Ita, 11 milioni di passeggeri via da Fiumicino. Linate gode

Il piano industriale di ITA, la società che nasce sulle ceneri di Alitalia, ha avuto lo scorso 10 settembre il via libera dall’Unione europea, ma al di fuori del ministero dell’Economia non sembra essere ufficialmente noto alle istituzioni preposte. Per spiegare il giallo occorre fare un passo indietro: la norma istitutiva di ITA prevedeva che la newco predisponesse “un piano industriale di sviluppo e ampliamento dell’offerta” da sottoporre all’approvazione sia delle Commissioni parlamentari competenti che dell’Unione europea. Le due Commissioni si sono espresse in senso favorevole tra fine febbraio e inizio marzo di quest’anno mentre la Commissione Ue manifestava già a inizio gennaio una molteplicità di osservazioni critiche.

Ne è nata, come al solito, una complessa trattativa che si è chiusa solo il 15 luglio con l’inserimento nel piano dei molteplici paletti posti dall’Unione. Tuttavia la sua versione finale non è stata trasmessa né alle commissioni parlamentari, che pure si dovrebbero esprimere una seconda volta, né – almeno così sembra – ai commissari di Alitalia, pur tenuti da norme di legge a favorire l’attuazione.

Quel piano industriale non è stato tuttavia modificato solo per recepire le richieste europee, ma anche per scelte autonome dell’azienda, posteriori al via libera parlamentare. Le sue caratteristiche attuali non sono note ma sono evidenti alcune discrepanze maggiori: per non fare che un esempio la versione approvata dalle commissioni parlamentari prevedeva un numero di dipendenti nell’anno 2021 pari a 5.200-5.500 unità, mentre quelli ora previsti si sono ridotti a soli 2.800.

Altre differenze significative si desumono mettendo a confronto la capacità effettiva già messa in vendita da ITA col piano iniziale. In esso il ridimensionamento rispetto ad Alitalia, necessario per il passaggio da una flotta di oltre 110 velivoli a una di soli 52, risultava equilibrato tra i due aeroporti principali, il cui differente ruolo era così confermato: Fiumicino come “Hub al centro della strategia di ITA per disegnare un network di primo livello” mentre Linate come “City airport per traffico business da/per Milano”.

Se si esamina invece l’offerta effettiva di ITA, desumibile dai posti messi in vendita per l’orario invernale, la realtà è diversa: l’offerta invernale è di circa 7,7 milioni di posti su base annua su Fiumicino e di circa 7 milioni di posti annui su Linate. L’offerta complessiva su Fiumicino risulta pertanto solo il 10% maggiore di quella su Linate mentre con la vecchia Alitalia in epoca ante pandemia la ripartizione era di circa un quarto dei posti a Milano e tre quarti a Roma. In sostanza quasi tutto il ridimensionamento di ITA rispetto ad Alitalia è realizzato a Fiumicino e in conseguenza ricadrà quasi integralmente sull’economia e l’occupazione delle città di Roma e Fiumicino e del Lazio in generale.

Considerando la maggiore offerta tipica della stagione estiva si può stimare che i passeggeri annui di ITA a Fiumicino potranno essere non più di 7-8 milioni, su un massimo di 10-11 milioni di sedili offerti. Poiché negli anni normali ante pandemia i passeggeri di Alitalia a Fiumicino erano invece circa 18 milioni, la perdita di traffico è stimabile in 10-11 milioni di passeggeri, non facilmente e non integralmente destinati a essere rimpiazzati dall’offerta di altri vettori.

In sintesi il piano industriale di ITA, nella versione che si può desumere dai suoi comportamenti effettivi, fa perdere a Roma un’offerta di circa 14-15 milioni di posti annui e 10-11 milioni di passeggeri. Almeno un terzo di questa perdita di posti e passeggeri appare come conseguenza dello spostamento di offerta da Fiumicino a Linate, che è stata stabilita posteriormente al piano industriale approvato dalle commissioni parlamentari e di certo non richiesta dall’Unione europea.

Questa perdita di traffico su Roma potrebbe trovare compensazione, almeno parziale, qualora il governo accettasse l’idea che dalla vecchia Alitalia in amministrazione straordinaria, con una flotta di oltre 110 aerei, siano ricavabili due distinti rami aviation: 1) quello acquisito da ITA, con 52 aerei; 2) quello restante, non acquisito da ITA, e di dimensioni almeno equivalenti.

Se questo secondo segmento fosse messo in vendita separatamente dai commissari di Alitalia potrebbe, oltre a ridurre la perdita di traffico di Fiumicino, anche contribuire a ridurre sensibilmente il problema occupazionale, potendo assorbire dai 2 ai 3 mila dipendenti di Alitalia che non sono assunti da ITA. Se invece lo si butta via, gli slot lasciati liberi finiranno gratuitamente ai concorrenti low cost, i quali li utilizzeranno per ridurre ulteriormente le già poche chance del nuovo vettore pubblico.

