Il duo no-vax che inguaia l’Emilia con la curcuma

Tre anni fa Matteo Salvini, contestando l’obbligatorietà dei vaccini, li ringraziò pubblicamente per il loro coraggio. Stefano Montanari, farmacologo, e la moglie Antonietta Gatti, fisica con una specializzazione in bioingegneria, erano già paladini dei no vax. Montanari non esitò a ricambiare la cortesia del leader della Lega, allora ai vertici del ministero dell’Interno, scrivendo sul suo blog: “Un ministro dice una cosa ovvia, sì, ma che tocca interessi cospicui destando preoccupazioni in chi da quegli interessi trae vantaggi”. Teoria della cospirazione all’insegna del profitto delle big pharma. Teoria poi che la coppia non ha mai abbandonato. Anzi.

Montanari e Gatti vivono e lavorano nel Modenese. A Spilamberto dirigono Nanodiagnostic, laboratorio di ricerca sulle nanopatologie indotte dalle polveri sottili. Sono cioè nel cuore dell’Emilia-Romagna, che insieme al Friuli-Venezia Giulia ha il primato di operatori sanitari – medici, infermieri, oss, psicologi, e così via – renitenti al vaccino: qualcosa come 13 mila, oltre il 7% del totale. Quanto peso abbia, in tutto ciò, la presenza di Nanodiagnostic, non è possibile saperlo. Certo la tela da tessere c’è. E i seguaci non mancano. Soprattutto tra i medici omeopati e tra quelli che hanno scelto la medicina alternativa.

Montanari, nel suo ultimo post (20 settembre), li ha elogiati. Sono camici bianchi che il vaccino lo rifiutano “proprio perché pretendono di agire in scienza e coscienza, come recita la loro deontologia”. Quelli che dicono sì, invece (cioè quelli che si adeguano), si avventurano “in argomenti come la farmacologia, di cui conoscono appena qualche nozione, o come la chimica, di cui sanno poco o nulla”.

Inutile dire che per Montanari il Green pass è del tutto illegale e lesivo della dignità personale. Poco importa ricordare che il 98% dei sanitari in Italia ha già completato il ciclo vaccinale o si è sottoposto alla somministrazione della prima dose. “Tutto ciò che viene pubblicato dalla stampa italiana è falso”, dice Davide Ruini, avvocato e collaboratore della coppia, che filtra le telefonate. “Anche al Fatto, probabilmente, il conto economico non ve lo chiudono i lettori: abbiamo un documento del governo inglese in cui c’è scritto che l’88% dei decessi per Covid tra gli over 50 sono tra i vaccinati”.

Chiediamo il documento: non arriva. Montanari e Gatti, che per prevenire il Covid hanno consigliato zenzero e curcuma, devono qualcosa a Beppe Grillo, che per primo, nei suoi tour, parlò di una loro ricerca sulle nanoparticelle nei prodotti alimentari. Poi, però, hanno estimatori come Vincenzo D’Anna, presidente dell’Ordine dei biologi ed ex senatore, prima del Popolo della libertà poi di Ala. Fu D’Anna a invitarli a celebrare il cinquantesimo anniversario della nascita dell’ordine professionale. E furono polemiche a non finire. Si infuriò, tra i tanti, l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, attuale assessore alla Sanità della Puglia. Sembrava acqua passata e invece la saga continua.

Il mondo ricco butta 100 milioni di dosi, ai Paesi poveri niente

Oltre 100 milioni di dosi di vaccino rischiano di finire nella spazzatura. L’allarme è stato lanciato ieri dalla società britannica Airfinity, che dall’inizio della pandemia conduce ricerche sul tema del Covid e monitora il mercato globale dei vaccini. Pubblicato a due giorni dal Global Vaccine Summit, presieduto dagli Stati Uniti, il rapporto stilato dai ricercatori della Airfinity trae conseguenze potenzialmente imbarazzanti: se i Paesi ricchi del mondo non le dovessero donare subito alle nazioni più povere, quelle 100 milioni di dosi andrebbero sprecate. E il numero di morti evitabili aumenterebbe ulteriormente.

Iniziamo da un dato banale. I vaccini hanno una scadenza: Pfizer BioNTech, Johnson&Johnson, Novavax e AstraZeneca durano sei mesi; Moderna funziona anche sette mesi dopo essere stato messo sul mercato. Inutile dunque tenere in freezer troppi prodotti vicini alla scadenza, ma è proprio questo che sta succedendo nella maggior parte del mondo industrializzato. Sulla base dei contratti tra Stati e case farmaceutiche, Airfinity calcola infatti che entro la fine di quest’anno i Paesi del G7 e quelli della Ue (quindi le nazioni europee più Canada, Giappone, Usa e Regno Unito) avranno a disposizione un miliardo di dosi di vaccini aggiuntive rispetto a quelle necessarie. Il 10% del totale, cioè 100 milioni di dosi, potrebbe essere inutilizzabile perché già scaduto. Uno spreco a cui l’Ue contribuirebbe più di tutti, visto che delle 100 milioni di iniezioni a rischio 41 milioni si trovano proprio nel Vecchio Continente.

Com’è noto, finora alcune nazioni del mondo si sono opposte all’idea di sospendere i brevetti sui vaccini. Chi sostiene questa proposta, avanzata per la prima volta quasi un anno fa all’Organizzazione del commercio da India e Sudafrica, dice che una moratoria sui brevetti permetterebbe di aumentare la produzione di vaccini, renderla più omogenea a livello globale e far calare i prezzi. Tutto ciò con l’obiettivo di vaccinare il più in fretta possibile l’intera popolazione mondiale, con riferimento particolare a quelle zone del mondo – Africa, Asia (con l’eccezione di Cina, Giappone e Corea del Sud) e Centro America – in cui la percentuale di persone che hanno ricevuto la doppia dose è inferiore all’uno per cento. I veti posti finora da un gruppo di Paesi ricchi, tra cui l’Italia, hanno invece fatto propendere per un’altra soluzione: le donazioni di vaccini da parte dei Paesi ricchi a quelli più poveri.

