Sembrava che la morte di Samuele, il bambino di 3 anni precipitato l’altro giorno da un balcone del terzo piano a Napoli, fosse solo un tragico incidente. Ieri, invece, la Polizia ha messo in stato di fermo un uomo di 38 anni, Mariano Cannio, ritenuto gravemente indiziato per l’omicidio volontario del piccolo. L’uomo fermato è un collaboratore domestico della famiglia di Samuele, molto conosciuto nella zona, che lavora anche per altre famiglie del quartiere. Interrogato dagli inquirenti, il 38enne ha ammesso che si trovava su quel balcone e di aver preso in braccio Samuele, negando però di averlo voluto buttare giù di proposito. L’uomo ha poi affermato di soffrire di disturbi della psiche e di non saper spiegare come sia precipitato il bambino, negando ogni ipotesi dolosa. E proprio sull’ipotesi dolosa o meno del gesto si giocherà l’udienza per la convalida del fermo, in programma per domani. Al momento dell’accaduto la madre di Samuele si era allontanata dalla stanza del figlio e Cannio era intento a sbrigare le faccende domestiche.
Calabria, pentito: “Volevano uccidere il figlio di Gratteri e bloccargli la nomina a ministro”
Uccidere il figlio di Gratteri affinché il procuratore di Catanzaro non accettasse la proposta di fare il ministro della Giustizia del governo Renzi. Antonio Cataldo ha trascorso molti anni in carcere. Altri 8 li dovrà scontare se la Corte d’Appello e la Cassazione confermeranno la sentenza del Tribunale di Locri che lo ha condannato nel processo “Mandamento Jonico”. Non è un boss, per un periodo è stato anche confidente dei carabinieri. Ma è uno che sa tante cose sulla ‘ndrangheta per averla vissuta dall’interno. Adesso ha deciso di collaborare con la Dda di Reggio Calabria guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo.
La notizia è stata pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Antonio Cataldo è il primo pentito della famiglia mafiosa protagonista della faida con i Cordì che insanguinò Locri negli anni 90. Sta riempendo fiumi di verbali con il sostituto della Dda Giovanni Calamita. Due di questi sono stati depositati in un processo: 57 anni di ‘ndrangheta buona parte trascorsi dietro le sbarre dove è stato sempre in contatto con la sua cosca e con esponenti degli altri clan. Mentre era detenuto, Cataldo ha appreso del progetto di attentato al figlio del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Un agguato previsto nello stesso periodo in cui il magistrato era tra i papabili per la nomina a guardasigilli. Gliene parlò in carcere Guido Brusaferri, esponente di spicco della cosca Cordì: “Nel 2013 – ha fatto mettere a verbale Cataldo – eravamo detenuti insieme al carcere di Reggio Calabria ed abbiamo parlato di argomenti di ‘ndrangheta: lui, ad esempio, mi ha raccontato del progetto di compiere un attentato al figlio del dottore Gratteri che in quel momento era stato proposto come ministro della Giustizia. Nel 2013 l’unico argomento associativo di cui ho parlato con Brusaferri è il proposito di attentato al figlio del dottore Gratteri”. La ‘ndrangheta aveva paura della rivoluzione che il pm avrebbe potuto compiere da ministro. Per questo serviva un messaggio: “Tra noi detenuti, in particolare quelli di Locri, c’era allarme per questa sua nomina: temevamo leggi più ferree e Brusaferri mi tranquillizzò dicendo ‘tanto tra poco sistemano il figlio’”. Davanti al pm Calamita, il pentito è esplicito sulle modalità: “Non volevano spararlo. Lo avrebbero investito con una macchina”. L’attentato non ci fu. La ‘ndrangheta si fermò dopo che la politica bloccò la nomina.
Zedda: “Chiarisca in fretta o si dimetta”
“Il presidente Solinas ha l’obbligo di rispondere alle accuse del Fatto”. Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari e leader del centrosinistra sardo, evoca le dimissioni del governatore: “Magari ha bisogno di qualche giorno per consultare avvocati e notai, ma deve assolutamente chiarire le accuse molto serie che sono state mosse da un quotidiano nazionale. Entro 10 giorni formuleremo un’interrogazione con le domande poste dal vostro giornale. Entro 20 giorni, se non avrà chiarito, lo inviteremo a dimettersi”.
Qual è l’aspetto più imbarazzante per il governatore?
