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Gkn, la vittoria di Pirro del blocco licenziamenti

Il Tribunale del lavoro ha bloccato i licenziamenti dei 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, accogliendo il ricorso della Fiom, per “comportamento antisindacale”. Esultanza dei lavoratori e dei sindacati! “Vittoria!” hanno urlato. Ora, non vorrei spegnere il giusto entusiasmo, ma questa “Grande Vittoria” dei lavoratori sulla multinazionale che li voleva licenziare, più che a Davide mi fa pensare a Pirro. È vero, l’azienda non ha rispettato le procedure che lo Statuto dei lavoratori (quel che ne rimane) impone, però, se l’intenzione rimane quella di chiudere lo stabilimento, sarà solo questione di tempo (qualche mese?) e poi, seguite le corrette procedure, i lavoratori “a spasso” finiranno. Non ci sono leggi che possono imporre alle aziende di non chiudere i propri stabilimenti, trent’anni di politiche liberiste, portate avanti da governi di qualsiasi colore, hanno lasciato i lavoratori soli contro lo strapotere dei padroni. Figuriamoci che in Italia non è previsto, per chi delocalizza, nessun obbligo di restituzione degli incentivi statali percepiti negli anni precedenti, e non sarà certo il governo Draghi, sempre così sollecito ad accontentare i desiderata di Confindustria, a varare nuove disposizioni che potrebbero indurre il Consiglio di amministrazione della Gkn a desistere dal suo intento.

Mauro Chiostri

 

Le delocalizzazioni in tv non fanno notizia

Cara redazione, da oltre un mese ci stanno martellando su tutte le televisioni con i No Vax e il Green pass tralasciando di dare notizie sulle aziende che stanno chiudendo e delocalizzando il lavoro dopo aver preso per anni soldi dallo stato Italiano. Possibile che nessuno ne parli e i nostri politici non prendano posizione?

Luciano

 

Amministrative, si vota solo se si ha il Green pass?

All’approssimarsi delle votazioni per le Amministrative sarò curioso di vedere come il governo potrà vietare il diritto di voto ai cittadini che non hanno il certificato vaccinale. Non mi sorprende che il problema non è stato sollevato da nessuno. Forse per non disturbare il “manovratore”.

Pietro Lonetto

 

I No Vax non beneficino degli sforzi degli altri

Nomi illustri che si ergono a paladini della Costituzione di fronte a una malattia infettiva che si trasmette per via aerea da quasi due anni. Non riesco a capire: le persone sono partite da casa volontariamente, hanno superato le proprie paure, si sono vaccinate e devono trovarsi accanto a chi è rimasto a casa, non si è vaccinato, e magari gira con la mascherina sotto il naso, come mutande senza elastico.

Non trovo giusto che i non vaccinati possano beneficiare dello sforzo collettivo della maggioranza degli italiani, e dato che la società non può vaccinare i cittadini in modo coercitivo, è giusto che ne limiti la circolazione in attesa che anche loro facciano la propria parte.

Giovanna Fresta

 

B. e le perizie: la prima la chiese Veronica Lario

Vorrei ricordare che la prima persona che consigliò una visita psichiatrica a Berlusconi fu la ex moglie Veronica Lario e non i giudici di Milano: penso che lei conoscesse bene la situazione di salute del marito.

Antonio Barbagli

 

Bernabè e i paragoni infelici a “Otto e mezzo”

Vorrei segnalare come, nel commento di Marco Travaglio del 18 settembre, quest’ultimo abbia trascurato la “chicca” dell’intervento di Bernabè a Otto e mezzo. Mi riferisco al paragone da lui fatto tra chi non si vuole vaccinare e gli imboscati durante la guerra, aggiungendo, con un pizzico di rimpianto: “Allora venivano fucilati sul posto”. Penso sia il caso di sottolineare frasi di questa gravità che vanno ad alimentare questo intollerabile clima che si è instaurato nel nostro Paese!

Laura

 

I NOSTRI ERRORI

Per un disguido, l’intervista al professor Gaetano Azzariti è stata pubblicata sul giornale di domenica 19 settembre in una versione parziale e non definitiva, alcuni passaggi sono risultati pertanto non precisati. In particolare nella parte in cui si spiega perché il mandato a termine non è proponibile dato che “non sarebbe in alcun modo formalizzabile, ponendosi in esplicito contrasto con quanto la Costituzione scrive all’art. 85”. La versione corretta dell’intervista è disponibile sul sito del nostro giornale, nella sezione “in edicola”. Mi scuso dell’errore con l’interessato e con i nostri lettori.