Il programma internazionale si chiama Covax e, secondo le promesse dei Paesi G7 e di quelli della Ue, oltre 1,2 miliardi di dosi verranno regalate entro la metà del 2022 alle nazioni con reddito cosiddetto “basso” e “medio-basso”. Nonostante ormai ci sia abbondanza di vaccini, le donazioni stentano però a decollare. Airfinity ha calcolato che finora solo l’11,8% di 1,2 miliardi di dosi è stato effettivamente regalato. La tendenza è confermata anche dal caso italiano: il governo Draghi ha promesso 15 milioni di dosi a Covax entro fine anno, ma finora ne ha donate 4,2 milioni. La causa di questo ritardo non va cercata nella campagna per la terza dose, frattanto iniziata in molte nazioni. “Oltre 1,2 miliardi di dosi – si legge infatti nella ricerca – potrebbero essere donate già entro la fine del 2021 dai soli Paesi del G7, senza intaccare le campagne nazionali di richiamo per tutti gli adulti”.

Tutti questi ritardi stanno causando morti. I ricercatori di Airfinity hanno calcolato che, “se i vaccini attualmente inutilizzati dai Paesi G7 fossero già stati dati ai Paesi a reddito basso e medio-basso, si sarebbero evitate almeno seimila morti”. Il calcolo è fermo al 16 settembre del 2021, ma la stima sulle conseguenze future è decisamente più allarmante. La società britannica prevede che i casi di positività al Covid nel mondo supereranno i 400 milioni entro la metà dell’anno prossimo. “L’immediata ridistribuzione dei vaccini potrebbe potenzialmente permettere di evitare quasi un milione di morti”, si legge nel rapporto.

Pfizer: “Ok ai vaccini dai 5 anni”. Ma molti scienziati sono scettici

Pfizer e Biontech hanno annunciato ieri che un trial del loro vaccino sui bambini tra i 5 e gli 11 anni si è concluso con ottimi risultati di efficacia e sicurezza, paragonabili a quelli per i 12-16enni ma con due dosi da 10 microgrammi, un terzo di quelle inoculate alla popolazione over 12 e che nei più piccoli avrebbero indotto maggiori effetti avversi anche non gravi. Non ci sono i dati. La sperimentazione di fase 2/3 è stata condotta su 2.200 bambini e ne sono in corso altre, per complessivi 4.500 minori coinvolti, sulle fasce da sei mesi a due anni e da due a cinque. Per loro la dose sarebbe tre microgrammi, un decimo della dose ordinaria. Il colosso Usa e il partner tedesco contano di presentare i loro risultati sui 5-11enni alla Fda e a Ema, le agenzie regolatorie di Stati Uniti e Ue, entro fine settembre. Fda aggiunge che l’eventuale autorizzazione provvisoria potrebbe arrivare già a ottobre.

Lo schema comunicativo è lo stesso del novembre scorso, quando da una nota stampa di Pfizer e Biontech, senza dati completi e perciò accolta con perplessità da parte della comunità scientifica, apprendemmo di essere vicini al primo vaccino anti-Covid in Occidente. Che ha funzionato, è il più utilizzato negli Usa e in Europa. Come funziona anche la comunicazione un po’ aggressiva di Pfizer-Biontech, rivolta soprattutto agli Usa dove un’infezione su cinque al momento si registra in età pediatrica e c’è, come da noi, grande attenzione alle scuole. Anche Moderna, l’altro produttore Usa, sarebbe vicino a chiudere il primo trial sugli under 12. Si accelera sui giovanissimi, più facilmente vaccinabili, anche per compensare le sacche di resistenza concentrate in fasce d’età più elevate e più a rischio di Covid severo. Per quando sui 12-18enni le autorizzazioni in Usa e Ue sono arrivate solo tra maggio e giugno, conosciamo solo in parte l’incidenza degli effetti avversi gravi. Diversi Paesi, Regno Unito compreso, fanno solo una dose ai minori; la Germania inizialmente aveva raccomandato di vaccinare solo i piccoli più fragili, a rischio di sviluppare il Covid in forme gravi.

In attesa dei dati sugli under 12, per uno scienziato come il virologo Guido Silvestri della Emory University di Atlanta, che fa sapere che suo figlio partecipa al trial e assicura che “questo studio è una tappa essenziale nella grande marcia verso la vaccinazione universale contro Covid-19”, altri manifestano dubbi. Specie sulla consistenza del campione. Così Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia di Padova: “Bisogna vedere bene i dati prima di toccare i bambini di quell’età, 2.200 sono proprio pochi, ce ne vorrebbero 30-40 mila”. Perfino Roberto Burioni, che spesso ha toni da ultrà del vaccino, frena: “Lo studio è criticabile, è stato condotto su un numero secondo me troppo ristretto di soggetti”.

Sono intanto iniziate anche in Italia, come annunciato, le somministrazioni delle terze dosi ai pazienti cosiddetti ultrafragili, circa tre milioni per lo più immunodepressi, trapiantanti e malati oncologici. Sono 3.191 le terze dosi inoculate, ha fatto sapere l’ufficio del commissario straordinario, Francesco Paolo Figliuolo. Proprio il generale Figliuolo ha confermato: “Si darà presumibilmente il via libera per le Rsa, gli over 80 e i sanitari che sono in prima linea”, ma si parla già di fare la terza dose a tutti gli over 65. “Stiamo ancora valutando se, quando e a chi fare un’ulteriore iniezione. Il tema, comunque, non è una terza dose a pioggia”, ha avvertito il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità. D’altro canto la progressiva perdita di efficacia delle due dosi è confermata e questo, combinato con la maggior contagiosità della variante Delta, sta già facendo emergere percentuali di malati gravi e di decessi tra i vaccinati più elevate di quelle assai rassicuranti calcolate dall’Iss da febbraio a oggi. Tra i ricoverati Covid del Piemonte, ad esempio, siamo a un 30% di immunizzati. Gli studi su Israele dicono che la terza dose migliora la protezione tra 11 e 19 volte rispetto alle prime due.

