Francesca Bria verso il Campidoglio? La voce che gira, ovvero che in caso di vittoria a Roma di Roberto Gualtieri l’attuale consigliera Rai possa prendere il volo verso il Comune addirittura come vice sindaca, non è peregrina. Ma bisogna fare un passo indietro e partire dal malcontento nel partito di Enrico Letta nei suoi confronti. Lo scorso luglio Bria (che continua a essere presidente del fondo innovazione di Cdp) è stata eletta alla Camera come consigliera Rai in quota Pd. Il suo nome era molto caldeggiato da Andrea Orlando, che alla fine è riuscito a convincere il segretario nonostante l’avversità di un pezzo del partito. Dopo un lungo braccio di ferro con altri candidati, Bria l’ha spuntata. Di lei, però, sono ancora in tanti a lamentarsi. “Parla solo con Orlando. A noi nemmeno risponde al telefono…”, dicono i dem. Il fatto che Bria si tenga lontano dalla politica sarebbe anche un segno di autonomia e indipendenza, ma nel Pd il malcontento cresce. “L’abbiamo votata noi, almeno ascolti le nostre istanze e poi decida in autonomia. Sui temi caldi della Rai non interviene mai…”, dicono altre voci del Pd. In questi giorni di polemiche per le nomine tutte al maschile di Carlo Fuortes, dalla Bria nemmeno un fiato. Partecipa ai Cda, ma a Viale Mazzini si vede poco. Così a qualcuno al Nazareno è venuta la brillante idea: spediamola in Campidoglio e in Rai mettiamo qualcun altro. Bria è balzata agli onori delle cronache per il suo ruolo di assessore all’Innovazione tecnologica a Barcellona (2016-2019). E il 2 settembre scorso, quando la sindaca della città catalana Ada Calau ha partecipato a un’iniziativa con Gualtieri, Bria era con loro. Da lì la voce ha iniziato a girare. Però non è così semplice: poi a Montecitorio si dovrebbe votare un altro consigliere Rai. Un passaggio per niente facile e pieno d’insidie, specie con l’aria che tira tra le forze di governo. Così è probabile che tutto resti com’è. Coi dem che reclamano “più attenzione” da parte della consigliera.
“Mandato a termine? Sarebbe gravemente incostituzionale”
Raggiungiamo Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale alla Sapienza, al termine di una sessione di esami per chiedergli un’opinione sull’ipotetico bis dell’attuale inquilino del Colle. E comincia così: “Mattarella ha esercitato il suo mandato, rispetto a presidenti più esuberanti, con grande rigore istituzionale. In una legislatura travagliata come è stata questa – con tre governi e una pandemia di mezzo – ci sono state mosse non del tutto condivisibili”.
Per esempio il veto esplicito alla nomina a ministro di Paolo Savona?
Chiariamo: il rigore costituzionale non coincide con l’adesione a ogni scelta del presidente. Ci sono state decisioni dal mio punto di vista non del tutto condivisibili, ma questo non toglie nulla al giudizio generale sull’interpretazione del mandato del capo dello Stato, che ribadisco è stato di estremo rispetto alla sua funzione.
Il presidente ha più volte escluso la concessione di un “bis”. Ma moltissimi altri no.
Mi pare che il modo in cui il Presidente si è espresso su questa ipotesi – citando un inequivocabile discorso del Presidente Segni – confermi ciò che ho appena detto a proposito della sua attenzione allo spirito della Costituzione. Mi sembra il più consapevole dei guasti istituzionali che questo eventuale scenario provocherebbe.
Quali sono?
Breve recap: la rielezione non è esplicitamente vietata, ma sarebbe del tutto impropria. Sette più sette fa quattordici: quattordici anni al Colle sono una durata abnorme, “eterna”, più consona a una monarchia che a una democrazia parlamentare. Saremmo di fronte alla cristallizzazione di una carica istituzionale che la Costituzione non vuole. Aggiungo che quello del capo dello Stato – a parte i giudici costituzionali, che restano in carica nove anni – è il mandato più lungo previsto dalla Carta per un organo costituzionale.
Napolitano si dimise prima.
Il diritto costituzionale non può confidare sulla buona volontà delle persone, si basa su regole certe. Napolitano si è dimesso, ma mettiamo il caso che non lo avesse fatto. Chi avrebbe potuto, e come, farlo dimettere? In astratto è una situazione di pericolosissima impasse.