Interinali di Enjoy? No, domani magazzinieri Amazon e l’intesa coi sindacati subito violata

Firmare un’intesa “unica a livello mondiale” per le “relazioni industriali” e il “rispetto del Contratto collettivo nazionale di lavoro”. Mentre allo stesso tempo si fanno lavorare come magazzinieri i driver di Enjoy, assunti in somministrazione e con un altro contratto (peggiore). Ecco l’altra faccia di Amazon Italia, a nemmeno 48 ore dall’accordo “storico” coi sindacati. C’era entusiasmo il 15 settembre al ministero del Lavoro per l’intesa raggiunta con il colosso dell’e-commerce. Il “Protocollo per la definizione di un sistema condiviso di relazioni industriali tra Amazon e le organizzazioni sindacali Filt Cgil, Fit Cisl, Uil Trasporti”, dove si parla di “impegno a rispettare le norme del Ccnl Logistica, Trasporto Merci e Spedizioni” inclusi “le lavoratrici e i lavoratori in somministrazione presso Amazon”. Due pagine di preziose dichiarazioni d’intenti, seguite dalla “grande soddisfazione” del ministro Andrea Orlando e dei confederali (“accordo storico, unico a livello mondiale” dove “per la prima volta Amazon “riconosce la rappresentanza collettiva e il ruolo del sindacato”). Amazon ha celebrato l’intesa come “dialogo costruttivo e responsabile coi rappresentanti dei lavoratori”. Peccato che nelle stesse ore l’intesa venga smentita dai fatti: come può riferire Il Fatto, sette diversi driver di Enjoy – il car sharing di Eni attivo in varie città italiane – da Milano venivano spediti a lavorare per Amazon come magazzinieri nel centro di distribuzione di Cividate al Piano (Bergamo), appena inaugurato, e dove il gigante fondato da Jeff Bezos promette 900 posti di lavoro a tempo indeterminato nei prossimi tre anni. Nell’attesa che la profezia si avveri, Amazon si assicura i servigi di lavoratori in somministrazione assunti non con il contratto della logistica e dei trasporti ma col “multiservizi”. Interinali in forza a Professional Solutions, il ramo outsourcing di Adecco e che per la multinazionale di selezione del personale vale 57 milioni nel 2020 per 750 lavoratori. I 7 appartengono alla commessa per somministrazione di manodopera che la società di car sharing ha stipulato con Adecco. Ad agosto hanno ricevuto la comunicazione improvvisa: invece che spostare e pulire le auto della flotta milanese di Enjoy, al mattino devono viaggiare per 70 chilometri e lavorare come magazzinieri per Amazon. Gli è stato riconosciuto – di grazia – un bonus benzina come rimborso. Nulla di illegale – parrebbe – ma sicuramente fuori dal perimetro dell’intesa “storica” appena siglata, testimone il governo.

Malagò si fa una società tutta sua, parallela alla “Sport e Salute” del nemico Giorgetti

A Giovanni Malagò, presidente del Comitato olimpico, capo indiscusso dello sport italiano, quasi in delirio di onnipotenza dopo il trionfo azzurro ai Giochi di Tokyo, un Coni solo non basta più. Ha deciso di crearne un altro: una nuova società tutta sua, con cui amministrare gli immobili, e poi ovviamente fare tante altre cose, appalti, servizi, le possibilità sono pressoché infinite. Si chiamerà Coni Spa, o qualcosa di simile, poco cambia: è tutto già pronto, anche lo statuto, manca solo il nome. Di fatto, è il ritorno di Coni servizi, la vecchia società in house che nel 2018 l’ex sottosegretario Giorgetti aveva spostato a Palazzo Chigi e ribattezzato “Sport e salute”, nel tentativo di ridimensionare il Comitato e riportare al governo una serie di prerogative di cui il Coni si era appropriato quasi per usucapione, dai finanziamenti pubblici per le Federazioni all’attività di base nelle scuole e sul territorio. La famosa riforma dello sport che di fatto non è mai decollata. Malagò ha fatto strenua resistenza e, attraverso il sostegno del Cio e i suoi tanti contatti politici, è riuscito a smontarla pezzo per pezzo. L’ultimo capolavoro pochi mesi fa, al crepuscolo del Conte-2: agitando lo spauracchio di un’improbabile esclusione dell’Italia dai Giochi, sfruttando la confusione del governo, Malagò riuscì a ottenere il “dl Salva-Coni”, che gli restituiva personale, palazzi e competenze. Lui in realtà avrebbe voluto ancora di più: una società, appunto, ma quello era stato l’unico paletto posto dal M5S. Sono passati pochi mesi e Malagò prova ad aggirare pure quello nel silenzio generale: ha portato in giunta delibera e statuto e se li è fatti approvare. Ma lo può fare? La legge lo consente, un ente pubblico può avere una società di scopo in house. Anche se ci sarebbe la vigilanza del Mef e soprattutto di Palazzo Chigi, dove non saranno felici di veder spuntare dall’oggi al domani una nuova partecipata, figuriamoci con queste modalità. Il Coni infatti non si è nemmeno degnato di avvertire la sottosegretaria Valentina Vezzali, ma del resto Malagò – non si sa bene a che titolo – l’ha già congedata, ringraziandola per il lavoro svolto e chiedendo al governo di istituire un ministero dello Sport. La classica mossa del cavallo, per liberarsi della Vezzali, diretta emanazione di Giorgetti e poi sferrare il colpo di grazia a “Sport e salute”. La nuova società è l’ultimo passo verso la restaurazione dell’impero: il Coni di Malagò non lascia, raddoppia.

