Bollette, svolta green equa e libero mercato incompatibili

I l prezzo medio del gas in Europa è triplicato, in qualche caso ha superato il picco storico del 2008, gettando nel panico i governi di tutto il continente. In Italia il ministro Cingolani cerca di scongiurare un possibile rincaro delle bollette del 40%. Ad incidere sui prezzi di gas ed elettricità (a sua volta prodotta in gran parte dal gas naturale) è la (momentanea) scarsità dell’offerta, accoppiata con l’intermittenza delle rinnovabili che non sempre immettono energia nella rete al momento giusto. Delle vere e proprie “crisi energetiche” si susseguono da qualche anno sulle due sponde dell’Atlantico che hanno l’una liberalizzato (Unione europea), l’altra deregolamentato (Stati Uniti), il settore energetico. Solo lo scorso febbraio in Texas, superpotenza mondiale di petrolio a gas, una bufera invernale ha fatto saltare il 40% dell’elettricità dello Stato, facendo schizzare i prezzi dell’elettricità del 1000% e provocando 80 morti.

Ancora più delle emergenze, dovrebbe preoccupare che i prezzi dell’elettricità e del gas sono saliti costantemente più dell’inflazione dal 2009, generando ampi profitti per le società energetiche (solo Enel tra il 2016 e il 2020 ha fatto profitti per 22,56 miliardi). Sia negli Usa che nell’Ue solo chi ha potuto difendersi dal libero mercato è riuscito a limitare i danni. I texani che a partire dal 2004 hanno fatto affidamento sul mercato libero hanno pagato 28 miliardi di dollari in più rispetto ai clienti che invece sono rimasti al mercato regolato. In Italia nel 2019 i clienti serviti in regime di libero mercato hanno pagato in approvvigionamento mediamente circa 27 euro/MWh in più rispetto ai clienti in regime di maggior tutela. La tendenza al rialzo dei prezzi è spinta da fattori strutturali come l’aumento dei prezzi di mercato del carbonio, la necessità di sostenere gli investimenti nelle rinnovabili, la scomparsa di qualsiasi struttura internazionale dei prezzi di petrolio e gas. Le soluzioni dei vari governi europei quali diminuzione dell’Iva, scorporo degli incentivi alle rinnovabili dalle bollette, utilizzo dei ricavi dalla tassazione del carbonio per abbassare le bollette, mirano a salvaguardare i profitti delle società energetiche. Le riduzioni delle imposte in bolletta graveranno, in ultima analisi, su tutti i cittadini. Mentre se i ricavati dalle aste del carbonio vengono utilizzati per sostenere il consumo di energia prodotta anche da fonti fossili, allora meglio abolire del tutto il mercato del carbonio (Ets).

L’Ue sbanda perché, priva di politica dell’energia, è solo in grado di fissare obiettivi: le rinnovabili al 38-40% entro il 2030 (circa il doppio di oggi), eliminazione totale delle emissioni dei veicoli al 2035. Come si arriva a questi obiettivi è lasciato al mercato con incentivi e supporto agli investimenti privati. È del tutto evidente che le società private non hanno una reale intenzione di pianificare (e accelerare) gli investimenti in rinnovabile e nessun interesse a ridurre le bollette per i consumatori, dunque i loro profitti. Le partecipate come le italiane Eni e Enel non fanno eccezione. Eni ha annunciato che con i profitti del rialzo dei prezzi del petrolio ricomprerà (buy back) sue azioni per 400 milioni in modo da rimpinguare i già mostruosi stipendi dei manager pagati in stock options (altro che investimenti in rinnovabili!). Enel conferma che i suoi utili saranno investiti in mezzo mondo, con particolare attenzione in India, dove frutteranno di più. Il paradosso è che l’Ue è nata proprio dando vita nel 1952 a una politica energetica: si chiamava Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca). Il carbone rappresentava allora di gran lunga la principale fonte energetica del continente. Le imprese del carbone erano state quasi tutte nazionalizzate e la Ceca decideva orientava gli investimenti, decideva sui prezzi, supportava la riqualificazione dei lavoratori nella aree minerarie in crisi.

Dunque, se veramente si vuole una transizione energetica dalla fonti fossili che sia equa e pianificata, e non un percorso minato da crisi croniche, si dovrà tornare allo spirito della Ceca e cestinare l’era del libero mercato dell’energia apertasi negli anni ‘90. Gli Stati dell’Ue dovranno coordinarsi sugli investimenti in rinnovabili e infrastrutture elettriche, sui prezzi dell’elettricità e sui margini di profitto consentiti alle aziende energetiche, dovranno negoziare contratti a lungo termine con i fornitori di gas e petrolio che assicurino prezzi stabili e, se necessario, dovranno intervenire direttamente nella produzione di energia elettrica, nazionalizzando le aziende recalcitranti o creandone di nuove. Quel che non potranno fare è continuare a incrociare le dita, facendo affidamento sull’instabilità del libero mercato e sulla sete di profitti delle aziende private.

