Piccole imprese, artigiani e colf: i buchi del decreto

Alla Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna), che dichiara oltre 600 mila imprese e 1,2 milioni di lavoratori, raccontano che gli associati telefonano per chiedere: “E l’undicesimo giorno cosa succede?”. Il decreto che estende l’obbligo di Green pass a tutti i lavoratori dipendenti e autonomi (oltre 23 milioni), nella versione fatta circolare da fonti governative, non è chiarissimo. Per il pubblico impiego, come nella scuola, senza pass non si entra, l’assenza è ingiustificata e al quinto giorno la sospensione da lavoro e stipendio del dipendente sprovvisto “è disposta dal datore di lavoro”, cioè il dirigente dell’ufficio, “o dal soggetto da lui delegato”. Nel privato arriva subito. Dura finché il malcapitato non si regolarizza e non oltre il 31 dicembre, termine attuale dello stato d’emergenza. Sotto i 15 dipendenti, invece, “dopo il quinto giorno di mancata presentazione della predetta certificazione, il datore di lavoro può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni e non oltre il predetto termine del 31 dicembre 2021”. Dunque facoltà e non obbligo di sospendere e sostituire, ma solo per 10 giorni. Al Lavoro spiegano che il limite di 10 giorni riguarda il contratto del sostituto: “All’undicesimo giorno bisogna farne un altro, a un diverso lavoratore”. Fermo restando il divieto di licenziamento e di sanzioni disciplinari per chi non ha il pass, voluto dal ministro Andrea Orlando, non sembra comodissimo. Magari correggeranno, visto che il decreto non è ancora nella Gazzetta ufficiale e l’obbligo entrerà in vigore il 15 ottobre. I controlli si possono fare anche “a campione”.

Cna ha chiesto un incontro al governo: “La formulazione del provvedimento appare confusa e di incerta applicazione per una platea di circa 9 milioni di lavoratori tra dipendenti e autonomi, oltre il 60% del settore privato. Il decreto –­scrive Cna – sembra concepito per il lavoro all’interno di grandi fabbriche e uffici”. Anche Confcommercio ha perplessità: “Il governo, prevedendo la sostituzione del lavoratore sospeso, ha cercato di venire incontro alla piccola impresa, ma il decreto è scritto male, forse per la fretta”, osserva Guido Lazzarelli, direttore dell’area Lavoro e welfare, che vorrebbe anche una deroga al decreto Dignità che limita i contratti a termine. “Chiediamo una norma chiara e di facile applicazione. Così non lo è”, dice Lazzarelli.

La verifica del pass spetta sempre al datore di lavoro: “Ma chi controlla un idraulico che va a lavorare in una casa privata, il cui proprietario non è il suo datore di lavoro?”, chiede Cna. Colf e badanti, invece, un datore di lavoro ce l’hanno, anche se poi non tutti, specie tra i più anziani, sapranno usare la app “Verifica C-19” del ministero della Salute.

Multe da 600 a 1.500 euro, irrogate dal prefetto su segnalazione di pubblici ufficiali, ai lavoratori che entrano senza pass e ai datori che non controllano. Se lo si falsifica c’è la denuncia penale. I clienti dei negozi non saranno tenuti ad avere il Green pass, diversamente da quanto già previsto per bar e ristoranti al chiuso, cinema e teatri, stadi, piscine e palestre, voli e treni a lunga percorrenza, dove finora gli utenti/clienti devono avere il lasciapassare, ma gli addetti solo dal 15 ottobre.

Effetto Super Green pass? In 5 giorni prime dosi -20%

Era quasi scontato che l’estensione dell’obbligo del Green pass a tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione e ai lavoratori delle aziende private non avrebbe fatto tornare sui propri passi i no-vax convinti. Meno che il decreto del governo che ha impresso la svolta (peraltro ampiamente annunciata) non abbia ancora dato una spinta ai ritardatari e agli indecisi. Al contrario. Non solo non c’è la rincorsa alla prenotazione della prima dose (o della dose unica di Johnson&Johnson). Negli ultimi giorni c’è stata una progressiva diminuzione delle inoculazioni.