Si obietta che Mattarella si dimetterebbe “naturalmente” dopo le elezioni politiche del 2023.
Non è concepibile un mandato a termine. Non è nemmeno proponibile: la Carta non lo prevede e sarebbe gravemente incostituzionale. Una qualunque formalizzazione di un mandato a termine è inaccettabile.
Sarebbe meglio fissare in Costituzione un esplicito divieto di rielezione?
Sì. Sappiamo che in Costituente molti erano favorevoli a un divieto esplicito, poi non si arrivò a una sintesi su questo punto. Si fanno, con cadenza regolare, progetti di grandi riforme costituzionali e non si provvede invece a piccoli ritocchi di manutenzione costituzionale, come sarebbe quello di vietare la rielezione del capo dello Stato…
Ci sono anche i fan di “Draghi al Quirinale”, che sostengono la possibilità dell’attuale premier di continuare la sua politica dal Colle. Se glielo dicesse uno studente all’esame?
Lo boccerei. Per la ragione che questa affermazione dimostra l’ignoranza sulle diverse funzioni della presidenza del Consiglio e della presidenza della Repubblica. Ovvero un organo di governo e un organo di garanzia. Il massimo che un capo dello Stato può fare è stimolare gli organi costituzionali, come sono governo e Parlamento. Ma non è un organo di indirizzo politico. “Regna e non governa”, è una formula abusata ma rende bene il concetto. Le forme di governo parlamentari sono quelle in cui il presidente della Repubblica è garante del sistema costituzionale, il presidente del Consiglio governa. Ciò distingue le forme di governo semi-presidenziali e presidenziali da quelle parlamentari.
Dicono che non ci sono alternative.
È un’affermazione non commentabile. In democrazia, proprio perché è tale, l’alternativa c’è sempre. Non viviamo una situazione di impossibilità. Se non ci sono alternative è perché la politica non le trova. I governi tecnici, affidati come è il nostro caso a un autorevole esponente dell’establishment, sono giustificati da situazioni straordinarie: la pandemia è oggettivamente una situazione emergenziale. Ma possiamo ammettere che uno stato di necessità diventi permanente? La mia maggiore preoccupazione è che non vedo una capacità di ripresa politica.
Guardiamo ai cicli. Tra Ciampi e Monti passano vent’anni, tra Monti e Draghi dieci: la scorciatoia dell’esecutivo svincolato dal consenso forse ha indotto la politica ad accomodarsi dietro la deresponsabilizzazione dei governi tecnici.
Abbiamo vissuto una sorta di estensione della neutralizzazione politica attraverso la tecnica. Passano, sempre più spesso, attraverso la tecnica scelte di natura squisitamente politica. Ci sono situazioni in cui questo è comprensibile: pensiamo al rapporto tra il vaccino e le autorizzazioni di agenzie come l’Ema o l’Aifa. Altre circostanze pongono dubbi più insidiosi. Penso alla crisi economica iniziata nel 2008: la tecnica ha preso il sopravvento, ma cosa c’è di più politico del neoliberismo che ha indirizzato le azioni di alcuni governi tecnici? Non c’è nulla di neutro. Ma, ribadisco, l’allarme maggiore è dato dall’afonia della politica. Quando si creano i vuoti, questi vengono colmati.
Lite Lega-Fdi: “Feltri è del Pd?” Bernardo: “Date i soldi o mi ritiro”
Sono bastate poche parole per spaccare la coalizione di centrodestra e far emergere tutte le tensioni tra Lega e Fratelli d’Italia. A provocare la rottura è stata l’intervista di Vittorio Feltri al Fatto in cui il giornalista ha parlato di Luca Bernardo, in corsa a Milano con il centrodestra, come di un “candidato debole” (“vince Sala”) e spiegato che “il centrodestra è una coalizione del cazzo”. Feltri, candidato capolista di FdI a Milano, ha anche detto che preferisce la “legge Fornero a Quota 100”. Fumo negli occhi per la Lega che teme il sorpasso di FdI nella sua roccaforte. Il primo ad attaccare Feltri è stato il capogruppo del Carroccio in Senato Massimiliano Romeo: “Anche FdI la pensa come Feltri e ha nostalgia delle ricette ‘lacrime e sangue’ di Monti?”. A chiamare in causa Meloni anche il deputato Igor Iezzi e il vicesegretario della Lega Andrea Crippa, colonnelli di Salvini a Milano. “Feltri si è candidato con FdI o con il Pd? Cosa ne pensa Meloni?” polemizza il primo. Da Piazza del Popolo arriva la risposta della leader di FdI: “Non condivido alcune cose che ha detto Feltri ma conosciamo la sua libertà: l’abbiamo candidato da indipendente e dice quello che pensa”. Anche Bernardo ha ironizzato: “Ringrazio Feltri per aver ricordato che sono un medico e non un politico”. Il candidato è in grossa difficoltà. Indietro nei sondaggi, ieri Repubblica ha pubblicato un audio di venerdì in cui minacciava gli alleati: “O mi date i soldi, 50 mila euro, per la campagna elettorale o mi ritiro”.