Guida al futuro dell’Ue a partire dai programmi dei partiti tedeschi

“Povera vecchia Germania. Troppo grande per l’Europa, troppo piccola per il mondo”. Henry Kissinger, l’ex segretario di stato statunitense, riassumeva così i meccanismi e le forzature che imbrigliano Berlino a Bruxelles. Per 15 dei 16 anni a guida Angela Merkel, la dottrina economica europea si è piegata alla volontà tedesca: austerità. La pandemia ha imposto, dopo lunghi tentennamenti, un cambio di rotta. Prima del Covid i paesi membri stavano negoziando nuovi termini per il Patto di Stabilità, ma la pandemia ha messo tutto in congelatore. I vincoli di bilancio dovrebbero tornare in vigore nel 2023, ma il futuro dell’Ue dipende molto da come andranno le elezioni tedesche. Con l’eccezione dell’Afghanistan, durante la più lunga e combattuta campagna elettorale dalla caduta del muro non si è parlato di scenari internazionali. E ancor meno di Europa. A meno di una settimana dalle elezioni, è difficile da prevedere chi e con che legittimità prenderà il potere a Berlino: tutto dipenderà da quale coalizione andrà al governo e dagli scontri interni agli stessi partiti.

CDU-CSU. In tedesco schuld al singolare significa colpa, schulden al plurale debiti. I conservatori sono molto legati alle parole. Wolfgang Schäuble più di tutti. Oggi è il presidente del Bundestag, prima era ministro delle Finanze e per anni è stato il capo dell’opposizione interna a Merkel. La Cancelliera è riuscita a spuntarla un’ultima volta facendo indicare come candidato della Cdu Armin Laschet. Il delfino di Schäuble era Friedrich Merz, un falco. La settimana scorsa, coi sondaggi che davano il partito al minimo storico (19%), Laschet ha compattato le file e presentato la sua possibile squadra di governo: Merz è stato indicato come futuro responsabile di finanza ed economia. Questo il suo pensiero affidato al quotidiano economico Handelsblatt: “Ai contribuenti tedeschi viene chiesto di pagare la settimana lavorativa di quattro giorni in Spagna e le pensioni in Italia”. Ecco la linea sul Patto di stabilità: “Certo sarà molto difficile per alcuni paesi, ma i requisiti di Maastricht devono essere rispettati. Se si vuole restare a bordo”. La possibilità che Merz diventi ministro delle Finanze c’è in un’eventuale coalizione Giamaica (Cdu-Csu, Verdi e Liberali): nel caso è assai probabile che le questioni europee saranno totalmente delegate ai cristiano-democratici.

SPD. Il candidato cancelliere Olaf Scholz è l’attuale ministro delle Finanze. Sull’Ue ha una posizione d’ascolto, come quella di Merkel. Inoltre ha promesso l’innalzamento del salario minimo (da 9,5 a 12 euro l’ora) e la riforma del sistema sanitario per renderlo completamente pubblico. Per far questo vuole trasformare il Next Generation Eu in uno strumento permanente, finanziato da debito europeo. Gli alleati naturali per l’Spd sono i Verdi, favorevoli a queste misure, ma i due partiti – a stare ai sondaggi – avrebbero bisogno di un terzo gruppo. Coi liberali del FDP (“coalizione semaforo”), le posizioni nei confronti della politica economica europea si irrigidirebbero molto. L’altra possibilità sarebbe un governo con la sinistra di Die Linke. In questo scenario vedremmo una Germania diversa da quella a cui ci ha abituato Merkel: riforme sociali fatte completamente a debito. Scholz all’interno del partito è un moderato, ma potrebbe faticare a tenere a bada l’ala più radicale del partito, che è già maggioranza.

Verdi. Die Grünen è il partito più europeista del Bundestag. I temi centrali della loro campagna elettorale sono l’ecologia e la riconversione energetica. Non hanno mai fatto mistero che tutti gli altri argomenti sono di secondaria importanza. Per trasformare la Germania nel paese più verde d’Europa sono disposti ad alleggerire le regole su deficit e debito. Tra i punti nel loro programma elettorale c’è un fondo da 500mliardi di euro in 10 anni per finanziare la transizione a un’economia più sostenibile. Fondi che vorrebbero tenere fuori dal Patto di stabilità o recuperare con una tassazione Ue sulle Big Tech. Certo per entrare nel governo faranno dei compromessi. Pochi giorni fa Robert Habeck, numero 2 del partito, ha incontrato Christian Lindner, leader del FDP. In caso di una “coalizione semaforo”, potrebbere essere loro due il tandem ai ministeri di Finanze ed Economia.

FDP. Secondo l’istituto di ricerca ZEW le proposte di tagli di tasse e incentivi (tra cui l’introduzione del reddito cittadinanza) del FDP creerebbero un buco annuale di 87 miliardi di euro. Il partito liberale rigetta questi calcoli: le riforme spingerebbero la crescita nel paese colmando il disavanzo. L’FDP non è il partito più conservatore, ma sicuramente il più rigido nei confronti dei vincoli Ue. Chiede regole e regolamenti chiari e inflessibili, ma promette incentivi per la digitalizzazione, la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Di fatto la loro linea è quella dei cosiddetti “frugali”: Olanda, Danimarca, Finlandia e Austria. Dopo le elezioni del 2017, Lindner non trovò l’accordo per entrare nella Grosse Koalition: le negoziazioni durano cinque mesi in genere e stavolta, coi sondaggi più alti nella storia del partito, sa che avrà un ruolo e vuole gestire un ministero economico.

Pechino “rompe” le sue Big Tech a partire da Jack Ma

Prendere da un lato, togliere dall’altro: democrazia, concorrenza e Big Tech pare proprio non possano stare nella stessa stanza e trovare un equilibrio. Il dominio, nel caso della Cina, è in favore dello Stato e del suo controllo a spese del monopolio delle aziende digitali. Si può dire che stia accadendo la cosa giusta ma nel posto sbagliato o almeno nel momento sbagliato.