La campagna vaccinale procede al rallentatore, con una media di poco più di 208 mila somministrazioni al giorno, da sabato 11 settembre a mercoledì 16. Calano anche, e drasticamente, le prime dosi: una settimana fa furono oltre 71 mila, l’altroieri hanno superato di poco le 57 mila: quasi il 20% in meno. Un crollo che si rileva un po’ ovunque e la cui portata è evidente se lo si confronta con la media mobile (152 mila) registrata nella settimana tra il 1° e l’8 agosto. Questo a fronte di scorte per più di 11,7 milioni di dosi. Ieri, in base all’ultimo report settimanale della struttura del commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo (dato aggiornato alle 8 del mattino) le dosi somministrate erano quasi 82 milioni. Numeri che corrispondono al completamento del ciclo vaccinale per il 76,1% degli italiani sopra i 12 anni e per il 68,6% della popolazione totale. Ma ci sono intere categorie di persone, a dispetto dei provvedimenti del governo, che non sembrano essere disposte a invertire la rotta. Nella fascia di età 70-79 anni, sono privi di protezione dal virus più di 527 mila anziani; nella fascia 60-69 950 mila. E se si passa ai cinquantenni sono oltre 1,7 milioni. Significa che l’8,76% dei settantenni, il 12,54% dei sessantenni e il 17,63% degli over 50 non si sono ancora vaccinati dalla scorsa primavera. Non solo. Continuano ad essere sempre di meno quelli che in queste categorie si recano in un hub vaccinale. Così nelle Marche, così in Toscana o in Emilia Romagna. Per esempio: tra Bologna e provincia le prenotazioni complessive per le prime dosi lunedì 6 settembre furono 1.054 e l’altro ieri erano già scese a 774. Mentre a livello nazionale risultano sempre in calo le prime somministrazioni per gli over 60 (13.816 il 1° settembre, nemmeno 11 mila due settimane dopo) ma anche per i cinquantenni (29.691 contro 25.310, sempre prendendo a riferimento lo stesso periodo).

Quanto alle aree del Paese dove sono più alte le percentuali degli italiani non vaccinati nemmeno con la prima dose, continuano a essere sempre più o meno le stesse: Sudtirol (35,1%), Calabria e Sicilia (32,3%) Valle d’Aosta (30,3%).

C’è poi un dato che balza agli occhi, quello relativo agli operatori sanitari che non hanno ancora fatto nemmeno la prima dose. In questo caso, a fronte della copertura completa di tutto il personale in 13 regioni, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia svettano, invece, insieme alla Sicilia, per numero di renitenti. Nella regione guidata dal governatore Stefano Bonaccini sono ben 13.012 (pari al 7,12%), in Friuli-Venezia Giulia sono 4.672 (9,81%) e in Sicilia 9 mila (6,43%). La sola Emilia assorbe oltre il 35% del totale. Va detto che parliamo non solo di medici ma anche di infermieri, operatori sociosanitari, psicologi, fisioterapisti… Sia delle strutture pubbliche che private, dagli ospedali alle case di cura, alle case di riposo. “Dobbiamo fare una distinzione tra medici ospedalieri, che sono quasi tutti vaccinati, e altri ruoli. E che ci sono Regioni che sono meno puntigliose nel trasmettere i dati”, dice Ester Pasetti, segretaria regionale di Anaao-Assomed, sindacato dei medici ospedalieri. “Le defezioni si contano soprattutto tra infermieri e operatori sociosanitari”, aggiunge Pasetti. Se c’è uno spartiacque, però, è quello che separa i giovani medici da quelli più anziani. “Se ci sono perplessità sulla pratica vaccinale – spiega Carlo Curatola, presidente dell’Ordine dei medici di Modena – riguardano prevalentemente questi ultimi, che sono meno al passo con la moderna immunologia”.

“Io e Conte d’accordo: o noi al ballottaggio o zero appelli pro Pd”

Chiara Appendino, per meno di un mese ancora sindaco M5S di Torino, accetta di parlare del voto amministrativo di ottobre tenendo sulla scrivania un foglio. È il testo del patto che Stefano Lo Russo, il candidato del centrosinistra, ha firmato per convincere Mimmo Portas, leader dei Moderati, a entrare nella sua coalizione: “Non ci rivolgiamo ai partiti e ai movimenti che fino a oggi hanno mal governato la città, non perseguiremo accordi e alleanze”.

Sindaca Appendino, di questo discuteremo dopo. Ora veniamo ai sondaggi. Dicono che la percentuale di chi non risponde o si astiene sfiora il 45 per cento. Ma tutti indicano un ballottaggio tra Paolo Damilano (in vantaggio al primo turno), per il centrodestra, e Lo Russo. Che ne sarà di Valentina Sganga, che ha preso il suo posto come candidato per il Movimento 5 Stelle?

Ci sono ancora due settimane, noi puntiamo al ballottaggio. Valentina e il M5S hanno le risorse per fare il massimo sforzo.

Una dichiarazione coraggiosa. Su che cosa si fonda?

Sulla nostra offerta politica, che si distingue da quella di entrambi i nostri avversari. Sui temi ambientali, per esempio, o su quelli dei conti comunali. Io avevo ereditato da Piero Fassino un disavanzo di bilancio di 80 milioni, ora è di 7, mentre abbiamo ridotto il debito strutturale di mezzo miliardo. E questo la città lo sa.