Sorprende la sua capacità di attrarre benefattori. C’è il primo grande affare del 2013 – lo avete scritto oggi (ieri, ndr) – quando era assessore regionale ai Trasporti: vende terreni a un imprenditore per un preliminare da 200 mila euro, ma l’atto non viene perfezionato (se ne deduce che si è tenuto sia i terreni che i soldi). Poi dopo anni, Solinas trova un altro smemorato che gli versa altri 200 mila euro per dei ruderi, immobili vincolati (uno credo sia una chiesetta campestre) e di nuovo si dimenticano di registrare l’atto…
“Benefattori” che fanno affari con la Regione.
Sì, titolari di aziende che operano con affidamenti diretti e bandi pubblici. A voler essere timidi, si tratta di comportamenti clamorosamente inopportuni. È altrettanto inopportuno che per il suo mutuo personale, da 880 mila euro, il presidente si sia rivolto al Banco di Sardegna, che di fatto è la tesoreria della Regione che lui governa. Ora l’unica cosa che può fare è rispondere, per evitare che l’imbarazzo per le sue iniziative personali ricada sull’istituzione che rappresenta, la Sardegna.
Non è la prima volta che finisce nei guai.
La scorsa estate ci fu la vicenda delle discoteche, Solinas sosteneva di avere un parere del Cts favorevole alla riapertura, ma quel parere non esisteva. Negli Stati Uniti, che sono un po’ più grandi della Sardegna, quando il presidente mente ai suoi elettori viene messo sotto impeachment.
Solinas sembra avere una soglia dell’imbarazzo elevata.
Ha anche altri pensieri: sta studiando per il concorso da giudice del Tar. E a quanto mi è stato riferito, ha anche superato l’esame per ottenere la patente nautica. Poi compra e vende immobili: quanto tempo gli rimane per la Regione? La Sardegna è l’unica in Italia che non ha ancora attivato la cabina di regia sul Pnrrr. Ma consoliamoci: per passare il concorso al Tar, Solinas può appoggiarsi alle figure che lui stesso ha nominato nei suoi uffici: un magistrato del Tar (Francesco Scano, segretario generale della Regione, ndr), un avvocato amministrativista (Silvia Curto, direttore generale della presidenza, ndr) e, un giudice del Consiglio di Stato (Maria Grazia Vivarelli, capo di gabinetto, ndr). Almeno può fare ripetizioni in sede.
Cagliari, ecco l’inchiesta sulla megavilla di Solinas
Un enorme faro. È quello acceso a giugno dalla Procura di Cagliari sulla nuova villa – 543 mq, 4 piani, 20 vani, più giardino in una zona residenziale di Cagliari – acquistata dal presidente della Regione, Christian Solinas, il 10 marzo 2021 per 1,1 milioni di euro. Da prima dell’estate il sostituto procuratore Maria Virginia Boi ha aperto un fascicolo conoscitivo, un modello 45, senza indagati, su quella operazione. I magistrati stanno raccogliendo elementi su una palazzina di tre piani di nuova costruzione che sta sorgendo su un terreno originariamente appartenente alla villa stessa. In passato, infatti, il lotto dove si sta edificando era una porzione di giardino della villa e ospitava la piscina.
Il problema è che la nuova casa di Solinas e la nuova palazzina sorgono in un’area sottoposta a vincoli ambientali. Sono infatti situate a meno di 150 metri dal “Parco naturale del Molentargius-Saline”, l’area umida più importante del Mediterraneo per la nidificazione dei fenicotteri. E in molti – a iniziare dagli ambientalisti del Gruppo di intervento giuridico della Sardegna – si sono chiesti come sia stato possibile che i costruttori abbiano ottenuto i permessi per l’edificazione del nuovo complesso. Interrogativi che si sono trasformati in numerosi esposti (molti dei quali anonimi) giunti in Procura. Da qui l’apertura del fascicolo conoscitivo. Neanche le rivelazioni del Fatto circa gli investimenti risalenti al 2013 e al 2020 con i “rogiti spariti” (e con le relative caparre per complessivi 400 mila euro) che stanno a monte dell’acquisto della villa da parte di Solinas dalla famiglia Ciani (possibile grazie anche a un mutuo da 880 mila euro concesso al presidente dal Banco di Sardegna), sono passate inosservate.
