita scandita da piccoli riti immutabili”, è diventato un protagonista universale, al centro di una “comédie humaine, come solo i grandi autori sanno raffigurare”.

In effetti, più che copia dei veri Andy Capp, quelli della classe operaia inglese di ieri e di oggi, che adesso non votano più per il Labour e che hanno approvato entusiasticamente la Brexit, il personaggio di Smythe è una figura letteraria, un classico ormai, che non sfigurerebbe persino nei grandi libri di Charles Dickens. Uno che lo amava molto era lo scrittore Antonio Pennacchi. Una volta disse: “Andy Capp è un finto burbero ma ha un cuore d’oro, un po’ come l’Accio Benassi del mio romanzo Il fasciocomunista. Per vent’anni ho portato il suo stesso cappello, poi l’ho cambiato con uno a tesa larga, ma gli resto fedele come a un vecchio amico”.

La notte dei poeti assassinati. Schulz e altri artisti ebrei

Nella villa di Miami dove vive, Bernard Mayer, sopravvissuto all’occupazione nazista in un bunker a Drohobycz sotto la villa della famiglia Schwartz, ha appeso una foto scolastica. “Vedi?”, dice indicando un soggetto. “È l’unico che tiene lo sguardo basso”. Si riferisce a Bruno Schulz. Considerato uno dei più grandi scrittori del 900, un cocktail tra Kafka e Proust, Schulz insegnava disegno e lavori manuali nella cittadina galiziana che fa da sfondo al suo libro più celebre, Le botteghe color cannella. Di umili origini – il padre aveva la bottega di stoffe del romanzo –, basso, fragile e con la testa grossa, aveva sudato sette camicie, dentro l’immancabile vestito grigio, per entrare di ruolo. Dopo il suicidio del cognato, era l’unica fonte di reddito in famiglia.

Lontano dal mitizzare a distanza di tempo il professore, Mayer mi ha raccontato che Schulz entrava in classe senza guardare in faccia nessuno, dava un disegno da copiare e ripassava alla fine dell’ora. Era timidissimo e detestava insegnare, sottrarre tempo prezioso alla scrittura. Quando nella classe di lavori manuali il baccano diventava insopportabile, ordinava di deporre gli attrezzi e inventava una favola ricollegando i ragazzi al cordone ombelicale dell’infanzia dove circola ancora il “sangue del mistero”. Tra i trucioli e i chiodi, ai piedi dei Carpazi, calava un silenzio incantato.

Quando arrivano i nazisti Schulz riesce a evitare un lavoro pesante diventando il protetto di Felix Landau, soprannominato Judengeneral, il “generale degli ebrei”, il responsabile del loro sfruttamento negli Arbeitslager di Drohobycz. Benché rozzo, antisemita e incline a usare la frusta da cani, Landau resta affascinato dall’abilità manuale di Schulz, che non era solo scrittore ma anche autore di disegni e incisioni spesso di tema masochista (Venere in pelliccia è ambientato poco distante…). Schulz gli dipinge le pareti della casa con motivi dei fratelli Grimm e decora le pareti di un maneggio costruito per compiacerlo. Finché il 19 novembre 1942, durante quello che verrà definito “Giovedì di sangue”, sta camminando per le vie del ghetto e si scatena l’inferno. Un nazista è stato ferito alla mano da un ebreo e la rappresaglia è selvaggia. I cadaveri si accumulano per strada. Schulz cerca di scappare, ma l’SS Karl Günther – rivale di Landau – lo insegue, lo afferra e lo uccide con due colpi alla testa: “Tu hai ucciso il mio ebreo e io ho ucciso il tuo”. Landau aveva appena ucciso un dentista che prestava servizio presso Günther. O forse era un artista.

Non manca mai un velato rimprovero a Schulz perché non aveva approfittato dell’appoggio della resistenza per fuggire con documenti falsi, temporeggiando come sempre (proverbiale la sua tormentata indecisione tra l’acquisto di un divano e un viaggio a Parigi…). Si tende a dimenticare che degli oltre 15 mila ebrei di Drohobycz se ne sono salvati sì e no 400 e grazie a una combinazione astrale di fortuna, disponibilità economica e intraprendenza al limite del romanzesco. Aron Szapiro, l’uomo che costruiva bunker, tra cui quello dove Mayer era nascosto insieme ad altre 45 persone, era soprannominato “Al Capone” non solo per la somiglianza fisica, ma forse anche per l’abilità a sfuggire ai nazisti. Eppure neanche lui sfuggirà alla morte.

