Parigi annaspa e il Mali chiama i mercenari russi

“Abbiamo ucciso Adnan Abu Walid Sahrawi, il capo dell’Isis nel Grande Sahara. Il sacrificio dei nostri eroi non è stato vano”, ha annunciato ieri Emmanuel Macron su Twitter. Adnan Abu Walid Sahrawi, ex membro del Fronte Polisario passato per il gruppo al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), era il numero uno dell’Eigs, il gruppo dello Stato islamico nel Sahel. Parigi ne aveva fatto dal summit di Pau del G5- Sahel, gennaio 2020, il suo “nemico principale”, ritenendolo responsabile della morte di due-tremila civili dal 2013 nella regione delle “tre frontiere”, tra Mali, Burkina Faso e Niger, dove è operativo anche il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), affiliato ad al Qaeda.

La ministra francese della Difesa, Florence Parly, ha confermato che al Sahrawi è morto a seguito di un’operazione dei militari francesi dell’operazione Barkhane. È stato “un colpo decisivo al gruppo terroristico”, ha detto Parly, che fino a qualche mese fa parlava solo di “vittorie tattiche”, tra cui la morte del capo di Aqmi, l’algerino Abdelmak Droukdal.

I soldati francesi sono presenti in Mali dal 2014, eppure la situazione politica del paese resta instabile, con il golpe dei militari del maggio scorso, sfociato nell’arresto del presidente Bah N’Daw, e una transizione politica che si trascina. In Francia la missione militare è inoltre molto criticata, per essere costata la vita già a cinquanta soldati. In questo contesto, a giugno, Macron ha annunciato il parziale ritiro dei soldati francesi dal Mali, con l’intenzione di dimezzare il contingente – circa cinquemila uomini – entro il 2023, per favorire un’“alleanza internazionale” a sostegno degli eserciti locali. Ed è qui che la situazione si complica.

L’agenzia Reuters ha rivelato che la giunta militare di Bamako starebbe concludendo un accordo con i russi del gruppo Wagner, un’opaca organizzazione privata paramilitare che fa capo all’oligarca russo vicino al Cremlino, Evgenij Prigožin, e già radicata nella Repubblica Centrafricana. Da fonti diplomatiche, i mercenari russi dovrebbero formare le forze armate del Mali e assicurare la protezione degli alti funzionari. Il gruppo Wagner potrebbe dislocare nel paese fino a un migliaio di uomini e percepire sei miliardi di franchi Cfa al mese, nove milioni di euro circa. Sempre secondo Reuters, l’accordo garantirebbe inoltre ai russi l’accesso alle risorse minerarie del paese, due giacimenti d’oro e uno di magnesio.

Il colonnello Sadio Camara, ministro della Difesa del Mali, non ha né smentito né confermato: “Nessuna decisione è stata presa sulla natura della cooperazione”. Una cooperazione che consentirebbe a Mosca di estendere la sua influenza in Africa riempiendo il vuoto lasciato da Parigi e approfittando dell’impopolarità delle truppe francesi tra la popolazione locale: “Il gruppo Wagner sta moltiplicando i tentativi per radicarsi nel Sahel e utilizzare il Mail come porta d’ingresso”, ha confermato un fonte diplomatica francese a Le Monde. Per Parigi l’arrivo dei mercenari russi in Mali manderebbe in fumo anni di lotta al terrorismo: “Wagner è una milizia che ha già dimostrato in Siria di aver compiuto ogni sorta di abusi e quindi è incompatibile con la nostra presenza”, ha detto il ministro degli Esteri, Jean- Yves Le Drian. Ma a preoccuparsi è tutta l’Europa, impegnata nel Sahel con una task force di 500 uomini, Takuba, lanciata ufficialmente nel marzo 2020, e che coinvolge Estonia, Repubblica Ceca, Svezia, Belgio e anche l’Italia, presente con truppe e mezzi. Berlino ha minacciato di ritirare il suo contingente.

Fbi e fiaschi, il vero volto dei G-men

C’era una volta l’Fbi. Altro che Fidelity, Bravery, Integrity, fedeltà, coraggio, integrità, come recita il motto del Bureau. E la crisi non è iniziata oggi se si pensa che il settimanale Time già tre anni fa, il 14 maggio 2018, gli dedicò un servizio di copertina poco lusinghiero: sopra l’immagine d’un distintivo tutto ammaccato, il titolo “L’Fbi in crisi: è peggio di quel che pensate”. Non che una volta fossero tutte rose e fiori: in 113 anni di storia, il Federal Bureau of Investigation – il nome data del 1935, sotto la direzione di John Edgar Hoover, durata quasi mezzo secolo dal 1924 al 1972 – ne ha viste di tutti i colori. E, viste in retrospettiva, anche operazioni di prestigio – l’uccisione di Bonnie e Clyde, l’arresto di Al Capone, l’eliminazione di John Dillinger– non furono senza magagne. Al Bureau il cinema ha dedicato decine di film e serie, basta citare Mindhunter (2017) o Il silenzio degli innocenti (“The Silence of the Lambs”) film del 1991 diretto da Jonathan Demme che aprì il filone dei profiler per stanare i serial killer.