“A Enrì, sei stanco?” Meloni fa campagna col pilota automatico
“Enrì, ma che ti sei stancato?”. La cartolina da Piazza del Popolo è Giorgia Meloni al centro del palco, Enrico Michetti diversi passi indietro (e di lato), alla caccia di un filo di luce riflessa. Nel mezzo della sua arringa, la leader di Fratelli d’Italia chiama l’applauso per il candidato sindaco di Roma, ottiene un’ovazione soffusa e pure un timido battimano. Michetti però non restituisce il saluto alla gente e Giorgia lo bacchetta – “ma sei stanco?” – come una maestra con lo studente distratto. Il candidato sorride imbarazzato – “No, no” – e allunga la mano verso il pubblico, alzando il pollicione a dire “ok”. Michetti non è stanco. E soprattutto Michetti stavolta c’è. Visti i precedenti – dibattiti abbandonati, sedie vuote e persino la diserzione di un comizio della stessa Meloni a Ostia – è già una gran notizia.
Ne aveva bisogno, il candidato più pasticcione d’Italia, quello che si è presentato con lo slogan “Michetti chi?”, di un bagno di folla sotto l’ala sollecita e protettiva della sua leader. Ne aveva bisogno anche lei, Meloni, per mettere in piazza le sue velleità egemoniche. I sondaggi sono eccellenti, la stella di Matteo Salvini declina nel centrodestra e Fratelli d’Italia si sente primo partito, le elezioni romane sono un’incognita ma lo sciagurato Michetti ha i numeri garantiti per arrivare comodamente al ballottaggio. La manifestazione di Roma è organizzata in modo furbo: ci si assiste seduti e le sedie sono disseminate, belle larghe, in tutta Piazza del Popolo. A ogni posto corrisponde una bandiera di partito. Il risultato è che i presenti sono poche migliaia, ma il colpo d’occhio risulta abbondante e colorato, a differenza delle ultime manifestazioni di avversari e alleati.
In attesa della politica, sul palco si alternano momenti un po’ bizzarri: si esibiscono maestri di arti marziali, si improvvisa un corso di sicurezza personale e vengono lanciate quattro ballerine di “physical dance” dai vestiti succinti. La playlist è un po’ danzereccia e molto nazionalpopolare, nel retropalco si balla, sembra finalmente una discoteca aperta: Depeche Mode, Non succederà più di Claudia Mori (dedicata dallo speaker a Virginia Raggi), Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano, Tanti auguri di Raffaella Carrà.
Finalmente inizia il comizio vero e proprio. Lo aprono i due governatori di FdI, il marchigiano Francesco Acquaroli e l’abruzzese Marco Marsilio. Poi alle 18 in punto tocca a Michetti. Il candidato è reduce da un’altra intervista pirotecnica al Foglio, a cui ha dichiarato che “Cesare Ottaviano Augusto non si sarebbe mai pronunciato con un Dpcm”. Nel suo intervento live per una volta non si concede licenze storiche sopra le righe, anzi legge la scaletta direttamente dai fogli che stringe nella mano sinistra. Si confessa: “Sapete che sono qua per una donna straordinaria”. Della quale scandisce il nome come allo stadio: “Giorgia Meloni!!!”. Cammina nervosamente in orizzontale lungo il palco, prova ad esorcizzare l’immagine che gli è stata appiccicata addosso: “Noi non ci sottraiamo dai confronti, ma dalle risse. Preferiamo stare in mezzo alla gente”. Poi si concede una rassegna sommaria ma enfatica degli annosi problemi capitolini (rifiuti, trasporti, verde pubblico, gli immancabili cinghiali). Sembra, malgrado tutto, irrimediabilmente fuori luogo. Dalla chiesa di Santa Maria del Popolo cominciano a suonare le campane. Michetti sorride: “È un buon auspicio” (la saggezza popolare in realtà dice che suonino a morto). Chiude con collaudata retorica michettiana: “Se Roma torna a fa’ Roma, non ce n’è per nessuno”.