Parlamento Ue, i femminicidi tra gli eurocrimini

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo aveva chiesto pochi giorni fa: “La violenza di genere diventi un eurocrimine”. E così giovedì sera il Parlamento europeo ha accolto il suo invito e approvato una risoluzione che chiede alla Commissione di inserire la violenza di genere come una nuova sfera di criminalità equiparandola ad altri crimini che vengono combattuti su base comunitaria come il traffico di esseri umani, di droga e di armi, il crimine informatico e il terrorismo. Nella risoluzione gli europarlamentari spiegano che per violenza di genere si intende quella contro donne, ragazze e contro le persone Lgbtq+ e che “anche negare l’assistenza all’aborto sicuro e legale è una forma di violenza di genere”. Tra questi reati ci sono anche i femminicidi, arrivati in Italia a quota 84 solo nel 2021. Una volta modificati i trattati, i femminicidi saranno equiparati ai reati di mafia e terrorismo. La risoluzione è passata a Bruxelles con un’ampia maggioranza: 427 voti. Lega e FdI si sono astenuti.

Gigino “’a purpett” assolto dall’accusa di voto di scambio

Arriva una buona notizia per il senatore di Forza Italia Luigi a purpett Cesaro, pochi giorni fa raggiunto da una richiesta di arresto per concorso esterno in associazione camorristica perché ritenuto garante di un patto politico-mafioso con il clan Puca alle comunali di Sant’Antimo del 2017. Ieri il Tribunale di Napoli Nord ha assolto lui, i fratelli Aniello e Raffaele, il figlio Armando (capogruppo azzurro in Campania fino al 2020), l’ex consigliera regionale Flora Beneduce e altri 24 imputati da accuse di voto di scambio relative alla tornata elettorale del 2015. Le elezioni campane concluse con il trionfo di Armando Cesaro: 22.312 preferenze. Ma una parte di quel boom, secondo la procura di Napoli, si fondava su clientele documentate da intercettazioni estrapolate dalle inchieste di camorra a carico del padre e degli zii. Intercettazioni “inutilizzabili” per il processo, su istanza dell’avvocato Alfonso Furgiuele. “Non festeggio, troppe ingiurie e tristezze” commenta Armando Cesaro ricordando che per questa inchiesta rinunciò alla ricandidatura.

Stato-mafia, il bis delle condanne è in salita

Tra pochi giorni la Corte di assise di appello di Palermo dovrà decidere se la sentenza di primo grado sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia del 20 aprile 2018 vada confermata o annullata. Il processo iniziato nel 2012 ha visto alla sbarra insieme i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti durante il processo), il medico mafioso Antonino Cinà e l’allora comandante del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, Angelo Subranni, l’ex vicecomandante Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno più l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri.

In primo grado Bagarella si è visto infliggere ben 28 anni; Cinà, Dell’Utri, Mori e Subranni dodici anni; De Donno otto anni e Giovanni Brusca è stato salvato dalla prescrizione. Massimo Ciancimino è stato condannato per calunnia a otto anni. Nel processo parallelo l’ex ministro Dc Calogero Mannino, con il rito abbreviato, è stato assolto con sentenza confermata in appello e definitiva nel 2020.

I sostituti procuratori generali che sostengono l’accusa in appello (Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, guidati dal procuratore generale Roberto Scarpinato) dopo lo stop su Mannino hanno chiesto comunque la conferma delle condanne per gli altri imputati.

Il reato Minaccia a corpo polito dello Stato

Il reato contestato non è la trattativa in sé ma la minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, prevista dall’articolo 338 del codice penale. Il tema non è quindi se prima i carabinieri e poi Dell’Utri abbiano trattato con la mafia, ma se abbiano turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati nel periodo 1992-1994.

Le domande cui dovrà rispondere la Corte di assise di appello sono in sostanza due: la minaccia allo Stato attuata con le stragi è stata veicolata dai carabinieri del Ros e poi da Marcello Dell’Utri alle istituzioni? Le presunte ‘trattative’, che vedono come protagonisti da un lato i carabinieri e Dell’Utri e dall’altro gli emissari della mafia, configurano un reato? I carabinieri del Ros – Subranni, Mori e De Donno – sono stati condannati per l’innesco della Trattativa con don Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci mentre Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia, è stato condannato per le pressioni veicolate al governo Berlusconi nel 1994.