Veniamo alle differenze, dunque. Che cosa rimprovera a Lo Russo e a Damilano in questa campagna elettorale?

A Lo Russo il tentativo solo opportunistico, in un dibattito, di ingraziarsi l’elettorato Cinquestelle, dicendo che se resterà fuori dal ballottaggio, voterà Sganga. A Damilano, i sogni faraonici dell’interramento della stazione di Porta Nuova o del tunnel lungo il Po. I fondi che verranno a Torino dal Pnrr, invece, servono per rilanciare l’industria e la produzione manifatturiera. La vocazione culturale e turistica, celebrata da Sergio Chiamparino e poi da Fassino, non poteva e non può sostituirle. Col governo Conte-2 ci sono stati impegni concreti per la città e abbiamo coinvolto l’Unione Industriale e la Camera di Commercio. Ora si tratta di proseguire usando il Pnrr.

Non le dispiace di non poter guidare tutto questo?

So benissimo che il Pnrr porterà in città risorse superiori di almeno 6-7 volte a quelle che avevamo io o lo stesso Fassino. Ma devono servire per rilanciare o far partire la Torino dell’auto, dell’Intelligenza artificiale e dell’aerospazio. Altro che tunnel sotto il Po o solo cultura e turismo.

Riconosce invece errori suoi e della sua giunta? Di che cosa si è pentita?

Le rispondo che anche adesso, quando vado a dormire la sera, mi dico comunque che so di aver fatto bene. Ma so che nei primi due anni abbiamo sbagliato per inesperienza e cercando una classe dirigente: penso per esempio a certe nomine, al non aver commissariato subito il Teatro Regio che era in default. Ho vissuto molto meglio la seconda parte del mio mandato, quella coincisa con la pandemia. Abbiamo fatto nuovi innesti nella giunta, siamo diventati più padroni della macchina. I sondaggi di Pagnoncelli spiegano che il mio gradimento generale è al 53 per cento e sale al 66 per quanto riguarda i mesi del Covid. Ho provato a essere un sindaco che aiutava la gente, non uno sceriffo securitario. E abbiamo messo in campo iniziative che ora sono patrimonio del Comune.

Quali?

La rete di Torino solidale. Dal marzo 2020, ha unito laici, cattolici e mussulmani, e ha cominciato ad aiutare i più poveri. Oggi è diventata un pezzo del welfare comunale e continua a seguire più di 25 mila persone. Siamo anche l’unica città che ha tenuto aperti i mercati durante il lockdown.

Ora, però, torniamo ai sondaggi e alle previsioni di ballottaggio. Se Sganga resterà fuori, che cosa farà il M5S e che cosa dirà Chiara Appendino?

Conte e io, credo di poter parlare anche per lui, abbiamo provato a proporre al Pd un progetto innovativo. Difficile, che richiedeva a tutti coraggio e voglia di cambiare. Qualcosa che è in piena sintonia con quanto, a livello nazionale, sta facendo Conte: un progetto in cui credo e che condivido. Ma a Torino non è andata così e ora tutto questo pesa: non deve distrarci dalle scelte nazionali, ma esiste.

Il famoso “Lodo Portas-Lo Russo”, insomma?

Non è solo grave che quelle parole siano state messe nero su bianco. Conta ciò che significano: che a Torino ha vinto la parte del Pd che non voleva svolte, che pensa sia possibile ripartire tranquillamente dal 2016. Allearsi non era facile neppure per noi, ma noi ci abbiamo provato. Ciò che non si è fatto in sei mesi, però, non si potrà fare tra tre settimane e in soli dieci giorni: sarebbe niente di più che uno scambio di voti.

E dunque?

Gli elettori non sono pacchetti di voti che si spostano perché glielo dice qualcuno. Ognuno deciderà secondo la propria coscienza.

Però ancora una volta i sondaggi incombono e dicono che al ballottaggio vincerà Lo Russo. Che umore sente in città?

Non sono un’indovina, ma su questo terreno sarei prudente: il sondaggio su di me e Fassino diceva che io ero al 40 per cento e lui al 60. Poi è finita in un altro modo.

“Bernardo non all’altezza: vince Sala. Il centrodestra coalizione del cazzo”

La diplomazia appartiene ai politici di mestiere, non certo ai giornalisti. Ed è indubbio che Vittorio Feltri, capolista per Fratelli d’Italia alle Amministrative di Milano, si senta molto più direttore che candidato. E così, vestito elegante e sigaretta in mano nel suo ufficio nella redazione di Libero, si concede il lusso di massacrare alleati e colleghi. Matteo Salvini? “In confusione”. Luca Bernardo? “Non all’altezza”. Il centrodestra? “Una coalizione del cazzo”.