Ma la testimonianza di fronte a una commissione del Senato di Simone Biles, la super-ginnasta Usa ritiratasi da alcune gare dei recenti Giochi di Tokyo per eccesso di stress, e di alcune sue colleghe, ha messo in evidenza all’opinione pubblica che l’inerzia e l’ignavia degli agenti federali, i G.men dei polizieschi anni 50, hanno consentito al dottore stupratore della nazionale di ginnastica femminile degli Stati Uniti, Larry Nassar, di “perpetuare” i suoi comportamenti criminali nonostante le denunce. Biles e centinaia di altre ragazze e donne furono molestate da Nassar che sta ora scontando l’ergastolo. L’Fbi rappresenta la polizia federale degli Stati Uniti ed è il braccio operativo del Dipartimento di Giustizia: ha competenza su tutto il territorio nazionale per circa 200 tipi di reati, fra cui quelli di terrorismo. La sede centrale è a Washington, in un edificio intitolato al direttore Hoover: ha sedi distaccate sparse in tutta l’Unione e i suoi agenti godono di prestigio e di privilegi investigativi.

Le inefficienze e i lassismi rivelati dalla Biles e dalle sue compagne sono solo l’ultimo di una serie di flop. Tanto per citare alcuni esempi: l’Fbi ci mise 18 anni per arrestare nel 1996 “Unabomber”, Theodore John Kaczynski, un ex professore di Matematica, docente universitario che, con i suoi ordigni, uccise tre persone e ne ferì decine; dopo l’attentato alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996, l’Fbi perseguì per anni la pista dell’uomo sbagliato, Richard Jewell, cui è stato dedicato un film di cassetta, prima di scovare nel 2003 il vero colpevole, Eric Rudolph. E ancora: prima degli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001, l’Fbi trascurò numerosi indizi che potevano portare a sospettare di quegli allievi di scuole di volo interessati a imparare a decollare, ma poco attenti alle lezioni di atterraggio. E i federali non hanno mai raccolto prove sufficienti a individuare e incriminare il responsabile degli attentati all’antrace che fecero vittime nell’autunno del 2001. Ombre politiche gravano sull’operato dei suoi direttori. Robert Mueller, scelto da George W. Bush e confermato da Barack Obama, è stato il procuratore speciale un po’ accomodante del Russiagate. E il suo successore James Comey, nominato da Omaba e licenziato da Donald Trump, è un campione d’incoerenza: prima dell’elezione del magnate, sembrò fare di tutto per screditare la sua rivale Hillary Clinton; subito dopo, non stette al gioco di Trump che gli chiedeva d’affossare il Russiagate; licenziato, il suo libro di memorie ‘anti-magnate’ è un successo, ma la sua figura non è limpida. L’attuale direttore Christopher Wray, insediato da Trump – e finora confermato da Biden –, indicò che il suo primo obiettivo era “riportare la serenità dentro il Bureau”, dove alcuni agenti agivano con eccessiva autonomia.

Alcuni altri esempi di scarsa efficienza e affidabilità: l’ex vicedirettore Andrew McCabe non indagò sulla Fondazione Clinton perché sua moglie vi era implicata; prima della Maratona di Boston del 2011, i servizi russi segnalarono che uno dei fratelli ceceni che poi misero la bomba si era radicalizzato, gli agenti dell’ufficio centrale del Massachusetts indagarono, ma non seppero impedire la strage. Nel loro rapportò gli investigatori scrissero che non avevano trovato “alcun nesso” tra Tsarnaev e il terrorismo islamico.

E ancora: l’Fbi aveva indagato due volte l’afghano responsabile nel 2016 della carneficina omofoba al nightclub Pulse di Orlando in Florida, senza trovare nulla per incastrarlo e fermarlo; e, nel 2018, le segnalazioni sull’autore della strage nel liceo di Parkland furono sottovalutate e il ragazzo poté dotarsi di armi letali.

