Omicidio sul treno regionale: indaga Sara Malerba, pm che cita Goethe

Altro che giustizialismo, garantismo e fregnacce del genere. Sara Malerba è un pubblico ministero che indaga, risolve omicidi e poi vola altissimo. Vi è mai venuto in mente che la giustizia ha uno sfondo goethiano? Ecco qua: “Dall’alto le teste dei passanti sembravano pedine di un gioco da tavolo e si muovevano a scatti. Una giostra in perenne movimento che di tanto in tanto perde uno dei suoi pezzi senza nemmeno accorgersene. Le pareva di ricordare che Goethe avesse scritto qualcosa del genere per descrivere l’inconsapevolezza dell’universo. Ciò che Goethe non aveva detto era che poi qualcuno, un pubblico ministero, deve capire come e perché quel pezzo è stato perso, prima di perdersi casualmente a sua volta”.

Malerba è un magistrato solista, che tenta di tenersi lontana dal gioco delle correnti per nomine e promozioni e fa la pendolare tra Roma, dove abita, e la Procura di Torre Piccolo, paesino immaginario sul litorale laziale. Una donna viene trovata ammazzata sul treno regionale proveniente dalla Capitale. L’assassino era vestito tutto di nero. Si scopre che la vittima è una nota e matura influencer, diventata ricca con un marchio trash. Con l’aiuto di due carabinieri, il maresciallo Berardi e l’appuntato Cantatore, la pm risale a un vecchio bar sul mare frequentato dalla donna in gioventù, insieme col suo futuro marito. Un covo di fascisti che chiuse all’improvviso dopo una notte di violenze. Il nero sta bene su tutto è la seconda inchiesta di Malerba, firmata da Luigi Irdi, giornalista romano con quarant’anni di mestiere ad alto livello. Il registro narrativo è sovente ironico e cinico e poi c’è Malerba, single quarantenne che vive di ossessioni cinematografiche, fobie varie e complessi irrisolti all’interno di un efficace realismo giudiziario. Un giallo, quindi, da far leggere a tutti i magistrati.

 

Il nero sta bene su tutto – Luigi Irdi, Pagine: 259, Prezzo: 17, Editore: Nutrimenti

Boetti, che bella razza di arazzi tra l’Afghanistan, Roma e Torino

In una delle sue famose Mappe – arazzi come planisferi politici di tessuto in cui i territori sono ricamati con i colori e le bandiere di appartenenza – Alighiero Boetti scrive: “A Kabul regna il caos”. Era il 1979, l’Afghanistan venne invaso dall’allora Unione Sovietica, e quella che per Boetti era “la Parigi dell’Asia Centrale” perde il mistero e l’esotismo che nei decenni precedenti aveva attirato viaggiatori da tutto il mondo.

Artista torinese ma di respiro internazionale (1940-94), oggi Boetti viene celebrato da un’esposizione toccante: Salman AliGhiero Boetti (alla Galleria Tornabuoni di Milano, fino al 14 ottobre). Toccante perché, insieme alle sessanta opere presenti che ne celebrano il genio, si muove sottotraccia una sfilata di irripetibili ricordi. Da qui il titolo, che fonde insieme il nome dell’artista con chi lo ricorda: Salman Alì, che per ventitré anni fu il suo assistente.

Boetti si era avvicinato all’arte da autodidatta, esordendo con l’Arte povera; tuttavia fondamentale fu per lui trasferirsi a Roma e scoprire il colore. Soprattutto, il viaggio in Afghanistan negli anni 70. In quella che lui chiama “la civiltà del deserto” – dove inizierà il sodalizio con Salman, autore anche di una biografia dell’amico artista – Boetti capisce l’infinita combinazione di parole e immagini, alto e basso, destra e sinistra, dimensione manuale e mentale. Da qui nascono le Mappe e i grandi arazzi come Mappa 1990; le serigrafie su stoffe quale Faccine colorate (1979); e i ricami di parole tra cui, oltre a Piegare e Spiegare (1989) e Far quadrare tutto (1994), colpisce qui esposta Seicentoventicinque lettere dai cento colori del mondo nel mese di marzo dell’anno mille (1989). Si comprende che per Boetti il colore è la vita, e che per la vita è necessaria l’accoglienza di tutti i diversi colori. A ben pensarci, se guardiamo la continua preferenza della divisione sull’unione, della guerra alla pace (ultima in ordine di tempo, la situazione in Afghanistan), pare che l’arte civile di Boetti, seppure ammirata, non è ancora stata del tutto compresa.