In estrema sintesi, il 2 dicembre 2020 Solinas versa alla famiglia allora proprietaria della villa una caparra da 100 mila euro, sottoscrivendo il contratto preliminare, mentre firma il rogito finale per la casa il 10 marzo 2021, versando il restante milione. A destare l’attenzione degli inquirenti, in particolare, è l’operazione datata 4 novembre 2020, un mese prima della firma del preliminare di acquisto della villa, quando Solinas sigla un altro preliminare, col quale s’impegnava a vendere per 550 mila euro dei rustici in località Santa Barbara che aveva comprato nel 2002 a 42 mila euro.
Ad acquistare i rustici è l’imprenditore, fornitore della Regione, Roberto Zedda, che versa una caparra da 200 mila euro, impegnandosi a versarne ulteriori 50 mila entro 10 giorni. Zedda accetta anche di firmare il rogito finale entro il 30 giugno 2021. Rogito che nei documenti dell’Agenzia delle Entrate però non compare. Impossibile sapere se per un errore di trascrizione dell’agenzia, oppure se perché non è mai stato firmato. Né Solinas né Zedda hanno ritenuto necessario dare spiegazioni. Così come non hanno voluto svelare che fine abbiano fatto i 200 mila euro della caparra.
Ma c’è anche una seconda operazione – gemella – risalente al 30 maggio 2013 che avrebbe “stuzzicato” la curiosità dei pm: un’altra compravendita immobiliare, ma di terreni agricoli nel comune di Capocaccia. In quell’occasione Solinas, appena dimessosi da assessore regionale ai Trasporti, aveva siglato un preliminare di vendita per 40.350 mq di terreno a favore dell’imprenditore dei trasporti Antonello Pinna, per 400 mila euro. Anche in quel caso l’acquirente (Pinna) aveva versato una caparra da 200 mila euro a Solinas e si era fissato il rogito entro il 30 maggio 2014. Ma anche di quell’operazione nei documenti dell’Agenzia delle Entrate non v’è traccia. E anche per questa compravendita i protagonisti si sono rifiutati di dare spiegazioni.
Emilio che difende i migranti: un “criminale internazionale”
È davvero un concentrato unico di generosità e testardaggine montagnina, la Val di Susa. Dove una comunità popolare forgiatasi nella Resistenza antifascista, rigenerata dalla decennale vertenza contro un’Alta Velocità inutile e nociva, non ha voluto disertare neppure l’impegno del sostegno logistico ai migranti che tentano di espatriare in Francia. Ne hanno viste di tutti i colori, lassù, additati come il covo della sovversione italiana, ma certo non si aspettavano venisse raggiunto da mandato di cattura internazionale uno dei personaggi più conosciuti e amati della valle: Emilio Scalzo, 66 anni vissuti intensamente fra la Sicilia delle origini e le vette alpine piemontesi.
La Francia ne chiede l’estradizione accusandolo di aver partecipato a scontri con la Gendarmerie alla frontiera di Claviere, durante una protesta contro la vera e propria caccia ai migranti dispiegata oltre confine. Mercoledì scorso tre auto dei carabinieri si sono appostate a Bussoleno per catturarlo appena uscito di casa, quasi si trattasse di un elemento pericoloso. Forse perché intimorite dalla fama di atleta che contraddistingue questo gigante buono, portiere di calcio e pugile dilettante, di mestiere pescivendolo e per vocazione militante No Tav. Di certo ignoravano la sua storia di vita raccontata da Chiara Sasso nel bel libro A testa alta (Intra Moenia), l’impegno a non lasciarsi risucchiare nella malavita com’è successo ad alcuni dei suoi otto fratelli, senza però mai abbandonarli. In carcere prima di lui era finita a 73 anni Nicoletta Dosio, autrice della post-fazione del volume. Per fare l’en plein mancherebbe solo che arrestino pure il magistrato Livio Pepino, già membro del Csm, oggi impegnato nel Gruppo Abele, che firma la prefazione del volume.
Fatto sta che Emilio Scalzo attende rinchiuso in cella alle Vallette di Torino l’udienza di mercoledì 29 settembre in cui una Corte d’Appello esaminerà la richiesta di estradizione avanzata da Parigi. Per scongiurarla, i difensori faranno presente che a ottobre Scalzo dovrà rispondere di fronte alla giustizia italiana di alcuni reati minori, come il taglio delle reti di un cantiere Tav. Così funziona da queste parti: si ritrovano in veste di pregiudicati insegnanti, negozianti, contadini che non mollano la presa.
