“Qui a Napoli Letta e Conte aiutano, ma è anche merito mio”

Ci vuole il fisico per fare la campagna elettorale.

Il timore è che fossi troppo mingherlino per Napoli?

Gaetano Manfredi era accademico e per giunta mingherlino.

Anch’io avevo le mie preoccupazioni. Poi però la campagna elettorale mi è piaciuta e ogni giorno che passa mi piace di più.

È in testa ai sondaggi, è quasi sindaco.

Il contatto galvanizza, conosci la città più di quanto immagini e sai che la gente non ti chiede miracoli, non vuole l’imbonitore o il fantuttone. Sa che Napoli è complicata e governarla è difficile.

Lei è galvanizzato perché gioca quasi a porta vuota.

Non mi permetterei mai di pensarlo. Sono felice perché sto conducendo la campagna elettorale che desideravo, ed essa sta dando i frutti che speravo.

È così forte da rifiutare qualsiasi confronto con gli altri candidati. Non è bello e secondo me non è giusto.

Il confronto lo vivo ogni giorno. Quei dibattiti invece sono presenze costruite con discorsi costruiti.

Chi l’ha consigliata di rifiutare i dibattiti?

Non sono il tipo da lasciare ad altri le decisioni da prendere.

Però fa strano uguale che Manfredi fugga.

Fuggo? Questa è bella. Vado ovunque in città, mi confronto con chiunque, altro che fuga.

Aspetti.

Mi lasci finire: sono accademico ma amo la concretezza, sono laureato in ingegneria. Da rettore della Federico II e da ministro credo di aver fatto, non cianciato.

Napoli ha un buco di 4 miliardi.

Nella prossima finanziaria il governo deve liberarci almeno di parte di questo peso. È impossibile da reggere. Come si amministra una città senza poter spendere un euro?

Quanto le hanno promesso?

Secondo l’intesa raggiunta, almeno un miliardo per dicembre. È davvero indispensabile per farci respirare un po’.

Lei va d’amore e d’accordo con i Cinquestelle?

Io sì. Li vedo coinvolti, mi stanno aiutando. Come del resto il Pd e l’ampia coalizione.

A Roma e Torino ognun per sé.

Ma Napoli dice che Pd e Cinquestelle affondano radici in un comune sentire. Il centrosinistra di domani nasce sotto al Vesuvio.

Lei così schivo, nelle foto sembra quasi sopraffatto da una estensione spesso vigorosa dell’affetto.

Mi piace l’estensione.

E pensare che non voleva candidarsi.

Non amo fare la testa di legno. Per governare questa città servono risorse e capitale umano. Sono condizioni imprescindibili. Hanno voluto me?

Ora sgancino i soldi.

Lo devono a Napoli che ha un piano di rientro finanziario immaginato ai tempi di un rigore ossessivo oggi insostenibile. Il Covid ha aggravato ciò che era già grave.

Il centrodestra è squinternato e azzoppato. La Lega non è riuscita a presentare la lista.

Questo è un fatto politicamente rilevante.

Mentre lei, a differenza di altri suoi colleghi, ha Pd e Cinquestelle che vanno d’amore e d’accordo.

È anche un po’ merito mio. E sia Enrico che Giuseppe mi hanno dato una grande mano.

Letta e Conte.

Disponibili, presenti, amichevoli.

Il suo sfidante sembra invece più solo.

In Italia il centrodestra è più debole di quanto appaia e noi più forti di quanto si creda.

Comunque Manfredi va a palazzo San Giacomo solo dietro il corrispettivo di un miliardo, prima rata dell’ingaggio.

Serve a Napoli quel miliardo. Ed è una necessità vera.

Non è che alla fine a Roma fanno orecchie da mercanti?

È scritto nero su bianco. Cambiale firmata.

39 comuni: il battesimo giallorosa nelle urne

C’è una mappa a cui Enrico Letta e Giuseppe Conte tengono molto: è quella dei 39 comuni sopra i 15 mila abitanti dove Pd e M5S corrono insieme alle prossime elezioni amministrative. Per la prima volta in maniera strutturale. I casi, perdenti, dell’Umbria del 2019 e della Liguria nel 2020 sono stati estemporanei: ora l’alleanza giallorosa si sta strutturando, da Nord a Sud. E quindi il voto in quei comuni sarà il primo vero test per capire l’efficacia dell’alleanza Pd-M5S con possibili riflessi sulle leadership appena nate di Conte e Letta. Alle elezioni del 3 e 4 ottobre i giallorosa sostengono un candidato unitario in 39 comuni sopra i 15 mila abitanti sui 135 al voto (uno su tre) coinvolgendo 2,6 milioni di abitanti sui 12 milioni totali che saranno chiamati alle urne. Non è stata un’alleanza facile e ha fatto fatica a decollare: all’appello mancano grandi città come Roma, Milano e Torino dove i sindaci uscenti o le tensioni degli ultimi 5 anni hanno impedito un asse già al primo turno. Ma Francesco Boccia, responsabile Enti Locali del Pd, parla di “punto di partenza”: “Nel 2016 il Pd di Renzi si presentava diviso e lì è iniziato il suo declino con le sconfitte a Roma e Torino contro il M5S. Quello di oggi è un inizio per strutturarci ancora di più in vista delle politiche del 2023”.