Silvia Truzzi

 

DIRITTO DI REPLICA

Egregio Direttore, quale difensore della sig.ra Maria Marcella Contraffatto, in riferimento all’articolo pubblicato il 17. 09.2021 dal Giornale da Lei diretto – “Perché adesso è il momento di pubblicare” firmato dai giornalisti Gianni Barbacetto e Antonio Massari, laddove si attesta “… qualcuno aveva sottratto illegalmente quei verbali dai computer dei PM… arrivati al Fatto consegnati dalla segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto…”, mi corre l’obbligo di puntualizzare quanto segue: viene riferito come dato pacifico e accertato che a consegnare i verbali secretati dell’avv. Amara al giornale da Lei diretto sia la sig.ra Contraffatto. La circostanza è assolutamente falsa, calunniosa e diffamatoria, peraltro incompatibile con le risultanze investigative depositate agli atti e di Sua diretta conoscenza. Non è la prima volta che viene riportata la suddetta notizia: nell’articolo del 28 luglio u.s “Storari-Amara, omissioni e misteri: cosa non torna” viene indicato come dato acclarato che sia stata la mia assistita a consegnare gli ormai “famosi” verbali al Fatto Quotidiano. La precedente richiesta di rettifica è caduta nel vuoto. Conseguentemente mi vedo costretta ad avvisarLa che qualora non intenda provvedere a rettificare prontamente la notizia ai sensi ex art. 8 L. 47/48 mi rivolgerò alle diverse competenti autorità giudiziarie.

avv. Alessia Angelini

Pandemia. “Smettiamola di parlare di distanziamento ‘sociale’. È fisico”

 

Caro “Fatto Quotidiano”, da oltre un anno e mezzo odio l’aggettivo “sociale” che giornali, settimanali e canali televisivi associano costantemente, nel parlare di pandemia, all’espressione “distanza”. Prima di arrendermi definitivamente, considerato che il termine “fisica” non è accolto quasi da nessuno, vi invio una specie di schema nel quale, partendo dal Papa, si arriva agli stranieri irregolari. Tanto per far capire la mia insofferenza per un aggettivo, che trovo non solo nella stampa, ma sui muri, agli ingressi delle stazioni, dei bar, dei cinema e, perfino, sull’asfalto.

Guariente Guarienti

 

Caro Guariente, la tua allergia è tutta mia. Credo sia stato il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky il primo a manifestarla ai tempi del governo Conte, infatti l’allora premier iniziò a parlare non più di distanziamento sociale, ma personale o fisico. Purtroppo l’implacabile burocratese aveva ormai impestato tutta la Pubblica Amministrazione, che non ne è mai più guarita.

m. trav.

Da Matusalemme ai boschi europei: la rete delle piante

Città. Escludendo dal calcolo l’Antartide, le città, tutte insieme, coprono una superficie che ammonta al 2,7% delle terre emerse.

Pil. Nel 2008, in un’indagine riguardante 181 paesi, un aumento del 10% di urbanizzazione era associato a un aumento del 61% del Pil pro capite.

Foresta. In una foresta gli alberi non sono separati gli uni dagli altri, ma formano, attraverso le radici, una rete sotterranea che li unisce tutti in una enorme rete diffusa. Una foresta, in altre parole, andrebbe vista come un super-organismo nato dall’interazione fra gli alberi che ne fanno parte.

Osmosi. Il 12 agosto del 1833, René Joachim Henri Dutrochet (1776-1847), famoso fisico, botanico e fisiologo francese, raccontò che nelle foreste dello Jura “tutti i ceppi di abete bianco provenienti da alberi abbattuti molti anni prima erano pieni di vita, così come lo erano le loro radici”.

Tronco. Un tronco è, in estrema sintesi, una struttura idraulica. Serie ininterrotte di cellule, morte e cave, disposte a formare lunghe condutture che trasportano l’acqua e i soluti in essa disciolti dalle radici verso le foglie. Insieme al parenchima, in cui sono incluse, queste strutture formano lo xilema (dalla parola greca xylon, legno). Le cellule viventi del floema (dal greco floios, corteccia), al contrario, trasportano gli zuccheri prodotti nelle foglie, grazie alla fotosintesi, dalla chioma al resto della pianta.

Vento. Oltre il 50% dei danni subiti dai boschi europei è dovuto al vento. Non sono gli incendi (16% dei danni) o i patogeni e gli insetti a minacciare i nostri boschi. Dal 1970 al 2010 gli alberi persi a causa del vento sono raddoppiati, passando da circa 50 milioni a 100 milioni di metri cubi.

Stradivari. A rendere l’abete rosso (Picea abies) l’albero perfetto per la creazione di tavole armoniche (tipo gli Stradivari) è la perfetta conduzione del suono dovuta ai suoi minuscoli canali resiniferi che corrono per l’intera lunghezza del tronco e che con la stagionatura rimangono cavi permettendo all’aria di vibrare al loro interno, come delle microscopiche canne d’organo. La cristallizzazione della resina sulle pareti di questi canali, che avviene solo durante una lunga stagionatura naturale, sarebbe, inoltre, fondamentale per migliorare ulteriormente le capacità di trasporto del suono. Bisogna che gli alberi abbiano un diametro di almeno 60 cm, dimensioni che si raggiungono in genere intorno ai 150-200 anni. Perché ci sia la giusta densità del legno gli alberi devono crescere ad altezze notevoli, meglio se su versanti esposti a nord e su terreni poveri. La crescita della pianta deve essere lenta e regolare, il tronco non deve avere torsioni né tantomeno nodi o altre alterazioni e deve essere tagliato durante il riposo vegetativo, quando gli zuccheri nella pianta sono stati trasformati in amido e il legno è più resistente. Infine il taglio: deve essere effettuato ‘di quarto’ ossia in spicchi, e non in tavole, di modo che la superficie del legno rimanga per quanto possibile perpendicolare agli anelli concentrici. Soltanto pochissimi alberi sono davvero adatti a fare tavole armoniche di grande pregio.