 

“Tutto brucia”, anche la protesta

Una spettatrice si aggira per il cortile del teatro India di Roma: porta i capelli verdi e una borsa della spesa firmata Lidl. No, a guardar bene, il marchio è Dildo, non Lidl. Ah, che originale. Il mezzuccio è ammiccante e scappa un sorriso, fine della reazione.

Tutto brucia dei Motus fa pressappoco lo stesso effetto: sulla carta si annuncia un’operazione pensosa, ma a guardar bene è un affastellarsi di immagini originali perché ammiccanti, belle quanto vuote. Scappa un oh, fine della reazione.

La pièce della longeva compagnia riminese ha aperto in anteprima la stagione della sala capitolina, in collaborazione col festival – appena concluso – Short Theatre. Ideata e diretta da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, vanta in scena ottime performer come Silvia Calderoni e Stefania Tansini e la musicista Francesca Morello, in arte R.Y.F. La drammaturgia – esigua; la trama inesistente – si ispira alle Troiane di Euripide, alla loro riscrittura firmata da Jean-Paul Sartre (la cui Cassandra dà voce al titolo) più materiali spurii di Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway e Judith Butler. Il palco è una Wast Land: “Troia, ma oggi potrebbe essere la Siria, la Libia o l’Afghanistan. Al centro, il tema del lutto e dell’impossibilità di celebrare degnamente i corpi”, anche per colpa del “collasso climatico, economico, infrastrutturale”, si legge nelle note. E poi viene la pandemia. E le migrazioni e Greta Thunberg ecc. ecc. ecc.

Tutto brucia è sulla fine del mondo, ma non è la fine del mondo: uno spettacolo troppo patinato e innocuo, come il punk di ultima generazione. Tutto brucia, ma chi nasce incendiario muore pompiere e la contestazione si fa dopo palestra, estetista e parrucchiere. Difficile indignarsi, turbarsi o emozionarsi.

I Motus tornano alle eroine tragiche: qui Ecuba, Cassandra, Polissena e le altre troiane fatte prigioniere dai vincitori greci, dopo una sanguinosa guerra di dieci anni. Sono tutte, come Antigone, “scomode figure femminili che ancora oggi riverberano… Durante la pandemia, le cerimonie per i morti sono state sospese e i corpi sono stati sepolti d’ufficio, di nascosto, in silenzio, senza saluto. Lo stesso accade per i corpi di migranti morti in mare. Quali vite contano? Cosa rende una vita degna di lutto?”.

Da Troia a Bergamo, da Kabul ai ghiacciai sciolti – ma quanti riferimenti –, la morte è protagonista, tra sipari viola, luci livide, fumi e carcasse, cani macilenti, donne abusate ed emaciate, mostri e derelitti, rifugiati e schiave, bandiere nere e aguzzini incappucciati, falce e coltello, mutande insanguinate e seni prosciugati, salvagenti e polvere. Le tre performer, pur brave, vanno spesso a briglia sciolta: va bene il gridare, ma intonato; va bene il sussurrare, ma comprensibile. Tutto brucia in pentola: le scene potenti e le mezze parole; i corpi scolpiti e i fili del microfono; le sacerdotesse di Apollo e le regine zoppe. C’è troppa carne al fuoco: idee, citazioni, poesie, coreografie, canzoni, led… È tutto troppo; purtroppo, è anche “troppo tardi per commuoversi”.

Tutto brucia, Motus, Dalle “Troiane” di Euripide, Sartre et al.

Roma, Teatro India, fino al 23 settembre; poi in tournée a Milano (4-6 novembre), Torino (11-12 novembre) e Rimini (1° dicembre)

 

La cattedra di “The chair” non regge il confronto

In una ordinaria facoltà di Lettere di università americana di medio livello (l’immaginaria Pembroke), viene nominata per la prima volta direttrice una donna, e non bianca. È la professoressa Ji-Yoon Kim, madre single e origini coreane, interpretata dalla brava Sandra Oh di Grey’s Anatomy. Kim vuole “svecchiare” l’accademia stanca, dove la maggior parte dei professori non ha più niente da dire, ma si trova di fronte il muro dell’inerzia. È stretta nella morsa dei baroni che frenano e dei vertici per cui “rinnovare” significa licenziare il personale più anziano. Si aggiunge una relazione autodistruttiva. Così lo slancio idealistico si infrange in mille rivoli, fino a un epilogo consolatorio. Ecco La direttrice (The Chair), mini-serie Netflix di sei puntate, scritta e ideata da Amanda Peet, è prodotta dal marito David Benioff e da D.B. Weiss, creatori di Game of Thrones. Dai media americani è acclamata come una “satira del mondo accademico”. In aula e nei corridoi, siamo negli Usa, si dibatte di razzismo, discriminazione delle donne e conflitto generazionale all’epoca dei social . In effetti, sarà proprio un “meme” a rappresentare l’innesco della tragedia . Al netto dei contenuti, però, l’impressione è che The Chair di critico abbia poco.