Direttore Feltri, le Amministrative milanesi ci offrono spunti interessanti…

A me non sembra, ormai è già tutto definito: è chiaro che vincerà Sala. È vero che i sondaggi sono una cosa e le urne un’altra, ma diciamo che servono come un termometro per farti capire che aria tira.

Ma se FdI battesse la Lega sarebbe clamoroso.

Salvini è in difficoltà perché è in stato confusionale. È suonato sia dal suo partito che dai governi: da quello coi 5 Stelle uscì senza mai spiegarci davvero il perché, poi ha perso un po’ di voti ed è rientrato al potere non solo di nuovo col Movimento, ma anche con gli storici avversari del Pd. Sul Green pass non si è capito cosa volesse. E poi continua a rompere le scatole su Quota 100, su cui invece secondo me aveva ragione la Fornero.

Crede che nella Lega aspettino le Comunali per silurarlo?

No, perché non mi pare ci sia una personalità in grado di sostituirlo. È vero che hanno Zaia, Fedriga e qualche altro, ma nessuno ha uno spessore nazionale così importante. E poi non credo vogliano far fuori Salvini, la Lega da questo punto di vista è un partito molto tradizionale: prima che si muova un mattone ce ne vuole.

Come vive questa campagna elettorale da candidato?

Non sto facendo assolutamente nulla, non sono mai stato un politico e non ho la passione. Cosa significa fare campagna elettorale? Io vado per strada, la gente mi saluta, fortunatamente nessuno mi insulta e godo di un certo rispetto. Ma questo succedeva già prima.

Salvini ha preso male la sua candidatura?

Non so, con Salvini ci siamo sempre parlati, poi un giorno se l’è presa perché in tv ho detto che aveva avuto un atteggiamento da banderuola, entrando e uscendo dai governi. Mi ha mandato un messaggino come si fa tra fidanzatini, dicendo che tra noi era tutto finito.

E pensare che la voleva al Quirinale.

Lì mi sono divertito: ogni volta che la Boldrini leggeva il mio nome aveva un’espressione disgustata.

Che idea si è fatto di Bernardo, il candidato sindaco della destra a Milano?

Lo conosco da molti anni ed è un bravissimo medico, ma ho l’impressione che come politico non sia all’altezza. Non lo dico con disprezzo, ma un conto è gestire il reparto – e il suo è un modello – e un altro è quel bordello della politica. È un po’ debole, per essere chiari.

Che rapporto ha con Giorgia Meloni?

È sempre stato buono. Agli inizi la trovavo persino un po’ stupida, frivola e poco incisiva. E invece è maturata moltissimo, oggi è la migliore. Ha la personalità per fare la leader del centrodestra.

Esiste ancora una coalizione?

È una coalizione del cazzo, è difficile impastarli. In ogni caso, se andassero alle Politiche uniti e la Meloni prendesse più voti, credo che la sinistra si scatenerebbe con l’argomento dell’antifascismo, anche se lei di fascista non ha niente. E questo sarebbe un ostacolo decisivo alla sua corsa a Palazzo Chigi.

Come va la sua permanenza a Libero? Con Sallusti i rapporti non sono granché.

Sono stato io a premere perché venisse Sallusti. L’ho assunto 5 volte perché è un uomo macchina straordinario. Ma invece adesso fa il deus ex machina, non più solo l’uomo macchina.

Davvero volevano cacciarla?

Ma no, sono in buonissimi rapporti con gli Angelucci per vari motivi. Il giornale l’ho fondato io e poi glielo ho venduto. E ho pure incassato una bella cifra, perché gratis non ho mai scritto neanche una cartolina. Non perché mitizzi i soldi, intendiamoci, ma perché i soldi ti evitano tante rotture di coglioni.

Indecisi e sindaci a tavolino: i sondaggi sono una riffa

Il politologo Giovanni Sartori la chiamava “sondaggiocrazia”. Ossia quel modo di fare politica influenzato completamente dai sondaggi. E così è anche quest’anno per le elezioni amministrative nelle grandi città che andranno al voto il 3 e 4 ottobre. Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna: ogni giorno sui giornali, siti, tv e radio – fino a domenica quando scatterà il divieto di pubblicazione – fioccano le rilevazioni su chi sarà il vincitore e chi lo sconfitto alle prossime comunali. E in base a queste i candidati continuano o modificano la propria campagna elettorale. Ma quest’anno c’è un’incognita impazzita che in pochi stanno considerando: l’altissima percentuale di indecisi.

Un bacino di elettori cospicuo che deciderà solo nelle ultime due settimane, o negli ultimi giorni, per chi e per cosa votare. E potrebbero essere proprio quei voti quelli decisivi per stabilire chi vincerà o perderà, in grado anche di ribaltare il risultato previsto.