I compaesani di Emilio Scalzo stasera daranno vita a una fiaccolata a Bussoleno. Loro ricordano la volta in cui tornò a casa scalzo perché aveva regalato le scarpe a un migrante che doveva traversare i boschi innevati d’inverno. Mal sopportano l’ipocrisia di un’opinione pubblica che si commuove per il dramma degli afghani in cerca di salvezza, ma ignora la sorte dei due afghani precipitati giovedì scorso nel lago artificiale di Rochemolles mentre tentavano l’espatrio. Sono sbalorditi dall’idea che il mandato di cattura internazionale possa applicarsi a un reato minore come quello di cui viene accusato Emilio, un uomo di cui possono testimoniare l’altruismo e il tragitto di vita, sempre insidiato dalla prossimità del male, ma sempre rivolto al bene.
“Fango”. E poi pubblicano i nomi
Quotidiano “Libero”, edizione di ieri. Titolo in prima pagina: “Fango nel ventilatore. Tutti nomi eccellenti nella loggia dei veleni”. Il direttore Alessandro Sallusti spiega perché, secondo lui, Il Fatto avrebbe deciso di pubblicare solo adesso i verbali di Amara: sostiene che “ognuno tiene famiglia” ed è partita una “faida tra famiglie rivali”. Boh. Questa, scrive, è “la migliore delle ipotesi”. Ed evidentemente – visto che non la menziona – non contempla l’ipotesi peggiore: c’è un giornale libero di decidere cosa e quando pubblicare.
Quindi, con coerenza, accende il ventilatore installato nella sua redazione e a pagina 2 ripubblica le nostre notizie. Boh. Quindi, sempre con coerenza, nella pagina accanto – augurandogli che il ventilatore non spirasse nella sua pregevole direzione – Filippo Facci spiega che i “passacarte” del Fatto “hanno messo nel ventilatore la peggior merda possibile…”. Boh. Diciamolo: l’unica certezza è che ieri a Libero tra tutta ‘sta merda e ‘sti ventilatori accesi doveva tirare un’aria pessima.
Clima teso al Riformista. Il direttore Piero Sansonetti, dopo aver letto Il Fatto, ha dovuto riposizionare sulla sua scrivania i carrarmatini delle Procure blu contro quelli delle Procure verdi, aggiornando le sue note cronache dalla “guerra civile” in corso, menzionata nel suo editoriale, dove spiega che Piercamillo Davigo in questo momento è in vantaggio contro l’ex collega Francesco Greco (pare gli abbia tolto la Kamchatka) perché dispone di un “bazooka”(Il Fatto) che pubblica i verbali di Amara. Poi li ricopia e li pubblica pure lui. Quindi spiega la strategia in atto nella sanguinosa “guerra civile”. E davvero duole doverla semplificare in poche righe. In sostanza Il Fatto è guidato da Piercamillo Davigo. Ordunque il nostro quotidiano, dopo aver scelto per 11 mesi di non pubblicare gli atti (come scoperto poi, lasciati in ufficio da Davigo e trovati in possesso della sua ex segretaria, quella del Csm e non del Fatto!) decide di pubblicarli. Perché? Perché ora l’ha deciso Davigo (vuole togliere per vendetta la Kamchatka a Greco). Ma “Travaglio non scrive” per “tenersi fuori dalla guerra di Davigo”. A ‘sto punto, ieri, al Fatto, abbiamo chiesto al direttore (Davigo, non Travaglio) se per favore, volendo che pubblichiamo qualcosa, la prossima volta ce lo dice prima di fare tutto ‘sto casino. Anche per Sansonetti, che poverino non ce la fa più: e s’incazza se non scriviamo, e s’incazza se scriviamo, e s’incazza se non pubblica le nostre notizie, e s’incazza se le pubblica, s’incazza sempre e quando s’incazza gli volano i carrarmatini e i bazooka e in redazione sono preoccupati.
“Io e Severino ci spartimmo gli incarichi dentro all’Eni”
Continuiamo la pubblicazione di alcuni stralci – selezionati in ordine cronologico e per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi dinanzi ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Amara è l’unico indagato tra i nomi che leggerete e la sua versione (che ha già provocato da due giorni l’annuncio di decine di denunce per calunnia) è tuttora al vaglio dei magistrati inquirenti.