La settimana scorsa, Pechino ha imposto al miliardario patron dell’e-commerce Alibaba, Jack Ma, di smembrare il braccio finanziario della sua piattaforma per ridurne il potere e aumentare il controllo del governo su di esse. Ad Ant Group, infatti, fa capo la app Alipay che quasi tutti i cinesi utilizzano per pagare gli acquisti ma anche per richiedere prestiti a consumo. La stretta del presidente cinese Xi Jinping su Jack Ma va avanti dallo scorso autunno. Un cambio di passo: negli ultimi anni gli imprenditori digitali erano per lo più apprezzati e indicati come esempio virtuoso per aver aiutato la Cina e il Partito Comunista e a raggiungere gli obiettivi di consumi ed efficienza. Anche perché la quasi totalità delle operazioni dei cittadini cinesi tecnologicamente alfabetizzati si svolge attraverso app e smartphone e c’è stato un momento in cui sulle nuove tecnologie (come il 5G) la Cina sembrava avere sugli Usa un vantaggio difficile da colmare. Complici la pandemia e la necessità di accelerare, invece, negli ultimi mesi il presidente Xi Jinping e il Partito hanno stretto il guinzaglio, prima di tutto alle imprese del digitale e del fintech e

Ant Group è l’esempio più evidente del clima di politica economica di Pechino: Xi ne ha prima bloccato la mega Ipo a fine 2020 (“Per problemi importanti” avrebbe potuto “non soddisfare le condizioni di quotazione o i requisiti di divulgazione”) con la quale Ant Group puntava a raccogliere 31 miliardi sulle borse di Shanghai e Hong Kong. Poi, era stata comminata una multa da 2,3 miliardi (ad Alibaba) per abuso di posizione dominante. Infine, la settimana scorsa è stato chiesto a Ma di fare quello che Usa e Ue pare vogliano da tempo per le Over The Top occidentali, senza riuscirci: separare, smembrare e rendere la super app tuttofare da oltre un miliardo di utenti, un’insieme di piattaforme minori e autonome. Lanciata nel 2004, Alipay nasce infatti come sistema di pagamento online, ma nel tempo si è trasformata in una vera e propria banca. Chi è stato in Cina avrà notato che buona parte dei cittadini ricorrono allo smartphone anche per pagare nei negozi fisici. Questo perché Alipay gestisce almeno la metà di tutte le transazioni dei cinesi e ha sia una componente di carta di credito virtuale (Huabeim), che di piccoli prestiti non garantiti (Jiebei). Jack Ma detiene, di fatto, informazioni e portafogli di circa un miliardo di persone.

La richiesta del Partito (che lascia intravvedere la possibilità del via libera alla maxi Ipo) consiste nello smembrare queste due componenti in gestioni separate. Ma, soprattutto, vuole che i dati finiscano in un’altra società e che questa sia una joint venture con attori statali. “Il governo ritiene che il potere monopolistico delle Big Tech venga dal controllo dei dati e vuole porvi fine” ha spiegato una fonte vicina al governo al Financial Times. Le posizioni creditizie dei cittadini concorrono infatti anche a stabilire il rating sociale dei cittadini stessi

Ant Group e Ma sono comunque solo le vittime eccellenti: nelle scorse settimane i regolatori cinesi hanno colpito anche Tencent, uno dei maggiori gruppi di servizi tecnologici, e Didi Chuxing, l’equivalente locale di Uber. E ancora, la revisione della legge sulla sicurezza informatica del mese scorso ha lasciato campo libero al blocco delle quotazioni sui mercati esteri per le aziende che gestiscono dati sensibili attraverso controlli preventivi della Cybersecurity Authority of China e la valutazione della China securities regulatory commission che potrà vietare anche l’intera quotazione in caso di particolare criticità dei dati stessi. Il tutto mentre è avviata una ulteriore stretta prevista sulle società parallele costituite nei paradisi fiscali. Secondo le stime, le quotazioni dei big cinesi hanno perso nell’ultimo anno circa 1 trilione di dollari. Un freno a quella che ha Xi Jinping ha definito “l’espansione irrazionale del capitale”.

Guerra della rete unica: tutto fermo dopo il blitz di Colao

Il ministro della Transizione digitale, Vittorio Colao, a Cernobbio l’ha messa così: “L’appassionante dibattito sulla rete unica, un unicum in Europa, lo lascio ad altri. Il mio lavoro è assicurarmi che in Italia nel 2026 fibra e 5G arrivino ovunque”. L’ex manager di Vodafone pecca di modestia: quel dibattito è alimentato dal silenzio suo e del suo governo in una situazione assurda per almeno due motivi: 1) I due principali operatori interessati alla nuova infrastruttura digitale, e destinati alle nozze di cui oggi non si parla più, sono Tim e Open Fiber: il primo ha tra gli azionisti rilevanti la pubblica Cassa depositi e prestiti col 9,9% e il secondo è controllato direttamente dalla stessa Cdp col 60%. 2) Con l’attuale normativa, non c’è alcuna competizione possibile se non tra le due società partecipate da Cassa depositi, puro autolesionismo di Stato.