C’è lo scontro tra conservazione e rinnovamento nella cultura alta, che pare ripreso da L’attimo fuggente e aggiornato ai tempi. In questa serie sull’università, poi, vediamo agire solo i docenti: non si esplorano le complessità degli studenti come fanno invece prodotti tipo Dear white people.

Si aggiunge progressivamente un filone romance, tra Kim e un collega prof depresso e alcolizzato, vittima del recente lutto della moglie, interpretato in modo convincente da Jay Duplass, che dopo Transparent conferma il suo personaggio-tipo. Qui l’intreccio è piuttosto conformista, ma il binario è probabilmente pensato per accattivarsi la fascia di pubblico adolescente, che invece non si riesce a catturare sul piano dei contenuti: l’università è raccontata dal punto di vista dei prof, i giovani, la loro socialità e idee sono proprio la causa della disfatta dei protagonisti. Nel cast compare anche il detective di X-Files David Duchovny, che interpreta se stesso in un paio di puntate, quando l’ateneo decide di rivolgersi una star per attirare studenti.

Alla fine si scopre che la metafora della vicenda l’avevamo vista nella prima scena: la direttrice entra nel suo nuovo ufficio, mogano e ritratti di decani, va ad accomodarsi dietro la cattedra, ma la sedia cede e la scaraventa a terra.

Vedi Napoli e poi zitto: Gassmann filma “Il silenzio”

Vedi Napoli e poi ciak. L’attuale supremazia cinematografica (e seriale) del capoluogo campano non si discute: per rimanere alla sola Mostra di Venezia, Qui rido io di Mario Martone, con Toni Servillo per Eduardo Scarpetta, e È stata la mano di Dio, il dramedy autobiografico di Paolo Sorrentino, hanno meritoriamente declinato in Concorso la partenopea way of life.

Ma Napoli era anche altrove, per esempio, nella terza prova dietro la macchina da presa di Alessandro Gassmann, Il silenzio grande: il programma monstre del festival l’ha costretto al quasi anonimato, e non lo merita.

Da ieri nelle nostre sale, echeggia Questi fantasmi, ma il lenzuolo non è di Eduardo (De Filippo), bensì di Maurizio De Giovanni. Dopo averlo portato a teatro, Gassmann s’è deciso per il trasbordo cinematografico, congegnato al tavolo di scrittura con lo stesso De Giovanni e Andrea Ozza. In anteprima alla diciottesima edizione delle Giornate degli Autori, coniuga in formato famiglia legami e tempo, memoria e perdita, lutto e affetti, equivoci e non detti, chiedendone incarnazione ed evocazione al cast composto da Massimiliano Gallo, già protagonista della pièce, Margherita Buy, Marina Confalone, Antonia Fotaras e Emanuele Linfatti.

La partitura è sinfonica, l’ensemble sentimentale, la drammaturgia sottile, e Napoli si prende antropologicamente la scena, con inchiostro a indicazione geografica tipica e lettura globale.

Posillipo, alla metà degli anni Sessanta: il celebre scrittore Valerio Primic (Gallo) non scrive più, da almeno un decennio. La pagina è bianca, la bandiera pure: il parto creativo è dilazionato sine die, le bollette no, e l’agiatezza diviene insostenibile. La provvida e impicciona governante Bettina (Confalone) assiste amorevolmente, ma la resa è dietro l’angolo, ed è immobiliare: la splendida e trascurata villa Primic è ormai al di sopra delle possibilità della famiglia, però la consapevolezza è solo della moglie Rose (Buy) e i figli Massimiliano (Linfatti) e Adele (Fotaras).

Del doman v’è certezza, la messa in vendita è una necessità, e l’inizio di un nuovo mondo: Rose anela il cambiamento, Massimiliano s’inebria tra palcoscenico e amore (omosessuale), Adele perfeziona triangoli e doppio gioco. E Valerio (e Bettina)? Il passaggio è di stato, il silenzio grande, la comunicazione extrasensoriale: il Kammerspiel apre all’esistenzialismo, la vita all’ineffabile, e l’ineffabile, be’, vedetelo.