Drohobycz viene liberata nell’agosto del ‘44 e non pochi sopravvissuti muoiono nei tumultuosi mesi successivi all’arrivo dell’Armata rossa tra rapine, incidenti e assassini da parte di frange antisemite della resistenza o della popolazione polacca che assimilava gli ebrei al nuovo giogo comunista e credeva ancora agli omicidi rituali. Il pogrom di Kielce del ‘46 farà fuggire gran parte dei sopravvissuti disperdendoli ai quattro angoli del mondo – i Mayer in America, gli Schwartz in Brasile… Poco prima qualcosa del genere stava accadendo a Rzeszow. Dove Leon Thorne, rabbino appartenente a una famiglia di petrolieri, sopravvissuto nascondendosi sotto una stalla di porci vicino a Drohobycz, ospitava alcuni ebrei tra cui un macellatore kosher. Il sangue di pollo versato ogni giorno dà l’idea a qualcuno di nascondere nella cantina del caseggiato una bambina assassinata incolpando gli ebrei del delitto. Solo l’intervento di un colonnello dell’Armata rossa, il poeta yiddish Isaak Fefer, riuscirà a sottrarre gli ebrei da un linciaggio.

Fefer era uno dei leader del Comitato ebraico antifascista. Amico di Einstein, artista di regime, in rapporto con i servizi, aveva raccolto milioni di dollari per l’esercito sovietico, ma con la vittoria, la nascita di Israele e la paranoia antisionista di Stalin, finisce in disgrazia. Tra le sue colpe la partecipazione al Libro nero, raccolta di testimonianze del genocidio nei territori sovietici in cui emerge la partecipazione della popolazione locale. Il tribunale lo condanna ma gli risparmia la vita. Stalin impone che venga ucciso nell’agosto del ‘52 in quella che sarà chiamata “la notte dei poeti assassinati”. Sfuggito a un campo di prigionia, Landau condurrà invece una vita sotto falso nome a Stoccarda. Si tradisce per sposarsi una terza volta, viene condannato e poi graziato. Günther, l’assassino di Schulz, non verrà mai trovato.

Juan Carlos: più che pentito, furbetto

Ci sarà stato qualcuno, in Spagna, che, nonostante la cattiva fede dimostrata dal re emerito Juan Carlos nei suoi affari privati portati avanti grazie alla sua immagine pubblica, probabilmente aveva ravvisato nella regolarizzazione da parte del sovrano di parte delle tasse non pagate, buone intenzioni. Un qualche pentimento covato in semi-isolamento ed esilio negli Emirati Arabi amici. Ma quel qualcuno resta deluso: ai guai dell’ex re si somma la notizia – pubblicata dal quotidiano El Paìs – che il Borbone succeduto al caudillo, in realtà, non ha pagato all’Agenzia delle Entrate né la prima tranche pari a 678 mila euro, né la seconda di 4,4 milioni sua sponte. A spingerlo a regolarizzare la sua posizione, al contrario, sarebbero state le tre notifiche arrivate dalla Corte dei Conti rispettivamente a novembre e dicembre 2020 e a giugno 2021, in cui lo si avvisava di essere sul punto di venire indagato. Le prime due avvennero prima del pagamento di 678 mila euro esborsati al fine di fermare l’indagine per l’uso delle carte di credito legate a conti off shore, la terza, quella di giugno, avvenne poco prima del versamento dei 4,4 milioni per voli privati finanziati dalla sua fondazione e quindi pagati dal contribuente spagnolo. Dunque questi bonifici potrebbero essere annullati in quanto non validi secondo il Codice penale del Paese iberico che prevede che liquidare i conti in sospeso con il Fisco annulli le indagini penali, ma solo nel caso in cui vengano effettuati prima che l’interessato venga a conoscenza delle indagini a suo carico. L’unico dettaglio che ora resta da appurare per capire se Juan Carlos abbia davvero saldato i suoi debiti e quindi scontato la sua pena, almeno dal punto di vista economico, è se si possano considerare “conoscenza formale” dell’indagine le notifiche “generiche” inviategli dal Tribunale. In esse infatti, secondo quanto scrive El Paìs non si entrava nel merito delle inchieste, ma si notificava all’ex re che stavano per prendere il via indagini a suo carico.