Lo scontro nel governo
sui limiti di emissione

Insomma “l’appassionante dibattito” sulla rete unica sarebbe in realtà esattamente il lavoro di Colao, che però – senza dirlo – prova surrettiziamente da mesi a far saltare l’operazione nata ai tempi del Conte 2: finora nell’esecutivo ha incontrato l’opposizione di Giancarlo Giorgetti quando ha provato ad aumentare i limiti di emissione del cosiddetto “elettrosmog” (vedremo perché), l’imbarazzo dell’azionista di controllo di Cdp, il ministro dell’Economia Daniele Franco, e il sostanziale disinteresse del premier Mario Draghi. Anche i partiti, ad oggi, pare abbiano altro da fare: se ne parlerà dopo le Comunali, quando saranno più chiari gli equilibri in campo. Nel frattempo, da quando ad aprile è stata bloccata la mossa sui limiti di emissione, la partita è congelata, un po’ come capita alla Serie A di calcio su Dazn.

Chi farà, dunque, questa benedetta nuova rete per portare agli italiani fibra e 5G entro il 2026? Immaginare una vera concorrenza sull’infrastruttura, ammesso che sia desiderabile, oggi non è proprio possibile. Spieghiamolo con le parole di Open Fiber in un’audizione alla Camera dell’aprile 2019: per l’internet ultraveloce – spiegò l’azienda – serve una nuova infrastruttura e, se non vengono rivisti i limiti alle emissioni , converrà a tutti quelli che vendono servizi e contenuti online avere un unico operatore wholesale che metta la fibra a terra e la porti nelle case (un modello vicino, ma non identico, a quello Conte-Gualtieri).

Il blitz in Parlamento:
Vodafone ci sperava

Qui si comincia a intuire cosa è successo con l’arrivo al ministero di Colao, ex manager Vodafone contrario alla rete unica tra Tim e Open Fiber: sponsorizzato dal ministro, è arrivato il tentato blitz renziano per aumentare di 10 volte i limiti all’elettrosmog (da 6 V/m a 61 V/m). Quasi tutta la maggioranza si oppose in commissione, benedetta – come detto – da Giorgetti. Questa operazione avrebbe di fatto aperto il mercato della rete spingendo la tecnogia FWA (fixed wireless access, in sostanza le antenne) e resuscitando in questa partita operatori oggi esclusi o marginali, Vodafone in testa (non proprio elegante dato il passato del ministro, ma tant’è).

Tenendo da parte le preoccupazioni sulla salute (che pure sono fondate, come dimostra un recente studio dell’Istituto Ramazzini di Bologna per l’Europarlamento già descritto dal Fatto), l’innalzamento dei limiti avrebbe un effetto molto semplice: il costo d’istallazione delle antenne per garantire l’efficienza delle reti per il 5G sarebbe per le imprese di circa 4 miliardi di euro inferiore (il calcolo è del fisico Antonio Capone del Politecnico di Milano, audito sul tema alla Camera sempre nell’aprile 2019).

Senza società unica
avremo i consorzi

Se Colao non riuscirà a ritoccare i limiti, e ad oggi non pare aria, allora avrà comunque una sorta di società unica della rete in forma spuria: consorzi tra imprese – e s’intende tutte le imprese – che manterranno congelate le attuali quote di mercato e si divideranno da bravi fratelli le gare per spendere i 6,7 miliardi di euro che il Piano di ripresa destina da qui al 2026 alle reti ultra-veloci. Si comincia coi bandi per le cosiddette “aree grigie”, quelle in cui è presente un solo operatore, che dovrebbero arrivare entro l’anno ed essere assegnate nella primavera prossima (i lavori di Open Fiber sulle aree bianche, quelle a fallimento di mercato, sono in spettacoloso ritardo).

È questa l’operazione a cui le telco lavorano da settimane e che, a quanto risulta al Fatto, ha l’avallo degli azionisti di controllo di Tim (i francesi di Vivendi, che hanno preso atto dello stallo dopo incontri con Giorgetti e Franco) e quello di Cassa depositi e prestiti, almeno finché il ministro dell’Economia o il premier non vorranno condividere con qualcuno il loro pensiero sulla rete unica: ci limitiamo a segnalare che Tim e Cdp si presentano insieme anche nella gara per il cloud nazionale della P.A. e in questo caso il governo – come Il Fatto ha rivelato giovedì – lavora attivamente per togliere di mezzo i concorrenti.

Dal Conte 2 a oggi:
in movimento

Mentre l’esecutivo e i partiti stanno fermi, la situazione dal lato del mercato è comunque in costante evoluzione: dopo Tiscali, anche Iliad ad agosto ha stretto un accordo con Fibercop – la società della rete di Tim – nel cui azionariato già figurano Fastweb e il fondo Usa Kkr. Nel frattempo, attesa, è partita l’uscita di Enel da Open Fiber: la Cassa depositi sta per salire al 60%, il resto sarà degli australiani di Macquarie. La tavola è apparecchiata insomma per l’accordo con Tim: “Se l’obiettivo è dare connettività a tutti nel minor tempo possibile, vedere due buchi a terra, uno parallelo all’altro, mi fa soffrire per lo spreco di risorse. Come per tutte le cose su cui ci sono opinioni differenti c’è bisogno di tempo, ma nel lungo periodo le buone idee vincono”, s’è sbilanciato l’ad di Tim, Luigi Gubitosi.