La sentenza di appello è attesa a partire dal 21 settembre. Le possibilità teoriche sono tre: conferma della condanna per tutti; assoluzione per tutti; oppure condanna per il primo segmento della Trattativa e non per il secondo o viceversa. La Corte potrebbe cioè assolvere solo Dell’Utri e condannare Mori, Subranni e De Donno. Oppure potrebbe condannare solo Dell’Utri. Più difficile ipotizzare uno ‘smembramento’ del destino dei tre ex carabinieri.

Il presidente della Corte di assise di appello è Angelo Pellino, ricordato come il presidente della Corte di Trapani che nel 2014 ha condannato i boss per l’uccisione di Mauro Rostagno.

Giudice a latere è Vittorio Anania, che ha indossato la sua prima toga, prestatagli da un collega, al picchetto d’onore per le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Difficile fare previsioni, ma la strada verso la conferma della condanna è in salita. L’ostacolo più grande è il giudicato definitivo della Cassazione che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per gli stessi fatti.

I due processi, quello con il rito abbreviato contro Mannino e quello ordinario contro tutti gli altri imputati, hanno avuto esiti diversi su fatti praticamente uguali. E questa non è una buona notizia per l’accusa.

Mannino assolto definitivamente nel 2020

Infatti la Procura generale capeggiata da Roberto Scarpinato ha cercato senza successo di ottenere dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale la possibilità di ribaltare l’appello perso contro Mannino. Invano. Dopo la riforma del 2017, quando c’è una doppia assoluzione, il ricorso al terzo grado è inammissibile. La questione di legittimità costituzionale di questa norma è stata rigettata. Risultato: per la giustizia italiana Mannino è innocente e non ha attivato la Trattativa per salvarsi la vita contattando il generale Subranni. Non ha mai aiutato Cosa Nostra. Anzi l’ha combattuta. Il verdetto definitivo su Mannino bolla la tesi della Procura generale (sostenuta dagli stessi pm oggi nell’altro processo) così: “Non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

La strada per la conferma della condanna è dunque un vicolo stretto e tortuoso. Quando nel 2018 furono condannati Subranni e compagni, c’era già l’assoluzione del 2015 del primo grado di Mannino. La Corte d’assise d’appello ora per confermare la condanna però dovrà saltare un muro più alto. L’assoluzione di primo grado per Mannino è diventato un giudicato. Dopo l’assoluzione di Mannino, la Corte d’assise scavalcò quel verdetto di primo grado così: “Al Subranni, invero, deve ricondursi l’ideazione della trattativa con i vertici mafiosi da cui ebbe a scaturire la minaccia rivolta da questi al governo della Repubblica. Subranni, infatti, ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta (…) in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa Nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”.

Per la sentenza di primo grado, Mori e De Donno avrebbero quasi confessato la ‘trattativa’ nel 1998 quando testimoniarono al processo di Firenze sulle stragi continentali.

La Corte li ha condannati anche sulla base delle loro parole perché l’iniziativa di andare a parlare nel 1992 con il mafioso Vito Ciancimino era tesa “non già come preteso dagli imputati allo sviluppo investigativo di indagini dirette a identificare i responsabili della strage di Capaci e a catturare i grandi latitanti di Cosa Nostra, ma all’intendimento di ristabilire in un certo senso una “normalità” di rapporti con gli esponenti dell’associazione mafiosa, e cioè quella “coabitazione” (…), di modo da far salva la vita a coloro che temevano di essere travolti dalla furia mafiosa (in primis l’On. Mannino che, come si è già detto, in tal senso aveva sensibilizzato l’amico Subranni)”.

Un anno dopo, la Corte di appello del processo Mannino ha confermato l’assoluzione dell’ex ministro nella sentenza ormai definitiva firmata dalla presidente Adriana Piras che fa a pezzi questa tesi. Il Ros avrebbe fatto “un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (…) realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino (…) tale operazione si proponeva attraverso la sollecitazione a un’attività di infiltrazione di Vito Ciancimino in Cosa Nostra, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina”.

Insomma nessun input politico di Mannino. Nessuna trattativa finalizzata a far finire le stragi in cambio di benefici a Cosa Nostra. Solo un tentativo di arrestare Riina con la soffiata di Ciancimino in cambio di benefici individuali a don Vito.

Addirittura, sempre per la sentenza di appello che assolve Mannino, non sarebbe provato nemmeno che il mancato rinnovo nel novembre 1993 di circa 300 decreti di isolamento carcerario al 41-bis fosse dettato dal cedimento alla minaccia stragista.