Le revisioni del tempo

Da ieri la Corte d’assise d’appello di Palermo è in camera di consiglio e fra pochi giorni ne uscirà per confermare o cancellare le condanne per la trattativa Stato-mafia. In primo grado furono giudicati colpevoli di minaccia a corpo politico dello Stato, oltre ai boss Bagarella e Brusca (Riina e Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Cinà, gli ex capi del Ros Subranni, Mori, De Donno e l’ex senatore Dell’Utri, più Massimo Ciancimino (per calunnia). Ora, come ha spiegato Marco Lillo, tutte le udienze del secondo grado hanno confermato e addirittura corroborato le accuse. Ma un fatto nuovo potrebbe mandarle totalmente o parzialmente in fumo: l’assoluzione definitiva dell’ex ministro Mannino (rito abbreviato). Una sentenza minimalista e revisionista: non solo nega che Mannino abbia istigato il Ros a trattare con i vertici di Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino per salvarsi dalla vendetta mafiosa. Ma addirittura svilisce la trattativa a mera “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria… attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino” in cambio di una sua fantomatica “infiltrazione in Cosa Nostra” per la “cattura di Riina” e la fine delle stragi. Una barzelletta, visto che Ciancimino non si infiltrò in Cosa Nostra, non fece catturare Riina (scovato grazie al pentito Di Maggio e forse alle dritte di Provenzano) e le stragi si moltiplicarono proprio a causa della trattativa, che le aveva rese convenienti agli occhi dei boss.

Si spera che i due giudici togati e i sei popolari non si facciano incantare da queste tesi negazioniste. E si basino su ciò che hanno ascoltato in aula e sulle numerose sentenze, anche definitive, sulle stragi del 1992-‘94, che consacrano la trattativa come un fatto assodato oltre ogni ragionevole dubbio. Del resto, per sapere che la trattativa ci fu, basta rivedersi il video (è su YouTube) delle testimonianze di Mori e De Donno nel ‘97 al processo fiorentino sulle stragi del ‘93. Mori parla tranquillamente di “trattativa” e confessa di aver contattato Ciancimino per tentare di fermare le stragi dopo l’assassinio di Salvo Lima e la mattanza di Capaci (“non si può parlare con questa gente?”) e superare il “muro contro muro” sorto fra Stato e Cosa Nostra (che al generale appariva incredibilmente strano). Anche De Donno la definisce “trattativa”: “A Ciancimino proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro… di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò con delle condizioni”.

Queste: “La condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana a patto di rivelare i nominativi mio e del comandante al suo interlocutore. Facemmo capire a Ciancimino che questa non era una nostra iniziativa personale… Al quarto incontro, Ciancimino si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”. La richiesta del Ros era chiara: l’“immediata cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato”, con l’evidente intenzione di concedere qualcosa ai corleonesi in cambio della “pax mafiosa”. Infatti Riina esulta con i suoi: “Si sono fatti sotto”. Il farsi avanti del Ros è la prova che le stragi pagano. Proprio ciò che si proponeva quando le concepì sullo scorcio del 1991 nel caso in cui, come poi avvenne, lo Stato avesse tradito gli impegni di insabbiare il maxi-processo in Cassazione: “Fare la guerra per fare la pace”. Infatti prepara il “papello” con le sue richieste allo Stato, molte delle quali verranno esaudite nei mesi e negli anni successivi. E le stragi non si interrompono, neppure dopo la sua cattura (13 gennaio ‘93): anzi, proprio per alzare il prezzo, Cosa Nostra alza il tiro. Prima in via d’Amelio a Palermo contro Borsellino e la scorta (19 luglio ‘92), poi a Roma (attentato a Costanzo, 14 maggio ‘93), poi a Firenze (via dei Georgofili, 27 maggio ‘93), infine a Milano e Roma in simultanea (via Palestro e due basiliche capitoline, 27 luglio ‘93). E ottiene la destituzione del capo del Dap, il duro Niccolò Amato, sostituito da un esponente della linea morbida, e la revoca del 41-bis per 334 mafiosi.

La strage fallita e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma (23 gennaio ‘94), tre giorni prima dell’annuncio della discesa in campo di B., chiude la prima trattativa (quella del Ros sotto i governi Amato e Ciampi) e avvia la seconda, con Dell’Utri che – secondo i giudici di primo grado – veicola la minaccia di Cosa Nostra al governo dell’amico Silvio. Il quale, vinte le elezioni del ‘94 anche grazie ai voti di mafia e ‘ndrangheta, prosegue la demolizione dell’antimafia, con attacchi ai pm, ai pentiti, all’ergastolo e al 41-bis e soprattutto con le tre norme filo-mafia contenute nel decreto Biondi (13 luglio ‘94) e anticipate da Dell’Utri a Vittorio Mangano in alcuni incontri nella sua villa sul lago di Como. Il decreto Salvaladri e Salvamafiosi viene ritirato a furor di popolo, ma riassorbito un anno dopo nella “riforma” penale del governo Dini, votata anche dal centrosinistra. Questi sono i fatti, nudi e crudi. E nessuna sentenza negazionista o revisionista potrà mai cancellarli.

Amanda Lear. Incredibile serissima. “La tv italiana, che orrore”

La musa di Salvador Dalì, la modella sulla cover dell’album dei Roxy Music, il tormentone di Tomorrow: l’uragano Amanda Lear è riuscito a conservare nel tempo la sua immagine inossidabile di attrice, cantante e presentatrice arguta e ironica, col suo inconfondibile e aristocratico aplomb ma altrettanto pronta a dichiarazioni senza freni. Eppure qualcosa di diverso c’è: “Il Covid e il relativo confinamento mi hanno forzato a riflettere su quello che volevo fare. Ho capito che voglio sorprendere ancora la gente, fare cose nuove”.

A cominciare dalla pièce teatrale Qu’est-il arrivé à Bette Davis et Joan Crawford?attualmente in scena in Francia.

Nonostante fossi stanca del teatro mi è arrivata una proposta irrifiutabile – con coprotagonista l’attore Michel Fau – ma non immaginavo fosse così impegnativa. Narra la vita di due grandi dive di Hollywood e io interpreto Crawford, un personaggio che non fa ridere: era algida, patetica, alcolizzata e muore sul palco. Si deduce che la mia parte è drammatica. Il lato positivo è che il pubblico per la prima volta può vedere una Amanda diversa dalla solita ironica, bella e bionda con un parruccone nero orrendo! È qualcosa di più serio corrispondente alla mia età.

La seconda novità è l’imminente uscita di un nuovo album, Tuberose, il suo profumo preferito.