 

Napoli e Bologna

Manfredi e Lepore super favoriti

Tutti gli occhi sono puntati su Napoli e Bologna, i due capoluoghi di regione dove Pd e M5S sono riusciti a presentare un candidato unitario. Nel capoluogo campano corre l’ex ministro dell’Università del governo Conte-2 Gaetano Manfredi, formalmente del Pd ma considerato un “contiano”, contro il pm Catello Maresca del centrodestra e l’ex sindaco Antonio Bassolino con una sua lista civica. Secondo i sondaggi l’ex rettore della Federico II è in vantaggio di venti punti su Maresca (tra il 42 e il 46%) e proverà a evitare il ballottaggio. Obiettivo che dovrebbe raggiungere Matteo Lepore a Bologna: assessore alla Cultura della giunta Merola, è il candidato della “ditta” dopo la vittoria alle primarie contro la renziana Isabella Conti. Qui l’accordo con i 5 Stelle di Max Bugani e con la sinistra di Elly Schlein c’è stato fin da subito e Lepore potrebbe addirittura vincere al primo turno contro l’imprenditore vicino a Fratelli d’Italia Fabio Battistini. Anche se non rientrano nelle elezioni comunali, Pd e M5S corrono insieme anche alle Regionali in Calabria con la candidatura di Amalia Bruni, che però sembra in svantaggio contro Roberto Occhiuto, e alle suppletive di Siena dove il segretario del Pd Enrico Letta cerca un seggio alla Camera con un’ampia coalizione che va da Articolo-1 al M5S fino a Italia Viva.

 

Da Varese a Grosseto

Ecco i 5 capoluoghi di provincia

I capoluoghi di provincia dove c’è un candidato giallorosa sono 5. A Varese il sindaco uscente Davide Galimberti del Pd cerca la riconferma contro il leghista, molto vicino a Giancarlo Giorgetti, Matteo Bianchi e anche a Ravenna il sindaco dem Michele De Pascale ha ottenuto l’appoggio del Movimento 5 Stelle locale per respingere l’assalto del candidato di Lega e Fratelli d’Italia Filippo Donati. I giallorosa invece tenteranno di conquistare tre città oggi governate dal centrodestra: a Pordenone Gianni Zanolin proverà a destituire il sindaco Alessandro Ciriani, a Grosseto il segretario dem cittadino Leonardo Culicchi sfiderà Antonfrancesco Vivarelli Colonna, molto vicino a Matteo Salvini, mentre a Isernia l’ingegnere nucleare Pietro Castrataro correrà contro il candidato di tutto il centrodestra, Gabriele Melogli.

 

Tutti al sud

L’asse in Campania e Puglia

Nei restanti 32 comuni che non sono capoluoghi di provincia emerge la trazione meridionalista dell’alleanza Pd-M5S: i giallorosa corrono insieme in 5 comuni in Sicilia (Favara, San Cataldo, Adrano, Caltagirone, Lentini), 6 in Puglia (Ruvo di Puglia, Cerignola, San Nicandro Garganico, Gallipoli, Nardò, San Giorgio Ionico) e 6 in Campania, tutti in provincia di Napoli (Afragola, Arzano, Frattaminore, Melito di Napoli, Vico Equense e Volla). Nel Napoletano pesa soprattutto il ruolo giocato da Luigi Di Maio che già un anno fa aveva iniziato a mettere in piedi l’alleanza con le vittorie a Pomigliano D’Arco e Giugliano, mentre in Puglia si sente l’influenza di Conte e di Michele Emiliano. Con una sfida curiosa: a Nardò Pd e M5S sostengono Carlo Falangone mentre il governatore della Puglia appoggia Pippi Mellone, candidato civico ma vicino a CasaPound. Più difficile l’alleanza nel centro-nord: i giallorosa corrono insieme in un comune in Piemonte (Carmagnola), Lazio (Cisterna di Latina), Abruzzo (Sulmona), 2 in Umbria (Assisi e Spoleto) e Toscana (Massarosa e Montevarchi). Va meglio invece in Veneto e Lombardia con, rispettivamente, 3 e 4 comuni: l’alleanza è forte in tre comuni in provincia di Treviso (Conegliano, Montebelluna e Oderzo) mentre in Lombardia a Treviglio (Bergamo), San Giugliano Milanese, Nerviano (Milano) e Busto Arsizio (Varese). Pieno territorio leghista.