Il telegiurassico Giucas al Gf vip

Mi sono spesso domandato cosa sta scritto sulla carta d’identità di Giucas Casella alla voce professione. Prestigiatore, mago, illusionista? Ipnotista, mentalista, sensitivo? Escapologo, paragnosta, parapsicologo o paraguru? Il dilemma non è di facile soluzione, ma l’ultima possibilità sembra la più probabile, considerata la resilienza di Casella personaggio televisivo per tutte le stagioni, incluso l’attuale Grande Fratello Vip, dove lo ha voluto l’autorevole vippologo Alfonso Signorini, e dove farà il suo ingresso stasera. Da una ventina d’anni i reality hanno sostituito i varietà e sfornano le proprie celebrità per partenogenesi; nella gran maggioranza, questi nuovi Vip sono dei perfetti sconosciuti (messaggio da non sottovalutare, una conferma che tutti andiamo verso l’ignoto), mentre la turba dei vecchi Vip versa sull’orlo dell’oblio o sopravvive andando dalla D’Urso con il cappello in mano, a raccontare le proprie disgrazie (a Mediaset va così: Maria li battezza, Barbara gli dà l’estrema unzione). Casella invece è come la tigre della Tasmania, raro esemplare del telegiurassico proveniente dai fasti nazional-popolari di Pippo Baudo, dove raggiunse la popolarità con gli esperimenti in cui ipnotizzava le galline e immobilizzava il pubblico in platea. Se il Vip di nuova generazione non sa fare nulla, Casella non si è mai capito che cosa sa fare, e questo è il segreto della sua longevità. Nell’era del reality, ha astutamente spostato il centro degli esperimenti su se stesso, per due volte sull’Isola dei famosi e in un precedente Gieffe ha dato prova del suo fiuto per la suspense prima di ritirarsi anzitempo. Ora riemerge come nulla fosse, e considerata la lunghezza del reality di Canale 5, che si inoltra nella notte profonda per quadrare la media di share, potrebbe dare una mano se gli riuscisse di incatenare davanti al video i fan degli ignoti nuovi Vip. La pratica con le galline potrebbe tornare utile.

Le castagne matte e i vaccini, poi la torpediniera guarda e se ne va

Da tempo coltivo l’inveterata abitudine di cogliere i segni della stagione che va cambiando e con oziose passeggiatine tra viuzze e lungolago li catalogo: il silenzio quasi irreale che i turisti si sono lasciati alle spalle, le prime foglie ingiallite o addirittura già secche, a terra, il parco giochi presso i giardini orfano di frequentatori, adesso gobbi su compiti e libri. Non solo però li colgo, li raccolgo anche nel senso proprio del termine. Aspetto infatti che dagli ippocastani o castagni d’India che ornano la piazza cadano le prime cosiddette “castagne matte” per appropriarmene una e infilarla in tasca visto che la tradizione vuole che proteggano contro il raffreddore. Ma il più potente segnale di un’altra estate che volge al termine è il battello che finge solo l’attracco, poiché nessuno deve salire o scendere: basta un veloce cenno della mano dell’addetto all’attracco perché il pilota comprenda e con un piccolo colpo di sirena saluti. Tra tutti i suddetti segni è il più poetico. E come sempre, come anche oggi, quando lo vedo non posso che ripetermi mentalmente una poesia di Vittorio Sereni, Terrazza, e i versi che la chiudono; “Siamo tutti sospesi, a un tacito evento questa sera, entro quel raggio di torpediniera, che ci scruta poi gira se ne va”. Senonché a interrompermi l’incanto del momento mi si fa sotto una coetanea che, immune alla magia del momento, mi toglie ai pensieri brutalmente chiedendomi, ‘Allora con ’sti vaccini cosa facciamo?’ Conoscendola ribatto, ‘Ma non ti sei ancora vaccinata?’ Lei mette su la mimica della perplessità e mi dice che, sì, ci sta pensando, non è che è contraria, però con tutte le cose che si sentono e si leggono… Taccio poiché vorrei tornare a immergermi nei miei pensieri evitando di invischiarmi in una discussione di cui non avverto alcun bisogno anche perché sarebbe inconcludente. Magari, insiste però lei, se ci fosse qualcosa di naturale mi sentirei più tranquilla. Certo che c’è, rispondo. Infilo la mano in tasca e le porgo la castagna da poco raccolta. La guarda. Dalla perplessità passa allo sdegno. Poi, come la torpediniera, mi guarda, gira e se ne va. Senza nemmeno salutare.

MailBox

 

Rai, la rassegna si vede dall’apertura del “Fatto”

Gentili amici, sono un vostro fedele lettore da sempre. Volevo farvi notare che ogni volta che la prima pagina del nostro giornale è un po’ dissacrante/ironica/satirica, come quella di oggi, oppure quella del 14, improvvisamente scompare dalla rassegna stampa di Rainews (che seguo nella speranza di vedere la prima dell’indomani). Spesso fanno vedere il titolo in prima escludendo il titolo del giornale… ma il Fatto si riconosce sempre, anche da poche lettere! Continuate sempre così.