Prendiamo, per esempio, i sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli pubblicati nei giorni scorsi sul Corriere della Sera. A Roma gli indecisi arrivano al 32,8%, a Milano al 25%, a Torino e a Napoli al 24%. Praticamente un elettore su quattro che sale a uno su tre nella Capitale dove la partita è tra le più aperte. Lo stesso vale per le rilevazioni di YouTrend per il gruppo Gedi. A Roma, Enrico Michetti è in vantaggio al primo turno su Roberto Gualtieri (che vincerebbe al ballottaggio contro tutti) e Virginia Raggi, ma quasi un romano su due non ha ancora deciso per chi voterà o al momento intende astenersi: il 44%. Nei giorni scorsi lo staff della sindaca di Roma faceva sapere che Raggi nelle ultime due settimane cercherà di convincere proprio quel bacino di elettori per provare ad arrivare al ballottaggio. YouTrend segnala una percentuale simile di incerti a Milano (45%) mentre la città dove a oggi gli indecisi sono la maggioranza è Napoli con il 52,4%. Quota inferiore a Bologna (42,2%) e Torino (39,6%). Percentuali più basse secondo i sondaggi di Noto per Porta a Porta, ma comunque rilevanti: 32% di indecisi a Roma, 30% a Napoli, 29% a Torino, 27% a Milano e 22% a Bologna. Numeri così sostanziosi da poter rovesciare, almeno nelle partite più combattute, le previsioni.

Ma l’altra variabile è il peso che viene dato agli indecisi. Non solo i sondaggisti sono divisi su quanto gli incerti possano modificare l’esito del voto ma soprattutto, a oggi, danno percentuali molto diverse – si potrebbe dire che danno i numeri – di chi non ha ancora scelto. Emblematico è il caso di Roma: per Ipsos di Pagnoncelli gli indecisi sono il 32%, per Quorum/YouTrend il 44%, per Swg per il Messaggero solo il 19%, Noto per Porta a Porta li stima al 32%. Anche a Napoli, il candidato giallorosa Gaetano Manfredi sembra avere la vittoria in tasca, accade qualcosa di simile. Per YouTrend gli indecisi arrivano al 52% mentre sono molto più bassi, e diversi tra loro, i numeri di tutti gli altri istituti demoscopici: 30% secondo Noto, 24% per Ipsos e 34% per Demopolis per Otto e Mezzo. Difficile capirci qualcosa.

Bernabè perepè

Il senso dell’umorismo è raro. Ma quello del ridicolo è introvabile. È quanto ha voluto dimostrare giovedì a Ottoemezzo Franco Bernabè, ex amministratore di tutto, nominato dall’amico Draghi alla presidenza di Acciaierie d’Italia. Altrimenti, alle domande sul premier che l’ha nominato, si sarebbe schermito per il conflitto d’interessi; o, se proprio avesse voluto rispondere, avrebbe evitato l’aureola portatile; o, se proprio gli fosse scappata l’aureola, l’avrebbe accompagnata con una timida critica, magari marginale, che so, al colore della cravatta di Draghi. Invece no. Parlando del Super Green Pass di Super Mario, ha premesso che “sicuramente l’Italia è uno dei Paesi che ha affrontato meglio l’emergenza Covid”. Ma non quando l’emergenza era davvero emergenza e nacque il Recovery (c’era un altro premier che la damnatio memoriae vieta di nominarlo): il meglio è ora grazie a Draghi. Bernabè cita l’immunologo americano Fauci, facendogli dire che ora “siamo i leader internazionali”. In realtà Fauci ha detto: “L’Italia è stata uno dei Paesi colpiti dal Covid più severamente e prima degli Usa e da voi abbiamo imparato molto”. E chi c’era quando fummo colpiti? Sempre il premier che non si può nominare.

Il seguito del manager nominato da Draghi che parla di Draghi è impagabile: “Il fatto che Draghi fosse assente alla conferenza stampa sul Green Pass sottolinea simbolicamente che ha vinto l’Italia. In fondo abbiamo vinto gli Europei, abbiamo fatto il pieno di medaglie alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi, ora Fauci ci dice che siamo i leader internazionali… L’Italia esce vincitrice a livello internazionale… è entrata in un periodo di eccezionale positività. Con l’uscita della Merkel e i problemi degli Usa, avere una persona riconosciuta a livello mondiale per autorevolezza e credibilità farà tornare gli investimenti”. Purtroppo – e qui Bernabè s’incupisce un po’ – “la comunicazione del governo è abbastanza efficace, ma c’è una cacofonia su giornali e tv che non aiuta a chiarire le idee alla gente”. Già: questi giornali sono sempre lì a cercare il pelo nell’uovo pur di mettere in cattiva luce la sua Luce, incuranti dei rigori parati e tirati e delle medaglie vinte. E non basta: “Purtroppo la politica affronta tutto in negativo, il dibattito politico è sulla negatività e non sulla positività”. Giusto: basta con la guerriglia urbana in Parlamento contro il governo, basta con le imboscate dei ministri al premier, basta con i tupamaros dei giornali e dei talk pregiudizialmente antidraghiani: possibile che in Draghi non trovino mai nulla di buono? Eppure almeno un colpo di genio l’ha avuto: nominare Bernabè. E, se ha nominato un genio, dev’essere un genio anche lui. Non ce lo meritiamo, ecco.