Il suo intervento è breve, poi il palco è tutto della Meloni. Gioca due partite: è un po’ leader nazionale, con gli attacchi alla ministra dell’Interno Lamorgese, le consuete tirate sul green pass, sugli sbarchi, sulla Giustizia, sul reddito di cittadinanza, sull’emergenza “trasformata nell’ennesima mangiatoia della sinistra”. Ed è un po’ mamma protettiva di un bimbo particolare. “A noi non interessava scegliere un buon candidato – ammette – ma abbiamo scelto un buon sindaco”. E poi: “Enrico è poco conosciuto? Bene, vorrà dire che lo faremo conoscere noi. È molto più facile far conoscere una persona capace, che far diventare capace una persona conosciuta”. Il dubbio che entrambi i fenomeni si manifestino insieme – incapacità e anonimato – appesantisce il bel tramonto su Piazza del Popolo.
Il piano Letta: superare il Pd e fare il nuovo Ulivo
“Rigenerare” il Pd. Al Nazareno è questa la parola d’ordine di una riflessione in corso da mesi, ma che si va facendo più pressante, man mano che si avvicinano le Amministrative. C’è chi si spinge fino a parlare di “scioglimento”, di “superamento” dei dem. In vista di un partito diverso, più inclusivo, che sia il perno di un Ulivo 2.0. Il progetto è in cima ai pensieri del segretario, Enrico Letta. E in fondo sarebbe l’esito naturale del percorso delle Agorà, da lui fortemente voluto. Tutto passa per la vittoria nelle città e alle suppletive di Siena. Ipotesi che nel Pd – fatti i dovuti scongiuri – in questo momento viene considerata molto probabile. In chiaro, il segretario ha dato più di qualche traccia. Domenica scorsa, chiudendo la Festa nazionale di Bologna, ha parlato di un bipolarismo ormai ineludibile. E le Agorà, sono lo strumento, la piattaforma per la costruzione di un programma che vada oltre i dem, con 6 “osservatori indipendenti”: lo scrittore Gianrico Carofiglio, il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, l’ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan, Monica Frassoni, Carlo Cottarelli ed Elly Schlein.
Nel nuovo partito in gestazione dovrebbero rientrare gli scissionisti di Leu, Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, in testa. E anche personalità come Rosy Bindi, di fatto spinte all’uscita da Matteo Renzi, ma ancora vicine ai Dem. E un mondo di sinistra che dal Pd si è allontanato. Come le Sardine. È evidente che non si può chiedere a questi mondi di confluire nel Pd. E dunque, ecco le Agorà, dove si confrontano iscritti e non iscritti. Tra gli incontri (sono già decine tra passati e futuri) ci sono anche quelli sulla forma partito. “Dalle Agorà saranno verificate le condizioni per una forza interprete di una nuova sinistra plurale”, dice esplicitamente Federico Fornaro (Leu). Primo tassello questo di un progetto ampio, ma con vari nodi. Per esempio, quello di +Europa: altro partito vicino ai dem, ma che difficilmente si può pensare confluisca nello stesso futuro contenitore. L’alleanza più larga, nella prima versione di Letta, era da Leu a Renzi, passando per i Cinque Stelle. L’idea che Iv possa essere parte di una futura coalizione è però oramai oggetto di perplessità e critiche generali.
Come andare oltre il Pd è questione in agenda dai tempi di Nicola Zingaretti. Per dirla con la prodiana Sandra Zampa, “l’unità delle forze di centrosinistra in uno schema bipolare è la cifra dell’Ulivo ed è la condizione della loro affermazione”. Fin qui, i progetti. Che poi si scontreranno con la realtà. In primis il tema della leadership, che vede potenzialmente contrapposti Letta e Giuseppe Conte. Ma in uno schema di coalizione, potrebbe essere risolto con garantirla a chi prende più voti. Ancora. Esiste il tema Mario Draghi: per molti la rifondazione della politica italiana e dello stesso Pd passa per una sua permanenza al governo, almeno fino al 2023. Tra gli obiettivi: azzerare i partiti così come sono. Martedì Draghi, Letta e Prodi sono stati immortalati insieme per il ricordo di Andreatta. Una specie di presagio, per partite diverse.