14 dicembre 2019
Amara: “Tornando ad una narrazione cronologica del mio rapporto con l’associazione Ungheria indico il 2014 come un anno cruciale. Intanto io mi ero da poco trasferito a Roma dove ho avuto modo di scoprire che le relazioni dell’associazione Ungheria avevano dimensioni ben più ampie di quelle che fino a quel momento avevo conosciuto. In quell’anno ci furono tre fatti per me rilevanti. Era in corso (tra gennaio e giugno) la vicenda relativa al procedimento disciplinare nei confronti di Maurizio Musco. Ho già riferito che ci tenevo moltissimo che il provvedimento cautelare adottato in sede disciplinare nei confronti di Musco fosse revocato. A tal fine mi spesi moltissimo con Vietti(Michele, ex vicepresidente del Csm, ndr) il quale mi garantì il buon esito del procedimento, dicendomi che in Commissione disciplinare se ne sarebbe occupato Annibale Marini, associato in Ungheria e da me personalmente conosciuto in questa occasione. In quello stesso periodo mi adoperavo per la nomina ad amministratore delegato di Eni di Descalzi (Claudio, ndr) che venne effettivamente nominato insieme a Emma Marcegaglia come presidente. Come ho già riferito, la Marcegaglia era molto vicina a Paola Severino e la Severino voleva che Musco (che aveva indagato su una società della Marcegaglia) fosse trasferito. Mi trovai nella condizione di dover abbandonare Musco su richiesta di Vietti il quale mi disse che la Severino aderiva anche lei all’associazione Ungheria. Fu questo uno dei casi in cui l’interesse dell’associazione prevalse sul mio rapporto personale con Musco. A seguito delle tensioni con la Severino e della nomina della Marcegaglia come presidente dell’Eni ebbi il timore di poter essere estromesso dagli incarichi che avevo ricevuto da Eni. Fu in quel periodo che chiesi a Granata(Claudio, dirigente Eni, ndr) garanzie e lui mi disse di non preoccuparmi, che avremmo trovato una soluzione. La soluzione fu quella che vi ho descritto e cioè la spartizione degli incarichi più importanti in Eni tra me e la Severino. Nello stesso anno a ottobre ho saputo da Vietti che Denis Verdini era un associato di Ungheria e mi sono manifestato a lui. Fino a quel momento i nostri rapporti erano stati mediati da Saverio Romano, politico siciliano”.
15 dicembre 2019
Come ho riferito ho saputo dell’appartenenza di Armanna(Vincenzo, ex dirigente Eni, ndr) ad Ungheria da Luigi Bisignani. Bisignani me ne parlò nel 2016 quando Armanna era già ‘gestito’ dall’Eni. All’epoca Bisignani stava valutando la possibilità di chiedere il rito abbreviato nel procedimento cosiddetto Nigeria. Parlammo di Armanna, io gli dissi che ormai era gestito dall’Eni e che sarebbe saltata l’ipotesi della corruzione internazionale perché Armanna avrebbe negato l’esistenza di pubblici ufficiali stranieri. Bisignani mi disse allora che Armanna aveva fatto parte dell’associazione Ungheria ma che era stato posato già nel 2015, in quanto ritenuto non controllabile e in questo senso inaffidabile. Mi disse che la ragione per la quale Armanna era stato posato era riconducibile al comportamento che aveva tenuto sia nella vicenda Eni che in altre vicende che riguardavano i suoi rapporti con Bisignani. Mi invitò pertanto a fare attenzione. Non ho condiviso con Armanna alcuna operazione di Ungheria. Non ho rivelato ad Armanna la mia appartenenza ad Ungheria, almeno così ricordo. Ho raccontato certamente ad Armanna le attività che stavo compiendo al Csm per ostacolare l’attività della Procura di Milano (candidatura di Amato a Procuratore di Milano ed esposto nei confronti di De Pasquale). Armanna mi ha riferito di far parte di una associazione che ritengo fosse Ungheria o per lo meno era in parte sovrapponibile a questa. Mi riferisco in particolare a rapporti con servizi segreti italiani di cui lui mi ha parlato e che – per quanto a mia conoscenza – sono riconducibili al contesto di Ungheria. In ogni caso non mi ha mai detto esplicitamente di far parte di questa associazione”.
(…)
Domanda del pm: Alberta Casellati, membro laico del Csm, non faceva parte di Ungheria?