Dettaglio non da poco, però, per questa verifica è che le ragioni dell’apertura da parte della Procura di indagini sul conto di Juan Carlos fossero scritte su tutti i quotidiani spagnoli ai quali il re emerito aveva certamente accesso prima dei due versamenti al Fisco.

Quest’ultimo guaio si somma alle ultime indagini della Procura sulla provenienza dei più dei 5 milioni di euro versati dal re emerito al Fisco. Quando si dice che la toppa è peggio del buco. Le ultime notizie non fanno onore neanche al governo Sanchez né al re Felipe VI, che sull’esilio e la regolarizzazione fiscale del vecchio sovrano avevano trovato un punto d’appoggio contro chi – come i colleghi di governo di Podemos – reclamava invece un processo per Juan Carlos, già indagato in Spagna e in Svizzera per presunte mazzette riguardanti l’appalto a un suo amico del treno per La Mecca, traffico di influenze, riciclaggio di capitali e corruzione.

Elezioni: hanno vinto tutti. Ma comanda ancora Putin

Il Cremlino la chiama vittoria, gli oppositori la chiamano frode e promettono proteste. Gli Stati Uniti denunciano che sono stati “violati gli obblighi internazionali” sulla trasparenza delle operazioni elettorali. Per i detrattori del Cremlino i risultati delle elezioni parlamentari sono cambiati all’ultimo minuto, dopo lo sfoglio delle preferenze elettroniche che hanno ribaltato l’esito delle urne e favorito, contro ogni pronostico, un nuovo smodato successo dei candidati di Russia Unita, il partito di Putin. Il Kpfr, il partito comunista russo, che sembrava aver raddoppiato i suoi voti dall’ultima tornata elettorale del 2016, non supera più il 20% come inizialmente dichiarato dalla Commissione elettorale centrale stessa: si ferma al 19%, mentre il raggruppamento governativo vola oltre quel 50% a cui non poteva ambire nel periodo storico in cui i sondaggi lo danno ai minimi storici dei consensi. I primi elogi torrenziali, una volta ufficializzate le cifre, sono stati quelli degli uomini del presidente: Andrey Turchak, segretario di Russia Unita, ha ribadito che la “supermaggioranza” dei due terzi alla Camera bassa della Duma “è stata riconfermata”. Dmitry Peskov, portavoce del presidente, ha detto che Russia Unita mantiene la sua leadership, ma è stato costretto ad ammettere anche che “i comunisti hanno aumentato i loro voti”.

Uno dopo l’altro, nei 15 distretti di Mosca dove l’ala politica dominante non viene tradizionalmente votata, tutti gli oppositori che avevano migliaia di voti di vantaggio sui candidati di Russia Unita, sono stati dichiarati di colpo sconfitti dopo la conta delle preferenze espresse online. “I risultati dei voti elettronici sono totalmente implausibili, dobbiamo decidere quali sono i prossimi passi da compiere” ha detto Michail Lobanov, 37enne accademico dell’università di Mosca candidato nei distretti del sud della Capitale, che batteva per almeno 10 mila voti in più il candidato di Russia Unita, Evgeny Popov, ed è stato dichiarato improvvisamente perdente alla fine della conta. Lobanov era uno dei candidati indicati nell’elenco del “voto intelligente”, la strategia messa a punto da Aleksey Navalny per favorire quei politici che avevano le potenzialità di intralciare l’ascesa dei candidati vicini a Putin. La repressione del Cremlino ai danni dei dissidenti vicini al blogger – a cui è stato vietato di partecipare alle elezioni – ha avuto il clamoroso effetto di rimbalzo di favorire i candidati del partito comunista, che hanno raccolto il patrimonio politico del Fondo anti-corruzione ormai dissolto. Secondo Ljubov Sobol, l’alleata più potente dell’oppositore in galera, “il voto intelligente” ha vinto comunque, ma, per le falsificazioni delle preferenze avvenute su larga scala, “il risultato di queste elezioni non può essere considerato legittimo, onesto, pulito”. Secondo la mappa stilata dall’Ong Golos, – dichiarata dalle autorità un “agente straniero” come molti media indipendenti –, le manipolazioni sono state “massive” e si sono verificate in quasi 5 mila sedi elettorali del Paese. Gennady Zyuganov, vecchio leader del Partito comunista russo comunque premiato dai cittadini al cuore e alle frontiere della Federazione, ha accusato la polizia di non essere intervenuta durante le violazioni del voto.