Questa lettura minimalista è rigettata dalla sentenza firmata dal presidente Alfredo Montalto nel 2018 secondo la quale nell’azione del Ros di Mario Mori c’era “il chiaro invito a Ciancimino (…) a prestare la propria opera per recapitare ai vertici mafiosi un messaggio di apertura al dialogo (“Ma non si può parlare con questa gente?”) finalizzato a “normalizzare” l’anomalia creatasi a seguito dell’uccisione di Salvo Lima e della prevedibile e prevista uccisione di altri politici oltre che della vendetta che aveva travolto il Dott. Falcone, nel rapporto di secolare coabitazione tra mafia e Istituzioni di modo da far cessare la totale contrapposizione (il “muro contro muro”) che, evidentemente, a Mori (e a Subranni che lo aveva incaricato), rispetto alla ‘coabitazione’, appariva invece innaturale”.

I pm a maggio depositata la memoria sull’ex ministro

La Corte di assise di appello ora dovrà scegliere tra queste due opposte tesi. I sostituti procuratori generali Fici e Barbiera hanno depositato a maggio una memoria di 78 pagine in 21 punti che contesta le omissioni e l’illogicità nella motivazione della sentenza Mannino e la mancata assunzione di prove asseritamente decisive. In testa le testimonianze dei collaboratori Francesco Onorato e Giovanni Brusca. E poi il travisamento della testimonianza di Agnese Borsellino sulle confidenze ricevute dal marito poco prima della strage di via D’Amelio sul generale Subranni. La Corte d’assise di appello potrebbe opporre il giudicato assolutorio su Mannino oppure potrebbe rivalutare quei fatti e darne diversa lettura.

Forse solo la sorte processuale di Marcello Dell’Utri potrebbe essere più facilmente slegata da quella di Mannino e dei carabinieri. Dell’Utri in fondo è stato assolto già in primo grado per la prima fase della Trattativa ed è stato condannato solo per il suo ruolo di ‘mediatore’ nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia nel 1994. Secondo i giudici di primo grado, avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte nel 1994 per parlare delle modifiche legislative delle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al governo Berlusconi, a suon di bombe.

Nella ricostruzione della Corte di assise, i mandanti di quell’iniziativa di Mangano sarebbero stati i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. A raccontare le confidenze ricevute sugli incontri sul lago di Como dallo stesso Mangano è stato un collaboratore di giustizia vicino a Mangano, Salvatore Cucuzza, poi morto.

Nel precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro Dell’Utri però Cucuzza non era stato ritenuto attendibile sul punto. Tanto che in quella sentenza, divenuta definitiva nel 2014, Dell’Utri è stato condannato sì, ma per i suoi rapporti con Cosa Nostra solo fino al 1992. Mentre è stato assolto per il periodo successivo.

I giudici del processo sulla Trattativa hanno però superato l’ostacolo di quel giudicato favorevole all’ex senatore con elementi nuovi. Si sono così convinti che Cucuzza dica il vero: per la Corte di Assise, Mangano incontrò Dell’Utri, percepì la minaccia e la riferì a Berlusconi. “Il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”. Certo, manca un testimone diretto della trasmissione della minaccia a Berlusconi, mai indagato. La Corte d’assise ammette che “si tratta di una prova indiretta”. Ora bisognerà vedere se quella prova basterà anche in appello.

“Mai conosciuto, chi c’è dietro di lui?” E gli accusati annunciano querele

Ora che il velo è caduto, partono le denunce. Magistrati, imprenditori, uomini delle istituzioni e politici citati da Piero Amara nei suoi verbali prendono le distanze dall’avvocato e annunciano querele. Vertici attuali e passati delle Forze dell’ordine hanno già firmato il mandato ai propri legali. “Non ho mai aderito ad associazioni di alcun genere, tantomeno di natura segreta”, precisa il comandante della Guardia di finanza, generale Giuseppe Zafarana . Per questo “ho già dato mandato ai miei legali di procedere in via giudiziaria per calunnia”. Lo stesso hanno fatto Giorgio Toschi, già comandante generale della Finanza, e Tullio Del Sette, ex n.1 dell’Arma dei carabinieri.

Impugnano carta e penna anche i magistrati citati nelle carte. “Non conosco Piero Amara né Denis Verdini e non ho avuto alcun incontro con lui alla Galleria Alberto Sordi. I fatti riportati sono storicamente inesistenti”, afferma l’ex consigliere togato del Csm e ora presidente di sezione al Tribunale civile di Roma, Lorenzo Pontecorvo. Che si riserva “di formulare le dovute denunce per calunnia”. “Mai ho ricevuto da alcuno richieste di affiliazioni a organizzazioni segrete o logge di alcuna specie”, fa eco Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. “non ho mai conosciuto né intrattenuto alcun rapporto con l’avvocato Amara, nei confronti del quale presenterò querela”. Anche il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi ha “già presentato un esposto per calunnia. (…) Mai avrei pensato nella mia vita di dovermi trovare a smentire dichiarazioni tanto calunniose quanto fantasiose”. Una reazione molto simile a quella di Magistratura Indipendente: “Ci tuteleremo nelle sedi dovute”. Le dichiarazioni di Amara “sono farneticanti e destituite di ogni fondamento – spiega l’ex magistrato e oggi deputato Cosimo Maria Ferri – (…). Chi c’è dietro? Quale è l’obiettivo?”. Il medesimo interrogativo posto dal magistrato Angelantonio Racanelli: “Mi pongo solo una domanda: chi c’è dietro l’avvocato Amara?”.