Vincenzo Amodeo

Caro Vincenzo, e pensare che l’amministratore Fuortes raccomanda una “narrazione positiva”! Come se ci fosse bisogno di raccomandarla…

m. trav.

 

Cannabis, i proibizionisti cavalcano solo il disagio

Procede alacremente la raccolta firme per il referendum che abroga le sanzioni amministrative e penali per la coltivazione della cannabis. Dobbiamo uscire da un grave equivoco, ingenerato soprattutto dai politici proibizionisti (Salvini, Meloni, Gasparri e altri), secondo i quali la legalizzazione della cannabis produrrebbe lo “sfascio della società”. Nella realtà, lo sbando totale è quello dell’attuale regime in auge, con il monopolio della droga in mano alla criminalità e alle mafie, con le carceri strapiene di persone responsabili, sovente, di piccoli reali. Di fatto, la liberalizzazione strisciante e distruttiva è quella che opera da tanti anni nella nostra ordinarietà, producendo scompensi e disagi di vario tipo. Salvini ha dichiarato: “Io preferisco il basilico e un bicchiere di rosso. La droga non è mai la soluzione”. Come al solito non affronta compiutamente il problema. Che il referendum sia una cosa seria, studiata dettagliatamente, è testimoniato dal fatto che esso è promosso da associazioni impegnate da anni, dall’Associazione Luca Coscioni a Meglio Legale, da Forum Droghe ad Antigone, fino a Società della Ragione.

Marcello Buttazzo

 

Quei sorrisetti di Franco e Damilano a Davigo

Ho riposato male per un profondo senso di rabbia e inquietudine dopo avere seguito la parte di Dimartedì di Floris con ospite il dott. P. Davigo, martedì scorso. Sono rimasto contrariato dagli atteggiamenti dei giornalisti Franco e Damilano che, con attacchi sia personali al dott. Davigo che alla magistratura tutta, hanno tentato di far credere a chi li ascoltava l’ennesima balla che quelli di Mani Pulite sono stati dei magistrati giustizialisti e imbroglioni per combattere determinati partiti politici. Il tutto scomodando profezie di Cossiga, citato da Rino Formica, secondo il quale i magistrati di Mani Pulite avrebbero finito col litigare fra di loro e condito da sorrisetti ironici che Franco e Damilano si scambiavano alle argomentazioni del dott. Davigo sulle vicende in corso della magistratura o della situazione generale dei processi. A loro dire praticamente la Riforma Cartabia ce la siamo cercata, come avrebbe detto Andreotti, ed è tutta colpa della magistratura fannullona e inefficiente, e non il vecchio ed ennesimo tentativo di una consistente parte di politici corrotti che tenta di farla franca annullando i processi. La mia rabbia è nata soprattutto dal fatto che nella trasmissione non è stato dato il dovuto spazio alle argomentazioni del dott. Davigo che, interrotto più volte, non ha potuto compiutamente rispondere alle domande, per lo più tendenziose. Alla fine gli argomenti e il collegamento, dopo un passaggio pubblicitario, sono stati bruscamente interrotti passando alla Fornero. Ennesima impresa da “bugiardi senza gloria”. La mia personale frustrazione, quale cittadino impotente di fronte all’arroganza di tutti questi esponenti del nuovo corso di restaurazione che vuole imporci il vecchio ordine delle cose, cresce sempre di più.

Luigi Rapisarda

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo dal titolo “Così il Tesoro blocca i “rivali” Il Cloud deve finire a Cdp-Tim” a firma di Carlo Di Foggia pubblicato sul Fatto, il Poligrafico e Zecca dello Stato ritiene opportuno precisare quanto segue. Nel corso degli ultimi due mesi si sono svolti dei colloqui tra Poligrafico e Fastweb orientati a valutare in via esplorativa la fattibilità di una partecipazione congiunta all’iniziativa del Polo Strategico Nazionale. A seguito degli approfondimenti svolti all’interno di un apposito gruppo di lavoro, il Poligrafico, nel quadro della sua autonomia gestionale, ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per sottoporre una proposta congiunta al Ministero per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, essenzialmente sulla base della diversa visione circa le eventuali collaborazioni con partner internazionali. Ragione per cui le conclusioni cui giunge il quotidiano risultano differenti dalla realtà dei fatti.

Ufficio stampa Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato

Prendo atto della precisazione. Il Fatto, però, ha riportato circostanze precise – non “conclusioni” proprie – che non vengono smentite e che ribadisce, anche tenuto conto che la decisione di non partecipare è stata comunicata il 6 settembre, giorno prima della conferenza stampa del Mtd, quando la proposta congiunta era ormai quasi ultimata.

CDF

I “furbetti”. Ai giornaloni interessano solo quelli del Rdc, ma le aziende?