Anche nella musica volevo cambiare e lasciar perdere i riferimenti alla regina della discomusic. Per la prima volta canto con pochissimi strumenti puntando sulla voce – quasi con tono confidenziale, narrativo, in stile Marlene Dietrich – e in prevalenza in francese, con grandi autori rivisitati, da Trenet a Gainsbourg da Dutronc a Barbra Streisand e un brano in italiano, Amandoti. Non i classici quali Ne me quitte pas o La Vie En Rose ma brani più ricercati. Anche qui ho scelto di essere più seria, mi sono ispirata a Leonard Cohen, non è un disco ballabile. C’è una canzone di Moustaki Ma Solitude che recita “non sono sola mai con la mia solitudine, mi tiene compagnia…” (canta, ndr). Oppure Strip Tease di Gainsbourg, un brano cantato da Juliette Greco che era una colonna sonora ma nessuno se lo ricorda perché il film era una cagata. Voglio sorprendere i miei fan. Mi stanco di fare le stesse cose, vedere le solite persone, amo cambiare. “Che noia, che barba” come diceva la Mondaini!

Alla tv italiana dopo il programma cult Cocktail d’amore la vediamo poco.

Ci sono programmi uguali ogni domenica, ogni sera. Ho fatto Stryx che ha rivoluzionato il costume, con Patty Pravo e Grace Jones. E Cocktail d’amore mi chiedono tutti “perché non si vede più?”. Beh, in Rai piangono sempre dicendo che non ci sono più soldi. Hanno tolto molti programmi interessanti per questi Grandi fratelli, L’isola, cose orrende. Lo stesso succede in Francia.

Ha intervistato Franco Battiato che le ha regalato una risposta memorabile: “Il sesso è come il fumo, entra sotto la porta”.

Eccezionale! (ride di gusto, ndr). Sono andata a casa sua a realizzarla, è stato un incontro meraviglioso. C’è sempre stata grande ammirazione tra di noi, ci conoscevamo da tanti anni: colto, intelligente, sublime. Ho sempre intervistato grandi personaggi tranne uno.

Ci svela il suo nome?

Mina. Un’amica che vorrei tanto rivedere. Ricordo un suo concerto alla Bussola in Versilia e subito dopo ci siamo messe a giocare a carte.

Su Spotify in una compilation di brani suggeriti da Amanda Lear c’è Ancora, ancora, ancora

Sì, è straordinaria. Oltre ai miei brani ho scelto canzoni che mi piacciono quali Son Of A Preacher Man di Dusty Springfield, grande lesbicona (ride nuovamente, ndr). E poi i Pet Shop Boys che volevano produrmi e Sorrow di David Bowie, una canzone che mi ha dedicato (“mi piacciono i capelli biondi, i tuoi occhi blu”).

Qual è la sua canzone più rappresentativa?

Direi The Sphinx, la sfinge. Ha un testo intelligente, non è il solito tormentone Tomorrow.

I Cccp le proposero di dissacrare quel successo.

Era un rischio e una sorpresa: i Cccp che si interessavano ad Amanda Lear! Poi anche i Baustelle mi hanno cercato. È successo anche con i Maneskin, dovevamo duettare a Sanremo ma poi non l’abbiamo fatto; in ogni caso mi piacciono.

Sui social spesso la vediamo dipingere.

È una terapia. Chi lavora nello spettacolo è angosciato e frustrato e spesso si reca dallo psicanalista. Io preferisco dipingere, mi dona un grande equilibrio. Poi se riesco a vendere un quadro ancora meglio (sonora risata, ndr). Sempre meglio di bere o drogarsi.

Resta il tempo di fare un accorato appello per richiedere Cocktail d’amore in tv.

La partecipazione come ospite ai soliti vecchi programmi non mi interessa più. Mi manca l’Italia e vorrei dimostrare che Amanda Lear oggi è un personaggio più maturo. Altrimenti metterò un annuncio sui giornali per cercare un lavoro.

“La grande” Lebowski: il tifo conta più dei trofei

In un calcio dove il tifoso è ormai vera, vasta, classe media, dove è un cliente dei club e un consumatore di prodotti sul mercato, e dove i giocatori sono in prima istanza un’operazione di marketing, si erge la storia del Centro Storico Lebowski di Firenze. Il club fiorentino nato in una panchina di piazza d’Azeglio – col cuore in San Frediano e trasferitasi negli ultimi anni a giocare all’Ascanio Nesi di Tavarnuzze – è il primo al mondo a essere stato fondato e gestito da un gruppo ultras.

La loro storia ha inizio nel 2010 quando un gruppo di amici decise di creare la nuova associazione sportiva con la pretesa di dimostrare che l’idea di calcio espressa dalle curve fosse più appassionante della strada presa dal calcio moderno. La filosofia è quella del Drugo Lebowski (protagonista della pellicola dei fratelli Coen Il grande Lebowski), che ha come proprio mantra quotidiano: “Prendiamola come viene”.

“Non chiamatela favola, però”, mi corregge subito Matthias Moretti, uno dei responsabili della società. “Perché siamo orgogliosi del lavoro che abbiamo fatto e dell’impegno che tutti insieme ci abbiamo messo per arrivare dove siamo adesso”, continua. Ovvero all’ingaggio dell’ex viola Borja Valero. Il 36enne centrocampista spagnolo ha lasciato infatti il calcio professionistico per sposare l’idea di sport popolare portata avanti dalla società di Firenze, con la cui maglia grigionera giocherà l’anno prossimo in Promozione (frutto di una risalita vertiginosa dalla Terza Categoria).

Perché il Leboswki non ha padroni, o se vogliamo ne ha più di 800. I soci si erano “stancati di campionati senza sorprese, di classifiche disegnate dai diritti tv e dagli intrighi di palazzo” e così , hanno dato vita alla loro idea di calcio: “Un calcio dove tra squadra, tifosi e società ci sia identità”. Come del resto dimostrano i 400 spettatori minimo che seguono la squadra in casa e in trasferta ogni domenica.