Amara: “No, né era sotto il controllo di persone a me note. È sempre stata disponibile al dialogo ma indipendente nelle decisioni. È bene che precisi che fino all’estate del 2016 mi sono mosso con una certa libertà e ho frequentato senza particolari cautele i membri dell’associazione Ungheria. Ad agosto 2016 l’avv. Calafiore(Giuseppe, avvocato, ndr) è stato informato dal senatore Riccardo Conti di Ala che la Gdf ci teneva sotto controllo con intercettazioni, cimici e ocp. Da quel momento ho adottato una serie di cautele ed ho evitato di incontrare direttamente gli associati. Per esempio pur essendo stato invitato all’evento che annualmente Michele Vietti organizza tra molte persone e al quale partecipavano molti degli associati, dopo l’agosto 2016 non vi ho più partecipato. Mi riservo di produrvi copie delle mail di invito agli eventi”.
I No Green pass ora ci provano con il referendum
Boom. La prima giornata è iniziata col botto, a sentire quelli del comitato promotore. Che non se l’aspettavano e invece, ecco qua: il sito è andato in palla per sovraccarico di accessi, 5-600 mila utenti collegati per vedere se è davvero possibile con un clic spazzare via il green pass sottoscrivendo il referendum per abolirlo. Ma ciò che più impressiona Olga Milanese, avvocato a Salerno e coordinatrice della campagna di raccolta firme, sono state le richieste di collaborazione: diecimila persone circa si sono messe a disposizione per la causa. Che dunque pare promettere bene anche se il tempo è poco e quindi oltre ai tradizionali banchetti si spera di raccogliere il grosso delle firme che servono, 500 mila, attraverso la procedura telematica.
“Ci vogliono cinque minuti per scaricare il documento informatico e apporre la firma digitale”, dice l’avvocato Milanese per niente spaventata che qualcuno, tipo Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia o Matteo Salvini contrari al certificato verde, finisca per mettere il cappello sull’iniziativa. Anzi, magari: la raccolta firme pare giusto l’occasione per capire chi fa sul serio e chi sbraita soltanto. “Chi è davvero contro il green pass si attivi per raggiungere lo scopo. La nostra è un’iniziativa spontanea, di popolo. Non abbiamo dietro nessuno. Speriamo che ci sia una risposta positiva e che soprattutto la politica inizi ad ascoltare i cittadini”.
Per ora però nessun contatto tra il comitato promotore del referendum per dire no al green pass e la politica. Pure oggi in piazza: la Meloni a Roma per dire che il certificato “è arma di distrazione per non parlare delle cose non fatte per mettere in sicurezza l’Italia”. Ma lei è all’opposizione. Che dice Matteo Salvini che invece è maggioranza? Dichiarazioni di lotta e di governo. “Non puoi chiedere il green pass per andare a bere il caffè in piazza a Nerviano e poi far sbarcare 40 mila immigrati senza muovere un dito, senza regole e senza limiti” dice nel Milanese salvo poi aggiungere: “non ci sono state frizioni con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sull’estensione del green pass, ma sarà la storia a dire se questo green pass serviva o no. Io aspetto e non commento”. Darà una mano sul referendum per abolirlo? Improbabile.
Ma intanto la raccolta firme è stata avviata e al comitato promotore c’è ottimismo. Carlo Freccero che ne fa parte è carico a pallettoni: “L’ultima volta che mi sono interessato di politica è stato cinque anni fa durante il dibattito per la riforma della Costituzione, voluta fortemente da Renzi. Fu un’esperienza positiva e per molti versi entusiasmante . La nostra Costituzione era sotto attacco da parte delle élite economiche internazionali”. Che a sentir lui, ci provano sempre a metterla fuori gioco la Costituzione. “Il movimento che si sta formando contro il green pass ha preso la mossa dai ricatti subiti dai cittadini sui luoghi di lavoro. Si tratta di violazioni gravissime dell’articolo 3 che vieta ogni discriminazione. Perché di fronte a questo provvedimento non c’è la stessa reazione di allora? La tv e i giornali sono impegnati in un massiccio sforzo di propaganda basata sulla paura: è bastato trasferire l’attenzione su questo per ottenere quel consenso che sul piano politico non era possibile conseguire”. Insomma tra la paura della morte e la Costituzione non c’è partita. Freccero è incontenibile e s’accora, il discorso inevitabilmente si allarga. Fortuna vuole che non guardi le agenzie: c’è Renzi che parla proprio dei referendum, restituiti a nuova vita grazie alla firma digitale: “È una svolta politica importante foriera di elementi positivi ma anche negativi. Non deve passare il principio del referendum sul green pass ad esempio o che tutto passi fuori dal Parlamento. Mettere fuori i partiti dalle grandi decisioni della politica significa che il maitre à penser diventa Fedez”.