La derivazione teatrale non è elisa né elusa, ma Gassmann, che intelligentemente non vi recita, ha mano leggera dietro la camera; direzione d’attori elegante e, Confalone e Gallo su tutti, ripagata; idee non peregrine sull’incomunicabilità relazionale. Senza sfarzo né sforzo, Il silenzio grande è un film fatto come le cose di una volta, che si prende un rischio (ultra)sensibile: l’elogio della seconda, fantasmatica possibilità.

 

Nel sesso sono un incapace. “L’amore è nella pancia”

Anticipiamo uno stralcio di “Senza filtri”, una raccolta di interviste ad Allen Ginsberg, in libreria con il Saggiatore.

ERNIE BARRY: Allen, credo che per te molta della tensione nel mondo sia dovuta a mancanza di amore e compassione.

ALLEN GINSBERG: Sì, Ernie, troppe poche persone fanno l’amore. (Allen mi cinge con le mani, mi carezza le spalle, e altre parti).

Mmh… Sì, Allen. Tu con chi fai l’amore?

Con chiunque venga a letto con me, chiunque mi voglia. (Allen inizia ad abbracciarmi; io penso che si sia spiegato. Cerco di levarmi le sue mani di dosso). Giovani Rimbaud, giovani Monroe, e altri esseri umani. E ogni tanto un androide qua e là.

Sembra che gran parte dei problemi sessuali in America siano dovuti a incompetenza in materia.

Sono un incompetente sessuale perché tutte le diverse persone che mi fanno fremere la pancia mi rifiuterebbero se le guardassi in lacrime dicendo, ‘Sono un incompetente sessuale perché ho paura’.

Paura di che?

Di essere rifiutato.

E se fosse mancanza di conoscenze?

La conoscenza viene dalla pratica di ciò che viene naturale.

Molti di noi hanno inibizioni e nevrosi. Perché, secondo te?

Amore bloccato.

Cosa intendi per amore, scopare?

No, una sensazione di fiducia in pancia, una spinta verso l’Essere che può portare a schiacciarci l’uno contro la pancia dell’altro, a baciarsi le orecchie e ad altre cose meravigliose compresi i bambini.

Ti piacciono i bambini?

Sì, non mi odiano.

Il loro approccio alla vita è più istintivo.

Sì. Sfregarsi la pancia è istintivo. La tenerezza tra persone è una relazione istintiva. La tenerezza tra uomini, così come quella tra uomini e donne. E tra donne. C’è tutto in Whitman. Gli ci è voluta una grande natura per esporre apertamente la tenerezza per la prima volta in America, ma è la base inconscia della nostra democrazia e per questo oggi sono a questo picchetto, e cerco di essere buono… C’è come una bomba di odio e ansia, ben camuffata, che inibisce ogni sentimento di dolcezza nel corpo e finisce per essere un’illusione di paura di massa sotto forma di bomba a idrogeno. Tuttavia, dato che la soluzione della bomba a idrogeno non è più accettabile per il corpo – nemmeno a livello inconscio – si palesa un altro modo di risolvere il conflitto: ossia, ci arrendiamo tutti gli uni agli altri, andiamo tutti in bancarotta, e troviamo un universo umano e amichevole in cui possiamo esistere tutti completamente e subito. Con esistere completamente intendo la liberazione di tutti i sentimenti bloccati di bisogno l’uno dell’altro e di sicurezza e di estasi emotiva che ci spettano dalla nascita. Con ciò intendo che è fisiologicamente connaturata al nostro corpo ma l’abbiamo – e siamo stati – a tal punto respinti, abbandonati, rifiutati, non amati, siamo stati così disperati e senza speranza che dimentichiamo le vecchie lacrime umane.

Paghi l’affitto?

Sì.

La ricchezza è distribuita in modo iniquo. Non ti senti male a perpetrare questa situazione?

Non riesco a pensare a nessuna teoria economica che soddisfi la storia moderna; sta cambiando tutto così velocemente. Credo che lo Stato dell’Uomo si gioverebbe di una qualche forma di condivisione comunitaria, o del comunismo. Ma non vedo come ciò possa avvenire se prima non si condividono i sentimenti. Poi gli aspetti materiali si sistemeranno. Per cui inizierò da subito a condividere i miei sentimenti.

Circa sei mesi fa un’oscura rivista di poesia del Greenwich Village, Fuck You, ha pubblicato il resoconto su di te e sul poeta Peter Orlovsky che fate l’amore. Che vi fate i pompini, a essere precisi.