“Gualtieri e Michetti passacarte: sono io il vero argine alla destra”
L’intervista è praticamente conclusa, quando la sindaca di Roma Virginia Raggi interrompe il cronista: “Ci tengo a dirle una cosa, io sono l’unica donna candidata a sindaco di Roma, e sono una donna libera: ciò dà molto fastidio, e questo è un tema da non dimenticare”. In un sabato romano ancora estivo, con il centro della città che ospita la manifestazione di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, la 5Stelle Raggi ha voglia di parlare e rispondere.
Oggi Meloni l’ha attaccata sostenendo che Roma “è stata violentata” in questi anni e che lei ha perso l’occasione di ospitare l’Eurovision. Ha proprio torto?
Meloni ci spieghi perché ha candidato come sindaco Michetti, che si sottrae al confronto e vorrebbe riportare a Roma le bighe. Io sono in campo per fermare la destra, e fui la prima a porre un freno a Matteo Salvini durante il governo Conte 1. Io sono l’argine alla destra.
Ha sfidato Meloni a un confronto pubblico.
Certo, perché se lei mi attacca è la conferma che Michetti è un passacarte, proprio come lo è Roberto Gualtieri nei confronti del Pd. I due candidati messi dai partiti sono burattini, che nascondono i soliti noti. Con loro torneremmo indietro di 20 anni.
Lei è molto morbida nei confronti di Carlo Calenda: forse perché potrebbe togliere tanti voti a Gualtieri, spingendola al ballottaggio…
Con Calenda mi unisce il fatto che siamo candidati veri. Dopodiché non abbiamo nient’altro in comune. E poi lui da ministro non ha fatto nulla per Roma.
Ha visto che l’attore Massimo Lopez è stato inseguito da un cinghiale mentre buttava l’immondizia?
Io amministro una città, e i cinghiali sono un problema di competenza regionale. Gli agricoltori hanno manifestato davanti a Montecitorio e alla Regione Lazio.
La Regione è governata da quel Pd con cui Giuseppe Conte vuole costruire un nuovo centrosinistra. Se lei non dovesse arrivare al 2° turno, Conte sarà quasi obbligato a pronunciarsi a favore di Gualtieri.
Noi a Roma possiamo vincere, il resto diventa un problema del Pd.
Ripeto, con i dem dovete costruire una coalizione…
Io parlo ai cittadini, sono sindaca di tutti, e porto avanti temi che la sinistra ha perso. Il Pd romano è molto snob e guarda con disgusto me e il M5S. Ma sono loro che volevano privatizzare Atac, l’azienda del trasporto locale, e che hanno abbandonato le periferie.
I suoi rapporti con Conte a suo tempo parevano gelidi…
I nostri rapporti sono migliorati nel tempo, e certe descrizioni dei media all’inizio non hanno aiutato. Ora ci sentiamo ogni giorno: proprio ieri abbiamo parlato a lungo della strategia per le Amministrative e Conte mi ha dato ottimi consigli.
Le ha anche suggerito chi mettere in giunta?
Sulla giunta annuncerò delle novità a fine mese. Ma non sono come Michetti e Gualtieri, che se la farebbero fare da altri.
È stata appena eletta nel comitato di garanzia del M5S, “doppiando” come voti Luigi Di Maio e Roberto Fico.
Io non faccio paragoni. Posso dire che il voto degli iscritti conferma che è stato apprezzato un lavoro di cinque anni.
Ma come lo vorrebbe il nuovo M5S?
Deve tornare a stare sui territori e infatti Conte sta girando l’Italia. Il M5S non deve preoccuparsi delle questioni di palazzo o guardarsi l’ombelico.
Lei pare mettere d’accordo Conte e Grillo, o no?
Con Beppe ci sentiamo spesso, mi sprona ad andare avanti. Lui già 15 anni fa parlava di sostenibilità, e deve continuare ad avere la funzione di guardare avanti. Se si affrontano assieme i problemi concreti poi si superano tutte le divisioni.
Notizia: che fare?