Matusalemme. Pino di 4.600 anni, noto per essere il più antico essere vivente conosciuto. Vive nella zona più arida delle White Mountains (California), oggi chiamata “passeggiata di Matusalemme”.

Continua

Notizie tratte da: Stefano Mancuso, “La pianta del mondo”, Laterza, pagine 200, 15 euro1.

I “Talib” e quello che non sapete

“Apre bocca e gli dà fiato” è un detto toscano riferito a persona che parla di cose che non conosce. Un tipico “apre bocca e gli dà fiato” seriale, perché ha una rubrica quotidiana sul Corriere della Sera, Il Caffè, è Massimo Gramellini.

Io credo che il primo dovere di un giornalista sia quello di documentarsi, soprattutto quando entra in campi di cui non si è mai occupato. Nel suo Il Caffè del 17.9 intitolato “Talebani distensivi” Gramellini prende spunto da una notizia falsa per poi argomentare in modo altrettanto falso: l’uccisione di Baradar, attuale presidente provvisorio dell’Afghanistan, da parte di suoi avversari politici, gli Haqqani. Sarebbe bastato che Gramellini telefonasse al suo collega Lorenzo Cremonesi, che è su quel campo da molti anni, per accertare che quella notizia era una balla.

Con i piedi poggiati su questa fake Gramellini costruisce il suo articolo che è un attacco nei miei confronti, ma senza fare il mio nome, nel modo viscido che è il costume del Corriere “il giornale più vile d’Italia” come lo definii in un’intervista che mi fece Beppe Severgnini. E Severgnini, molto all’inglese, non batté ciglio perché non è Gramellini.

Cosa dice dunque Massimo Gramellini nel suo pezzo: “A Kabul l’ultimo Consiglio dei ministri è stato piuttosto movimentato, con i talebani che si sparavano addosso tra di loro e il capo dei cosiddetti moderati, Baradar, dato per disperso. Al momento nessuno sa dire dove sia: se in ospedale o sottoterra. Si tende a sopravvalutare il Male: ogni tanto sembrerebbe una farsa, se non fosse sempre una tragedia. Tornano alla mente le lucide analisi di certi pensatori italiani che per puro odio verso l’America e i valori occidentali sono arrivati a dipingere i talebani come valorosi guerrieri tutti d’un pezzo. Ruvidi, magari, e un tantino rétro sul concetto di uguaglianza tra i sessi, ma nobili e cavallereschi. In realtà si tratta di clan tribali che litigano per le poltrone peggio di un manipolo di sottosegretari nostrani, ma con metodi decisamente più spicci e guidati dai capimafia che, appena si trovano intorno allo stesso tavolo per spartirsi il bottino, cercano di eliminarsi a vicenda. Quell’anima di Giushappy Conte, immediatamente imitato dai trombettieri della sua corte, aveva colto nei primi atti del nuovo regime ‘un atteggiamento abbastanza distensivo’. Dopo la sparatoria dell’altro ieri osiamo sperare che abbia cambiato avverbio e soprattutto aggettivo. Forse con i talebani bisogna trattare. Ma come si tratta con un bandito che ti ha rapito la nonna e le tiene un coltello sotto la gola. Senza concedere loro neanche per un attimo lo status di legittimi rappresentanti di una nazione.”

Perché Gramellini non si pone una domanda semplice semplice. È possibile che un gruppo di ragazzi, perché allora erano dei ragazzi, studenti delle madrasse (talib vuol dire appunto ‘studente’, che allora non sapevano nemmeno di essere talebani, il nome gli venne dato dopo) abbiano potuto ingaggiare una guerra di indipendenza contro il più forte esercito del mondo durata oltre vent’anni e per soprammercato vincerla, senza avere l’appoggio della maggioranza della popolazione? Sia chiaro, a Gramellini e a tutti i Gramellini, che nei Talebani io non difendo la loro ideologia sessuofobica, che mi è completamente estranea, ma il diritto di un popolo, o di parte di esso, a resistere all’occupazione dello straniero. Altrimenti prendiamo la nostra Resistenza su cui abbiamo fatto tanta retorica, che è durata un anno e mezzo e aveva l’appoggio degli Alleati, mentre i talebani non avevano il sostegno di nessuno, e buttiamola nel cesso. Trovo piuttosto indecente immiserire la lotta d’indipendenza afgano-talebana, che è costata fiumi di sangue, a uno scontro fra clan mafiosi, tipo quello cui assistiamo quotidianamente in Italia fra i partiti. A furia di guardare il mostro si finisce per assomigliargli.