Orlovsky ha scritto quella scena d’amore a Tangeri tanti anni fa. All’epoca me ne vergognavo, in teoria avremmo dovuto intervistarci a vicenda sulla politica mondiale per il Journal for Protection of All Beings, e allora pensai che Orlovsky stesse divagando. Ma ora capisco che aveva i sentimenti giusti: portare ogni cosa mentale nel corpo, rivelando i segreti delle sensazioni fisiche… L’umanità di Orlovsky era sveglia mentre io ero ancora preda del mio spettro – pensavo ancora di poter urlare la mia rabbia nei confronti dell’universo. Ma volevo solo amore. Come tutti. Lui ha mandato quello scritto di sesso a Fuck You dall’India, e a me ha fatto piacere vederlo stampato, perché ora vengo denudato davanti ai miei occhi e a quelli altrui per cui non ho più alcuna Discrezione dietro la quale nascondermi; nessuna immagine della quale essere all’altezza ma solo le sensazioni del mio essere, tristi e felici.

Palombelli, donne che ri-uccidono (a Forum) le donne

Eravamo rimasti a Sanremo, al suo monologo raccapricciante, a Tenco che giocava con le pistole e al padre che la voleva con la collana di perle, convinti che quella sera, nei fiori dell’Ariston, ci fosse un polline allucinogeno. E invece no. Barbara Palombelli è nella sua fase global warming, sta alzando sensibilmente la temperatura delle scempiaggini dette in tv, scatenando tempeste violentissime e alterando il clima del dibattito.

L’ultima perla l’ha partorita a Forum, lo storico programma in cui si simulano processi: “Negli ultimi sette giorni sono state uccise sette donne. A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa o c’è stato un comportamento anche esasperante o aggressivo dall’altra parte? In un tribunale queste domande bisogna farsele…”. Prima di passare a considerazioni più generali, mi chiedo intanto come sia possibile che anche in assenza di sensibilità rispetto a certe tematiche, una donna che fa tv da qualche decennio e non la suora eremita sul Monviso, non comprenda che pronunciare un frase così, detta così, con quelle parole lì, nella scala dei suicidi perfetti sia seconda solo alla stricnina nel caffè. Come è possibile che nessuno l’abbia fermata, che un cameraman non abbia finto un infarto, che un autore non le si sia lanciato addosso urlando “bomba!”, che dopo aver detto quello che ha detto non abbia realizzato e si sia messa a gattonare sul soffitto per crearsi l’alibi della possessione demoniaca. No, niente. È andata dritta, sicura di aver fatto una riflessione banale, “Fuori piove”, “Che brava Bebe Vio”, “Chissà dove saremmo ora senza Mario Draghi!”, cose così. Ed è in questo contesto di devastante inconsapevolezza che si consuma la vicenda.

Secondo Barbara Palombelli dunque, i sette femminicidi dell’ultima settimana impongono una domanda. Che in effetti potrebbe essere: “Quando la smetteranno di ammazzare le donne?”. Invece la domanda è: “Gli uomini sono fuori di testa o ci sono anche donne che li esasperano?”. Grande assente, la terza opzione: gli uomini uccidono le donne per senso del controllo, del possesso, per incapacità di accettare il rifiuto, perché sono figli di una cultura patriarcale e non sanno gestire la minaccia della perdita? No, secondo la Palombelli quando uccidono, gli uomini o sono matti o sono vittime di compagne sfinenti. In entrambi i casi, l’uomo agisce mosso da una forza superiore, quella della follia che straccia la razionalità o quella della moglie che straccia le palle. Dopo il fiume di critiche ricevute e di lezioni su cosa sia il victim blaming, Barbara Palombelli ha scritto un post su Facebook: “La violenza familiare, l’incomprensione che acceca e rende assassini richiedono indagini accurate e ci pongono di fronte a tanti interrogativi. Stabilire ruoli ed emettere condanne senza conoscere i fatti si può fare nei comizi o sulle pagine dei social, non in tribunale. E anche in un’aula televisiva si ha il dovere di guardare la realtà da tutte le angolazioni”. Alcuni avvocati, tra cui Anna Maria Bernardini De Pace ne hanno preso le difese, ricordando che esiste il principio della provocazione, che esistono le attenuanti generiche, che il contesto in cui si svolge il delitto ha un suo peso. Certo. Se non fosse così, tutti gli omicidi varrebbero un ergastolo. I problemi nel discorso della Palombelli però sono molteplici: il primo è che i suoi riferimenti ai femminicidi degli ultimi giorni è infelice e non pertinente, perché alcune di queste donne sono state uccise a seguito della decisione di separarsi (una, Ada Rotini, il giorno della prima udienza), dopo aver subito stalking o addirittura a seguito di aggressione sessuale, il che rende poco credibile la tesi dell’uomo esasperato e della donna aggressiva. Erano le donne a essere esasperate e a subire l’aggressività dell’uomo, al limite. Il secondo problema è che proprio perché “le cose vanno viste da varie angolazioni e non bisogna assegnare ruoli senza conoscere i fatti”, dice la Palombelli, sarebbe stato più corretto affermare che anche quando avviene un fatto efferato come l’omicidio, bisogna ricostruire le dinamiche del rapporto tra vittima e assassino, contestualizzare il delitto, comprenderne il movente e stabilire eventuali aggravanti e attenuanti. I ruoli li assegna proprio la Palombelli quando attinge a piene mani dall’immaginario sessista per cui sì, magari l’uomo ha esagerato però la donna certe volte “ti ci porta”, “provoca”, “è una rompicoglioni” o, appunto, “esaspera”. Insomma, un po’ se l’è cercata. In effetti le due donne ammazzate perché avevano deciso di separarsi sarebbero potute rimanere con i mariti, anziché esasperarli con questa decisione aggressiva di riprendersi il loro diritto alla felicità.