Fioccano le interpretazioni sulla decisione del Fatto di pubblicare i verbali dell’avvocato Piero Amara sulle decine di presunti affiliati alla presunta Loggia Ungheria. Una manina anonima ce li recapitò, senza firme in calce, il 29 ottobre 2020 e noi denunciammo subito quel reato alla Procura di Milano. Che ora accusa l’ex segretaria di Davigo di essere la titolare della manina. E ha depositato gran parte dei verbali a fine indagine. Noi 11 mesi fa non li avevamo pubblicati per tre motivi: Amara è un noto fabbricante di indagini fasulle e quei verbali senza firme potevano essere apocrifi o taroccati; anche se fossero stati autentici, non sapendo chi ce li inviava né perché, non volevamo farci usare in torbide manovre al buio; e comunque, senz’alcun riscontro sulla presunta loggia, ci saremmo esposti a una raffica di querele da parte dei personaggi citati. Ora invece li pubblichiamo perché s’è accertato che erano autentici; perché, col deposito, il segreto è caduto; perché 5 Procure hanno iniziato a separare il grano dal loglio; perché l’opinione pubblica, dopo averne sentito parlare per mesi, ha capito che si tratta delle parole di un soggetto ambiguissimo e nessuno le prende per oro colato; perché quel cadavere nel ripostiglio comincia a puzzare e a emettere miasmi, perfetti per ricatti e veleni, che si stroncano in un solo modo: pubblicando tutto. L’interesse della notizia ormai riguarda sia il vero sia il falso, visto che tutti gli accusati sono personaggi pubblici: se le accuse sono vere, bisogna conoscerle; se sono false, occorre domandarsi perché e per conto di chi sono state lanciate.
Così si ragiona in un giornale vero, che dà le notizie e per giunta si chiama Fatto. Di qui lo sgomento dei non-giornali. Sallusti titola su Libero: “Fango nel ventilatore”. E spiega che “ognuno tiene famiglia” (lui addirittura due: Berlusconi e Angelucci, mentre ci sfugge la nostra) e ora c’è una “faida tra famiglie rivali”. In basso, ma molto in basso, Filippo Chatouche Facci ci dà dei “passacarte” che “han messo nel ventilatore la peggior merda”. Poi volti pagina e scopri che Libero copia parola per parola la nostra “merda” e la mette nel suo ventilatore, con sopraffina coerenza (e coprofilia). Sul Riformatorio, il povero Sansonetti ha un attacco di labirintite: dopo averci accusati per mesi di non pubblicare, ora ci accusa di pubblicare per consumare “la vendetta di Davigo” contro Greco (mai citati, nessuno dei due, nei verbali). Poi, già che c’è, la consuma pure lui copiando paro paro il nostro scoop. L’unica cosa che non viene proprio in mente ai non-colleghi dei non-giornali è che il Fatto dia le notizie per dare le notizie: in tanti anni di onorate non-carriere, non ne hanno mai vista una.
Un faro sul potere militar-industriale, quello che vuol farla pagare ad Assange
Che Stefania Maurizi, da circa due anni collaboratrice del Fatto Quotidiano, sia la massima esperta di Wikileaks in Italia, lo hanno capito molti italiani guardando una recente puntata di Presadiretta dedicata a Julian Assange. La si vedeva, infatti, ospitata dal fondatore di Wikileaks presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra mentre nell’altra stanza il suo telefono veniva aperto in due, e il loro incontro veniva registrato. Così come tutti quelli tenuti da Assange, con la moglie, gli avvocati, gli amici.
Assange è di fatto in galera dal 2010, anche se formalmente gli è stato permesso di rifugiarsi presso l’ambasciata di un Paese, una volta cacciato Correa, che poi lo ha “regalato” agli Usa. E ora è nel carcere di Belmarsh, in Gran Bretagna, dove attende la decisione sull’estradizione. Se questo dovesse accadere, scrive Maurizi, vorrebbe dire chiuderlo per sempre in isolamento, in una prigione di massima sicurezza, probabilmente l’ADX Florence, in Colorado, “dove si trovano criminali efferati come il signore del narcotraffico El Chapo”.
Ma perché questo accanimento, che dura da undici anni, contro Assange? Il merito del libro è che risponde a questa domanda. Non si tratta solo della puntuale ricostruzione delle rivelazioni di Chelsea Manning o del “buco nero della civiltà” che è Guantanamo. Non è solo il riconoscimento del ruolo di “giornalista” di Assange e di disvelamento delle trame di potere. Il merito di Maurizi è il faro puntato su quello che l’allora presidente Usa, Dwight Eisenhower, chiamava il “complesso militar-industriale”: quello che ha ostacolato fino all’ultimo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e che è il principale beneficiario dei 2 o 3 mila miliardi di dollari spesi per fare la guerra ai talebani. Il nemico di Assange è il “potere segreto” che la maggior parte dei cittadini non vede mai e che Wikileaks ha mostrato nella sua nudità. Per questo devono fargliela pagare.