Che l’Afghanistan sia formato da clan Gramellini l’ha orecchiato da Anselma Dell’Olio che l’ha orecchiato da qualcun altro che a sua volta l’ha orecchiato da altri ancora. Gli occidentali si alimentano delle proprie menzogne e finiscono per crederci. Clan o non clan, diversità tribali e no, il fatto è che gli afghani hanno un fortissimo senso di identità nazionale basato su valori ideali che sono scomparsi in Occidente e che ha permesso loro nell’Ottocento di cacciare, dopo una lotta durata trent’anni, gli inglesi, nel Novecento di sconfiggere i sovietici, di ricompattarsi sotto la guida del Mullah Omar contro quegli avventurieri chiamati “signori della guerra” e infine di sconfiggere gli occidentali.

Gli occidentali non riescono proprio a digerire di essere stati sconfitti da quel gruppo di straccioni chiamati Talebani. E in effetti questa è una sconfitta molto più sanguinosa di quella che gli americani subirono in Vietnam. Perché i Viet Cong avevano l’appoggio della Russia e della Cina e, a livello culturale, dell’intellighenzia europea che allora era orientata in senso comunista. Quante volte abbiamo visto in Italia e in Europa grandi manifestazioni contro la guerra del Vietnam? Per la guerra all’Afghanistan non ce n’è stata neanche una.

Quanto al mio antiamericanismo, che non è rivolto contro il popolo americano che è un popolo naif, deliziosamente ingenuo tanto da ingurgitare qualsiasi balla, ma alla leadership yankee, democratica o repubblicana che sia, non c’è bisogno di alcun odio preconcetto. Basta, come il Sancio Panza di Guccini, guardare i fatti. Lasciando perdere l’Afghanistan, è dal 1999, guerra alla Serbia, per proseguire poi con la guerra alla Somalia (2006-2007) per interposta Etiopia, a quella all’Iraq del 2003, a quella contro la Libia del colonello Mu’ammar Gheddafi del 2011, che gli Stati Uniti ci hanno trascinato in guerre disastrose, non solo per i popoli aggrediti, a spanna un milione e mezzo di morti, che si sono alla fine rivolte contro l’Europa.

Che l’idillio con i vincitori della Seconda guerra mondiale fosse finito lo ha detto quattro o cinque anni fa Angela Merkel quando dichiarò paro paro: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Se poi Massimo Gramellini vuole arruolare anche Merkel fra gli odiatori sistematici dell’America faccia pure. Io mi sono sempre sentito estraneo al concetto di Occidente, un agglomerato che ricorda in modo sinistro l’Eurasia e l’Estasia dell’Orwell di 1984. Io mi sento un europeo che ha alle spalle una grande tradizione, a cominciare dalla cultura greca, non uno yankee. Écrasez l’infâme!

 

Gkn bussa alla porta di Letta. Ma il Pd è innamorato di Draghi

Auna rapida occhiata sulle agenzie, la quasi totalità delle dichiarazioni relative alla vertenza Gkn provengono da Pd, M5S e sinistra varia. Dichiarazioni di soddisfazione per la decisione del Tribunale che ha bollato come “antisindacale” il licenziamento di 422 operai. Dato importante, perché aiuta a capire come e perché quell’alleanza, che è stata la spina dorsale del Conte 2, abbia al suo interno alcuni tratti distintivi e unificanti.

Sui diritti del mondo del lavoro, sulle garanzie minime a livello sindacale, c’è quindi un’assonanza che sorregge ipotesi di alleanze durature. Solo chi non vuol capire, oppure capisce benissimo ma deve ogni giorno alimentare una sterile polemica sui cedimenti populisti del Pd, può bollare questo come una propensione populista dei Dem, o almeno di una loro parte, a tenere aperto il dialogo con il movimento di Giuseppe Conte.

Il dato positivo però termina qui perché quella solidarietà, generosamente offerta mentre il fondo Melrose, proprietario della fabbrica di Campi Bisenzio, precipitava allla Borsa di Londra (ma alla fine chiudeva solo con un -1,20%) non è ancora all’altezza della situazione. Le dichiarazioni di giubilo si nascondono dietro la decisione giudiziaria e sembrano mancare di convinzione e determinazione. Sabato, quando 15 mila persone hanno manifestato a Firenze, da parte del Pd non si è assistito a una solidarietà immediata, mentre Enrico Letta preferiva twittare sui successi dello sport italiano.

E invece in quella piazza si sono visti uomini e donne che da tempo non manifestavano insieme, che hanno individuato nella rivendicazione di dignità che gli operai sono riusciti a trasmettere in tutta Italia una ragione valida per tornare in piazza. Sapendo che non esiste una forza politica adeguata, forse nemmeno un sindacato, a rappresentarli o a raccoglierne le intenzioni di partecipazione.

Ha buon gioco Romano Prodi a rimproverare al Pd di essere un partito senza visione politica soprattutto nel campo del lavoro. Critica un po’ furbesca per chi con il lavoro si è scontrato più volte durante i suoi governi e che non è ricordato per grandi svolte sociali. Ma il suo rimprovero è servito a rendere il “re nudo” per l’ennesima volta. Il tema del lavoro è un grande rimosso, non solo del Pd, ma del quadro politico. Anche i 5S, pur esprimendosi spesso con atti e simboli importanti – la sottosegretaria Alessandra Todde e anche Conte sono stati in visita alla fabbrica – poi non ne fanno un tema centrale della loro iniziativa.