Sul piede di guerra anche l’Eni, che respinge le accuse e ricorda di aver “promosso sin da luglio 2019 causa civile contro Piero Amara per i danni alla propria reputazione”. Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, specifica di non aver “mai avuto modo di conoscere l’avvocato Amara” e “respinge ogni possibile insinuazione”. Replica ironico, invece, Antonio Leone, del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria ed ex laico del Csm: “È successo che qualche amico mi abbia chiesto se sono stato in Ungheria e io ho risposto che sono stato a Budapest. Per il resto quando ho letto il mio nome ho sorriso”. Mentre Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica e oggi del quotidiano Domani, si limita a precisare: “Non ho mai avuto contatti di alcun tipo con l’avvocato Amara”.

Stefano Rocco Fava, ex pm di Roma, lamenta: “Il 10 agosto chiedevo alla Procura di Perugia ai fini difensivi il rilascio di atti che ancora oggi non mi sono stati consegnati. Scopro che tali atti sono stati pubblicati da un quotidiano”. E Luca Palamara, a giudizio a Perugia per corruzione per i suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, annuncia “un esposto sulle ragioni della mancata perquisizione del 30 maggio del 2019 all’avvocato Piero Amara e Fabrizio Centofanti”. Le versioni integrali delle reazioni e delle note che abbiamo ricevuto sono pubblicate in calce a questo articolo sul nostro sito, ilfattoquotidiano.it.

Loggia Ungheria, Amara: “Ero il padrone di Lotti”

Continuiamo la pubblicazione di alcuni stralci – selezionati in ordine cronologico e per rilevanza dei ruoli pubblici – degli interrogatori resi dinanzi ai pm della Procura di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, da Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione e ora indagato a Perugia per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Amara è l’unico indagato tra i nomi che leggerete e la sua versione (che ha già provocato da ieri l’annuncio di numerose denunce per calunnia) è tuttora al vaglio dei magistrati inquirenti.

14 dicembre 2019

Amara: “Fanno ulteriormente parte di Ungheria e sono magistrati amministrativi De Nictolis (attuale presidente del C.G.A.), Di Francisco (credo che al momento sia alla segreteria del presidente Conte); un certo Simonetti (giudice al C.G.A.), Stanisci (la compagna attuale di Nitto Palma – anche quest’ultimo facente parte di Ungheria). (…) Verdini mi indicò Nitto Palma e la sua attuale compagna e anche De Ficchy (procuratore di Perugia). Con riguardo a quest’ultimo ricordo che segnalai nello studio romano di DLA Piper il figlio, che in effetti fu inserito nello studio legale. Questa richiesta mi fu personalmente indicata da De Ficchy, che ho incontrato in un bar di fronte al Csm di Roma. Credo che ciò sia avvenuto nel 2016. L’assunzione del figlio di De Ficchy presso DLA Piper è stata mediata da Centofanti, a cui ho formulato io la relativa richiesta”.

15 dicembre 2019

“Successivamente si creò un problema con Fanfani il quale voleva quantomeno applicare la censura a Musco, ritenendo che fosse più coerente con la misura cautelare che il Csm aveva imposto nei suoi confronti. La notizia ci fu data da Palamara il quale la comunicò a Ferri che la veicolò a me attraverso Verdini. Mandai Bacci da Luca Lotti; all’epoca ero il ‘padrone’ di Luca Lotti perché gli avevo dato, tramite Bacci attraverso Racing Horse, circa 200 mila euro. Si andò quindi a votare e Musco fu assolto all’unanimità per insussistenza dei fatti nel marzo 2015. Naturalmente fu necessario garantirsi il benestare della Severino per raggiungere il risultato per le ragioni che ho già esposto. Fu Michele Vietti ad avere con lei una interlocuzione su mia richiesta. Avevo avuto notizia da Vella e Granata che la Severino aveva ottimi rapporti con il presidente Napolitano in quanto veicolava importanti incarichi professionali a suo figlio, tanto è vero che Scaroni quando cercava di essere riconfermato in Eni, aveva messo sul piatto della bilancia un importante incarico per il figlio di Napolitano attraverso la Severino. (…) La vicenda Musco è la dimostrazione plastica del potere di Ungheria sul Csm. Le decisioni furono assunte fuori dai luoghi istituzionali e nell’ambito di riunioni tra fratelli. In quel periodo nel Csm non contava il merito ma solo i numeri”. (…)

“Ricordo ancora che il gruppo Ungheria s’è mosso per promuovere una azione disciplinare nei confronti di Henry Woodcock, ‘colpevole’ di aver indagato sulla vicenda Consip e in particolare sul padre di Matteo Renzi. Mi dissero sempre Ferri, Verdini e Lotti che di questo fatto fu informato anche Renzi e che era necessario che il provvedimento disciplinare andasse velocemente per essere gestito dalla sezione del Csm che in quel momento era in carica. Dal lato Procura generale il procedimento fu seguito da Ciccolo e da un sostituto a lui vicino. Ciccolo è partecipe di Ungheria, lo so perché me lo hanno detto, l’ho visto nell’elenco”.