Una realtà fondata quindi con il cuore che, tuttavia, ha dietro uno impianto finanziario pensato per essere sostenibile e condiviso. Come? “Grazie all’autofinanziamento e all’aiuto degli appassionati di vero sport, senza concedere niente alle speculazioni che accompagnano il calcio di oggi. Per questo siamo entusiasti che il nostro tifo sia ancora l’autogestione di uno spazio comune, quale la Curva Moana Pozzi”, si legge nello statuto.

Da questi valori è poi nato tutto. Le assemblee, i collettivi, le riunioni, le iniziative benefiche come la Sagra del Fritto Misto a Pozzolatico, la solidarietà e vicinanza attiva ai lavoratori della Gkn licenziati (molti degli operai sono soci del club), i soldi raccolti per la città di Colonia dopo l’alluvione del luglio scorso – le due tifoserie sono unite da uno storico gemellaggio – l’adesione al progetto Inclusive Zone, una scuola calcio gratuita realizzata in Piazza Tasso, nel cuore di Firenze, unita alla didattica, la rivalutazione del bellissimo Giardino dei Nidiaci, sono l’esempio calzante del più grande azionariato popolare d’Italia.

Valori abbracciati in pieno anche da un professionista come Borja Valero: “Ho accettato questa sfida perché mi riconosco nei valori portati avanti da questi ragazzi. Ero convinto di giocare un’altra stagione nella Fiorentina, non certo per soldi o per chissà cosa. Avrei potuto dare una mano”. A fare la differenza per la firma in grigionero però l’ha fatta il settore giovanile: “Ho visto entusiasmo, organizzazione e soprattutto mi sono riconosciuto nei valori del Lebowski, a partire da quello che hanno fatto in San Frediano per ridare vita al giardino dei Nidiaci e per dare la possibilità a tutti i bambini e alle bambine del quartiere di giocare, divertirsi e imparare a vivere senza ansie uno sport bellissimo che però sta perdendo tutta la sua umanità”, spiega l’ex giocatore viola ai giornali locali.

Il club adesso ha una prima squadra maschile e femminile, una juniores maschile, una di calcio a 5, una squadra amatoriale maschile e femminile e una scuola calcio da 150 bambine e bambini. Un modello radicalmente alternativo al calcio a cui siamo sempre stati abituati – si legge sul sito del C.S. Lebowski – in cui la passione e l’amore sono sempre minacciati dai capricci e dalle alterne fortune di padroni, finanziatori, mercati. “Questo modello ci garantisce una totale libertà, e la certezza che quello che succederà in campo sarà il risultato non di dinamiche in mano ad altri, ma solo ed esclusivamente dei nostri sforzi, con in più quel tocco di magia e imprevedibilità che ci fa tanto amare questo gioco”, spiega ancora.

Come si mantiene un macchina del genere? Tutte e tutti devono dare qualcosa, sia in termini economici che di impegno. “In primo luogo, i giocatori, le giocatrici e lo staff indossano i nostri colori in cambio di piccoli rimborsi spese, rinunciando quindi a compensi ben più alti, mostrando grande consapevolezza nel progetto e permettendoci di programmare un bilancio sostenibile”.

In altre parole niente compensi e una gestione condivisa non solo del gioco ma anche delle questioni amministrative.

Firenze contro, c’era una volta la città di La Pira e Don Milani

Tutto sta tornando come prima. Cioè malissimo. Ora che abbiamo l’illusione di esser fuori dalla pandemia, volano nel vento le promesse di cambiamento, conversione, revisione radicale di modelli economici e sociali fallimentari.

Nel caso delle cosiddette città d’arte, come Firenze, questo significa ricominciare con la monocultura del turismo, che desertifica i quartieri e induce a una sorta di prostituzione collettiva. Perché quando una città vede se stessa come una merce, da infiocchettare e rendere più desiderabile possibile, tutto quello che è pensiero critico e contestazione viene avversato, e ridotto al silenzio. Una città tutta fatta di camerieri (lo dico col massimo rispetto di questa degnissima professione) è una città pronta a servire, non certo a lottare.

La bellissima manifestazione di sabato per, e con, la Gkn (chiusa via whatsapp grazie allo sblocco dei licenziamenti del governo Draghi) ha detto ai fiorentini: “Insorgiamo!”. Ma dov’è la Firenze davvero capace di insorgere nelle scelte strategiche? Da quanti anni non esiste un sindaco, o un assessore alla cultura, degno anche solo di allacciare le scarpe alla tradizione civile della città?

“Pensavo – ma infine cosa ha fatto Firenze per essere sempre ‘attaccata’? Ha contestato la guerra (convegni pace etc.) ha contestato l’ingiustizia (Pignone, Galileo, etc.), ha contestato la scuola (‘Lettera ad una professoressa’), ha difeso i deboli, gli oppressi ed ha fatto argine ai potenti ed ai ricchi: ha fatto male? Ecco il Vangelo: ecco Pio XII: ecco Giovanni XXIII: Paolo VI (Pop. Progressio): non licet tibi è la divisa di Firenze sin dal tempo del fascismo: un vessillo ora risollevato: ecco tutto!”. Si stenta a credere che queste parole (scritte da Giorgio La Pira a Paolo VI il 2 novembre 1968) ritraggano davvero la città dei Renzi e dei Nardella, la città “della bellezza”, del lusso, degli eventi esclusivi. È, invece, una Firenze contro, che fin dal tempo della resistenza al fascismo, fa proprio un motto di Seneca: Non licet tibi quicquam arbitrio tuo facere, cioè “non ti è permesso fare come ti pare”.

Una città che contestava l’arbitrio e il privilegio dei ricchi e dei potenti: la stessa che oggi invece progetta di violare il Giardino di Boboli con una teleferica per ricchi diretti a un resort di lusso realizzato in un complesso edilizio storico già sacro e già pubblico. Una città penosamente prona allo stato delle cose: ma nella quale, ancora 50 anni fa, la politica (quella per la pace, dello stesso La Pira sindaco), le lotte sindacali delle sue grandi fabbriche metalmeccaniche, la critica durissima di don Milani costruivano un’anima ribelle.