L’intero movimento della falce e martello ha dichiarato di non riconoscere i risultati delle urne forniti dal Cremlino e promette proteste mentre piazza Pushkin, luogo di ritrovo dell’opposizione a Mosca, viene blindata dalla polizia. Tra accuse e critiche dei due più grandi partiti politici russi, si affaccia alla scena politica, superando il 5% di sbarramento, anche “Novye ljudi”, ovvero “Nuovo popolo”, l’unico nuovo partito che entra alla Duma. Nel Caucaso, dove dissentire costa la vita o la tortura, nessuno ha criticato il trionfo di Ramzan Kadyrov, caudillo ceceno riconfermato alla guida con il 99,7% dei voti.

I partiti e quei tedeschi di serie Z

I tedeschi di origine straniera rappresentano il 12% dell’elettorato. Sono un gruppo eterogeneo, non hanno un partito di riferimento e sono sotto-rappresentati. Solo 58 dei 709 membri dell’attuale Bundestag hanno un passato migratorio. Nel 2017 con il 12,6% dei voti AfD ha eletto 94 parlamentari. Sui 60 milioni di elettori 2,8 sono di origine turca, 2,2 polacca, 1,4 russa. A questi vanno aggiunti gli italiani: 1,2 milioni. Tuta bianca, cappellino con visiera e dente d’oro, Murat Turgut è seduto al tavolino davanti a un bar di Kreuzberg, il quartiere che con i suoi 200 mila turchi è soprannominato: piccola Istanbul. “Ho una notizia per voi, se vince la Cdu e si allea con la destra voi italiani, polacchi, spagnoli non potrete più stare qui a lavorare”.

Ma non c’è nulla di minaccioso nelle frasi dell’uomo. “Io sono arrivato da adolescente, ho raggiunto la famiglia di mio zio. Ci ho messo 20 anni a imparare abbastanza bene il tedesco per essere naturalizzato. Adesso farei tutto al contrario”. Voterà Spd come ha sempre fatto la grande comunità di cui fa parte. Da Kreuzberg, attraversando la Sprea si arriva a Friedrichshain, da Berlino Ovest a Berlino Est. Ci sono ancora i negozi di kebab e alcune piccole rivendite di alimentari gestite dai turchi, ma in quest’area la minoranza più visibile è quella vietnamita. Durante la guerra fredda la Ddr incoraggiò la migrazione tra i paesi del blocco orientale. “Sono nata qui, 46 anni fa, mia sorella l’anno dopo”. Chau Phan fa la sarta, ha aperto un negozio prima che il quartiere si ‘gentrificasse’, Quyen, la sorella minore, gestisce il negozio di fiori di famiglia, a pochi isolati di distanza. “Non sono andata a votare l’ultima volta, non mi interessa la politica. I miei genitori hanno vissuto due regimi comunisti, l’unica cosa che voglio è che non capiti pure a me”. Tre professori dell’università di Duisburg hanno esaminato le elezioni del 2017 e i voti delle minoranze. L’astensione tra gli elettori di origine straniera è del 20% superiore alla media. I tedeschi russi sono quelli che votano meno, appena il 54%. Tra questi uno su tre ha scelto il partito di estrema destra AfD. Nessun gruppo politico parla direttamente ai migranti. Sempre dallo stesso studio emerge che i gruppi arrivati da più anni tendono a votare il partito conservatore, Cdu-Csu. La cancelliera ha usufruito per anni di questo pacchetto di voti.