 

Sono giorni in cui il Reddito di cittadinanza è oggetto di attacchi sempre più frequenti e concentrici. Quella misura è stata osteggiata da sempre e Di Maio non le rese buona pubblicità quando si affacciò dal balcone di Palazzo Chigi. Effettivamente, leggere che la misura è stata assegnata a persone che non ne avrebbero diritto e, magari, che delinquono, indigna. Ma, forse, il vero problema è la mancanza o quantomeno l’insufficienza dei controlli preventivi (che poi è il vero problema di questo Paese). Detto questo, la mia professione mi mette spesso di fronte a casi di aziende beneficiate con misure che non meriterebbero (sussidi e garanzie statali al 100%), quando non truffaldine. Insomma, situazioni del tutto paragonabili a quelle che leggiamo sui giornali a proposito del Reddito di cittadinanza ma che, a differenza di quelle, non arrivano mai sui media e non producono indignazioni di sorta. Ancora una volta si tratta di assenza dei controlli (le misure in sé, come il Reddito di cittadinanza, sarebbero anche giuste) ma mi stupisce che nessuno ne parli (e includo il suo giornale). Tenga presente che ogni erogazione di una linea di credito a operatore economico non meritevole vale almeno 40 mensilità concesse a un soggetto che percepisce indebitamente il Reddito di cittadinanza. Le banche, poi, controllano poco, quando nulla, e quando non alimentano il fenomeno (tanto c’è la garanzia dello Stato! Si ricorda le discussioni nel Paese sullo scudo penale a favore degli esponenti delle Banche?). Insomma, non mi meraviglia che non ne parli Bonomi; ma che neanche il Fatto indaghi, be’ quello sì che mi meraviglia!

Lettera firmata

 

Gentile lettore, il Fatto ha raccontato spesso storie di aiuti concessi a imprese che non ne avevano diritto, a partire dai “furbetti” della Cig scovati dall’Inps. E questo a non dire della quota elevatissima (il 25%) di imprese che hanno usufruito della cassa integrazione Covid (gratuita) pur non avendo registrato nessun calo di fatturato (questo, però, non è il “sussidistan” che inorridisce il leader di Confindustria Carlo Bonomi). Di eventuali abusi riguardo le garanzie pubbliche alla liquidità bancaria ci occuperemo senz’altro. A ogni modo, è vero che le aziende furbette non hanno lo stesso spazio sui grandi giornali dei furbetti del Rdc. Gli editori ritengono grave solo il secondo fenomeno, e il motivo è facilmente intuibile.

Cdf

Salvini, la “mano calda” si fa pesante: non ne azzecca una

Se avete giocato a basket o avete assistito a qualche partita sapete cosa significa “avere la mano calda”. Un’espressione, anzi un modo di dire, che descrive quel momento magico in cui un giocatore fa sempre canestro. Gli avversari lo marcano in uno, in due, in tre, ma è come se non ci fossero. Perché lui si alza e ciuff, la palla finisce puntualmente in retina.

Bene, Matteo Salvini, per molti mesi a partire dal 2018, ha avuto la mano calda. Anzi caldissima. Ogni sua dichiarazione, ogni suo intervento gli faceva aumentare i consensi. Gli altri lo irridevano e lo contestavano, gli davano del fascista e del razzista, molti media lo descrivevano e lo trattavano come una sorta di baluba, ma lui imperterrito continuava a segnare.

Poi è arrivata la pandemia. I tiri sono cominciati a diventare sbilenchi (vi ricordate il teatrino sul “riaprire tutto” non appena la Lombardia era entrata in zona rossa?); il canestro che prima sembrava grande quanto una botte si è rimpicciolito. E quando è iniziato il secondo tempo (il governo Draghi), la palla nelle mani di Salvini è diventata pesante come un mattone.

Tra il malumore di squadra e tifosi, sempre più indispettiti dalle sue continue incursioni a vuoto. Non è solo una questione di vaccini o di Green pass. È questione invece di un’improvvisa mancanza di sintonia con il Paese. Sui lasciapassare, ad esempio, è ovvio che si possano e che anzi si debbano discutere i profili costituzionali delle norme sull’obbligatorietà, ma se si fa politica bisogna partire dalla realtà: l’80 per cento degli italiani si è vaccinato, gli effetti avversi gravi sono stati rari e le ospedalizzazioni di chi è già immunizzato sono crollate verticalmente. Pure gli elettori della Lega si sono fatti inoculare in massa. Il Green pass lo hanno in tasca e quindi non si sono appassionati alla battaglia (persa) dal loro leader.