Andreatta, la via azzurra di Netflix parte da romanzi e graphic novel

Eleonora “Tinny” Andreatta ha un problema. Il vicepresidente delle serie originali italiane Netflix deve dare al nostro Paese il successo globale che è La casa de papel per la Spagna o Lupin per la Francia, e quanto tempo ha?

Numeri: otto serie nel 2022, dodici nel 2023, quarantacinque prodotti audiovisivi nel biennio. Limitazioni: “La barriera della lingua italiana, va superata”. Auto-limitazioni: “Gli stereotipi lasciamoli agli stranieri: ci sono serie famose in cui appena compare un italiano spunta la treccia d’aglio. Dobbiamo dire addio al maschio aitante in canottiera”. Modello confesso: Unorthodox. Possibilità: “Prematuro parlare” di M. (il romanzo Premio Strega 2020 su Mussolini, ndr), da Antonio Scurati, progetto già controverso targato The Apartment; Strappare lungo i bordi di Zerocalcare, con episodi da 12 minuti, disponibile entro l’anno; Fedeltà, da Marco Missiroli, entro la prima metà del 2022. Annunci: Tutto chiede salvezza, dal romanzo di Daniele Mencarelli, regia di Francesco Bruni; La vita bugiarda degli adulti, ancora Elena Ferrante (da The Lost Daughter fin qui Netflix si accontenta di mettersi in scia al fenomeno…), ancora il team di scrittura de L’amica geniale, novità Edoardo De Angelis alla regia e Valeria Golino per zia Vittoria; Matilda De Angelis per la prima avvocatessa tricolore, Lidia Poët, regia di Matteo Rovere e Letizia Lamartire; Briganti, o meglio brigantesse, firmato Grams; l’esistenzialista Nemesis. Politica degli autori: altrove ci stanno Bellocchio, Guadagnino e Sorrentino, Tinny confida, “i grandi nomi del cinema arriveranno anche per noi”. Manuale Cencelli: Groenlandia, Fandango, Fabula, Picomedia, Indigo, una serie per uno, non si fa male nessuno. Eredità: Tinny era il capacissimo capo della Fiction Rai, ed ecco il lapsus a ricordarcelo: “Fedeltà andrà in onda il prossimo anno”.

Dazn & C. sono in bambola, ma l’autogol è della Rete

La rotellina che gira, l’immagine che sgrana, il segnale che salta: il calcio in streaming è il nuovo incubo dei tifosi. Campionato o coppa, Serie A o Champions, non fa troppa differenza. Se Dazn non funziona, ma anche Infinity salta e persino il colosso Amazon un po’ si inceppa, viene da pensare che il problema non sia Dazn o Infinity, ma noi, l’Italia, un Paese con un digital divide imbarazzante, di cui ci siamo accorti solo dopo aver affidato a internet il bene più prezioso per gli italiani. Il pallone.

Il satellite è il passato, lo streaming è il futuro, su questo non c’è dubbio. La migrazione immediata però è impresa titanica. Basti dire che l’Agcom quest’estate era preoccupata per la tenuta della rete (su cui ha lavorato Tim): il timore non era che non si vedesse bene la partita, ma che per il sovraccarico non si riuscisse più a fare nemmeno tutto il resto. Questo rischio è stato scongiurato, eppure il tifoso continua a non vedere e si lamenta. Tanto, a volte magari immotivatamente, ma il cliente ha sempre ragione. Dazn & C. dovrebbero saperlo. Persino l’Agcom è dovuta intervenire in Parlamento. Ha bacchettato Dazn ma per questioni burocratiche, la carta dei servizi non è conforme. E poi c’è il tema degli ascolti, anche qui Dazn fa acqua. Perché i dati digitali non erano mai stati calcolati e se li rileva da sola, con Nielsen, che però non è una società certificata come Auditel (sulle tv c’è una discrepanza del 15%, i conti non tornano). Dazn comunque assicura che non c’è stato alcun calo rilevante e almeno su questo c’è da crederle: dove volete che vadano i tifosi, al massimo fissano uno schermo nero.