 

Ballottaggi

Il tentativo per fermare la destra

In altri 26 comuni, come Benevento e Cittadella, il M5S ha deciso di non presentarsi e Boccia spiega: “Qui il Pd deve correre anche per i nostri alleati”. Nelle altre 70 città in cui l’alleanza non è andata a buon fine la speranza di Conte e Letta è che si possa trovare un accordo al ballottaggio. Un apparentamento è quasi impossibile nelle grandi città – come Roma, Torino e Milano – anche se il responsabile Enti Locali dem è fiducioso sul fatto che al secondo turno saranno gli elettori a unirsi: “Penso proprio che in quei casi non ci sarà bisogno di apparentamenti – continua Boccia – l’alleanza sarà naturale nelle urne perché gli elettori del M5S e del Pd non voteranno mai un candidato del centrodestra”. Poi ci sono le città dove invece sarà possibile arrivare a un accordo al ballottaggio per battere la destra: un caso è Trieste dove il dem Francesco Russo proverà a portare al secondo turno il sindaco Roberto Dipiazza, ma anche Novara, Savona, Cosenza, Carbonia (dove M5S va con Articolo 1) e Salerno. A Latina, in caso di ballottaggio, il M5S potrebbe appoggiare il dem Damiano Coletta per evitare la vittoria di Vincenzo Zaccheo, uomo di Claudio Durigon.

Alitalia, non c’è intesa Ita-sindacati. Lo sciopero ci sarà

L’accordo non c’è. Il tavolo tra i sindacati e Ita, la nuova compagnia che il 15 ottobre dovrebbe subentrare ad Alitalia, non è riuscito a trovare la quadra sui contratti di lavoro. Ita assumerà i 2.800 dipendenti necessari alla nuova compagnia per decollare con un regolamento aziendale fuori dal Contratto collettivo nazionale. L’incontro si è svolto ieri nelle sedi provvisorie di Ita, all’Eur, e sotto gli uffici si sono radunati anche 250 dipendenti di Alitalia per protestare contro il piano di Ita che prevederebbe un taglio dei salari dal 30 al 40%. Il governo, inoltre, non ha dato risposta sull’estensione della cassa integrazione per chi non entrerà nella nuova compagnia. Che per i dipendenti di Alitalia, al momento, resta di un anno. “Il fatto che Ita sia una nuova azienda e che nasca ex novo non può costituire un alibi per non riconoscere i diritti dei dipendenti che fino ad oggi sono stati gli unici a pagare il prezzo delle strategie e delle politiche commerciali fallimentari”, ha avvertito Monica Mascia, segretaria nazionale di Fit-Cisl. Che aggiunge: lo sciopero di venerdì è confermato.

Rialzo dell’energia e paura su mercati: le borse vanno ko

Comincia male la settimana per le borse di tutto il mondo, con gli investitori allarmati da una serie di fattori, come l’impennata dei prezzi dell’energia in Europa, il possibile fallimento del gigante immobiliare cinese Evergrande e l’ormai prossimo incontro della Federal Reserve, che mercoledì deciderà se e quando allentare l’acquisto di obbligazioni. Milano ha chiuso in rosso del 2,57%, giù soprattutto nel settore bancario (le peggiori Carige -5,6%, Bper -5,3%, Banco Bpm -5,1% e Unicredit al -4,7%) e in quello energetico, con Enel al -4,8% per via del calo del costo del petrolio greggio. Anche nel resto d’Europa non va bene, con Francoforte che perde 2,31%, Parigi -1,74%, Madrid -1,2% e Londra -0,86%. E in vista dell’incontro della Fed, negli Stati Uniti le cose non sono andate meglio: il Dow Jones è sceso dell’1,84%, il Nasdaq a -2,5% e S&P 500 a -2,01%; a destare maggiore preoccupazione fra molti investitori c’è proprio quest’ultimo indice, in discesa da ormai due settimane consecutive.

Ora tutti invocano il decreto (fermato da Giorgetti&C.)

Nei ministeri giurano che il lavoro non si è mai fermato. E infatti, coincidenza pare, ieri la decisione del tribunale di Firenze che bocciava i 422 licenziamenti via mail della Gkn di Campi Bisenzio è arrivata mentre a Palazzo Chigi i tecnici di Lavoro e Sviluppo discutevano la bozza del decreto anti-delocalizzazioni con i consulenti di Mario Draghi. Eppure è indubbio che il testo, che sembrava imminente a fine agosto, è sparito dai radar. La sentenza di ieri (oltre a far scoprire alla politica che esiste un conflitto sociale che attraversa l’Italia che si de-industrializza) riesce nell’impresa di farlo tornare in auge, anche se in una forma assai annacquata. E non è detto che basti a superare l’ostruzionismo di Lega e Forza Italia.