La lettera di La Pira è pubblicata in un bellissimo libro dell’ex procuratore della Repubblica di Firenze Beniamino Deidda, appena uscito a Firenze per le Edizioni delle Piagge, espressione di una comunità cristiana radicale che vive, con spirito profetico, nella periferia della città. Il libro, Basta un uomo, è la biografia di un protagonista dimenticato di questa Firenze contro: don Bruno Borghi, prete operaio. La testimonianza di Borghi è quella di una perpetua opposizione al potere, una continua denuncia del suo arbitrio: i padroni non possono trattare i lavoratori come merce (oggi, proprio a Firenze, torniamo a capirlo di fronte alla vicenda mostruosa della Gkn), i vescovi non possono trattare i preti come automi, lo Stato non può trattare i disabili e i carcerati come non-persone.

Borghi ha pagato spesso di persona la sua insubordinazione: i processi di cui si dà conto nel libro, e i continui attacchi subìti dalla destra (cattolica, affaristica, fascista) sono lì a testimoniarlo.

“Dimmi chi ti attacca, ti dirò chi sei”, scrive ancora La Pira al papa, spiegandogli così chi fosse davvero Borghi: “Se lo attacca Mattei (l’allora direttore della Nazione, nda) con tanta virulenza – Mattei … che sta sempre comodamente sulla ‘sedia dei ricchi’, al tavolo, alla mensa dell’epulone – è segno (per dire così) che don Borghi ha ragione! Mattei non capisce come mai ci possa essere un sacerdote che – come don Borghi – peni davvero (8 ore di lavoro duro!) per partecipare (senza retorica e senza demagogia) alla sofferenza degli operai!… lo schema evangelico ‘oppressori e oppressi’ (questo intende dire don Borghi quando parla di ‘lotta di classe’) (schema autenticamente biblico ed evangelico: Gesù a Nazareth) è ancora vero, e costituisce lo schema che dà volto (nonostante tutte le attenuazioni sindacali e politiche) alla struttura stessa delle fabbriche; dall’una parte ‘gli uomini dirigenti di prima categoria’, dall’altra, gli ‘uomini sottoposti di seconda categoria’. Questo non è marxismo: è la fotografia della realtà: realtà severa, che sfugge a coloro che non l’hanno mai vista e sperimentata!”.

Un sindaco che racconta in questi termini un prete operaio al papa: per chi si chiede dove si trovi davvero la bellezza di Firenze, ecco la risposta più vera.

“Paranoia pandemia: il popolo dei cacadubbi nell’era dei complotti”

“L’esitante è l’homo novus di questo tempo paranoico”.

È solo un cacadubbi in attività permanente?

L’esitante è parte di un inedito corpo sociale, un magma che fa da combustibile fossile del pensiero di questo tempo, di questa immersione totalizzante nel virus. Wu Ming definisce giustamente questa condizione come l’età del “virocentrismo”. Il virus ha saturato il discorso pubblico, l’ha fagocitato al punto che stiamo allegramente perdendo di vista ogni altra realtà, sedotti come siamo dalle scatole tossiche del complottismo universale.

Gennaro Carillo è il filosofo della politica che indaga con puntiglio la morfologia degli esitanti, dei dubbiosi fino allo stremo, dei no vax fino alla morte.

Stiamo costruendo una grande piazza d’armi per la psicoanalisi. Il magma abitato da suprematisti, da razzisti, da gente intossicata dalle fake news ora gode immeritatamente delle riflessioni puntigliose di sinceri democratici, di libertari, di liberali.

Il virus è un mistero. Non sappiamo come sia nato, non abbiamo altre armi che il vaccino, per quanto imperfetto. Sarebbe troppo banale chiudere qui la questione?

È stato commesso un errore grave: eticizzare il vaccino. Chi lo fa è persona saggia chi non lo fa è scriteriata. Alcune frasi, “stanare i no vax”, hanno configurato un mondo abitato da predatori e da prede. Stanare è un verbo orribile. Anche Mattarella ci ha messo del suo.

Anche Mattarella?

Eccessivamente moralistico il monito. Il bene di qua, il male di là. Se si fosse detto che il vaccino non è buono in sé ma ha conseguenze benefiche per la nostra vita, è utile a noi, alla nostra stessa libertà. Utile, ecco. Nulla di più. Come il Green pass: un foglio che ci fa campare meglio e ci tutela di più. L’utilità marginale. Abbassando ogni altra pretesa etica.

Però gli esitanti non hanno alcuna voglia di affrontare l’esitazione e revocarla.

Qui c’è da distinguere tra una parte ideologizzata, dichiaratamente razzista e suprematista, per indole complottista, e quella povera gente che si abbevera ai social network. Sono i destinatari di comunicazioni tossiche, figli dell’algoritmo che ti fa bersaglio delle tue stesse paure. Se capisce che temi nell’acqua potabile la presenza di veleni, ti inonda di notizie in cui l’acqua e il veleno sono i protagonisti. La paura si alimenta e rialimenta in un processo paranoico, perché la disintermediazione ha questo effetto nocivo collaterale.

E così il virus emargina ogni altra questione. Ci fa dimenticare le altre urgenze, anzi smobilita il pensiero sul resto della nostra vita.

Avrei immaginato che ci saremmo dedicati ad approfondire il tema della sanità. Il crash di quella lombarda avrebbe dovuto farci correre ai ripari, parlare della medicina territoriale, capire già adesso quanti e quali sono gli investimenti per non replicare quell’inferno.

Invece vaccino sì e vaccino no. Green pass sì e Green pass no.

È il fraintendimento del concetto di libertà, la dimensione estrema per cui ciascuno attribuisce alla propria misure extra large del diritto. Come se non esistessero recinti di regole entro cui esercitare la nostra libera scelta, il nostro arbitrio. È il modo simile in cui si sono comportati i partecipanti alla grande adunata rave nel Lazio. Loro avevano voglia di suonare, magari ubriacarsi, magari drogarsi e avevano bisogno di un grande spazio. Hanno giudicato il loro diritto intangibile e le loro necessità incomprimibili.

Però tra gli esitanti c’è una fetta di intellettuali, di liberali sinceri, di menti allenate all’analisi critica.

Non discuto la loro reputazione, però domando il senso di questa enorme sofferenza pubblica. Possiamo fare altro senza il vaccino? Stiamo meglio sicuri senza Green pass? C’è una soluzione diversa? E questo imperturbabile, continuo dimenarsi intorno alla particella del diritto quali danni produce al confronto pubblico di una società nella quale la pandemia ha seppellito finora più di 120mila corpi e un milione e duecentomila posti di lavoro?