A oggi ci sono stati tre grossi disservizi. Il primo all’esordio di Inter-Genoa, quando è saltato un server Dazn. Poi è stata la volta di Napoli-Juve, black-out al momento del gol decisivo di Koulibaly, per un picco di utenti su rete Tim. Quindi Infinity e il martedì di Champions, con un errore per il collasso di una Cdn (Content delivery network), gli snodi da cui viene ripartito il segnale. Tecnicismi quasi incomprensibili che non spiegano un generale malcontento, tutto troppo complicato. Ed è proprio questo il punto. La visione di massa di un live streaming (ben diversa dalla serie tv di Netflix) è un sistema complesso, che dipende da numerose variabili: basta che non funzioni una e si blocca tutto. C’è una rete che solo recentemente è stata potenziata e non lo è in alcune aree. Ci sono i flussi e le codifiche di ciascun operatore. Ci sono le Cdn di fornitori terzi, e poi le connessioni finali degli utenti. Così la situazione non è mai del tutto sotto controllo. La soluzione ventilata anche da Agcom sarebbe garantire l’alternativa del digitale terrestre se non si raggiunge un livello di qualità minima (oggi invece è prevista solo per le aree scoperte). Ma nel grande piano orchestrato da Tim, costringere il Paese a digitalizzarsi per vedere il pallone, non può esserci un’alternativa. Bisogna vedere se la situazione migliorerà rapidamente o la pressione porterà a qualche compromesso.

Il peccato originale è questo, e non solo. Al Fatto risulta che Dazn non abbia ancora adottato la nuova codifica Mpeg5 che alleggerisce i flussi, come suggerito dagli esperti. La sensazione è che i tre anni di apprendistato non siano stati sfruttati per prepararsi al grande salto, che investimenti e aggiustamenti siano iniziati troppo tardi. Tantomeno per Infinity di Mediaset. Non a caso Amazon, che non è una start-up ma un colosso che dai web service trae oltre il 10% dei ricavi, ha mostrato subito una qualità d’immagine di gran lunga superiore. Poi se non ce la fanno nemmeno loro, vuol dire che davvero l’Italia non era pronta. Non ci resta che aspettare e intanto esultare quando vediamo un gol, se lo vediamo.

Pironti, il libraio editore che prese a pugni i grandi

“Ero una molla sul ring. Colpivo e scappavo. Colpivo e scappavo. Quella volta mi toccò incontrare uno più forte di me. Allora scappai per tutto il tempo da un punto all’altro del ring, poi – non so come – gli assestai un cazzotto proprio sul mento. Cadde a terra. Pregai che non si rialzasse più, altrimenti per me sarebbe finita”.

Invece Tullio Pironti vinse quell’incontro, come raccontò a Emanuele Trevi, e quei cazzotti hanno dato senso alla sua vita fatta di pugilato e di libri, e la sua autobiografia (Libri e cazzotti) – oggetto del colloquio con lo scrittore – ne era la prova logica e conseguente. Le selezioni in nazionale, i 50 incontri di boxe all’attivo, l’amicizia e la competizione con un ragazzo di Trieste, Nino Benvenuti, che sarebbe divenuto il campione che sappiamo.

Pironti non è stato il libraio di Napoli. Pironti era Napoli, era piazza Dante, la sua mitica officina di carta dove ogni cosa, in una cornice di confusione effervescente, l’alto e il basso, la grande letteratura e la minuzia scolastica, trovavano accoglienza e nobiltà.

Scugnizzo di via dei Tribunali, figlio di famiglia che amava i libri e con i libri campava, Pironti è riuscito ad arruolare, nell’isolata condizione di editore dalle tasche sempre un po’ vuote, perché nel Mezzogiorno i grandi editori sono stati personaggi illuminati e costantemente squattrinati, narratori di successo, firme portentose. Nel suo catalogo sono centinaia e centinaia i volumi che ha dato alle stampe, e grandi volti della letteratura straniera. Fregò a Mondadori Bret Easton Ellis, provando che per una volta l’agilità dei piccoli può fregare i grandi. Batté infatti Mondadori acquisendo Meno di zero, che fece un botto poi nelle vendite. La spuntò sulla casa milanese offrendo 51 milioni di lire per i diritti. Mondadori non poté rilanciare perché per statuto aziendale gli acquisti superiori a 50 milioni dovevano essere approvati dal consiglio di amministrazione.

Don DeLillo e Fernanda Pivano, Nagib Mahfuz e Raymond Carver e Tahar Ben Jelloun (rapporto editoriale che poi finì con quest’ultimo in tribunale, purtroppo) e cento e cento di scrittori che hanno raccontato Napoli, il Sud, la passione e la malavita. Il camorrista di Joe Marrazzo, poi film di Tornatore, gli diede soldi, l’energia vitale per continuare a fare un mestiere che non fa ricchi.