Breve riassunto. Il testo, a cui hanno lavorato il ministro del Lavoro Andrea Orlando e la viceministra (M5s) allo Sviluppo Alessandra Todde ha preso forma dopo lo scoppio del caso Gkn e quello dei 152 lavoratori della Gianetti ruote di Ceriano Laghetto (per non dire della Whirlpool di Napoli) post fine del blocco dei licenziamenti deciso dal governo, ma è stato subito impallinato. Il leader di Confindustria Carlo Bonomi l’ha fulminato parlando di provvedimento “punitivo” e accusando Orlando e Todde di “colpire le imprese sull’onda dell’emotività di due o tre casi”. La sponda è arrivata dal ministro dello Sviluppo, il leghista Giancarlo Giorgetti, che ha fermato il testo e fatto filtrare ai giornali di aver appreso dalla stampa i contenuti (che invece erano stati ampiamente condivisi dalla sua vice). A quel punto, a difenderlo sono rimasti solo il Pd e soprattutto la Todde, lasciata però sola dai 5Stelle, che non l’hanno considerata una battaglia prioritaria. Ieri Giuseppe Conte è stato tra i primi a invocare le nuove norme, una svolta maturata forse già giovedì quando è andato a Campi Bisenzio insieme a Todde.

Ieri i giallorosa hanno chiesto al governo di intervenire. In caso di accordo, potrebbe addirittura finire – tramite emendamento – in uno dei tanti decreti in discussione in Parlamento. Lega e Forza Italia restano contrari, anche se parliamo di un testo che ha perso parti importanti: via la multa del 2% del fatturato e via pure la Black list che avrebbe impedito alle imprese interessate l’uso di contributi pubblici a qualsiasi titolo per tre anni. Quel che è rimasto è sostanzialmente un percorso obbligato che richiede alle multinazionali che vogliono delocalizzare una maggiore responsabilità sociale con tempi più lunghi e la previsione di misure compensative e un piano di re-industrializzazione. Nell’ultima versione i tempi si sarebbero accorciati da 6 mesi a tre con l’obbligo di presentare un piano di mitigazione delle conseguenze (sul piano, per così dire, della sanzione, è previsto il raddoppio dei costi di licenziamento previsti dalla legge Fornero). Neanche questo, però, basta agli addentellati confindustriali nel governo. Giorgetti, per dire, vorrebbe che i tempi non venissero allungati: prima si comunica l’avvio della procedura, poi si ragiona sulle mitigazioni. Tanto, come ha ribadito ieri il leghista, “la sentenza di Firenze dimostra che le norme ci sono e l’Italia non è un Far West”. Orlando e Todde, manco a dirlo, non sono della stessa idea e così i rispettivi partiti. Resta da capire qual è quella di Draghi…

Caso Gkn, il tribunale blocca (per ora) i 422 licenziamenti

I 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio sono riusciti nell’impresa: il tribunale del Lavoro di Firenze ha fermato il licenziamento collettivo avviato lo scorso 9 luglio dall’azienda che aveva messo alla porta i dipendenti inviando loro una mail e tenendo i sindacati all’oscuro della riorganizzazione aziendale in atto. Nel decreto che dispone la revoca dei licenziamenti si fa riferimento proprio al comportamento antisindacale adottato dalla multinazionale ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Gkn, insomma, era tenuta a informare il sindacato sul nuovo quadro economico. Ma l’8 giugno, scrive il giudice Anita Maria Brigida Davia, l’azienda ha comunicato solo l’ipotesi di 29 esuberi e non ha mai detto che la chiusura della fabbrica era all’ordine del giorno del Cda dell’8 luglio. Per il giudice è quindi “configurabile un’evidente violazione dei diritti del sindacato, messo davanti al fatto compiuto e privato della facoltà di intervenire”, come la segretaria generale Fiom-Cgil, Francesca Re David, ha denunciato presentando il ricorso.

Sono le 10 di ieri mattina quando arriva la notizia dello stop al licenziamento collettivo. Fuori dallo stabilimento di Campi Bisenzio esplode un boato di commozione e gioia tra i lavoratori della Gkn che da 74 giorni sono in presidio permanente, mentre organizzano sit-in e manifestazioni. Non hanno mai abbandonato la fabbrica costruita dalla Fiat e poi acquistata nel 2018 dal fondo di investimenti britannico Melrose che ha continuato a vendere semiassi per l’80% a Stellantis (prima Fca) e per il resto alle altre case automobilistiche europee. Insomma, una grande vittoria dei lavoratori e del sindacato arrivata a 48 ore dalla data che avrebbe sancito la fine della procedura di licenziamento. Ma, nonostante la revoca, Gkn non recede dal proposito di cessare l’attività a Campi Bisenzio, come è emerso ieri pomeriggio durante l’ennesimo tavolo del ministero dello Sviluppo economico: l’azienda ha sì annunciato la convocazione di Rsu e sindacati per dare corso alle procedure di consultazione già da oggi, ma ha anche annunciato di aver dato mandato ai propri legali di impugnare la sentenza.