Il potere segreto – Stefania Maurizi, Pagine: 390, Prezzo: 19, Editore: Chiarelettere,
Tra un ménage e l’altro, le vittime fanno lo slalom
C’è una battuta di Alessandro Piperno, a lui rivolta, che Walter Siti ha eternato come esergo ne Il contagio: “Ma perché parli sempre di borgate? Al mondo esiste anche Madison Avenue…”. A suo modo una dichiarazione di poetica per l’autore romano, classe 1972, docente di letteratura francese a Tor Vergata, tifoso irriducibile della Lazio e dall’autunno scorso direttore della prestigiosa collana dei Meridiani Mondadori.
Piperno – iconico come un vecchio lord inglese con il suo armamentario di pipa, giacca di tweed e borsalino –, raccontando i tanti vizi e le poche virtù della borghesia capitolina (al pari di Giorgio Montefoschi), si muove nelle sabbie mobili di una dolce vita scandita da cene ai Parioli, attici con vista Colosseo, cocktail e chiacchiere amene al Circolo canottieri. A rendere tutto decadente è il milieu ebraico. Ecco allora che tra feticismi erotici, edonismi esasperati, dialoghi caustici, Piperno mette in scena uomini sospesi tra senso di appartenenza e abiura, tra rovello introspettivo e ipocrisia sociale.
Il suo timbro stilistico – sperpero di aggettivi e citazioni libresche che si rincorrono in uno slalom di subordinate – è all’insegna di una ricercatezza tanto emblematica che solo nelle sue pagine galleggiano espressioni come “stanzetta dostoevskiana”, “rêverie onanistica”, “opulento ménage”, “voluttà falstaffiana”. È come se Piperno scrivesse una prima versione neutra e poi la dopasse, forse memore della dismisura di quei classici di cui è nutrita la sua formazione accademica.
Di chi è la colpa, il suo ultimo romanzo in libreria per Mondadori, tira ancora filo dallo stesso gomitolo sbrogliato dall’esordio. Qui un adolescente inetto, legato al padre, commerciante insolvente, si ritrova scaraventato nel ramo materno giudaico, scopre gli agi del benessere e verità sommerse finché un lutto inatteso e cruento segna la fine della sua famiglia e lo trasforma in un impostore. Ancora una volta riverbera l’eco dello stesso Piperno, inchiodato come i suoi protagonisti a un dissidio ineluttabile: una condizione meticcia che, a cavallo tra due culture e due fedi (figlio di padre ebreo e madre cattolica), gli impedisce di cucirsi addosso un’etichetta senza contraffazioni. Uno sradicato dell’esistenza per sua stessa ammissione, un francesista con il culto di Proust e Baudelaire ma sempre con un piede oltreoceano, debitore dell’America di Philip Roth (è sua l’introduzione al terzo Meridiano consacrato all’autore di Il teatro di Sabbath). Com’è sradicato Daniel Sonnino di Con le peggiori intenzioni: saga familiare tra adulteri e rovine finanziarie, con al centro rampolli dorati prigionieri della loro frivolezza. Com’è sradicato Leo Pontecorvo di Persecuzione: storia di una famiglia dell’Olgiata funestata dall’accusa infamante di pedofilia al padre oncologo pediatra. Come sono sradicati i fratelli Pontecorvo di Inseparabili (vincitore dello Strega per soli due voti, strappandolo a Emanuele Trevi che si è preso la rivincita quest’anno): il fumettista Filippo e l’uomo d’affari Samuel inseguiti dallo spettro della vergogna. Com’è sradicato Matteo Zevi di Dove finisce la storia: padre transfuga che ritorna a Roma, alle prese con una famiglia a pezzi che lo ricusa. Tutti personaggi che potrebbero frequentarsi tra loro, vinti della Storia che, nel mezzo di un tiro alla fune tra due mondi opposti, ruzzolano a terra senza avere più la capacità di rialzarsi.