In effetti le critiche più severe al vaccino e suoi derivati provengono da fette della società (politici, giornalisti, intellettuali) che – almeno economicamente – meno hanno patito la pandemia.

Il ceto dei privilegiati, nulla di nuovo. Tipico di una società tardo capitalistica.

Afghanistan, Iraq e Libia: in guerra perde pure l’ambiente

La mattina del 2 luglio 2021, le forze di sicurezza afgane hanno scoperto che, durante la notte, l’esercito statunitense si era ritirato dalla base aerea di Bagram, a nord di Kabul, lasciando dietro di sé montagne di munizioni, rifiuti ospedalieri, centinaia di camion e veicoli blindati, tonnellate di bottiglie di plastica, attrezzature militari fuori uso e una pista di cemento lunga 3 km. Sono ottant’anni che l’esercito statunitense abbandona dietro di sé i rifiuti inquinanti generati dai conflitti in Medio Oriente, senza prendersi le responsabilità dei migliaia di siti tossici creati, delle vere “zone morte”. Alle loro spalle i soldati hanno lasciato edifici distrutti, armi abbandonate, residui di munizioni e montagne di rifiuti tossici che inquinano il terreno, le falde acquifere, il mare e l’aria.

Un’eredità che comporta rischi antropici primari per centinaia di anni. Ne fanno parte anche i gas serra (Ghg), un cocktail di CO2, metano, protossido di azoto e gas fluorurati. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è il più grande produttore istituzionale di questi gas al mondo. Le emissioni di black carbon delle navi militari comportano notevoli rischi per l’uomo e l’ambiente, degradando la qualità dell’aria costiera.

Nella primavera del 2020, nel Mar Arabico, erano presenti allo stesso tempo due gruppi di attacco delle portaerei gestiti dal Cetcom, il comando centrale delle forze armate degli Stati Uniti. Ognuno composto da una portaerei, tre incrociatori, quattro cacciatorpediniere e nove squadroni aerei. Nella zona era presente anche una forza anfibia. Sul mar Arabico, l’arsenale navale di Duqm (Oman), recentemente ampliato, è diventato un importante scalo per i gruppi di attacco delle portaerei. Tra raffineria di petrolio e impianti di riparazione, i danni ambientali possono essere notevoli. Anche la catena di approvvigionamento militare produce significative emissioni di gas serra, attraverso la fornitura di cibo, carburante, vestiti per le truppe. Si aggiungono le emissioni dell’industria bellica che fabbrica carri armati, cannoni, navi, aerei e munizioni.

La Lockheed Martin, impresa statunitense attiva nel settore della difesa, ha registrato un totale di 33 milioni di tonnellate di gas serra e CO2 nel 2020. Infine, ci sono le emissioni prodotte dallo sfruttamento dei pozzi petroliferi durante il conflitto e dall’incenerimento dei rifiuti nelle basi. La minaccia globale rappresentata dalle emissioni militari in termini di riscaldamento globale, sia a breve che a lungo termine, deriva dalla miscela di combustibili, e dalle grandi quantità utilizzate, su un periodo più o meno lungo. Le navi militari a gasolio saranno in servizio per almeno altri trent’anni e già contribuiscono per più della metà delle emissioni di gas serra dei porti cui sono attraccate, degradando la qualità dell’aria locale. Il cherosene e i vari additivi utilizzati negli aerei da combattimento sono di gran lunga la principale fonte di emissioni di gas serra: l’F-35 consuma 0.6 mpg (miglia per gallone), producendo più di 27 tonnellate di CO2 per missione. Secondo una recente stima, le emissioni di gas serra delle forze armate statunitensi nelle principali zone di guerra del Medio Oriente ammonterebbero a più di 440 milioni di tonnellate sul periodo 2001-2018. Nel 2018, i gas serra in Libano erano di quattro tonnellate a persona. Le discariche di rifiuti tossici, lasciate sul posto alla partenza delle truppe, rappresentano un grave rischio antropico per la salute e lo sviluppo economico delle popolazioni locali in Iraq, Afghanistan e nel Golfo.

Dalle operazioni Desert Shield e Desert Storm nel 1990-1991, il Cetcom ha cominciato a sfruttare delle discariche di rifiuti tossici note come “pozzi di incenerimento a cielo aperto”: nelle basi militari ufficiali, così come nei campi temporanei, i rifiuti solidi prodotti – circa 4,5 kg per soldato al giorno – vengono scaricati in vaste fosse scavate nel terreno e bruciati con cherosene o benzina. La Joint Base Balad (Jbb), la seconda più grande base statunitense in Iraq, ospitava più di 25.000 militari e 8.000 fornitori di servizi e bruciava, secondo i rapporti, più di 140 tonnellate di rifiuti al giorno, almeno il triplo dei rifiuti prodotti dai 40.000 abitanti della città di Balad, a nord-ovest della base. Il più grande pozzo di incenerimento della Jbb copriva quattro ettari e ha bruciato per anni 24 ore su 24 dal 2003: batterie, plastica, veicoli distrutti, cani morti, cartucce MK-19, 80.000 lattine di alluminio al giorno, rifiuti medici e parti di corpo umano provenienti dagli ospedali, dispositivi elettronici, amianto, imballaggi alimentari, metalli, uniformi insanguinate, pneumatici, materassi, elettrodomestici, feci umane. Centcom ha stimato che nel 2010 ce ne fossero 22 in Iraq, compreso alla prigione di Abu Ghraib, e più di 220 in Afghanistan. Ne esistevano nelle basi in Oman, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, a Doha, in Bahrain, Kuwait, a Batman e Incirlik in Turchia, in Gibuti, Giordania, Siria e Uzbekistan. Questi pozzi producono tossine, inquinanti atmosferici e rifiuti tossici residui che contaminano il suolo e le falde acquifere. Uno studio del 1999 sulle sostanze cancerogene presenti nell’acqua e nell’aria alla base aerea Prince Sultan, vicino a Riad, in Arabia Saudita, ha rivelato la presenza di più di nove tipi di sostanze, tra cui arsenico e benzene. Da tempo l’indice di qualità dell’aria giornaliero di Baghdad, la seconda città più grande del Medio Oriente, a 60 km dalla Joint Base Balad, è considerato “pericoloso”.