Così la battaglia dei 422 lavoratori Gkn è già ripresa. “Sono un fondo finanziario, speculativo. Fanno profitti, non hanno interesse ad altro. Nonostante la sentenza non torneranno indietro con i licenziamenti”, spiega Dario Salvetti, delegato Rsu Fiom-Cgil e leader del Collettivo di Fabbrica. La società ha giustificato la procedura di licenziamento collettivo con il trend irreversibile negativo dei fatturati causato dalla crisi pandemica e una struttura organizzativa non più sostenibile”. Ma i dati non sono mai stati comunicati e l’accusa dei sindacati è stata sempre chiara: la delocalizzazione selvaggia, senza neanche mai attivare la richiesta di cassa integrazione per cessazione. Dal 9 luglio gli operai Gkn non hanno mai smesso di lottare, incontrando in giro per l’Italia gli altri lavoratori ex Embraco, Whirlpool, i cassaintegrati e quelli che rischiano di perdere il lavoro anche da dopo lo sblocco dei licenziamenti, cominciato il 1 luglio. Sabato sono riusciti a far sfilare per le vie di Firenze 20 mila persone non solo per la Gkn, ma per la riforma delle regole sul lavoro tenendo alzato un grande striscione con la scritta “Insorgiamo”.

Per il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, la sentenza dimostra che “in Italia le regole ci sono, che non è un Far West”. Mentre il segretario dem Enrico Letta ha scritto su Twitter che aveva ragione ad accusare Gkn di aver violato ogni regola. “Ma il Pd cosa ha fatto?”, si chiede il leader del Collettivo di Fabbrica Salvetti. “Le castagne dal fuoco le ha tolte un giudice che coraggiosamente ha accolto le richieste di una lotta operaia e non quelle di un partito”, spiega il leader del Collettivo di Fabbrica. Gli operai di Gkn tornano a chiedere al governo di approvare un vero decreto anti-delocalizzazioni. “Abbiamo ottenuto lo stop ai licenziamenti grazie allo Statuto dei Lavoratori. Non dimentichiamo che quando è stato voluto con il Jobs act, l’articolo 18 fu tolto con decretazione d’urgenza in 24 ore. Vediamo se il governo ha la stessa celerità per una decretazione d’urgenza che questa volta il lavoro può salvarlo”, sottolinea Daniele Calosi, segretario della Fiom-Cgil Firenze e Prato. Il sindacato ha fatto tutto quello che poteva e ha vinto. Ora tocca alla politica.

Catasto, la riforma che nessuno vuole fare. Neanche i “Migliori”

Anche questa volta, con ogni probabilità, la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi catastali, non si farà. Complici anche le pressioni del centrodestra, il governo non la inserirà tra le norme che entreranno nella legge delega della riforma fiscale. Il riordino della tassazione dei patrimoni immobiliari, sollevato da più parti fin dagli anni 90, evidentemente può aspettare. Come d’altronde ha fatto finora.

Tutto nasce dalla giungla di aliquote e imponibili delle imposte immobiliari italiane (Imu, Irpef, registro, Iva, ipotecarie, successione, Tasi) che poggia su valori che risalgono a quarant’anni fa. Le tariffe degli estimi degli immobili e dei terreni sono state aggiornate l’ultima volta, rispettivamente, nel 1992 e nel 1988 sulla base di informazioni relative al periodo 1988-89 e 1978-79. Una revisione in soli 17 comuni fu effettuata a seguito della legge finanziaria del 2015. Poi basta. Negli anni, il centrodestra ha fatto dell’opposizione alla tentata revisione degli estimi catastali una questione identitaria, bollandola come una manovra neanche tanto subdola della sinistra per fare cassa. Oggi il prelievo sul mattone ha raggiunto, dopo la crisi del 2011, quota 41 miliardi, pari al 2,4% del Pil (in linea con la media europea) con un’evasione stimata tra il 5 e il 6%. I tributi locali, nel passaggio dall’Ici all’Imu, sono lievitati dopo il 2011 da 9 a 23 miliardi. In pratica, il ricordo ancora brucia e la politica teme l’effetto impopolare che ne potrebbe derivare. Pure il governo Renzi ha lasciato in parte inattuata un’altra legge delega in materia, la 23 del 2014, avviata dal predecessore Mario Monti.