Solo che, ammesso che si finisca per andare avanti su AccessCo (la futura società unica della rete tra Open Fiber e Fibercop di Tim) le cose da chiarire sono parecchie e la prima è in che termini la cosa possa essere accettabile per il governo e, soprattutto, l’Antitrust Ue. Per capire quale sia il campo da gioco, bisogna partire dall’inizio. L’ex monopolista non vuole e non può perdere la rete, il cui valore a bilancio garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: Tim è dunque favorevole alla società unica della rete, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Per arrivarci ha intanto creato FiberCop, cui è stata devoluta la “rete secondaria”, ossia quella in rame o fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (non la cosiddetta “dorsale” insomma, che comunque è in via di obsolescenza). Il governo Conte 2 aveva dato il via libera all’operazione sognata da Tim con un paletto: la governance della futura AccessCo doveva essere neutra e nominata assieme a Cdp, qualunque sarà la quota azionaria di Tim.

E ultima arriva Bruxelles:
la speranza di chi dice no

Una soluzione, questa, che nel governo Draghi non piace a nessuno e ancor meno piace a Bruxelles: se la società della rete dev’essere unica, Tim non può avere la maggioranza ed essere dunque allo stesso tempo fornitore e concorrente delle altre Telco. “Una soluzione sub-ottimale”, la definì l’ex ministro Roberto Gualtieri perché porcheria non si usa nelle sedi istituzionali.

Ora l’ultima speranza di chi non vuole la società unica in nessun caso è che Bruxelles entri a gamba tesa nella partita. La Dg Competition è chiamata a un primo giudizio sulla vendita della quota di controllo di Open Fiber a Cdp: il fronte del no può sperare che l’Ue imponga a Cassa depositi l’uscita da Tim o almeno dal suo cda (dove siede il presidente Giovanni Gorno Tempini). Poi, se mai ci si arriverà, sarà la volta della rete: difficile che Bruxelles dica sì a una società integrata in Tim e a quel punto la palla passerà all’ex monopolista, che secondo gli accordi con Cdp può ritirarsi quando vuole senza pagare pegno. Così non avrebbe la rete unica, ma potrebbe spostare di qualche anno il redde rationem sul suo modello industriale e i suoi bilanci.

Bollino rosso. Spostiamo il Natale a Ferragosto. Quando il “grande rientro” estivo dà alla testa

Oggi 31 agosto 1998, grande ritorno dalle vacanze estive. Si annuncia traffico molto intenso quindi giornate da bollino rosso, così come è stato il 31 luglio scorso giorno di partenza per le vacanze. Questo era successo anche l’anno scorso e l’anno prima e chissà quanti anni prima ancora! Tutto uguale, niente di nuovo.

Basandomi sui miei ricordi personali e su un raffinatissimo calcolo matematico, sono in grado di anticiparvi che il prossimo 1 novembre sarà un’altra giornata da bollino rosso in occasione delle feste dei santi e dei morti. Dimenticavo, il 5 novembre altra giornata di fuoco per il ritorno dal “ponte”, poi ci sarà il 23 dicembre per le feste natalizie, il 7 gennaio per il ritorno a casa, senza contare il periodo di Pasqua e così fino a un’altra estate e un’altra ancora.

Io non sono una veggente, però si può stare sicuri che le mie previsioni si avvereranno puntualmente. Ora io penso, a volte mi capita di pensare quando non ho niente da fare, per evitare la noia e la ripetitività di certi eventi, non si potrebbe spostare la partenza per le vacanze estive ad aprile e il Natale a settembre? Sarebbe sempre Natale, ma festeggiato in un altro periodo ci regalerebbe una sensazione nuova, un’emozione diversa, così come anticipare le vacanze estive sarebbe un fatto, una piccola rivoluzione nell’implacabile calendario delle nostre abitudini, e soprattutto, si ridurrebbe molto la folla dei gitanti. Immagino le manifestazioni di protesta che seguirebbero: la rivolta armata di albergatori, ristoratori, benzinai, bagnini.

Però, ci sarebbero dei vantaggi ineguagliabili, soprattutto per me che oggi 31 agosto non sarei bloccata da ore in macchina a passo d’uomo sull’Autostrada del Sole, senza neanche poter scendere per andare un “attimino” in bagno. Vi prego, qualcuno cambi le regole, se non volete che me la faccia addosso!

 

Rileggere Dante. Grand Hotel “Inferno&Paradiso” Per i mediocri c’è il Purgatorio, la locanda di mezzo

Scorre il racconto di Aldo Cazzullo (Il posto degli uomini, Mondadori), scorre veloce e agile dietro un’idea che sembra conversazione, ma è un’intuizione e allo stesso tempo critica e teologia.

L’intuizione di Cazzullo – che ha mostrato con altri scritti di essere un lettore appassionato e accurato di Dante e della Commedia – è nell’aver notato la qualità aristocratica sia dell’Inferno sia del Paradiso. Si è posto di fronte alle due straordinarie costruzioni dantesche come di fronte a due grandi, inimmaginabili alberghi e ha notato che gli ospiti registrati dal grande poeta sono, nella grandiosità orrida dell’Inferno e nella grandiosità magnifica del Paradiso, troppo pochi e troppo grandi per essere tutto il male e tutto il bene del grande ciclo dell’esistenza umana. A parte l’esclusiva natura divina del Paradiso (che accetta solo anime di natura divina) e lo spietato registro del’Inferno (che è altrettanto rigoroso sul versante delle peggiori trasgressioni) Cazzullo nota che un parte molto grande di umanità resta senza destinazione. A meno che la destinazione sia il Purgatorio.