La grancassa di Figliuolo: “Prenotazioni vaccini +40%”
“Abbiamo circa 1.500 medici ancora non vaccinati. Ma non sono tutti dei no vax, attenzione. Almeno un 30% si è già prenotato per ricevere la vaccinazione. La quota di no vax ‘duri e puri’ esiste ma è residua, lo 0,1-0,2%. E l’assurdo è che non riusciamo a radiarli, neanche quelli che fanno propaganda contro i vaccini”. Così Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), in un’intervista all’Huffington Post. “Noi molti di questi medici proviamo anche a radiarli, ma fanno ricorso e la sanzione si sospende, non diventa mai effettiva”, spiega Anelli. Sui ricorsi decide infatti la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, istituita al ministero della Salute. La nomina il governo. “Ma è scaduta nel 2020 – sottolinea Anelli – abbiamo provato a far pressioni interpellando sia Speranza che Cartabia”. Intanto ieri sera il generale Figliuolo ha suonato la grancassa. Dopo l’estensione dell’obbligo del Green pass “a livello nazionale – ha detto – si è verificato un incremento generalizzato delle prenotazioni di prime dosi tra il 20% e il 40% rispetto alla scorsa settimana. Inoltre, oggi (ieri, ndr), si è riscontrato un aumento del 35% di prime dosi rispetto alla stessa ora di sabato scorso”. Bisogna aspettare, ha precisato Figliuolo, per capire se il dato si consoliderà “in modo strutturale”, ma intanto “a oggi 40 milioni 850.892 cittadini hanno completato il ciclo vaccinale, pari al 75,64% della platea di over 12”.
Nel frattempo anche ieri manifestazioni no vax a Roma, Milano e in altre città, centinaia di persone nelle piazze per lo più gestite dall’estrema destra e nessun incidente di rilievo.
I “migliori” non bastano: dad e prof che mancano
Prima settimana dall’inizio della scuola. I nodi irrisolti ci sono come sempre e risolverli potrebbe non essere così semplice. Al punto che, ormai è mantra, tutto è affidato al vaccino, perdendo (e avendo perso) di fatto più di una occasione di migliorare una volta per tutte.
Dad. Le parole del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi sono rimaste lettera morta. Quel “mai più dad” si è rivelato nei fatti una promessa impossibile da realizzare. In una settimana di scuola si contano già migliaia di alunni costretti a restare a casa a far lezione per dei casi di positività registrati in classe. Al di là di alcuni istituti superiori che hanno dovuto organizzare le lezioni online almeno una volta la settimana (“Tosi” di Busto Arsizio; “Don Milani” di Tradate; “Pascoli” di Este; “Telese” di Ischia; “Dolci” di Palermo e tanti altri) per mancanza di spazi, decine di dirigenti sono stati invece costretti a mandare le classi in quarantena per la presenza di un contagiato. In Alto Adige 35 classi non sono più in presenza. A Milano è scattata la dad per 37 classi, circa un migliaio di ragazzi, e in Brianza dieci sezioni dell’infanzia sono state chiuse. Nel capoluogo piemontese diciassette classi, ovvero 380 bambini e ragazzi, hanno dovuto abbandonare i banchi mentre a Canelli, in provincia di Asti, alla scuola dell’infanzia “Cristo Re” la preside ha deciso di chiudere tutta la scuola e cinquanta bimbi sono tornati da mamma e papà. Una sezione della prima media di Vignola (Modena) ha smesso quasi subito le lezioni in presenza. Sempre in Emilia Romagna, due casi in provincia di Ferrara che coinvolgono una classe delle elementari e una sezione della scuola dell’infanzia e cinque sezioni nel piacentino (80 studenti). Anche a Bologna sei scuole hanno dovuto fare i conti con il ritorno alle lezioni al computer: si tratta di tre primarie, una scuola media, un’infanzia e anche un nido. A Roma sono già qualche centinaio le classi in quarantena. Nella lista nera spuntano anche 43 ragazzi di Salerno in dad e nove classi in Abruzzo per un totale di 143 alunni. Un caso si è registrato anche in una primaria a Ussana, in Sardegna.