Piperno, nel suo saggio Contro la memoria, nel richiamare il nichilismo proustiano, specchio rovesciato di quell’aristocrazia che non credendo più in nulla finì con l’aggrapparsi al proprio snobismo (nella Recherche convivono ebraismo e pregiudizio antiebraico) svela in filigrana ciò che lo ossessiona: l’identità non è più un’esperienza ma una maschera. Un passaggio rivelatore in questo suo ultimo Di chi è la colpa lo certifica: “Il giudaismo non era una cosa seria, una questione di vita o di morte – come a suo tempo lo era stato per un internato a Treblinka… Per lui, come per altri molti ebrei della sua generazione – laici, secolarizzati, sostanzialmente incuranti del peso delle tradizioni –, il giudaismo era una coccarda da ostentare in società, un brand, un simbolo di distinzione intellettuale…”.
Quei “Viaggi iniziatici” con Dio, slitta e peyote
Esperienze totalizzanti, che trasformano per sempre. Allontanarsi e tuffarsi in mare aperto e rinascere, dopo una morte simbolica. La letteratura di viaggio come ponte alchemico. Utet riporta in libreria, in edizione ampliata, Viaggi iniziatici di Emanuele Trevi, fresco di Strega. Un libro incardinato su testi che l’autore di Due vite ha “amato e lungamente meditato”. Come le Lettere dello yage di William S. Burroughs e Allen Ginsberg.
Tra il 1953 e il 1960 i due pesi massimi della beat generation si trapiantano, a intervalli separati, in Perù, nella foresta amazzonica, alla ricerca di questa sostanza psicotropa ricavata dalla corteccia della banisteria. La “liana dell’anima”: Il pasto nudo non sarebbe stato scritto senza la sua assunzione. Nicolas Bouvier è stato un rivoluzionario della prosa di viaggio. Parte dalla Svizzera a bordo di una Fiat Topolino negli anni 50 insieme al pittore Thierry Verne. Destinazione, Oriente, dove rimane per anni ma tanto “lungo la strada, superato un certo limite, è un nuovo tempo, nomade, che accoglie i due amici nel suo grembo come all’interno di un’altra dimensione”. Riversa tutto ne La Polvere del mondo: il viaggio, sostiene Bouvier, “purga la vita”. All’alba degli anni venti Knud Rasmussen, figlio di un pastore danese, si unisce alla V spedizione Thule per osservare da vicino la civiltà eschimese. Un tour tra i ghiacci a perdita d’occhio di Groenlandia, Canada, Alaska e Siberia. Ne riaffiora un esploratore, un uomo radicalmente diverso, e questa metamorfosi viene fotografata ne Il grande viaggio in slitta. Quale la chiave di volta della sua palingenesi? Uno sciamano-assassino locale con la passione per il tenore Enrico Caruso. Antonin Artaud, fautore del Teatro della crudeltà, assetato di cultura magica, muove per il Messico nel 1936. Più che un voyage, un inesorabile rito di passaggio “verso un altrove” il suo. E dopo il peyote nulla sarà più come prima: adesso “L’uomo è solo e gratta disperatamente la musica del proprio scheletro”.
Tragedia e resurrezione: intramontabili le sue pagine sugli indios Tarahumara, che l’avevano introdotto all’allucinogeno “liturgico”. Nel 1946 l’etnologo Marcel Griaule va nell’attuale Mali per studiare la popolazione Dogon. Dai racconti di un cacciatore cieco, custode della tradizione, prende le mosse Dio d’acqua: “Era come stare seduti di fronte a Esiodo e ascoltare direttamente dalla sua bocca le storie degli dèi greci”. Un Esiodo vivo, però, sciorinante mitologie inaudite ma “circondato dalle sue galline”. Emanuele Trevi evoca pure Mircea Eliade, il grande e controverso storico romeno delle religioni. Una delle caratteristiche del tempo moderno era la “mutazione ontologica del regime esistenziale”, affermò. L’iniziazione era sparita dai radar. Al bando ogni “seconda nascita”.
Fortuna che esiste la letteratura. Trevi ne è convinto: è l’ultimo veicolo, desacralizzato, di ogni “seconda nascita”. Che ora accade nell’immaginazione, il terreno elettivo degli scrittori. Gli eremiti, i santi della nuova epoca. In viaggio nel paradiso con le ali di tenebre.
Viaggi iniziatici – Emanuele Trevi, Pagine: 128, Prezzo: 14, Editore: Utet