Non si tratta di uno scherzo, anche se l’autore scrive con mano lieve, quasi con un umore sereno, di una questione non da poco per l’umanità credente. I lettori di Cazzullo sanno che scrive “bene e facile”, come ho sentito dire una volta in un dibattito. Qui la sua scrittura bella e facile diventa un’esplorazione piena di “illustrazioni” (il suo narrare Dante dopo tanto Dante ) che si addentra e guida i lettori in quello strano mistero che è il Purgatorio. Cazzullo, con passo stabile e veloce ha sorpassato certi catechisti e, di sicuro, tutti quelli che vi si dedicano tuttora.

Sono tanti in Purgatorio perché in tanti siamo a mezza strada fra il bene e il male, non così nobili, non così deprecabili, non così capaci di occupare lo spazio di vita che ci è stato assegnato, non così desiderosi di sporcarlo. Corrisponde il Purgatorio forse alla mediocrità, e per questo è affollato di gente che non è né all’altezza del vero peccato né a quello della virtù eroica? Aldo Cazzullo è gentile con i suoi lettori e fa in modo che, una volta designati come possibili residenti del Purgatorio, non si sentano assegnati per mancanza adeguata di temperamento al bene o al male dei grandi di Inferno e Paradiso. Ma il vero segno che qualifica questo libro come importante, originale e diverso, sta nell’intuizione che lo motiva.

Se restiamo nel mondo cristiano-dantesco e ci affidiamo alla grande narrazione poetica, che cosa è il Purgatorio? E sarà il luogo di destinazione di chi? La risposta di Cazzullo è all’altezza del compito. Il Purgatorio è di tutti. Quasi tutti.

 

Il posto degli uomini – Aldo Cazzullo, Pagine: 288, Prezzo: 18, Editore: Mondadori

Baghdad I tesori trafugati tornano a casa. Eccetto dalla Turchia

L’ultimo ritrovamento è quella polizia norvegese che ha sequestrato un centinaio di manufatti mesopotamici nel sud-est della Norvegia e di cui il governo iracheno ha già chiesto un rapido rimpatrio. Si tratta di tavolette cuneiformi e altri oggetti archeologici dell’antica Mesopotamia. Gli esperti stanno ora esaminando gli oggetti per determinarne l’autenticità e la possibile origine. “In totale, sono stati sequestrati quasi 100 oggetti significativi per il patrimonio culturale globale”, ha dichiarato in una nota l’Autorità nazionale norvegese per le indagini e il perseguimento dei crimini economici e ambientali. Ancora da accertare come i manufatti sequestrati – che erano inseriti in una collezione privata – siano stati introdotti clandestinamente in Norvegia.

Migliaia di antichità sono state saccheggiate dai musei iracheni durante il caos dell’invasione americana, ben 15.000 reperti sono scomparsi quando il Museo Nazionale dell’Iraq a Baghdad è stato depredato nel 2003.

In quello che Baghdad descrive come il suo più grande rimpatrio di tesori saccheggiati, i funzionari iracheni hanno affermato che 17.000 manufatti sono stati restituiti in agosto dagli Stati Uniti, molti dei quali erano in possesso della catena di vendita antiquaria “Hobby Lobby”. Come parte di un accordo del 2017 con il Dipartimento di Giustizia “Hobby Lobby” ha accettato di rinunciare alla sua collezione, che includeva la famosa tavoletta d’argilla nota come “Gilgamesh Dream Tablet” vecchia di 3.500 anni, in cambio della cancellazione del reato.

In ottobre dello scorso anno il governo britannico ha dichiarato che avrebbe restituito all’Iraq quasi 5.000 manufatti che sono stati scavati da un team di archeologi britannici all’inizio del XX secolo. Inclusa nel rimpatrio c’era una targa sumera di 4.000 anni fa che gli esperti del museo hanno scoperto in vendita da un banditore online nel maggio 2019.

Gran parte dei manufatti antichi scomparsi in Iraq (anche da collezioni private di magnati iracheni), si trova in Turchia dove c’è il più mercato fiorente dell’arte rubata in Medio Oriente.

 

La nausea Mondiale ogni 2 anni? No grazie, dopo il flop di Nations e Conference League

Hai voglia a dire: “No, il Mondiale ogni due anni per favore no!”. Perché è vero, la cadenza biennale toglierebbe fascino all’evento, che per il fatto di disputarsi ogni 4 anni è sempre spasmodicamente atteso fin dai suoi albori; perché implicherebbe che anche l’Europeo si adeguasse alla cadenza dimezzata con identiche controindicazioni; perché servire caviale ogni estate, Mondiale poi Europeo poi Mondiale poi Europeo, potrebbe portare gli aficionados alla nausea, se non all’indigestione. E insomma no, siamo tutti d’accordo: il Mondiale ogni due anni non s’ha da fare.

Molto bene. E quindi? Fermo restando che chi scrive rimpiange ancora i tempi della Coppa dei Campioni riservata ai vincitori del titolo, della Coppa delle Coppe riservata ai vincitori della coppa nazionale, della Coppa Uefa riservata alle migliori piazzate e di Mondiali ed Europei attesi ogni 4 anni, volete sapere qual è lo status quo nel quale sguazziamo oggi? Grazie alla pensata di quell’autentica calamità che è stato, da presidente Uefa (prima di essere squalificato e cacciato per una tangente da 2 milioni di franchi svizzeri versatigli nel 2011 dalla Fifa) Sua Altezzosità Michel Platini, oggi abbiamo in pratica ogni quadriennio un Mondiale, un Europeo e due Europei di serie B (avete capito bene: due Europei di seconda fascia) denominati Nations League la cui fase finale si disputa negli anni dispari e di cui nessuno, nemmeno gli addetti ai lavori, si ricorda significato, funzione e funzionamento. Un tremendo mammozzone trapiantato in un organismo già al collasso per i troppi impegni cui devono far fronte i club e le nazionali. Come non bastasse lo strazio delle qualificazioni europee e mondiali con le varie Lituania, Andorra, Far Oer ecc. che prendono 6 gol a partita e con i giocatori convocati, azzurri in primis, che su pressione dei club fanno a gara nel marcare visita per farsi rispedire a casa, il supplizio grazie all’Uefa è stato moltiplicato per 3.