E chissà quanto deve essersela cercata Chiara Ugolini, ammazzata dal vicino di casa con tanto di straccio intriso di candeggina in bocca. Doveva averlo esasperato parecchio, il povero vicino. Forse gli aveva macchiato i jeans con la candeggina. Aggressiva e pure maldestra. Insomma, per quanto sia apprezzabile la difesa d’ufficio di chi per mestiere o buona abitudine (che è anche la mia) difende allo sfinimento lo Stato di diritto, esiste anche il dovere di usare le parole giuste. Soprattutto in tv. Soprattutto quando si scomodano argomenti su cui c’è ancora tanto lavoro da fare, quando ci sono complesse rivoluzioni culturali in atto, che richiedono sensibilità, attenzione e il totale abbandono di stereotipi pericolosi. La Palombelli ha detto cose sbagliate, facendo riferimenti sbagliati, usando parole sbagliate. E questo sì, è esasperante, ma vorrei tranquillizzarla: ho comunque intenzione di lasciarla in vita.

Riecco il vecchio Ministero della Virtù

In Afghanistan esisteva un dicastero solo per tutelare e favorire le afghane, nato durante il governo di Hamid Karzai. A testimoniare la passata esistenza del “Ministero delle Donne” di Kabul c’era ancora un’insegna che è stata smantellata ieri mattina dagli uomini della sharia, l’unica legge che i talebani al potere hanno imposto a tutti di rispettare. La scritta del dicastero dedicato alle ragazze è stata sostituita da un’altra, metà araba, metà dari, che indica quale istituto occuperà d’ora in poi l’edificio: “Ministero della preghiera e guida e promozione della virtù e prevenzione dal vizio”. Nuovi padroni, nuove leggi e nuove serrature. Mentre decine di attiviste donne si stanno nascondendo per sfuggire ai mandati d’arresto emessi contro di loro, le afghane che fino a poche settimane fa lavoravano negli uffici del ministero, hanno trovato la porta sbarrata e gli è stato detto di tornare a casa per la loro sicurezza. I talebani che non hanno rispettato i patti, né accolto le sfide di quel “governo inclusivo” che promettevano a tutti i media stranieri di formare, hanno nuovamente ribadito che non c’è spazio per alcuna donna, né al governo, né in alcuna istituzione del Paese.

Nato ufficialmente per “servire l’Islam”, il ministero “anti-vizio” è stato creato durante il Califfato talebano esistito dal 1996 al 2001, ma fu poi abolito dopo l’attacco americano al Paese. Aveva il compito di vegliare ed imporre agli afghani l’interpretazione radicale del Corano, definire punizioni corporali per gli infedeli e gestire la polizia della moralità, quelle pattuglie della sharia addette ad accertarsi che per strada non si ascoltasse musica, ora nuovamente proibita da quando gli studenti religiosi sono arrivati al potere. Proibiva anche svaghi come gli scacchi, controllava la cessata attività dei negozi durante le ore di preghiera, che le barbe degli uomini fossero abbastanza lunghe e che nessun aquilone si levasse mai in volo.

Designato a capo del ministero c’è un religioso della vecchia guardia talebana: Mohamad Khalid. Se i talib si sono preoccupati di fornire e indicare in inglese tutti i nomi dei ministeri e uffici necessari per avviare cooperazioni internazionali con Paesi stranieri, hanno lasciato senza traduzione proprio le attività di questo istituto che si dedica ad annichilire chi pecca e ha imposto, in precedenza, lapidazioni alle donne accusate di adulterio, omosessuali o chiunque avesse trasgredito le leggi islamiche. Quando non si muore per pene corporali, il decesso arriva per fame nel Paese attanagliato dalla crisi economica, dove gli impiegati pubblici non ricevono salari da due mesi e non terminano le file alle banche per ritirare contanti: pochi, così pochi che a volte non bastano neppure per mangiare, hanno riferito ai giornalisti della Reuters ex impiegate del ministero, ora disoccupate.