“Voterei Merkel se potessi, ma non ho ancora il diritto”. Bader Shankal è arrivato da Aleppo nel 2014. “Abbiamo attraversato il mare con mia moglie e due figli, c’era anche mio padre. Siamo stati accolti”. In Germania ha avuto altri due bambini e nel 2019 Bader ha aperto un ristorante a cui ha dato il nome dell’ultimo figlio, Adam. “Mohammed e Yihad sono nati in Siria – dice l’uomo – ma saranno due tedeschi, abbiamo un debito nei confronti di questo paese”. Sono 1,7 milioni i richiedenti asilo accolti dalla Germania negli ultimi anni. Pochi di loro potranno recarsi alle urne questo fine settimana, ma almeno la metà ha già un lavoro a tempo indeterminato. “Quasi 10 milioni di persone che vivono e pagano le tasse in Germania non potranno votare alle elezioni del 26 settembre. Non hanno la cittadinanza”. MigLoom è un’associazione che si occupa dei diritti dei migranti e chiede la possibilità di recarsi alle urne per chi risiede nel paese da più di cinque anni. “Se non voto non posso pensare di essere eletto”: secondo gli attivisti allargare il voto ai migranti aumenterà la cultura e la voglia di fare politica delle minoranze, così da avere una corretta rappresentazione della società in Parlamento.

“L’unica preoccupazione dei miei genitori è stata che io imparassi bene il tedesco, senza accento”. Mentre lo dice, Jennifer, guarda l’amica che ha accanto e ride. “Mio padre è arrivato dallo Zimbabwe per finire gli studi, mia madre lo ha raggiunto due anni dopo. Non volevano cancellare la loro cultura, le nostre tradizioni. Credo fossero preoccupati che io mi sentissi diversa, esclusa”. Jennifer ha 22 anni e domenica andrà a votare per la prima volta: “Nessuno dei tre candidati mi sembra all’altezza. Ci sono enormi problemi da affrontare, per prima l’emergenza climatica. L’unica che sembra averlo capito è Annalena Baerbock”. La candidata dei Verdi è molto popolare tra i giovani, forse una donna quarantenne è più digeribile per le nuove generazioni che due sessantenni bianchi. Inoltre il partito ecologista si presenta con un programma che prevede aperture importanti rispetto alle migrazioni. Detlef Scheele, direttore generale dell’agenzia del lavoro, il mese scorso ha mandato un messaggio chiaro ai partiti: “Abbiamo bisogno di 400 mila nuovi migranti all’anno, molto più dell’ultimo biennio”. Secondo i calcoli dell’agenzia del lavoro la Germania perde 150 mila lavoratori ogni 12 mesi. L’età pensionabile si sta alzando, ma mancano operai, infermieri, tecnici specializzati, assistenti domiciliari. “Non è una questione di asilo politico – ha aggiunto Scheele – ma di mercato del lavoro”.

L’eloquio contiano: freccia o boomerang?

Nell’articolo pubblicato ieri sul Fatto, Selvaggia Lucarelli mette in guardia l’ex premier Conte dal cambio di stile del M5S anche nell’eloquio: “Va bene che del Movimento degli esordi resti poco o niente, ma passare dal ‘Vaffanculo’ a ‘La accompagno alla porta, mi saluti la sua consorte’, forse non è esattamente un affare. (…) finisce di parlare e non sai che ha detto, in quel continuo, sovrumano esercizio di diplomazia e allergia al conflitto che rischia di renderlo una figura sbiadita. (…) Insomma, se va avanti così, il prossimo Conticidio sarà ad opera di Conte stesso”. Un “Contesuicidio”.