Novello dr. Frankenstein, Platini ha dato vita a questo mostro, la Nations League, che per 3 anni su 4 si aggira in ogni angolo d’Europa proponendosi come “Europeo dei poveri” dopo essersi strutturato con una sua Serie A (a 16 squadre), una Serie B (a 16 squadre), una Serie C (a 16 squadre) e una Serie D (a 7 squadre) con tanto di retrocessioni e promozioni di cui nessuno ha capito niente, che non interessano nessuno, che semplicemente intasano i calendari, mettono a rischio la salute dei calciatori e rovinano i fine settimana dei tifosi che invece di godersi il campionato devono sottoporsi al calvario di indigeribili e insensate sfide per nazionali. A vantaggio chi e di cosa nessuno lo sa: o meglio, a vantaggio delle voraci casse dell’Uefa. Che non contenta di questo aborto ha appena inaugurato la sua 3ª competizione per club, la Conference League, che dopo un’elefantiaca fase di qualificazione cui hanno preso parte club come CS Fola Esch, FK Netfchi, Shakhter Karagandy, KuPS, Rachow Czestochowa e ci fermiamo qui per non infierire, ha debuttato giovedì scorso con partite come HJK-LASK, Bodoe-Zorya, Kairat Almaty-Omonia Nicosia, Jablonec-Cluj, Mura-Vitesse e altre prelibatezze simili.

E insomma, tornando a bomba: cosa dicevate del Mondiale da giocare ogni due anni con Italia e Brasile, Francia e Argentina, Spagna e Uruguay, Inghilterra e Cile, Olanda e Colombia, Belgio e Camerun? Davvero vi sembra un’idea così brutta?

 

Del doping e altri demoni. Chi la fa l’aspetti: storia di un’olimpica figuraccia

Non tutto argento è quel che brilla. Il velocista britannico Chijindu “CJ” Ujah, ve lo ricordate alla 4X100 argento alle Olimpiadi di Tokyo per via della rimonta di Filippo Tortu nei confronti di Nethaneel Mitchell-Blake. Ci furono, dopo la vittoria italiana, polemiche con pesanti allusioni sul doping nei confronti dell’oro olimpico dei 100 metri, Marcell Jacobs. Il Times aveva anche apertamente citato un’inchiesta riguardante un ex nutrizionista dell’atleta azzurro per traffico di steroidi anabolizzanti, che avrebbe intaccato l’immagine del campione olimpico. Ma a risultare positivo al doping è stato Ujah a causa di due sostanze proibite, sarm 523 e ostarina. Lo hanno confermato anche le controanalisi. La medaglia d’argento nella 4X100, originariamente conquistata dal quartetto britannico (composto anche da Zharnel Hughes, Richard Kilty e dal citato Nethaneel Mitchell-Blake) rischia di essere ritirata. Chi la fa l’aspetti.

I conti con la storia. Si fa un gran dibattere della decisione degli autori di Tale e Quale Show, il varietà di imitazioni di Rai1 condotto da Carlo Conti, di invitare una cantante di colore (Deborah Johnson) per interpretare gli artisti di colore. La scelta dipende dalla necessità di non ricorrere più a una pratica ritenuta razzista, cioè tingere la pelle dei concorrenti con un fondotinta scuro per l’imitazione di persone nere. “C’era la volontà e l’indicazione di non fare più i cantanti di colore”, ha detto Carlo Conti. “A me sembrava una grande ingiustizia, un grande modo per ghettizzare un genere musicale e tanti artisti. Allora la lampadina si è accesa: non possiamo prendere una persona bianca che deve interpretare una di colore? Allora prendiamo una cantante di colore e lei è Deborah, che interpreterà tutti i cantanti e le cantanti di colore”. La cosa ha fatto incazzare tutti, gli ultra del “blackface” e i detrattori del politicamente corretto. Noi lo assolviamo. È vero, non ha capito lo spirito del “blackface”, ma povero, l’avete vista la sua abbronzatura perenne?

Non classificati

Amadeus e i giovani d’oggi. Piccole rivoluzioni al Festival di Sanremo 2022 che si terrà da martedì 1 febbraio a sabato 5 febbraio. In realtà si tratta di un esperimento già collaudato, provato da Claudio Baglioni nel 2018. Scompare la categoria “Nuove Proposte” che avrà una sua finale con uno spettacolo dedicato, mercoledì 15 dicembre in prima serata su Rai Uno. I due vincitori accederanno di diritto alla categoria Big della kermesse di febbraio. Nel dicembre 2018 portò molto bene a Mahmood che vinse poi l’edizione 2019 del Festival con “Soldi”. Altra piccola novità è la riduzione della fascia di età per partecipare a Sanremo Giovani: gli artisti dovranno aver compiuto 16 anni alla data del primo gennaio 2022 e non dovranno aver, alla stessa data, ancora festeggiato il 30esimo compleanno.