Sembra scontato dire che il lavoro è centrale se si vuole recuperare un rapporto con la società. Meno scontato cogliere nelle dinamiche moderne del lavoro dipendente questioni di respiro più generale che coinvolgono la richiesta di dignità, il riconoscimento di diritti ma anche di ruolo attivo e di partecipazione. Questioni come licenziamenti, salario minimo, pensioni o anche smarworking, sono i punti salienti della vita quotidiana. Non saperne parlare, parlarne solo quando capita è un segnale di arretratezza enorme. Se invece si volesse dimostrare che qualcosa è cambiato, allora basterebbe impegnarsi sul decreto anti-delocalizzazioni, sul salario minimo (che anche Scholz, candidato della Spd, propone di aumentare in Germania, mentre a opporsi è il conservatore Laschet) e difesa della dignità del lavoro. Una volta si chiamava sinistra. Ma può una qualsiasi sinistra parlare di questi temi in un governo come quello Draghi? No, non può. Eppure il Pd continua a strillare che questo è il suo governo. Prodi può aspettare.

 

Di Carlo, il prof. no-pass in tv è solo un utile fantoccio

Ho un nuovo idolo e voglio condividerlo con voi: il suo nome è Di Carlo, Valentino Di Carlo. Professore 41enne, insegna Lettere come precario in una scuola superiore. Ha tre lauree: Lettere Moderne, Scienze Politiche e Scienze Filosofiche. Il circo dei talk-show ha deciso di scritturarlo (momentaneamente) nel ruolo del “no Green pass accettabile”. Le prime tre parole sono meritate e la quarta no, perché Di Carlo è “accettabile” solo se lo paragoni a Meluzzi o Paragone, cosa che vale per qualsiasi essere umano tranne Giletti e le zanzare tigre.

Di Carlo è stato furbo nell’inserirsi in questa inutilissima polemica sul Green pass. E alcuni conduttori, peraltro bravi, hanno deciso di usarlo (che è cosa molto diversa dall’invitarlo). La scorsa settimana l’ho visto prima a Coffee Break, trasmissione peraltro ottima, e poi a L’aria che tira. Nel primo caso Di Carlo è stato macellato dialetticamente da Cecchi Paone, che immagino si sia sentito come Mike Tyson contro Michael Spinks nell’88. E nella seconda occasione è stato deriso e disgregato da Bassetti, che peraltro se lo è messo in tasca impegnandosi pochissimo.

Di Carlo è un punching ball mediaticamente improponibile, nonché simpatico a pelle come un mix fulminante tra Intini e Ghedini. Non lo aiutano neanche i capelli, scolpiti da un Edward Mani di Forbice che palesemente lo odia parecchio, e la timbrica. Di Carlo, senz’altro uomo di cultura e professore preparato, in tivù ci mette del suo per risultare indigesto. Non ha tempi televisivi, è drammaticamente logorroico e tende pure ad alzare la voce e gesticolare a caso nei momenti meno indicati. Magari l’interlocutore gli ha fatto una semplice domanda, i toni in studio sono calmissimi, e Di Carlo (in collegamento da una cella dadaista) si mette a urlare senza motivo (“Lei non è qui a fare domande Cecchi Paoneeeeee!”). Una macchietta involontaria che la tivù utilizzerà un altro po’ per poi relegarlo in quel dimenticatoio mediatico che meriterebbe anche adesso.

Le “tesi” di Di Carlo sono orgogliosamente improponibili. Ogni volta, con lentezza sgraziata, parte con la litania lisa del Green pass anticostituzionale. Poi vira sulla messa cantata dei poveri professori costretti ad avere il Green pass anche se ormai son quasi tutti vaccinati, “dunque cosa volete ancora, che si vaccinino anche le cattedre e le sedie?”. Di Carlo, sempre più comicamente obnubilato da se stesso, sgancia poi la bomba delle fake news: “Il tamponato è più sicuro di un vaccinato”. Falso storico, perché il vaccino (che Di Carlo chiama spesso “siero” come amano fare i no-vax) copre all’85% mentre il tampone rapido (a cui allude Di Carlo) ha un tasso di errore molto più alto. Di Carlo, come tutti i no-vax e quasi tutti i no Green pass, parla male e per sentito dire. Pretende pure i tamponi gratis o comunque scontati, esibendo l’egoismo di chi non solo non si vaccina ma pretende pure che sia la collettività ad accollarsi le spese di una scelta così moralmente ripugnante. Infine, a chi lo accusa di essere no-vax, dice che lui non lo è. Quindi è vaccinato? No, perché “pur non essendo contrario al momento ho dei dubbi”. E dunque, sempre da buon egoista, aspetta che nel frattempo si vaccinino tutti gli altri. Così arriveremo all’immunità di gregge, e quelli come lui saranno al sicuro grazie alla generosità altrui. È vero che Di Carlo, rispetto a certi pasdaran del delirio colpevole, pare quasi un luminare. Ma è davvero il caso, dentro una pandemia e dopo più di 130 mila morti, di invitare e dare visibilità a certa gente? Bah.