11 gennaio 2019

“Ritornando sul Consiglio di Stato vorrei precisare quanto prima detto con riguardo al giudice Santoro: da parte di Luca Lotti, soprattutto, vi era un forte interesse alla gestione di ricorsi Consip e tali ricorsi tabellarmente dal 2016 furono affidati alla VI sezione del Consiglio di Stato. Questa è la ragione per cui si voleva che Santoro divenisse presidente della sezione che si occupava dei ricorsi Consip e così avvenne”.

Domanda del pm: “Può meglio precisare con chi intervennero i discorsi per la nomina di Santoro, quando avvennero e dove avvennero?”.

Amara: “L’esigenza di avere il controllo del giudice che si occupava dei ricorsi Consip mi fu manifestata direttamente da Luca Lotti nel corso di una cena in trattoria che colloco all’inizio del 2016. Lotti mi disse espressamente che voleva che i ricorsi Consip fossero affidati a Santoro. Nello stesso periodo di tempo – nel corso di colloqui con Verdini – ho avuto anche da quest’ultimo il medesimo input, ossia che Santoro dovesse occuparsi di tali ricorsi. (…) La conoscenza di queste dinamiche mi è venuta comunque utile in quanto feci cambiare a Ezio Bigotti il suo avvocato amministrativista facendo nominare il professor Tedeschini, che sapevo avere ottimi rapporti professionali con il giudice Santoro”.

Toti “si regala” il Suv: 60mila euro in 3 anni

Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti si è regalato un nuovo Suv. Una Mercedes modello Classe Gle V167 320 di cilindrata che, attraverso un “noleggio a lungo termine di tre anni”, costerà alle casse dell’amministrazione ligure quasi 60mila euro (59.907, 68 euro). A conti fatti 1.664 euro al mese. Un acquisto estivo, effettuato poco prima dell’inizio di luglio. Dagli atti disponibili emerge che il contratto non è stato fatto attraverso la centrale nazionale degli appalti Consip, che non avrebbe avuto avuto macchine di “pari livello” di quella da sostituire, ma su Sintel, piattaforma d’appalti gestita da Aria Spa, società della Regione Lombardia. La delibera, passata inosservata, risale al 29 giugno scorso. A leggere l’atto della giunta la necessità di rinnovare il parco macchine si giustifica con la rottura di un’altra vettura: “L’auto assegnata alla presidenza della giunta regionale Jeep Grand Cherokee ha subito un grave guasto al motore e pertanto è necessario potenziare il parco auto, anche al fine di ovviare agli eventuali disservizi relativi al Jeep Grand Cherokee, per il quale è doveroso operare un attento monitoraggio”. Insomma, sembrerebbe di capire che il problema non è tanto la sostituzione della prima macchina, ma la sua perdita di affidabilità, che quindi giustificherebbe l’investimento.

Fatta questa premessa, il decreto, firmato dalla dirigente Maria Carmela Grieco, dà conto del fatto che il modello in questione “è uscito di produzione” e quindi occorreva cambiare macchina. Di tre preventivi allegati, quello di Unipolrental Spa risulta il più basso e viene scelto “ritenuta l’offerta congrua, in relazione al valore commerciale dell’autovettura, in linea con i prezzi del mercato e conforme a quanto richiesto in sede di gara”. La spesa, si legge nella parte conclusiva del documento, viene inserita “nei capitoli degli esercizi non considerati nel bilancio di previsione triennale 2021-2023”.

Il Fatto ha chiesto ieri un commento a Toti. “Dopo aver visto il capo dell’opposizione fotografare furtivamente l’auto del presidente Giovanni Toti parcheggiata sotto la Regione negli spazi riservati – si legge in una nota – Regione Liguria precisa che l’automobile è stata regolarmente acquistata con decreto 3959/2021. Comprendiamo l’interesse del giornalismo investigativo della testata del suo ex giornalista, ma è altrettanto facile immaginare, in modo anche intuitivo, che l’auto venga utilizzata dal presidente per i suoi impegni istituzionali, macinando una media di 100mila chilometri l’anno”. La replica ha imposto a questo punto la richiesta di una controreplica, a Ferruccio Sansa: “L’unica cosa vera è che stamattina sono passato nei parcheggi della Regione, come mi capita quando vado a lavorare – risponde con tono divertito Sansa –. Apprendo così che le ingenti spese in comunicazione, 2 milioni di euro l’anno, servono anche a tracciare il percorso del capo dell’opposizione per andare in ufficio”.