Il problema, in realtà, non riguarda tanto come aumentare le tasse sulla casa ma come ripartirle in modo equo tra i contribuenti eliminando sperequazioni fiscali divenute intollerabili, tra immobili anche dello stesso quartiere. Aree di grande pregio possono avere perso valore in questi ultimi decenni e viceversa. Il proprietario della casa nuova costruita in periferia si trova spesso a pagare un’imposta maggiorata rispetto al detentore dell’abitazione, vetusta ma di maggior pregio sul mercato, situata nel centro storico o nei quartieri limitrofi. Da qui l’esigenza di attuare una riforma per semplificare e rendere il sistema fiscale più equo, come suggeriscono da tempo il Fondo monetario internazionale, il Consiglio dell’Unione europea e da ultima la Commissione Ue nelle sue raccomandazioni di riforme anti-pandemia.

La riforma di Mario Monti prevedeva, ad esempio, di cambiare la base di calcolo delle nuove rendite catastali per abitazioni e uffici: non più il numero dei vani ma dei metri quadri di superficie, come si fa per le attività commerciali. Inoltre, l’aggiornamento della tariffa catastale avrebbe incluso caratteristiche quali l’intorno, la tipologia edilizia, lo stato di conservazione, l’esistenza dell’ascensore, la superficie, il piano e l’affaccio. L’imponibile era definito dai valori medi di mercato nel triennio, aggiornati ogni cinque anni e tutta l’operazione doveva essere a parità di gettito, cioè senza un aumento del prelievo complessivo sul comparto casa. È lecito pensare che anche l’intervento riformatore ipotizzato da Mario Draghi avrebbe mantenuto lo stesso impianto tecnico. Gli effetti redistributivi stanno invece spaventando la riforma.

Eppure, di eliminazione di un ingiusto vantaggio, riferendosi alla riforma del Catasto, parla apertamente un dossier elaborato lo scorso anno dall’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica. Le famiglie povere oggi sono gravate da un onere maggiore rispetto a quelle ricche, i dati mostrano che la differenza tra il valore di mercato e quello catastale è molto maggiore per i ricchi. Quindi, se si conservasse la parità di gettito, alcuni contribuenti pagherebbero certamente di più, ma altri meno.

Inoltre, secondo una tabella pubblicata nel Rapporto immobili in Italia 2019 del Mef, calcolata sulla consistenza delle proprietà immobiliari fotografata al 2016, il valore imponibile potenziale attuale passerebbe da un valore medio di 100.820 euro a una stima di mercato di 190.434, l’89 per cento in più, con una forbice che si allarga fortemente con la crescita del reddito. Si potrebbero rivedere imponibili e aliquote per mantenere la parità di gettito. Oppure fare come suggeriscono l’Ocse e la stessa Banca d’Italia ancora nell’ultima audizione in Parlamento: accrescere la tassazione sui patrimoni immobiliari più consistenti per abbassare il cuneo fiscale sul lavoro.

Giochi: è già ritardo, ma Malagò &C. vanno in gita a Cortina (70 mila euro)

Hotel a 5 stelle, partitella a curling, cena ad alta quota in un rifugio esclusivo. Le Olimpiadi di Milano-Cortina sono già cominciate. Almeno per il Comitato organizzatore di Milano-Cortina, che si è voluto regalare un weekend di lusso da decine di migliaia di euro, tutti insieme appassionatamente per entrare in clima olimpico.

Lo scorso fine settimana la Fondazione si è ritrovata per il suo “team building”: un momento di svago e lavoro (più svago che lavoro, a guardare le foto), per imparare a conoscere gli impianti e il territorio su cui lavoreranno per anni, per fare squadra. Ce n’era bisogno. Tanti non hanno mai guardato una gara di curling, non sanno com’è fatta una pista di slittino. Alcuni fino a oggi non si erano quasi mai visti in faccia: causa Covid, molti lavorano in smart working, ma nessuno si è voluto perdere il weekend a Cortina. Dal presidente Giovanni Malagò, una sobria toccata di un solo giorno per non trascurare troppo le grandi manovre romane, all’amministratore delegato Vincenzo Novari, che proprio non poteva mancare dopo la gaffe dell’assenza ai Giochi di Tokyo (era in vacanza in Sardegna). Tra dipendenti e dirigenti, oltre cento persone. “Ancora in pochi”, sottolinea la Fondazione, figuriamoci quando saranno in tanti: a regime diventeranno oltre 600.