 

È arrivato il momento di una donna al Colle

Mentre Silvio Berlusconi si rifiuta sdegnosamente di sottoporsi alla cosiddetta “perizia psichiatrica”, che in realtà è una comune perizia medico-legale, chiesta dal Tribunale di Milano per accertare il suo stato di salute in seguito alle ripetute assenze dal processo Ruby-ter, inizia il countdown per la corsa al Quirinale. Senza questo passaggio procedurale, per l’ex Cavaliere sarebbe venuto meno automaticamente il “legittimo impedimento” che ha bloccato finora il corso della giustizia. E vale la pena ricordare che, in questo caso, Berlusconi non è imputato per le “cene eleganti” ad Arcore, bensì per “corruzione in atti giudiziari”: cioè per l’accusa di aver pagato i silenzi o le bugie di decine di potenziali testimoni.

A parte i suoi precedenti penali ormai passati in giudicato, l’ex Cavaliere sarebbe senz’altro il candidato più divisivo per il Colle. A 85 anni, terminerebbe il mandato a 92. E comunque i parlamentari che devono eleggere il presidente della Repubblica e tutti i cittadini italiani avrebbero il diritto di sapere se effettivamente Berlusconi non sta bene, tanto da disertare sistematicamente le aule di Tribunale.

Poi, naturalmente, c’è la candidatura di Mario Draghi, l’italiano più conosciuto e stimato all’estero, per il prestigio internazionale che s’è conquistato come presidente della Banca centrale europea. Ma qui si apre la questione se “Mister Bce” sia più utile come capo del governo o dello Stato. Fatto sta che Draghi ha ora 74 anni; i fondi europei devono essere utilizzati entro il 2026; e se lui dovesse aspettare altri sette anni per essere eletto presidente della Repubblica, arriverebbe al Quirinale a 82 anni e finirebbe quindi a 89. Ma è pensabile che questa maggioranza extralarge, così eterogenea e incerta, possa reggere altri 4 o 5 anni? Con ogni probabilità, se si arriverà col governo Draghi alla fine naturale della legislatura, subito dopo le prossime elezioni politiche (2023), i partiti o le coalizioni che le vinceranno passeranno all’incasso, rivendicando la guida dell’esecutivo.

C’è, dunque, un’alternativa? E quale può essere il maggior elemento di novità e discontinuità? Con tutto il rispetto e l’ammirazione che si può avere per le donne, non credo che, per un certo ruolo e in una certa situazione, una donna sia migliore di un uomo per il semplice fatto di essere una donna, anche se bisogna riconoscere che spesso è così. Né ho mai inneggiato alle “quote rosa”, perché ritengo che la parità tra uomini e donne debba essere garantita in base alle competenze e alle capacità, non automaticamente in base al sesso. E tuttavia ho sempre pensato che le “pari opportunità” siano la condizione minima per ripristinare un equilibrio di genere che al momento in Italia non c’è, nonostante il dato che su circa 60 milioni di cittadini le donne sono in maggioranza (oltre 30 milioni) rispetto agli uomini (28,8 milioni).

Stando così le cose, non è arrivato il momento di candidare una donna alla presidenza della Repubblica? Sarebbe fuori luogo sostenere che non ce n’è una all’altezza: primo, perché non è vero; secondo, perché la discriminazione nei loro confronti può aver nuociuto finora alla loro visibilità e credibilità.

Ne abbiamo già avute, di donne importanti, nella Prima Repubblica: da Nilde Iotti (comunista e presidente della Camera) a Tina Anselmi (ex partigiana, democristiana e ministra del Lavoro e della Sanità). E fra quelle in vita, possiamo citare la radicale Emma Bonino (classe 1948), benché si sia esposta fin troppo nei referendum anti-giustizia e nelle candidature con Berlusconi; poi Rosy Bindi, la donna che sciolse la Dc veneta (classe 1951); Laura Boldrini, ex presidente della Camera, prima con Sel e poi col Pd (classe 1961); per arrivare fino all’attuale presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati (Forza Italia, classe 1946), seconda carica dello Stato, che per la verità non ha offerto finora un impeccabile modello di equilibrio e di neutralità. Per completezza, aggiungiamo pure l’attuale ministra della Giustizia – o meglio della “improcedibilità” – Marta Cartabia, ex giudice e per 9 mesi presidente della Corte costituzionale, che s’è giocata gran parte delle chance col pasticcio della “riforma” penale (classe 1963); e la politica e fisica Maria Chiara Carrozza, già ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica nel governo Letta, oggi presidente del Consiglio nazionale delle Ricerche (classe 1965). Senza prendere in considerazione qui l’eroina dell’estrema destra e leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni (classe 1977).