Stesso discorso vale per un altro tiro sbilenco di Salvini: va bene, per chi come lui dice di essere perseguitato ingiustamente dalla magistratura, sostenere i referendum sulla giustizia dei Radicali. Ma come spiegare al proprio elettorato i due quesiti sulla legge Severino e sulla custodia cautelare? Se passano, i condannati in via definiva torneranno in Parlamento e gli indagati per reati come spaccio di droga, stalking, furto in appartamento, anche se arrestati in flagranza, non finiranno più dietro le sbarre. E da liberi, in molti casi, continueranno a spacciare, rubare e molestare.

C’è poi il Reddito di cittadinanza. Dire di abolirlo per dare quel denaro alle imprese ha certamente successo tra il popolo degli imprenditori, dei benestanti e dei garantiti. Ne ha molto meno tra gli abitanti delle periferie, tra i poveri e i proletari. Tutta gente che votava Lega dopo essere stata delusa dalla sinistra. Anche la battaglia sui sussidi, insomma, se si guarda a un pezzo importante dell’elettorato salviniano è un tiro fuori bersaglio (gli ultimi dati Istat, oltretutto, certificano che pure in giugno i contratti stagionali sono aumentati rispetto al 2018-19, dimostrando come la storiella sulla mancanza di personale sia più che altro una truffa politico-mediatica).

Peggio ancora va, infine, con l’idea di tornare al nucleare, costruendo una centrale in Lombardia. Appena dieci anni fa, il 91 per cento dei lombardi votò al referendum contro l’atomo. Su un tema del genere nemmeno Bob Morse, l’infallibile americano che negli anni 70 viaggiava a quasi 30 punti di media a partita nella mitica Ignis Varese, riuscirebbe a metterla dentro. Figurati se ti chiami Matteo e non sei nato a Filadelfia, ma al Giambellino.

 

Afghanistan, il Panshir è finito ai talebani senza guerra civile

Il Panshir è stato conquistato in soli quattro giorni, con pochissime perdite da una parte e dall’altra. Perché i tagiki hanno di fatto rinunciato a combattere. Il figlio di Massoud Ahmad Massoud junior, dopo i roboanti proclami in cui dichiarava che era disposto a resistere armi in pugno fino alla morte, è fuggito in Tagikistan insieme all’ex vicepremier Amrullah Saleh. Se te ne stai a Londra e a Parigi mentre i tuoi coetanei combattono l’occupante straniero non basta essere figlio del “leone del Panshir” per acquistare dimestichezza col combattimento e soprattutto il carisma necessario. Inoltre i giornalisti occidentali che sono riusciti a raggiungere il Panshir, come il bravissimo Lorenzo Cremonesi, hanno costatato, “con sorpresa” dicono, che molti tagiki erano arruolati alla causa talebana. È stato anche per la loro conoscenza dei luoghi, un intricatissimo crocevia di piccole e profondissime valli fino a ieri considerate inespugnabili, che la battaglia è stata breve e quasi incruenta. Che molti tagiki fossero diventati talebani non è per noi una sorpresa e non dovrebbe esserlo nemmeno per i nostri lettori. Più volte abbiamo scritto che la perdurante occupazione americana, con lo strascico di decine di migliaia di vittime civili causate soprattutto dai bombardieri e il modo vile di combattere degli occidentali, aveva finito per compattare tutti, o quasi tutti, gli afghani: “Talebani, non talebani, anti-talebani”. E fra gli “anti-talebani” c’erano soprattutto i tagiki, loro storici avversari, col dente avvelenato perché il Mullah Omar e i suoi uomini li avevano battuti durante la guerra civile del 1994-1996, ricacciando Massoud nel Panshir e costringendo gli altri “signori della guerra”, Ismail Khan e Gulbuddin Hekmatyar, forse il personaggio più sibillino della compagnia, a rifugiarsi in Iran e l’uzbeco Rashid Dostum a scappare in tutta fretta in Uzbekistan.

Questa è la più importante e confortante notizia che ci viene dall’Afghanistan. Perché significa che non ci sarà alcuna guerra civile fra pashtun e tagiki come qualcuno aveva paventato e forse sperato, francesi in testa. Non ci sarà cioè quel conflitto civile fra “signori della guerra” cui il Mullah Omar pose fine nel 1996 e che è all’origine della tragedia afghana dell’ultimo quarto di secolo.

Nel frattempo i Talebani cercano di mostrarsi nel modo più rassicurante possibile. Come aveva fatto il Mullah Omar nel 1996 dopo la presa del potere, hanno proclamato un’amnistia generale per tutti gli afghani che, anche ad alti livelli, hanno collaborato con gli occupanti. Del resto il nuovo governo a guida talebana ha bisogno, per ricostruire un Paese devastato da vent’anni di guerra, di tecnici, di ingegneri, di medici, di personale specializzato e non può permettersi di essere troppo integralista su questo punto. Inoltre, e per lo stesso motivo, il governo talebano ha inviato una lettera ufficiale a Martin Griffiths, vicesegretario Onu per gli Affari umanitari, in cui si impegna a “levare ogni ostacolo agli aiuti, proteggere la vita degli operatori umanitari, non entrare nelle basi Onu e di altre Ong” e chiede aiuto alla comunità internazionale “per la ricostruzione e la lotta al narcotraffico”.