Droni, l’Italia va in guerra ma non conosce le regole

È una guerra che non risponde ad alcuna forma di controllo democratico. Né del Parlamento né tantomeno dell’opinione pubblica. È questa la guerra che ora il nostro Paese inizierà a combattere, secondo quanto emerso la settimana scorsa, quando è affiorata la notizia che l’Italia armerà i suoi droni militari. Emersa grazie a una pubblicazione di settore, la Rivista Italiana di Difesa, la notizia è già sparita dallo schermo radar dell’opinione pubblica, prima ancora che potesse innescare un dibattito. È così che funziona la guerra dei droni. È avvolta nel segreto più totale. Nessuno ha informazioni precise, nessuno conosce come viene selezionato chi è sulla lista della morte, destinato a essere smembrato da uno dei micidiali missili sparati da questi velivoli a pilotaggio remoto. L’unica cosa certa è che, ora, l’Italia c’è dentro. Chi ha deciso?

Almeno dal 2008 il nostro paese è coinvolto nella guerra dei droni per la sua alleanza con gli Stati Uniti. I cablo della diplomazia americana, rivelati da WikiLeaks, fanno affiorare come la Sicilia sia considerata dagli americani una regione cruciale, proprio per la presenza della base dei droni di Sigonella e, secondo questi documenti, le autorità italiane lavoravano in collaborazione con il governo Usa per controllare l’impatto mediatico e politico del ruolo della base nella guerra al terrorismo.

Del muro di silenzio e segretezza intorno a Sigonella, ne sa qualcosa Chantal Meloni, professoressa di Diritto penale all’Università di Milano e consulente legale dello European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) di Berlino, che dal 2016 cerca di ottenere con il Foia i documenti sul quadro giuridico che regola la presenza dei droni armati statunitensi nella base, senza ottenere una sola pagina dal governo italiano. Segreto di Stato. La guerra americana dei droni è condotta in modo così scriteriato da aver spinto un giovane ex analista dell’intelligence americana, di nome Daniel Hale, a farsi avanti e denunciare che spesso, 9 su 10 di quelli ammazzati non avevano nulla a che fare con il terrorismo: erano innocenti. Hale, che ha agito esclusivamente per ragioni di coscienza, è attualmente in prigione negli Stati Uniti proprio per aver denunciato questi massacri. Questa settimana la stampa americana ha avuto l’ennesima conferma di quanto denunciato da Hale: secondo il New York Times e il Washington Post, nell’attacco con un drone, condotto dagli Stati Uniti 48 ore dopo un devastante attentato suicida all’aeroporto di Kabul nell’agosto scorso, non sono stati uccisi terroristi dell’Isis, come avevano dichiarato le autorità di Washington, ma è stato ammazzato un operatore umanitario, innocente, e con lui la sua famiglia di nove persone, inclusi sette bambini. È solo l’ennesimo errore. Per anni, l’intelligence americana ha sostenuto che gli attacchi con i droni non avevano causato alcuna vittima civile. L’Italia, che ora entra in questa guerra con i suoi droni armati, riuscirà a fare di meglio? La rete italiana Pace e Disarmo ha molte perplessità e preoccupazioni al riguardo.

“Gli Stati Uniti, con tutto che usano queste armi in modo scriteriato, quantomeno hanno una linea di comando”, analizza Francesco Vignarca della rete Pace e Disarmo, aggiungendo: “A quanto ci è dato di sapere, non esiste un quadro legale o normativo per l’uso italiano. Mentre per l’uso degli aerei, in Afghanistan o in Iraq, era necessario passare attraverso l’approvazione della missione militare e quindi definire le regole di ingaggio – su cui il Parlamento poteva anche intervenire – con i droni armati che partono dal suolo italiano non c’è più un’approvazione del Parlamento. Quali sono le regole di ingaggio? Chi decide? Chi dà il via finale per un’uccisione? Questo ci preoccupa molto”.

La Rete ha chiesto al governo l’apertura di un dibattito in Parlamento.