Ma, anche fuori dalla politica attiva, non mancano figure femminili che potrebbero essere legittimamente candidate al Colle, marcando una discontinuità – questa, sì, di genere – rispetto a una lunga e ininterrotta consuetudine maschile che ormai dura da più di settant’anni, cioè dall’immediato dopoguerra. Fra le ipotesi che sono già circolate in passato, la giornalista e autrice televisiva Milena Gabanelli (1954); l’economista Lucrezia Reichlin (1954); l’ambasciatrice italiana a Washington, Mariangela Zappia (1959); la virologa ed ex deputata di Scelta Civica, Ilaria Capua (1966); e infine, l’astronauta Samantha Cristoforetti, prima donna italiana nello spazio e comandante della Stazione spaziale internazionale nella missione “Expedition 68” (classe 1977).

Anche senza bandire “cene eleganti”, insomma, le donne non mancano. E sono donne di qualità, competenti e capaci, in grado di assumere la più alta carica dello Stato al pari di un uomo, rappresentando la maggioranza della popolazione italiana. Ma chissà quante altre potrebbero esserne all’altezza, impegnate nel mondo economico, accademico, scientifico, culturale, giornalistico. Nel nuovo secolo e nel nuovo millennio, sarebbe ora che la Repubblica Italiana cambiasse finalmente genere per essere declinata al femminile.

 

Don Piero, la “sua” ostia imbevuta di tanto Gbl e l’attenzione dei fedeli

E adesso, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che la Rai non mi fa fare dal 2001 perché sono criminoso e invece Alessandro Cattelan no”, Arrangiate fresche.

 

Bologna. Arrestato uno spacciatore di droga che diceva messa. Piero Predabissi, 40 anni, un pusher noto alle forze dell’ordine, è finito in carcere: la Procura ha richiesto la misura cautelare poiché il malvivente, dopo l’arresto domiciliare di quattro anni fa, si era iscritto al seminario vescovile e si era fatto prete, riprendendo quindi in abito talare la sua attività di spacciatore. La copertura era perfetta: Don Piero diceva messa due volte al giorno, una alla mattina e una al pomeriggio; i tossici pagavano le dosi versando soldi nel cestino della questua durante la messa, e alla comunione Don Piero dava loro un’ostia imbevuta di Gbl, la droga dello stupro. I primi sospetti qualche mese fa, quando l’economo parrocchiale, un ficcanaso boccalarga, si è accorto che i fedeli erano aumentati anche nei giorni feriali, stipando all’inverosimile la piccola canonica che in precedenza era quasi sempre vuota; mentre le offerte si erano di colpo impennate fino a cifre da capogiro, cosa insolita per una chiesetta di periferia. Don Piero ha lasciato il suo incarico, ma la comunità parrocchiale ha protestato contro il suo arresto: il sacerdote pagava le bollette della luce a tutti. Dall’inchiesta è emerso anche che, all’insaputa dei mariti, le donne più belle della parrocchia erano amanti del giovane parroco, che sapeva approfittare degli elastici “perché” delle donne che dicono di no. Ne approfittava per fottere: ne approfottava, insomma, con feste a sfondo sessuale dentro megaville appigionate in luoghi turistici di grido. Le fedeli tornavano a casa con cestini di uova Fabergé in oro e pietre preziose, e tutto sarebbe proseguito sul velluto se Don Piero non avesse incominciato una relazione sentimentale anche con la moglie dell’economo parrocchiale, una donna stretta di cervello, ma larga di busto, che amava la bella vita. Imprudenza gravissima, irreparabile, imperdonabile. L’economo cominciò a insospettirsi quando la moglie partì per un ritiro spirituale a Sankt Moritz, lei e il prete da soli, e tornò con addosso una pelliccia di zibellino da 1 milione e la parure esibita dalla regina Aleksandra, moglie dell’ultimo Zar, nella foto ufficiale del 1908 (bit.ly/3tUuK97). Un bel giorno, l’economo ricevette una lettera anonima che giustificava il sorriso obliquo lanciatogli dai suoi nemici (chi non ne ha?) quando lo incrociavano sotto i portici. Un’agenzia d’investigazioni precisò l’ora e il luogo; l’economo, vendicativo come un apache, si recò in questura. Le partecipanti ai festini erano in totale una decina, tutte maggiorenni e consenzienti, e non sapevano che Don Piero fosse uno spacciatore. Dice Don Piero, la mascella velata di azzurro di quelli che usano il rasoio elettrico: “Ho sempre preferito le donne sposate perché una donna libera è attaccaticcia, indistricabile, ti sorveglia, ti interroga, vuol sapere cosa pensi, ti telefona a tutte le ore del giorno e della notte, ce l’hai sempre fra i piedi, è gelosa del tuo passato come se dal momento della nascita avessi dovuto rinunciare a vivere per aspettare lei. Nel mio desiderio non c’è nulla di irrispettoso o di impuro.” E le damigiane di Gbl trovate in sacrestia? “Il Gbl è un prodotto ottimo per pulire le pissidi d’argento.” E i soldi delle offerte usati per comperarlo in Olanda? “Perché, gli altri preti spiegano come usano il denaro delle offerte? Sono soldi in nero. Ci pagano le tasse? Non dice niente nessuno, nessuno controlla. Eppure sono milioni a disposizione immediata. Perché fanno storie solo a me? Brutta cosa, l’invidia.”