I prof in classe. Altro nodo rimasto legato al pettine di Bianchi è il tema del personale docente e Ata. Il numero uno di viale Trastevere aveva annunciato tutti i docenti in aula dal suono della prima campanella ma non è stato così. Basta andare in qualsiasi scuola della Penisola per vedere che mancano gli insegnanti di sostegno e in molti casi anche i supplenti annuali. Qualche esempio. In una scuola di Venezia – racconta Vania Oranti – mancano sette docenti per i ragazzi in difficoltà; al comprensivo di Lugagnano (Verona) non sono ancora arrivati tre maestri di sostegno alla primaria; all’indirizzo geometri del “Pacioli” di Crema almeno il 50% dei professori non è ancora in cattedra. Così alla primaria “Nievo” a Varmo (Udine): “Mancano – dice la maestra Liviana Toneguzzo – due docenti di sostegno oltre a una cattedra e mezza di potenziamento. Dobbiamo cercare di assicurare ogni giorno le coperture tra di noi ma non è sempre facile”. Dopo le 60 mila assunzioni e 150 mila nomine, tra deroghe su sostegno e supplenze, di fatto ora tocca alle graduatorie di istituto. Anche se in Lazio ci si è ritrovati con circa duemila posti vacanti a causa di chi si è spostato per assegnazioni provvisorie o rinunce: tutti posti da dover riassegnare.
Supplenze.Intanto in molte realtà è ancora caos per le nomine dei supplenti. Un po’ ovunque ci sono segnalazioni di errori per un malfunzionamento dell’algoritmo che le assegna. Sono da verificare ed eventualmente rettificare: tempo che si perde ma anche rischio di ricorsi.
Green Pass. A mandare in tilt la ripartenza è pure la questione green pass con diversi casi di docenti, bidelli e persino una preside che non hanno fatto né vaccino né tampone. A Dolo (Venezia) la dirigente del commerciale “Lazzari”, Barbara Paggetti, è stata sospesa fino al 31 dicembre mentre al “Ruffini” di Imperia una collaboratrice scolastica è entrata a scuola senza passaporto vaccinale per tre giorni consecutivi prendendo 400 euro di multa e un decreto di allontanamento. Non è mancato chi ha segnalato delle anomalie sulla piattaforma con green pass che magari risultavano verdi alle 8 per diventare rossi alle 12.
Presidi. Ne mancano circa mille su 7.800 secondo Attilio Fratta, presidente di Dirigentiscuola, sindacato di categoria. “Nonostante le promesse fatte dal ministero su organici, mobilità e affidamento dei nuovi incarichi – ha detto – nulla è accaduto e l’anno scolastico è iniziato, sotto questo aspetto, nel peggiore dei modi”.
Classi pollaio. Trincerarsi dietro le percentuali stabilite per legge è nascondersi dietro un dito. La verità è che non c’è stata la volontà di far tesoro delle classi diluite lo scorso anno. Risultato: classi di 30 o più alunni (ad esempio a Modica o in molte scuole di Roma) e fusione delle sezioni precedentemente smembrate. Il personale Covid è stato confermato fino al termine dell’emergenza, ma non può tenere una intera classe. Potenziamento, ma a brevissimo termine. E il distanziamento? Si può derogare.
Trasporti. Irrisolto pure il nodo dei trasporti. Il ministro competente Giovannini, che domani incontrerà i sindacati, ha detto che “l’impressione complessiva” è che ci siano state criticità “specifiche ma non sistemiche, soprattutto nelle grandi città”. Lo considera “un passo avanti notevole rispetto all’anno scorso” ma in realtà appare come il maggiore fallimento dal momento che nelle piccole città e nei borghi il problema dei trasporti è sempre stato di minore portata e risolto più velocemente.
Banchi a rotelle. L’ultimo aspetto, invece, è squisitamente politico: il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, in questa settimana, ha avuto la brillante idea di parlare di quei banchi a rotelle che per gran parte dello scorso anno sembravano essere – nonostante la quantità e l’incidenza minima che hanno avuto sul totale degli arredi scolastici rinnovati – più importanti della stessa pandemia: “Per me è una cartolina del passato” ha detto. Eppure i banchi erano solo una delle scelte che potevano fare le scuole e sin dall’inizio era stato specificato che potevano essere una occasione per chi avesse intenzione di introdurre un tipo di didattica innovativa.