 

Pro

Parole d’acqua dolce, ma ormai solo lui riempie le piazze

È vero, il discorso pubblico di Giuseppe Conte è inodore e insapore. Scorre via come acqua. Non c’è una direzione di marcia, né un’idea forte di società. È un insieme vaporoso di proponimenti. L’ecumenismo, questa oramai provata abilità dell’ex premier di rivolgersi a destra e a manca facendo attenzione a non urtare la suscettibilità degli uni e degli altri, come se la società fosse fatta di uguali, come se non esistesse una fetta che patisce e una che campa di rendita, una – piccola – che detiene ogni potere e un’altra – grande – che invece ne è sprovvista, è l’elemento distintivo. D’accordo. E però c’è da chiedersi perché Giuseppe Conte riempia le piazze, tutte le piazze, nelle piccole e nelle grandi città. A sud e a nord. Presidente di un movimento che sembra una meringa, friabile al punto che al primo boccone si riduce in frantumi, reduce da uno scontro capitale con il suo fondatore, senza leve di potere in mano, senza nemmeno un seggio in Parlamento, spesso preso in giro e spesso anche boicottato da una grande parte della stampa.

Perché allora ha successo? Anzi, correggo: perché non ce lo domandiamo? Noicattaro e Treviso, Savona e Torino, non c’è stato un luogo dove Conte non abbia coinvolto, non abbia certificato di essersi conquistato in solitudine un ruolo, ed essere divenuto lui punto di riferimento di un’area politica in espansione. Chi altri oggi può programmare un comizio in piazza? Enrico Letta ha chiuso la festa dell’Unità sotto un tendone quando prima serviva una spianata, Matteo Salvini ha rinunciato persino a Pontida, Giorgia Meloni per tentare di riempire le sedie di piazza del Popolo ha dovuto raccogliere le genti d’Abruzzo, a conferma che le truppe cammellate sono immortali.

Assenza di spigoli, solo sorrisi, pace e bene per tutti. Perché la camomilla contiana appare vincente, malgrado tutto? Azzardo una risposta: l’eloquio, così scarso d’immagini ed emozioni, soddisfa chi, e forse sono molti di più di quanto crediamo, ormai non chiede altro alla politica, scaduta allo zero della reputazione per responsabilità dei protagonisti storici, che un po’ di buona condotta, di buoni modi, di approssimata ma sincera cura del bene pubblico. Son convinto sia troppo poco e infatti non sono stato e non sarò elettore dei 5Stelle, ma resta per gli scettici la necessità di domandarsi ancora: e allora perché?

Antonello Caporale

 

Contro

Stile Forlani: per un messaggio chiaro serve passione

Passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Sono queste le tre qualità che il grande sociologo tedesco Max Weber definiva decisive per l’uomo politico. Giuseppe Conte, in queste settimane di campagna elettorale, ha spesso dimostrato le ultime due, ma è più volte apparso deficitario sulla prima. La passione è emersa, e secondo molti lo ha reso vincente, quando ha dovuto difendere se stesso e il suo operato davanti a intervistatori dichiaratamente ostili come Nicola Porro su Rete4, ma è scomparsa quando a porgli le domande sono stati Corrado Formigli e Alessandra Sardoni a Piazzapulita su La7.
In quel frangente, ma era accaduto altre volte, il leader del Movimento 5 Stelle è invece apparso evasivo, quasi sgusciante, più simile (per chi se lo ricorda) all’ex segretario Dc, Arnaldo Forlani, che al capo di un movimento entrato dieci anni fa nei palazzi del potere sostenendo di volerli cambiare in favore dei cittadini. Perché?

Conte ha due problemi. Il primo è l’inesperienza. Nel corso di questi ultimi tre anni ha imparato in fretta a fare il presidente del Consiglio (ve lo ricordate quando al suo primo voto di fiducia chiedeva consigli a Luigi Di Maio?), ma non a muoversi da politico a caccia di consensi. Va bene negli incontri con la gente dove ripete un copione collaudato, va meno bene, anzi male, se deve affrontare gli imprevisti del talk-tv.
La cosa è per lui risolvibile. Ma solo a patto che riesca a sciogliere il suo secondo e più grande problema: avere, come avevano i 5 stelle del 2018, 4 o 5 punti di programma per tutti immediatamente comprensibili. Allora i pentastellati parlavano di reddito di cittadinanza, leggi anticorruzione, taglio del numero dei parlamentari.