Il programma delle attività è stato organizzato dal Comune di Cortina, per cui le Olimpiadi sono una manna dal cielo di attenzioni e finanziamenti. Venerdì pomeriggio partita a curling nello stadio del ghiaccio, con lezione e pratica con la squadra locale. Sabato mattina un paio di noiosi seminari in aula, ma poi via in bicicletta a visitare gli impianti,e persino una prova sulla pista di allenamento di bob estiva. Ma che dire del soggiorno: due notti al Savoia, hotel a 5 stelle da 300 euro a stanza, per gli amici olimpici avranno fatto sicuramente uno sconto. Prima cena in albergo, seconda ad alta quota al rifugio Faloria, dove si arriva solo in cabinovia, piatti prelibati di montagna, un brindisi ai Giochi che verranno.

Conto un po’ salato, ma Cortina non è certo il posto per tirare la cinghia: circa 70 mila euro. Bruscolini per il Comitato che dimostra di non farsi troppi problemi a spendere soldi che per il momento neanche ha: le entrate, gli sponsor (ancora quasi tutti da trovare), i tanto attesi contributi del Cio arriveranno nei prossimi anni, si spera dal 2022, così la Fondazione si è fatta aprire una linea creditizia da una banca per le sue piccole necessità, tipo la scampagnata a Cortina. Nei primi due anni sono già stati spesi circa 8 milioni di euro, il budget iniziale ne prevedeva addirittura 20. Ma d’altra parte la Fondazione è privata, per un evento pubblico garantito dal governo. Intanto i lavori sono molto indietro: l’attività della Fondazione è in fase embrionale; l’agenzia pubblica per gli appalti sulle infrastrutture, per cui il governo ha stanziato un miliardo di fondi per la gioia delle Regioni leghiste, è stata da poco nominata; la dirigerà il commissario Luigi Sant’Andrea ma ad oggi non si è ancora neppure insediata per colpa delle solite lungaggini politiche. Ma se siamo in ritardo, non preoccupatevi: a Cortina la festa olimpica è già iniziata.

L’ultima meraviglia di Toti: triplicati staff e stipendi

Fotografie di gruppo a confronto, 5 anni dopo. Primo staff della giunta del neoeletto presidente della Regione Liguria Giovanni Toti: 12 collaboratori, 372 mila euro di costi fissi (più altri 70 mila variabili). Anno 2021, dopo la rielezione. La lista è salita a 35. Molti dei vecchi collaboratori hanno beneficiato di aumenti stipendiali ritoccati dopo il voto. Costo del personale, quasi 1,4 milioni. Pippo Rossetti (Pd), ex vicepresidente della Regione, oggi all’opposizione, riassume la situazione così: “Dove prima c’era una persona, ora ce ne sono tre. Credo che la Corte dei Conti dovrebbe valutare la congruità di questi aumenti di spese per il personale. Più figure significa più poltrone e un controllo del territorio maggiore, una potenziale commistione tra istituzioni e politica”.

il primo passo in questa direzione è di alcuni mesi fa. Quando con un primo intervento sul bilancio ogni nuovo assessore ha avuto “in regalo” un portaborse in più. Una vicenda denunciata con forza da un altro consigliere del Pd, Luca Garibaldi. Gli assistenti del vicepresidente della giunta sono diventati tre, mentre altri collaboratori sono entrati direttamente a far parte della segreteria del governatore. Il più pagato, un incarico da 10 mila euro al mese lordi, è il nuovo capo di gabinetto di Toti, Matteo Cozzani, imbarcato il 7 ottobre del 2020. Sindaco del Comune di Porto Venere (La Spezia), è diventato il suo principale riferimento politico, coordinatore della campagna elettorale, al punto da meritarsi un posto che prima non c’era. Subito dietro c’è la portavoce del governatore, Jessica Nicolini, stabilizzata come capo ufficio stampa della Regione (da cui è in distacco), la cui retribuzione dalla prima legislazione è raddoppiata, da 4.461 euro a più di 8.846 euro lordi. Altri incarichi si sono aggiunti nel 2021. Ad esempio quello affidato a Carmelo Cassibba, professione tassista, già consigliere comunale di Genova eletto con la lista del sindaco Marco Bucci: 1650 euro al mese per un ruolo di “supporto della segreteria politica del Presidente”.

Non sono le uniche spese lievitate, denuncia l’opposizione, al punto da richiedere un assestamento di bilancio estivo. Tra le novità introdotte dalla giunta Toti bis ci sono i sottosegretari e le unità di missione, cabine di regia chiamate a riorganizzare settori specifici. In questo modo è rientrato dalla finestra Giuseppe Profiti, manager cattolico della sanità (assessorato tenuto ad interim da Toti), già condannato dal tribunale vaticano per lo scandalo dell’appartamento del cardinale Tarcisio Bertone. Profiti gestirà la fase post Covid. Altra novità le dimissioni degli assessori: “Un tempo mantenevano il ruolo di consiglieri – spiega Garibaldi – adesso hanno fatto spazio ai primi 5 non eletti. Solo questa mossa costa 650mila euro in più l’anno”.