Resta il problema della scuola. È molto difficile che i Talebani rinuncino a un loro chiodo fisso: la separazione degli edifici per gli studenti maschi e femmine. Saranno sicuramente escluse le classi miste, che del resto non c’erano da noi nemmeno quando studiavo io e le ragazze dovevano indossare dei casti grembiuli neri. In quanto ai programmi scolastici che verranno stabiliti dal ministro dell’Istruzione, se saranno schiacciati completamente sulla sharia o aperti anche alla cultura occidentale, è questione che non ci riguarda.

 

Boom referendum online che dicono ora i partiti?

Mentre scriviamo, oltre 900.000 persone hanno sottoscritto il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia e 420.000 (in 4 giorni, esclusivamente online) quello per la legalizzazione della cannabis. Numeri mai visti prima che dicono qualcosa di importante sullo stato della democrazia italiana. Non è vero che “della politica non frega niente a nessuno”. Certo, interessano poco le vicende dei partiti, ma questioni concrete dalle quali dipende la qualità della vita delle persone possono ancora appassionare, anche i giovani. Non è vero che la democrazia è “lasciar fare ai competenti”.

Sono in gioco questioni di libertà individuale, di diritti civili, di partecipazione democratica, e la rivoluzione tecnologica può aiutare la democrazia. L’Italia è il primo Paese al mondo dove si possono sottoscrivere online referendum con valore legale vincolante. Senza questa innovazione, la raccolta sul referendum cannabis non avrebbe potuto essere nemmeno tentata. E i social possono aiutare la partecipazione: senza Instagram non sarebbero stati possibili i 13.000 volontari di eutanasia legale nel silenzio delle televisioni e dei grandi partiti, né la partenza “col botto” di cannabis legale. Il Paese è avanti rispetto al ceto politico (ma questa non è una novità): la materia prima per una riflessione da parte dei GCGP-Grandi Capi dei Grossi Partiti sarebbe vasta.

Dopo 37 anni dal deposito della prima legge sull’eutanasia legale a firma Loris Fortuna e dopo 46 anni dalla prima disobbedienza civile di Marco Pannella sulla cannabis, potrebbe forse venire loro il sospetto di aver perso troppo tempo, e che sia il caso di affiancare alla politica di alleanze-scissioni-coalizioni-elezioni anche quella della partecipazione, usando la tecnologia non solo per mobilitare i propri fan, ma per includere un più ampio numero di persone nel processo democratico. Non ci contiamo, ma ci speriamo. Perché i referendum non sono contro la politica, e nemmeno contro i partiti. Sono lo strumento creato dalle madri e dai padri costituenti per aiutare le istituzioni a restare connessi ai cambiamenti sociali, quando il manovratore fosse distratto.

Numeri impressionanti sono anche quelli sull’analisi sociologica delle firme digitali. Dei primi 318.500 firmatari online del referendum eutanasia legale il 59% è rappresentato da donne, mentre il 41% da uomini, e in particolare sono le giovani donne ad aver firmato (il 65% delle firmatarie digitali ha infatti tra i 18 e i 35 anni). Un dato che ci racconta da solo come la politica può essere ancora in grado di parlare alle nuove generazioni, se solo utilizza strumenti al passo coi tempi.

Ma come siamo arrivati a questa conquista storica per i diritti politici che mette l’Italia all’avanguardia nel mondo? Si dice che Roma non si faccia in un giorno, e anche la rivoluzione della firma digitale è il frutto di anni di lotta politica silenziata dai media “mainstream”. Decisivo è stato il ricorso giudiziario di Mario Staderini, che nel 2013 in occasione di una raccolta firme su sei referendum (immigrazione, legalizzazione delle droghe, 8×1000, finanziamento dei partiti, divorzio breve) presentati da un gruppo di promotori, denunciò all’Onu gli ostacoli incontrati e le violazioni di legge che costarono il mancato raggiungimento delle 500mila firme. Nel 2019 il Comitato Diritti Umani dell’Onu gli diede ragione, confermando così che l’Italia aveva operato un vero e proprio sabotaggio dei referendum attraverso la mancanza di informazione, i malfunzionamenti dei Comuni, le procedure vessatorie su vidimazione e certificazione dei moduli, e le regole discriminatorie che prevedevano la possibilità di autenticare le firme solo per determinate categorie di pubblici ufficiali, a vantaggio di grandi partiti e sindacati che possono contare su ampie schiere di eletti locali e autenticatori. Ci sono voluti due anni e diverse iniziative di lotta nonviolenta per riuscire a ottenere risultati, dapprima con l’estensione ad avvocati e altre categorie della facoltà di autenticare le firme. L’onda della raccolta firme per il referendum eutanasia, il dialogo col ministro Colao avviato dal presidente dell’associazione Luca Coscioni Marco Gentili, e uno sciopero della fame promosso da Virginia Fiume e Lorenzo Mineo, hanno fatto il resto, preparando il terreno per l’approvazione dell’emendamento al decreto semplificazioni presentato da Riccardo Magi – e approvato dal Parlamento nonostante il parere contrario del governo – che ha introdotto a fine luglio la possibilità di firma digitale sui referendum.

