Tredici anni dopo, sull’altra sponda del Pacifico si replica in scala minore lo tsunami scatenato dai mutui subprime Usa. Anche stavolta la causa è l’immobiliare: Evergrande, secondo operatore della Cina, rischia il default. Ma anche se l’eventuale crac non contagerà i mercati globali, non tutti i suoi rischi sono noti. La gestione di questa crisi è il vero test sulla capacità di Pechino di frenare gli eccessi del suo sistema finanziario da 46 mila miliardi di euro senza danneggiare la propria economia che, a dispetto della pandemia, nel 2020 è cresciuta del 2,3% con un Pil di 12.464 miliardi di euro. Paradossalmente, il tracollo affonda le sue radici negli aiuti contro la crisi del 2008, quando la Cina ha lanciato un piano da 3.400 miliardi per sostenere alcuni settori, tra i quali l’immobiliare. Ne è derivato un boom vertiginoso: il costante calo dei tassi e i crolli delle Borse del 2008 e 2015 hanno spinto i cinesi a puntare sul mattone con i prezzi delle case triplicati a Pechino, Shanghai, Shenzhen e i mutui quadruplicati a 4 mila miliardi.
A fine 2020 le quattro maggiori banche cinesi erano esposte su immobili e ipoteche per 3.374 miliardi, cioè il 30% del Pil, in crescita del 5,7% sul 2019. Per frenare la speculazione, nel 2010 Pechino ha varato restrizioni alle compravendite di case. Non ebbero effetto e furono replicate nel 2017. Da allora, sebbene milioni di abitazioni non trovino acquirenti, i prezzi sono stabili. Ma gli ultimi dati sono pessimi: ad agosto le vendite sono calate del 19,7% sul 2019, i nuovi cantieri del 3,2%, i margini medi degli operatori del 4,6% al 22%. È in questo mare che Evergrande ha sinora veleggiato. Fondata nel 1996 a Guangzhou, quotata a Hong Kong dal 2009, grazie ai debiti è cresciuta sino a un fatturato 2020 di 94 miliardi e un patrimonio di 303 miliardi, oltre 1.300 cantieri aperti, 200 mila dipendenti fissi, 3,8 milioni di assunzioni a termine ogni anno, 1,5 milioni di case già pagate da completare, diversificazione nelle auto elettriche, calcio, assicurazioni, acque minerali. In sei mesi ha ridotto il debito sui bond del 20%, ma la sua esposizione a giugno era cresciuta a 267 miliardi, il 2% del Pil cinese. Deve 76 miliardi alle banche, 88 ai fornitori, oltre 96 ai risparmiatori che hanno acquistato i suoi prodotti di risparmio gestito, i cui mancati rimborsi hanno scatenato furiose proteste sotto il suo quartier generale. Già un anno fa un leak svelò che aveva chiesto aiuto al governo contro la crisi di liquidità. A giugno non ha rimborsato alcuni commercial paper, titoli a brevissimo termine, innescando un sell-off (svendite) e la reazione dei regolatori che hanno obbligato gli operatori del settore a svelare la loro esposizione. A luglio i timori per la sua crisi hanno fatto crollare gli indici dei bond cinesi high yield (alto rischio, alto rendimento). Il 20 settembre il gruppo dovrà pagare cedole per 72 milioni, ma ha già avvisato che non le onorerà. Così S&P, Fitch e Moody hanno declassato i suoi bond a junk, “spazzatura” e l’azienda ne ha chiesto la sospensione. Le sue azioni sono crollate e la Borsa di Hong Kong è ai minimi da 10 mesi.
Non teme un suo default Didier Sornette, professore di Risk management e direttore dell’Osservatorio sulle crisi finanziarie al Politecnico federale di Zurigo. “Questa situazione – spiega – non impatterà pesantemente sul Pil cinese e lo choc ha basse probabilità di trasmettersi sui mercati globali, perché gli stranieri non sono fortemente esposti a questi rischi di leva finanziaria. Pechino può mitigarne il danno con un fallimento pilotato”, conclude Sornette. Ma lo spillover è sempre in agguato. Nel 2008 il contagio fu veicolato sui mercati dalle cartolarizzazioni dei mutui, ma queste in Cina hanno raccolto solo 200 miliardi nell’ultimo triennio e pesano meno del 2% dei bond locali. I debiti di Evergrande nei commercial paper non sono del tutto noti. Le immobiliari cinesi sono i principali emittenti di questi titoli che nel 2020 valevano 475 miliardi (+20% sul 2019). Già nel suo rapporto 2018 sulla stabilità finanziaria la Banca centrale cinese aveva inserito gli operatori immobiliari tra i rischi sistemici. A maggio scorso anche la Fed ha segnalato i commercial paper tra i pericoli per la liquidità. Anche in finanza i virus mutano.