 

Crisi dei partiti, la lagna utile solo ai “tecnici”

È dalla metà del secolo scorso, da quando cioè frequento i giornali, che leggo e sento parlare di crisi dei partiti. La consueta lagna sul distacco tra paese reale e paese legale, sul partito dell’astensione che alle elezioni vincerebbe a mani basse (il principio di contraddizione gli fa un baffo). Un piagnisteo intriso di nostalgia su quelle benemerite associazioni che all’epoca d’oro dei Giuseppe Pella e Adone Zoli, plasmavano, filtravano, incanalavano e soprattutto incubavano. Ridotte oggi a squallidi comitati elettorali dove, pensate un po’, conta esclusivamente la figura del leader, con le seconde e terze linee che sgomitano per grattare qualche briciola di visibilità (mentre ai tempi di Moro e Fanfani, vasta eco suscitavano gli interventi di Schietroma e Badini Confalonieri). È la “politica povera di partiti fragili”, di cui ha scritto ieri, da par suo, sul Corriere della Sera

, Sabino Cassese, deplorando che la “presenza conti più del progetto”, e che “i leader non vengano ‘dalla gavetta’ ma nascano ‘professionisti della politica’ (nel senso weberiano)”.

Purtroppo, essendo chi scrive molto più anziano dell’emerito professore, crede di ricordare che i succitati Moro e Fanfani siano stati catapultati al vertice delle pubbliche istituzioni direttamente da prestigiose cattedre universitarie, e non proprio da qualche sperduta sezione dell’Aretino o del Salento. Per carità, saremmo pure d’accordo nel deprecare la condizione biasimevole in cui versa lo scalcagnata ammucchiata di marchi desueti (che chiamiamo sistema dei partiti), per non parlare dei loro biasimevoli capataz. Se non fosse che pur in tanta tragica fragilità costoro continuano imperterriti a gestire la spesa pubblica a ogni livello e a piazzare i loro uomini in ogni poltrona o strapuntino occupabile, dalla Rai al Csm. Davvero una “politica povera” che, come il personaggio di quel poema, del colpo non accorto/ andava combattendo ed era morto.

Se poi la descrizione di tanto sfacelo volesse celebrare una volta di più l’indispensabilità del governo dei Migliori, faremmo notare (per dirne una) che per non disturbare troppo la campagna elettorale dei partiti (segnatamente della Lega di Matteo Salvini) Mario Draghi ha fissato l’obbligo generalizzato del Green pass al 15 ottobre, guarda caso quando anche i giochi per i ballottaggi nelle grandi città saranno fatti. Il classico compromesso al ribasso, come se il Migliore di tutti fosse un qualsiasi Moro o Fanfani (nel senso weberiano, s’intende).

“San De Luca”. L’ultimo show nella piazza dei processi

A Napoli l’arcivescovo non invita i candidati sindaci alla celebrazione di San Gennaro, a Salerno il “Pontificale” di San Matteo diventa la grancassa della campagna elettorale del governatore Pd Vincenzo De Luca per il ‘suo’ sindaco in cerca di riconferma, Vincenzo Napoli.

Due modi diversi di interpretare i rapporti tra Chiesa e politica. A Salerno, dove tutto ruota intorno a un trentennale sistema di potere deluchiano, anche la festa del santo Patrono viene piegata alla propaganda.

Oggi alle 18 la mega piazza della Libertà, 27 mila metri quadri vista mare, accoglierà la cerimonia in onore di San Matteo e il concerto di Daniel Oren, riservato a duemila invitati e finanziato con 100 mila euro di fondi regionali. Piazza della Libertà, dove è stato edificato il Crescent. I luoghi simbolo del deluchismo e dei processi al deluchismo. Guarda caso la piazza è stata inaugurata proprio ieri da De Luca. “Uno spot pacchiano, siccome Napoli non può tagliare il nastro perché in campagna elettorale, lo taglia De Luca” commenta il deputato M5S Angelo Tofalo che annuncia un esposto all’Agcom. “Ci sono voluti anni per completare questa piazza e la inaugurano due settimane prima del voto”. Ci sono voluti anni e diverse indagini giudiziarie, aggiungiamo. Con strascichi in corso. La piazza è stata realizzata deviando il torrente Fusandola, a rischio esondazione secondo il perito dei pm. C’è un processo, un tecnico è stato condannato con l’abbreviato, altri dodici sono stati rinviati a giudizio, tra i quali Maddalena Cantisani, dirigente dell’Utc e compagna di De Luca.

E così il monolite del potere di De Luca inizia a mostrare crepe peggiori di quelle che si aprirono in piazza durante la prima fase dei lavori. I sondaggi indicano Napoli costretto al ballottaggio. Contro il candidato del centrodestra, Michele Sarno, o contro la civica-M5S Elisabetta Barone? Dai rispettivi staff ti dicono che sono in vantaggio loro. Sarà un testa a testa.