Quel che sembrava improbabile è diventato così possibile grazie alla testardaggine e l’impegno di un piccolo gruppo. Adesso che la partecipazione digitale ha raggiunto centinaia di migliaia di italiani, la politica non potrà restare sorda alle esigenze del Paese reale.

 

Gli intellettuali scettici, i tanti cinesi in orbita e il morso del serpente

E ora, per la serie “Soffiare caldo e soffiare freddo”, la posta della settimana.

Caro Daniele, che tipi erano i tuoi genitori? (Maria Rizzo, Brindisi). Non importa, poiché penso di essere stato adottato. Già da piccolo mi sentivo diverso dalla mia famiglia, e leggendo le biografie di Shakespeare, Beethoven, Totò Riina e Andreotti ho scoperto che anche loro pensavano la stessa cosa della propria. Del resto, come potrebbe una persona brillante e divertente come me essere nata da una stupida coppia di maestri elementari noiosi e bigotti? Lo so, è orribile a dirsi, ma è quello che penso, e se questa rubrica non è onesta non è niente.

Storie luttuose in famiglia? (Fabio Salvatore, Acireale). Un mio zio morì da piccolo per un morso di vipera durante un’escursione in un bosco. Mia mamma era accanto a lui, quando successe. Presa dal panico, gli incise la gamba con un coltellino svizzero e cercò di succhiare via tutto il veleno, ma quando mio zio arrivò in ospedale era troppo tardi: quella disgraziata aveva succhiato per un’ora la gamba sbagliata.

Perché alcuni professori si oppongono al Green pass per le aule universitarie? (Arturo Moliterni, Perugia). Le loro obiezioni sono di ordine filosofico: il Gp discrimina la minoranza non vaccinata, viola il diritto allo studio, ed è un obbligo dissimulato alla vaccinazione. A quelle si aggiungono i timori, espressi da più parti, che le misure d’emergenza per il controllo della pandemia possano diventare permanenti. Certo, il Gp è antipatico perché è una tecnica di governo che appartiene al sistema delle libertà autorizzate: sei libero di fare certe cose solo dopo che ti è stato rimosso un vincolo stabilito dalla legge. C’è anche chi sospetta nel Gp l’inizio della classificazione reputazionale dei cittadini. In Cina è già in sperimentazione da qualche anno: il social credit system valuta, con feedback e rating, l’affidabilità dei propri cittadini, con bonus se l’algoritmo del Partito comunista decide che ti comporti bene, e malus in caso contrario (non potrai viaggiare all’estero, soggiornare in certi alberghi, mandare i tuoi figli in certe scuole; avrai Internet rallentato e penalizzazioni nei siti di dating online); ma lì è una dittatura. Curioso che faccia capolino da noi, causa Covid venuto dalla Cina. Alcune conseguenze del fenomeno sono state esplorate da un celebre episodio della serie distopica Black Mirror (Nosedive, st. 3, ep.1): sotto un certo punteggio, si diventa come lebbrosi. Michel Foucault fu il primo a descrivere i modelli repressivo-disciplinari messi in atto dal potere nell’antichità, il modello lebbra (esclusione) e il modello peste (sorvegliare, controllare, registrare), che si uniscono nei meccanismi di controllo della società di oggi. Una coincidenza inquietante, che evoca lo Stato etico, unisce poi il ministro Di Maio e la Cina: per limitare l’uso del Reddito di cittadinanza, Di Maio stigmatizzò le “spese immorali”; in Cina, l’algoritmo penalizza le spese “frivole”. Comunque, tutte queste considerazioni, legittime sul piano teorico, sono sbaragliate dall’argomento pragmatico: il mondo sta lottando da due anni contro una pandemia mortale. In tale contesto, i cacadubbi risultano pericolosi per l’incolumità di tutti. Vaccinatevi, per favore, oppure levatevi dai cosi.

I cinesi sono arrivati su Marte. (Marina Iacchia, Milano). Tutti?