Sul sito Guidicar.it, lo stesso modello di auto viene offerto in leasing a partire da 430 euro al mese, sebbene vada precisato che nel preventivo non abbiamo verificato optional e assicurazione, e che la ricerca non ambisce a essere esaustiva. La fonte in questo caso non è segreta e si può rivelare: Internet.

 

Solinas, un’altra strana compravendita nel 2013

Lo si era capito: il governatore sardo Christian Solinas è un uomo assai fortunato in affari. E non solo per la vicenda dei ruderi di Santa Barbara acquistati dai frati nel 2002 per circa 50 mila euro e rivenduti (non ristrutturati) il 4 novembre 2020 per 550 mila euro al fornitore della Regione, Roberto Zedda. E neanche per quei 200.000 euro di caparra versati da Zedda dei quali si ignora il destino, visto che del rogito definitivo non v’è traccia, come svelato ieri dal Fatto. E neanche per gli 880 mila euro di mutuo che Solinas – lavoratore precario – ha ottenuto dal Banco di Sardegna, con i quali ha potuto acquistare una villa da 1,1 milioni a Cagliari. Quanto perché di vicende che lo vedono trattare affari che non vanno a buon fine (ma che lasciano caparre da centinaia di migliaia di euro in giro) Solinas sembra averne vissute più di una.

Il Fatto è in grado di svelare che la compravendita (con rogito scomparso) dei ruderi ha un precedente. Un’operazione assai simile a quella del 4 novembre 2020: anche questa volta si tratta di una compravendita immobiliare, ma di terreni agricoli. Anche stavolta a vendere è Solinas e a comprare è un importante imprenditore dell’isola; anche qui si firma un preliminare e viene versata un’ingente caparra (200mila euro); e anche di questa operazione nei documenti dell’Agenzia delle Entrate non vi è traccia di rogito. Insomma, una fotocopia di quanto accaduto 7 anni dopo con i ruderi.

Per raccontare questa vicenda bisogna tornare al 30 maggio 2013, quando, a poco meno di un mese dalle dimissioni da assessore regionale ai Trasporti della Giunta Cappellacci, Solinas si ritrova nell’ufficio del notaio cagliaritano Carlo Mario De Magistris. Ha appuntamento con Antonello Pinna, proprietario della Pinna Trasporti Logistica, una delle più importanti società di trasporto su gomma dell’isola. Solinas e Pinna devono infatti sottoscrivere il preliminare di vendita di 40.350 mq di terreno che l’attuale governatore sardo possedeva a Capoterra (Cagliari), ricevuti in eredità dal nonno materno, Amedeo, grazie a un testamento olografo stilato dallo stesso notaio De Magistris. Il prezzo fissato per il passaggio di mano dei terreni era di 400 mila euro.

Dalla lettura del contratto si evince che alla firma del preliminare l’acquirente (cioè Pinna) ha dato al venditore (Solinas) una caparra confirmatoria di 200 mila euro (la stessa cifra versata da Zedda a Solinas nel 2020). Soldi consegnati con 4 assegni circolari non trasferibili da 50 mila euro l’uno, emessi il 30 maggio 2013 dal Banco di Sardegna. L’articolo 5 del preliminare fissava il rogito entro e non oltre il 30 maggio 2014. In quel giorno, Pinna, avrebbe dovuto versare i rimanenti 200 mila euro. Tuttavia – come per i ruderi – anche per i terreni di Capoterra i documenti dell’Agenzia delle Entrate non riportano traccia del rogito. C’è l’annotazione del preliminare, ma manca quella del contratto definitivo.

Oggi Pinna è deceduto e i suoi eredi raggiunti dal Fatto si sono rifiutati di parlare. L’unica ammissione è che loro “non sanno nulla di terreni del padre a Capoterra”. Solinas, invece, come già era avvenuto per i ruderi, non ha ritenuto necessario rispondere alle circostanziate domande inviate dal nostro giornale via email. Così come non si è espresso circa l’opportunità che un uomo politico che fino a pochi giorni prima occupava la poltrona di assessore regionale ai Trasporti si metta a fare affari con un imprenditore che ha una importante società di autotrasporti.

Quindi anche per questa operazione – come per Santa Barbara – è impossibile sapere se il rogito non compare nei documenti a causa di un errore dell’Agenzia delle Entrate che non l’ha trascritto (il che sarebbe un record, considerando anche l’errore per la compravendita di sette anni dopo), oppure se proprio l’atto non è stato mai sottoscritto. E, in questo caso, che fine hanno fatto i 200 mila euro della caparra: li ha incamerati Solinas, perché l’acquirente si è tirato indietro? Oppure li ha restituiti all’imprenditore (in questo caso, però, Solinas avrebbe dovuto ridare all’acquirente il doppio della cifra nel caso in cui l’impossibilità a contrarre fosse stata dovuta a una sua negligenza)? Non è dato sapere.