Il rischio di mortalità per cancro ai polmoni è più alto che in qualsiasi altra città irachena. Nella lista delle malattie associate all’esposizione ai pozzi figurano asma, problemi respiratori, bronchite cronica, dolori addominali e crampi, diarrea, leucemia, cancro ai polmoni, malattie cardiache, forti mal di testa, infezioni cutanee e della gola, ulcere, vomito.

Il presidente Biden ritiene che suo figlio Beau Biden, che era stato assegnato alla base aerea di Balad, sia morto di cancro al cervello nel 2015 a causa dell’esposizione alle esalazioni dei pozzi. Si registra inoltre un inquinamento delle acque sotterranee vicino a quasi tutte le basi statunitensi nel mondo. È dovuta all’uso di sostanze chimiche fluorurate tossiche, molto concentrate (le sostanze perfluoroalchiliche o Pfas), presenti nelle schiume anti-incendio usate dall’esercito statunitense sin dagli anni 70 per spegnere i fuochi dovuti ai liquidi infiammabili. Dei “prodotti chimici eterni”, che non si degradano mai nell’ambiente e che, se ingeriti o inalati, si accumulano nel sangue e negli organi. C’è poi l’“inquinamento da conflitto”.

Gli “urbicidi”, i massacri delle città, dei siti industriali e delle risorse energetiche per motivi strategici, si portano dietro enormi strascichi tossici. Le nuvole di polveri generate dalle distruzioni vengono inalate e intossicano per generazioni le famiglie che restano a vivere sul posto. I bambini si contaminano giocando tra le rovine. I residui tossici finiscono nelle falde acquifere e nei fiumi. Per anni i rifiuti restano stoccati in discariche all’aperto. Ramadi, in Iraq, teatro di tre battaglie per il controllo della città da parte della coalizione militare (2004, 2006, 2015), è stata rasa al suolo all’80%. L’Onu ha calcolato la presenza sul posto di sette milioni di tonnellate di detriti e valutato a circa 10 miliardi di dollari i costi della ricostruzione.

Ci sono voluti anni per effettuare una pulizia sostanziale della città. Gli Stati Uniti hanno donato 5 milioni di dollari per contribuire a rimuovere gli ordigni inesplosi. Ma restano ancora da gestire a lungo termine i rischi per la salute degli abitanti. L’Eufrate a Ramadi presenta livelli estremamente elevati di contaminazione da metalli pesanti. Sempre in Iraq, dopo la liberazione di Mosul nel 2017, gli esperti dell’Onu hanno calcolato che il conflitto aveva generato più di 11 milioni di tonnellate di detriti in città e stimato che 100 milioni di dollari sarebbero stati sufficienti solo a coprire le spese per trasportare in camion fuori dalla città le macerie accumulate lungo le rive del Tigri o scaricate nel fiume.

 

Cultura. Come non fare un concorso pubblico: il caso di quello per mille tuttofare detti “Afav”

Elena ha 34 anni ed è una delle migliaia di persone che da qualche settimana è in attesa della prova orale del concorso di Formez PA volto a reclutare 1.052 Assistenti alla Fruizione, Accoglienza e Vigilanza (Afav) per il ministero dei Beni Culturali. L’Afav è una figura ibrida tra custode, educatore, catalogatore, guida: esiste nella Pubblica amministrazione italiana, ma nella vita quotidiana dei musei quel ruolo copre una molteplicità di mansioni professionali diverse. Cercare figure così generiche – per partecipare era necessario il solo diploma – ha una conseguenza: far schizzare il numero delle domande. Formez, la società a partecipazione pubblica che gestisce il concorso, ha ricevuto più di 200mila domande per mille posti. Elena, che ha una laurea e un dottorato nel settore, si è trovata a competere con chi cercava un posto come custode.

Quando il concorso fu pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 9 agosto del 2019, l’ex ministro Bonisoli annunciò che si sarebbe arrivati “nella prima parte della legislatura, a mettere a concorso circa 5.400 nuove figure professionali di cui il Mibac ha bisogno”: non è andata così. Da allora pochi bandi, molti pensionamenti e i 1.052 del 2019 non sono neppure stati selezionati. La prova pre-selettiva, gennaio 2020, sembrava una roulette. Domande di logica, di diritto, di cultura generale, pensate più per scremare l’enorme numero di partecipanti che per selezionare chi fosse adatto al ruolo. E circa il 60% di chi aveva inoltrato la domanda non si è presentato alla prova. “Eravamo convocati in Fiera a Roma, da tutta Italia” spiega Elena, che ammette di aver avuto la fortuna di essere convocata per il pomeriggio e quindi di poter fare il viaggio in giornata (vive in Piemonte), “se avessi dovuto passare la notte fuori, non credo l’avrei fatto”. Costi d’alloggio e non solo, per chi vive di quei lavori informali o autonomi che caratterizzano il settore: la paura di chiedere o di prendersi un giorno di ferie.

Passata la pre-selettiva e rimasti in poche migliaia, la prova scritta avrebbe dovuto tenersi sempre alla Fiera di Roma nel marzo 2020. Rinviata ad aprile data pandemia in corso, poi a data da destinarsi, poi più nulla per 14 mesi. All’inizio di luglio scorso, Formez annuncia che la prova si sarebbe tenuta in 6 sedi il 28 luglio. Nessuna digitalizzazione del processo: per il Nord Italia, la sede era Rimini. Un lungo viaggio, una notte in ostello a spese proprie, e dopo lunghe ore di attesa la prova: quella di Elena va bene. Ora abbiamo 3 mila candidati rimasti in gioco che restano in attesa, dopo aver speso centinaia di euro e mesi di preparazione. Chiedono che senso abbia tenere una prova orale in presenza data la situazione del Paese, o selezionare solo mille persone se il ministero ha carenze per almeno 6 mila unità.

Intanto lo stesso ministero il 31 luglio ha bandito un nuovo concorso per altri 100 Afav e ha provveduto in questi due anni ad assumere 500 custodi attraverso i centri per l’impiego. “Ti rendo conto se, dopo tutto questo – chiede Elena – venissi scartata per qualche domanda di diritto amministrativo?”.