Piazza Dante prima e poi Palazzo Bagnara le sedi storiche. Pironti era lo stemma di Napoli, il segno identificativo, il punto geografico dove chiunque fosse stato in città aveva attraversato e conosciuto. E infatti a Napoli, alla sua gloria così rumorosa voleva consegnare la propria eredità: duecentomila libri da regalare al municipio e da lì distribuire gratuitamente a chiunque. Ciascuno col suo libro, col suo Pironti in tasca.

Non se ne fece nulla per le solite fanfaluche burocratiche, e in questo il Sud è maestro.

Oggi che nella chiesa Caravaggio, naturalmente in piazza Dante, è stato dato l’ultimo saluto all’uomo che aveva 84 anni, proviamo a capire cosa perde ancora Napoli.

La città, che in questi giorni si trova impelagata in una svogliata campagna elettorale nella quale bisogna decidere chi dopo De Magistris debba essere sindaco, si trova, celebrando Pironti, a raccontare ciò che è stata. Anche la ricandidatura di Antonio Bassolino, che a palazzo San Giacomo ha governato nell’ultimo spicchio del secolo scorso, produce questa immagine di una testa sempre rivolta al passato e perciò di una ricchezza che mano a mano sfiorisce, dei grandi pensatori o dei grandi mecenati o dei grandi imprenditori della cultura che l’età porta via. Napoli ha già perso il grande Aldo Masullo, tra i più grandi pensatori italiani, e ora, con Pironti, si chiude anche l’età dello struscio in libreria, il nome che ha attraversato le generazioni e fatto conoscere la forza della parola, la grandezza della parola, la necessità della parola.

Il fatto che Pironti sia stato prima scugnizzo, poi pugile, quindi libraio e infine editore, dà l’esatto contegno, il cursus honorum classico, la cifra tonda della napoletanità. E per questo anche un po’ retrò, consumata, afflitta dai suoi successi ma anche dalle proprie debolezze. Quella di una modalità intuitiva della vita, di una stanzialità quasi perenne, di un difetto nell’elaborare strade nuove, possibilità e modi nuovi di fare editoria.

Piccolo era e piccolo è rimasto. Ricchezza certo, ma anche limite. Ora che se ne è andato, quella saracinesca sarà chiusa o qualcun altro la aprirà?

Questo è il dilemma di Napoli: le sue ricchezze, la cultura, il talento, la dimensione enorme della propria capacità di ergersi a capitale delle arti figurative, di quelle narrative e di quelle musicali, deve sempre fare i conti con il vizio di una certa fissità evolutiva. Troppe cose nascono e troppe però poi muoiono per mancanza della benzina necessaria, i soldi spesso ma anche le difficili condizioni ambientali.

Pironti non c’è più, ed è come se un mattone fosse tolto al muro della città. Tolto per sempre.

Scuole chiuse e crisi vicina Si rivede Baradar: “Sto bene”

Scuole secondarie chiuse, musicisti in fuga, prezzi dei visti alle stelle al mercato nero e una crisi umanitaria incombente. A un mese dalla presa del potere dei Talebani in Afghanistan la situazione è drammatica: il 70% dei nove milioni di studenti non sta frequentando le lezioni. A essere aperte per il momento sono solo le scuole materne ed elementari, il che preoccupa gli studenti che hanno lanciato un appello ai Talebani perché permettano le lezioni.

La risposta è arrivata da Saeed Khosti, membro della commissione culturale del governo: “I lavori sono in corso e presto riapriranno anche le superiori”, ha assicurato. Ma è difficile fidarsi per la popolazione tornata indietro agli anni 90. A fuggire sono anche molti musicisti nel timore di rappresaglie. “Si può trasmettere solo l’inno talebano”, ha spiegato Massood Sanjer, direttore dal network Moby, di cui fa parte anche Tolo News. Ieri è ricomparso anche il vicepremier Abdul Ghani Baradar che in un’intervista alla tv nazionale ha smentito i rumors relativi al fatto che fosse stato ferito o addirittura ucciso in una lite con membri di Haqqani al palazzo presidenziale di Kabul. “Sto bene – ha detto Baradar – e a proposito dei media che sostengono che abbiamo disaccordi interni, neanche questo è vero”, ha aggiunto. Intanto la resistenza afghana, a quanto scrive il New York Times avrebbe ingaggiato a Washington un lobbista per cercare sostegno militare e finanziario negli Usa contro i talebani. Dal Fondo monetario internazionale non arrivano belle notizie: la crisi umanitaria è incombente e a Kabul pur di partire c’è chi paga 20 volte più del prezzo normale i visti per lasciare il Paese al mercato nero.

Il boom più clamoroso riguarda il visto turco, passato da 120 a 5mila dollari. A oggi il Pakistan è l’unico Paese, secondo Tolo news, per il quale può essere ottenuto legalmente il visto. Ma non si può attraversare il valico di Torkham senza il “gate pass” in vendita in nero vicino all’ambasciata pachistana per 200-300 dollari.