 

C’è Assembramento nel mar cinese

La Cina stende intorno al mondo una rete di relazioni commerciali e di basi militari: la Nuova Via della Seta è uno strumento di potere e d’influenza, non solo d’affari e di traffici. Gli Usa reagiscono creando intorno alla Cina nel Pacifico una cintura protettiva: l’Aukus, alleanza militare tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, è succedanea, anche nella struttura della sigla, all’Anzus, tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, ed è pronta ad aprirsi, se lo vorranno, a Giappone e Corea del Sud. Obiettivo: mettere un freno all’egemonia di Pechino nel Mar Cinese meridionale, che si manifesta con le pretese sulle Spratly, isolotti a sud delle Filippine, trasformati da colate di cemento in una sorta di portaerei, e con l’ambizione di riunire alla madrepatria Taiwan, come già accaduto con Hong-Kong e Macao.

La mossa del presidente Joe Biden non è certo improvvisata – ci vogliono mesi di negoziati, per mettere in piedi un accordo come quello dell’Aukus –. E se l’adesione della Gran Bretagna non è sorprendente – uscita dall’Ue, Londra ha forse nostalgia del suo ruolo di potenza mondiale –, quella dell’Australia colpisce perché Canberra aveva sempre mirato a un certo equilibrio nei suoi rapporti con Washington e Pechino, anche se non aveva mai fatto mancare il suo supporto militare agli Usa dall’Afghanistan all’Iraq.

Secondo esperti citati dalla Cnn, la mossa del premier australiano Scott Morrison ha implicazioni potenzialmente negative per il Paese oceanico: da una parte, lo pone in contrasto con la Cina, suo maggiore partner commerciale; dall’altra, ne affida la sicurezza alla protezione statunitense, proprio quando la vicenda afghana suscita dubbi sull’affidabilità di Washington come alleato.

Morrison aveva puntato sul rapporto diretto con Donald Trump e cerca di fare lo stesso con Biden, incurante delle frizioni che la nascita dell’Aukus crea, oltreché con la Cina, con la Nuova Zelanda, che ha già chiuso i suoi porti ai nuovi sottomarini nucleari australiani, e con l’Ue, e specialmente con la Francia, colpita negli interessi commerciali dalla cancellazione della commessa sui sottomarini attribuita ora alla Gran Bretagna. La sfida dell’Australia alla Cina, giudicata dagli analisti “non necessaria”, era già stata anticipata dalle recriminazioni australiane sull’origine del Covid-19, il “virus cinese” nella retorica trumpiana condivisa da Morrison, che mette in dubbio l’origine della pandemia e sollecita a Pechino chiarezza in merito.

L’irritazione francese, con la cancellazione d’un evento ieri all’ambasciata di Francia a Washington, e la freddezza europea sono comprensibili: Biden, che sembrava l’amico americano ritrovato, dopo la parentesi di Trump, taglia fuori l’Ue da trattative che hanno un impatto sulla sicurezza collettiva e ne danneggia in modo diretto il Paese membro geo-politicamente più rilevante – la Francia è l’unico dei 27 a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto e a possedere l’atomica –. Inoltre, rischia di favorire un ulteriore riavvicinamento tra Russia e Cina: Mosca e Pechino hanno, nel Pacifico, priorità e obiettivi diversi, anche territoriali – i russi guardano alle Curili, isole contese con il Giappone –, ma identiche controparti: gli Usa e i loro alleati. Senza contare la presenza nell’area di una variabile totalmente inaffidabile: la Corea del Nord di Kim Jong-un, comunque più sensibile ai desideri cinesi che ai diktat americani.

La reazione di Pechino è stata ferma e abile. Il presidente Xi Jinping ha affermato che la Cina “non permetterà mai a forze esterne di interferire negli affari interni dell’area pacifica e dei suoi Paesi”. Parlando in video-conferenza al Vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, cui partecipano Cina e Russia, con India, Pakistan e vari Paesi dell’Asia centrale e dov’è appena entrato l’Iran, Xi ha aggiunto: “Dovremmo sostenerci a vicenda… e tenere saldamente nelle nostre mani il futuro e il destino del nostro sviluppo e del nostro progresso”. Contestualmente, la Cina ha ufficialmente presentato domanda di adesione al Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership Agreement, l’accordo di libero scambio di 11 Paesi dell’area Asia-Pacifico evoluzione del TPP (Trans-Pacific Partnership) voluto dall’allora presidente Usa Barack Obama proprio per contenere la Cina e da cui Trump s’era poi ritirato nel 2017. Adesso, Pechino prova a riempire il vuoto lasciato dagli Usa, in funzione anti-americana.

Nel 2018, dopo negoziati successivi all’uscita degli Usa dal Tpp, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam si unirono e realizzarono il Cptpp, uno strumento contro i dazi tra Usa e Cina. Ma Washington sembra volere portare il confronto sul terreno geopolitico e militare. Forse perché la partita economica è persa.