C’è da dire che nel frattempo lo scenario è cambiato: Toti se n’è andato da Forza Italia, e nel 2019 ha fondato un suo partito, Cambiamo. L’esperimento a livello regionale ha sfondato: oltre il 23% dei voti, una prova di forza che ha fatto scricchiolare i rapporti con gli alleati, e in particolare con la Lega. Ma se da un lato Cambiamo ha continuato ad accogliere un numero crescente di transfughi berlusconiani (e non solo) in Parlamento, e Toti con 530 mila euro è stato il politico più finanziato dai privati in Italia nel 2020, dall’altro manca il vero salto di qualità nazionale: nel resto del Paese il partito si barcamena nei sondaggi fra l’1 e il 2%. Una buona spiegazione, secondo l’opposizione, per la grande attenzione alla comunicazione: “La giunta Toti investe 2 milioni di euro in pubblicità istituzionale, soldi che spesso finanziano i media e ne minano l’indipendenza – attacca Ferruccio Sansa, candidato del centrosinistra alle scorse elezioni – abbiamo proposto di reimpiegare quelle somme per pagare medici nell’entroterra”. Lo staff già numeroso che si occupa a vario titolo della comunicazione del governatore, oltre 15 persone, è integrato da distacchi da altri enti collaterali (come la società in house Liguria Digitale). Mentre sembra essere sfumato, per ora, il progetto di un nuovo ufficio stampa esternalizzato: a gennaio era stato pubblicato un bando per un super consulente d’immagine, bandito sempre da Liguria Digitale, con un budget di 10 mila euro al mese, ritirato senza che se ne sapesse più nulla.

Un’altra figura importante, sebbene mai sotto i riflettori, è quella di Marco Pogliani, arrivato alla corte di Toti dopo un’esperienza da spin doctor per Beppe Sala, accostato spesso ad ambienti cattolici vicini all’Opus dei. Nella prima legislatura aveva una consulenza per la Regione Liguria pagata con fondi europei, un bando legato proprio a una campagna di sensibilizzazione per progetti finanziati da Bruxelles. Nel frattempo ha collezionato consulenze per altri enti liguri: il Comune di Rapallo, a cui ha creato il logo Hello Rapallo (70 mila euro); il Comune di Genova, per cui ha ricevuto altri incarichi; il Teatro Carlo Felice di Genova, che ha creato per lui una figura ad hoc, il responsabile dell’immagine (70 mila euro). Ci sono sue idee dietro a molte campagne degli ultimi anni, fra cui i red carpet. A richiesta del Fatto, la Regione Liguria ha spiegato che “Pogliani riceve dalla Regione Liguria un compenso di 60 mila euro per consulenza”.

Il governo mette la fiducia sul Pass: ora tanti leghisti si danno assenti

L’obiettivo di Mario Draghi è tenere la barra dritta sul Green pass evitando sbandamenti in maggioranza. E quindi, dopo l’estensione a tutti i lavoratori di giovedì e le tensioni di inizio settembre, ieri il governo ha posto la fiducia alla Camera anche sul decreto Green Pass II, quello che introduce il certificato verde per scuola e trasporti. Non sono ammesse spaccature come nel primo decreto in cui la Lega aveva votato otto volte con FdI per poi piegarsi nel voto finale, seppure con 87 assenti. E così ieri è arrivato l’annuncio del ministro Federico D’Incà: il voto di fiducia a Montecitorio si terrà oggi pomeriggio. Ma la tagliola sugli emendamenti non escluderà defezioni nella Lega che aveva già votato contro il parere sul decreto in commissione Cultura la scorsa settimana: il Carroccio alla fine voterà la fiducia ma nel partito si parla di un numero cospicuo di assenti. Non tanti quanto gli 87 del 9 settembre ma, secondo fonti leghiste, saranno tra i 20 e i 30. Qualcuno come Claudio Borghi – a capo dell’ala no Green pass – sarà assente giustificato, altri invece opteranno per l’assenza tattica: non votare la fiducia ma nemmeno andare all’opposizione. Questo è stato il diktat da via Bellerio per evitare spaccature nel partito. Anche Salvini ieri sera ha glissato sul voto di oggi: “Vogliamo i tamponi gratis”. Un modo per trattare con il governo quando in aula arriverà il terzo decreto, quello sul lavoro. A quel punto, è la minaccia del Carroccio, “il governo non potrà cavarsela con la fiducia”. Ieri intanto Roberto Fico ha annunciato che alla Camera sarà presto introdotto l’obbligo del pass.