C’era chi era d’accordo e chi no. Ma tutti capivano. Oggi invece nessuno sa cosa vogliano (a parte sopravvivere). E da questo punto di vista sono uguali a quasi tutti gli altri. Anche la loro ultima battaglia, il salario orario minimo garantito, dimenticata.

“Presentarsi moderati nei toni, ma radicali nei contenuti” come dice Conte è giusto, ma a patto che i contenuti ci siano. E per ora o non ci sono, o non si vedono.

Peter Gomez

Trattativa, Dell’Utri-show: “Voi siete l’Odio Quotidiano”

“Sono qui per l’ultima udienza del mio processo. Ma non ho niente da dire”. Le poche parole dell’ex senatore e fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri nascondono la tensione per il finale del processo Trattativa Stato-Mafia, sentenza attesa a giorni, in cui rischia una condanna a 12 anni per minaccia a Corpo politico dello Stato. Per la Procura generale di Palermo, apparati dello Stato e Cosa nostra avrebbero mediato per interrompere l’ondata stragista degli anni ‘90, e per questo sono imputati anche gli ufficiali dell’Arma Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, e i boss Nino Cinà e Leoluca Bagarella. “Venticinque anni di indagini che non hanno portato a nulla. Alcuni collaboratori dicono che c’è stata un’indicazione della mafia a votare Forza Italia, ma nessun riferimento a Dell’Utri. Non c’è nulla, sul presunto incontro tra Vittorio Mangano e il senatore”, replica in aula l’avvocato Francesco Centonze (difensore di Dell’Utri) attaccando la ricostruzione dell’accusa. “Perché si continua ad accanirsi contro il generale Mario Mori – dice il suo difensore Basilio Milio –, è una brava persona e per tutta la vita ha servito questo ingrato Paese”. L’ex senatore Dell’Utri ha ascoltato in aula le repliche. Gli abbiamo chiesto un commento sulla pagina che amici e colleghi gli hanno dedicato sul Corriere per il suo 80simo compleanno. “Preferisco non commentare, il suo giornale le preclude qualsiasi domanda – risponde Dell’Utri –. Lei scrive per un giornale che chiamo l’Odio quotidiano”. Quando riproviamo la domanda, sornione sbotta: “Ma che cavolo ve ne frega”. “Vuole sapere come mi sento? – dice Dell’Utri uscendo dall’aula – Come un turco alla predica. Non ho capito nulla di quello che hanno detto, non so di cosa parlano”. E così alla fine dell’udienza di ieri, mentre l’ex senatore si è concesso un piatto di “pasta c’anciova” (pasta con le acciughe), i giudici si sono ritirati in camera di consiglio. Che durerà almeno un paio di giorni.

Casamonica, condanne per oltre 4 secoli. 20 anni a “Bitalo”, l’ex Re (sinti) di Roma

Il clan Casamonica di Roma è “mafia”. E Giuseppe Casamonica, detto “Bitalo”, 49 anni, condannato a 20 anni di carcere, ne è stato uno dei capi indiscussi e più potenti. Quaranta condanne in totale, 14 con l’aggravante mafiosa, oltre 400 anni di reclusione. Che la famiglia di origine sinti, radicata in tutto il quadrante est della Capitale, fosse da anni un’associazione a delinquere di stampo mafioso lo avevano già anticipato il 30 aprile 2019 la Corte di Cassazione e il 16 luglio scorso il gup di Roma con rito abbreviato. Ieri una nuova conferma con la sentenza di primo grado pronunciata dai giudici della Decima sezione penale del Tribunale di Roma, tappa principale del maxi-processo derivante dalle operazioni Gramigna e Gramigna-bis eseguite dai carabinieri di Roma, inchiesta della Dda di Roma che nel 2018 ha decimato i vertici degli “zingari”. Un pronunciamento storico perché è il primo giunto al termine di un processo di rito ordinario. “È una decisione molto importante che conferma la validità dell’impostazione data dalla Procura e dalla Polizia giudiziaria”, ha commentato la procuratrice aggiunta della Dda di Roma, Ilaria Calò. Fra i boss, la condanna più pesante – 30 anni di reclusione – è per Domenico Casamonica, detto Balò, classe 1979. Luciano Casamonica, 53 anni, e Salvatore Casamonica detto Dò, 45 anni, dovranno invece scontare rispettivamente 25 anni e 9 mesi e 23 anni e 8 mesi di carcere. Sui 20 anni di galera riservati a Giuseppe “Bitalo” Casamonica, invece, pesano le minori recidive rispetto a quelle dei suoi parenti, trovandosi in carcere ormai dal 2009: per la Procura è lui il personaggio principale di tutta l’inchiesta. Per i pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani, è stato Bitalo, nemmeno trentenne, a raccogliere a metà degli anni 2000 l’eredità di papà Guerino, traghettando il clan sinti al “salto di qualità” nel panorama criminale romano, passato in poco tempo da manovalanza delle cosche del sud in trasferta nella Capitale a partner alla pari prima della camorra e poi della ‘ndrangheta. Usura, estorsioni, racket, ma anche traffico di droga e gestione di ristoranti e locali: Bitalo è stato fra i “re di Roma” e, pure essendo finito in carcere nel 2009, per quasi un’altra decina d’anni le decisioni più importanti si sono prese nel suo villino del quartiere Porta Furba. Lo stesso che l’agenzia nazionale per i Beni sequestrati non riesce a riassegnare, per mancanza di richieste. Simbolo del timore che il cognome Casamonica desta ancora sul territorio capitolino.