Via col Vento. In una intervista al sito MowMag, in occasione del nuovo programma cui parteciperà prossimamente (“Back to School”, condotto da Nicola Savino su Italia 1) Flavia Vento, showgirl ed ex modella, oggi 44enne, ha parlato di Scientology, a cui si è avvicinata. “Non è una setta”, attenzione. È una “cosa che studia la mente”. “Io sto semplicemente facendo delle lezioni. Ho fatto un test di personalità per entrare e devo dire che ci ha preso”. Come è noto la fanciulla ci tiene a raccontare le sue faccende più private. Su quel fronte non ci sono novità: “Sono single da 11 anni. Non solo, pure casta!”. Tuttavia forse avrebbe fatto uno strappettino per il bel Tom Cruise (un amore di Scientology). I due si sono conosciuti, o quasi.“Tom Cruise mi ha scritto su Twitter e io ero certa che fosse lui anche perché mi mandava delle foto. Abbiamo parlato per due mesi. Ma poi ho scoperto che si trattava solo di un profilo fake”. Il silenzio è d’oro (e soprattutto evita figuracce).

 

Vivere di cultura “Sempre meglio di tirare a campare tra Ferrari e Forte dei Marmi”

Il tavolino in piazza del Duomo a Brescia è come un’oasi. È la mia fuga dall’albergo “più elegante” della città dove hanno appena cercato di rifilarmi una stanza senza finestra, me ne hanno data un’altra con davanzale direttamente su mozziconi, cotton fiock e qualche escremento, e wi-fi che non funziona. Via via che la conversazione prosegue mi sembra però un’oasi per una ragione più nobile. Ed è che il mio interlocutore è sicuramente una delle persone più colte e informate che abbia mai conosciuto. Nomina libri, riviste, spettacoli teatrali, film di oggi o da archivio che non ho mai sentito nominare. Racconta di librerie, di associazioni, di festival, di musicisti o intellettuali di cui nulla so, nonostante le mie letture o il mio girovagare nell’Italia dell’impegno civile. Lo ascolto con ammirazione genuina mentre racconta il talento di una cantautrice (Angela Kinczly, il cognome me lo scrive lui), di quel gruppo jazz bresciano o di quello scrittore iraniano. Passa un venditore di libri africano e lui, invece del classico diniego, fa un gesto di interesse: passa in rassegna la mercanzia e compra qualcosa. Credo che compri voracemente tutto ciò che è libri, giornali, cd, biglietti teatrali e cinematografici.

Andrea Pisati è così. Cinquantenne già avvocato e giornalista volontario di “Radio onda d’urto”, oggi tennista (“modesto”, precisa), single consolidato, è personaggio speciale e conosciuto per avere investito la sua piccola eredità in una vita di partecipazione civile, letture, viaggi e consumi culturali. Libero da vincoli professionali può spaziare su ogni ramo dello scibile e lo fa benissimo, suscitando un’invidia inconfessabile nei suoi interlocutori. “C’è un reato oltre l’omicidio doloso per il quale dovrebbe esserci l’ergastolo. Sai qual è?”. Lo guardo e azzardo: “La strage”. “Ma no, non vale. È l’analfabetismo di ritorno. Ma ti rendi conto? Uno ha potuto studiare, è stato mantenuto a scuola dalla collettività e poi butta via tutto. E magari fa il ricco professionista!”.

Andrea si accalora. Vedendo che non lo seguo sulle ultime novità cinematografiche mi chiede sospettoso se per caso non stia diventando un analfabeta di ritorno anch’io. Lo tranquillizzo, è una condizione provvisoria. Lui insiste che la televisione è portatrice di ciance e che bisogna leggere i giornali. “Credo di essere rimasto il solo a Brescia con la mia mazzetta di nove quotidiani (“non solo a Brescia”, gli obietto). Sui quotidiani si trovano molti bei servizi da leggere. Soprattutto negli inserti. Per esempio (mi scruta), lo leggi l’inserto del Foglio?” Gli confesso di no, anche a costo di sembrargli un analfabeta di ritorno. “È bello”, mi spiega. “Nulla a che fare con i loro articoli sulla giustizia. Quando leggo quelli mi arrabbio, anzi al giornalaio ho fatto una richiesta, e con quel che gli do ogni giorno me la sono potuta permettere. Ed è che quando sul Foglio ci sono gli articoli sulla ‘trattativa’ o contro i giudici palermitani, me li tolga via con la forbice e mi dia il giornale senza, bello pulito con i suoi buchi”.

Incredibile e anomalo uomo di cultura. Che ha già in mente il dopo-aperitivo. “Propongo di andare a sentire un concerto di jazz. C’è una bellissima villa privata fuori Brescia, a Castenedolo, dove fanno concerti. Stasera c’è un gruppo molto buono”, me ne fa il nome (mai sentito, ma su questo mi dichiaro analfabeta), cita entusiasta il batterista (Michele Carletti), il sassofonista, mi rimanda agli incroci di biografie. Poi arriviamo che è già buio, al green pass il personale lo riconosce: “Bentornato dottore, è venuto l’altra sera, vero?”. Il concerto è bello e io penso che anche il modo di vivere di Andrea è molto bello. “Meglio che spendere in Suv e Forte dei Marmi” dice lui. Alla faccia del ferrarista che al ritorno ci sfreccia accanto in autostrada.