Aosta, la corruzione diventa “impropria”: la prescrizione salva ex presidente Rollandin

La corruzione non c’è più. O meglio, ha cambiato veste rispetto a quella inizialmente contestata ad Augusto Rollandin per episodi del 2013, quando era presidente della Regione Valle d’Aosta. Per i giudici della Corte d’Appello di Torino è passata da propria a impropria, ma il reato si è prescritto. L’Imperatore della politica valdostana ha incassato così il “non doversi procedere”, uscendo indenne dal processo. Che aveva addensato nubi minacciose sul più longevo politico della Vallée (13 anni a capo di Giunte a trazione autonomista e 5 da senatore). Nel marzo 2019, il Gup di Aosta gli aveva inflitto 4 anni 6 mesi e 20 giorni di carcere e quel verdetto ne aveva causato la sospensione, per la legge Severino, dalla carica di consigliere regionale. Abito che Rollandin veste ancora: nel 2020, malgrado l’etichetta di “impresentabile” incollatagli dalla Commissione antimafia, si era (ri)candidato.

Poco importa se ciò ha significato divorziare dal suo movimento, l’Union Valdôtaine, inventando “Pour l’Autonomie”. Per colui che tutti in Val chiamano “Guste”, in patois, il sostituto pg Giancarlo Avenati Bassi aveva chiesto 5 anni. “Mi fa piacere – chiosa Rollandin –. Anche se son dovuti passare anni. Ma meglio tardi che mai”.

Ad appellare il giudizio di 1° grado, oltre agli imputati, era stata la Procura. Rollandin era stato assolto dall’accusa di aver dato vita – con l’ex consigliere delegato del Forte di Bard Gabriele Accornero e il grossista alimentare Gerardo Cuomo – a un’associazione a delinquere contro la P.a.. Per il pm Luca Ceccanti e il procuratore capo Paolo Fortuna, i tre erano “un’elaborata banda criminale”. Secondo l’accusa, Rollandin aveva premuto per favorire l’ampliamento della sede della ditta di Cuomo, con Accornero quale “trait d’union” tra i due. In cambio, a “Guste” sarebbero andati un cambio di gomme gratis e un incontro elettorale coi dipendenti del “Caseificio Valdostano”. Fatti che per i giudici d’appello meritavano diversa qualificazione, e il sipario della prescrizione è calato (Accornero e Cuomo avevano riportato, in 1° grado, rispettivamente 4 anni 6 mesi e 20 giorni e 3 anni e 8 mesi).

L’assoluzione è poi scattata per gli affidamenti di alcuni lavori nella fortezza, che vedevano altri tre imputati. Sono rimasti un anno ognuno per Accornero e Cuomo, per corruzione nelle forniture del 4K, trail organizzato dal Forte nel 2016. Insomma, in Valle tutto bene. O quasi.