In questo momento tutta la letteratura scientifica sta cercando di analizzare se e quali siano le migliori strategie per affrontare la pandemia ora. Il British Journal of Medicine si è chiesto per esempio se sia corretto vaccinare anche i guariti che hanno una protezione superiore ai vaccinati. Un grande studio pubblicato su The Lancet e un secondo dell’Università di Manchester confermano che i guariti hanno un maggior numero di effetti collaterali dopo la vaccinazione e, peraltro, si riammalano raramente (0,4% dei casi), secondo un’indagine del Public Health England, mentre i vaccinati si stanno contagiando, a conferma dei dati israeliani sul calo della protezione del vaccino dopo 146 giorni. I dubbi, in fondo, sono sempre gli stessi: quanto è sterilizzante il vaccino? Quanto dura la protezione? È sicuro per i più giovani? Le varianti si originano nei vaccinati o nei non-vaccinati (in entrambi i gruppi, seppure con incidenza maggiore nei non-vaccinati, secondo Lorenzo Moretta, immunologo tra i più citati al mondo). E ancora: quali i rischi per i bambini? E sono super-diffusori? Secondo l’Università di Southampton, no e non avrebbero rischi significativi di effetti gravi o morte. Sempre seguendo la letteratura scientifica – unica bussola – e stando agli dati dell’Iss, i tassi di ospedalizzazioni dovuti alle varianti Alpha e Delta sono simili. Per capire cosa sta accadendo in Israele, e a breve potrebbe accadere in Italia, abbiamo chiesto al Direttore di Immunologia della Bar-Ilan University di Rabat (Israele) e membro del CTS israeliano, Cyrille Cohen, se siamo sulla strada giusta.
“È difficile dire quanto serva la 3ª dose, specie per i giovani”
“Non sappiamo quale sarà la protezione e la durata della terza dose – spiega Cyrille Cohen membro del board sui vaccini del Ministero della Salute di Israele – avrei preferito aspettare per le persone più giovani”. Anche nel “super vaccinato” Israele ci si interroga sulle strategie anti-pandemia ancora da adottare. Il British Journal of Medicine si chiede se sia corretto vaccinare anche i guariti, che hanno una protezione superiore ai vaccinati: “Il rischio è di fare più male che bene – dichiara Christine Stabell Benn, vaccinologa e dell’Università della Danimarca meridionale. Un grande studio nel Regno Unito – pubblicato su The Lancet – e un secondo dell’Università di Manchester confermano che i guariti hanno un maggior numero di effetti collaterali dopo la vaccinazione. Si ri-ammalano raramente, circa lo 0,4% dei casi secondo Public Health England), mentre i vaccinati si stanno contagiando, a conferma dei dati israeliani sul calo della protezione del vaccino dopo 146 giorni. Le domande sono sempre le stesse: quanto dura la protezione del vaccino? E’ necessario nei più piccoli? Le varianti si originano nei vaccinati o nei non-vaccinati (è possibile in entrambi i gruppi, seppure con incidenza maggiore nei non-vaccinati, secondo Lorenzo Moretta, immunologo italiano tra i più citati al mondo). E ancora, i bambini che rischi diretti hanno e sono dei superdiffusori? Secondo l’Università di Southampton i bambini non sono né superdiffusori né avrebbero rischi significativi di evoluzione negativa della malattia. Il tasso di ospedalizzazioni dovute alla variante Alpha e Delta, infine, sono simili. Quindi, per capire cosa sta accadendo in Israele, e a breve accadrà in Italia, abbiamo chiesto al Direttore di Immunologia della Bar-Ilan University di Ramat (Israele) Cyrille Cohen, se siamo sulla strada giusta.
Professor Cohen, in Israele 2,9 milioni di persone hanno già la terza dose, come sta andando?
L’effetto nella prevenzione dalla morte e dai ricoveri è positivo. I casi gravi sopra i 60 anni colpiscono i vaccinati con due dosi 4 volte in meno e 40 volte meno con il richiamo rispetto ai non vaccinati.
Dal 1 ottobre senza terza dose nessun greenpass. La terza dose di vaccino sarà “sterilizzante”, ovvero chi la fa e si infetta non dovrebbe rischiare di contagiare gli altri?
Abbiamo uno studio che dimostra che può ridurre la carica virale ma non pensiamo che sia sterilizzante (non impedirà ai vaccinati di poter contagiare altre persone, ndr). Non sono sicuro fino a che punto sia una buona cosa che il green-pass scada dopo 2 dosi, penso che avremmo potuto aspettare di più per questo.
La copertura dal “contagio” era scesa al 39% a luglio. Uno studio recente israeliano parla di 146 giorni di copertura vaccinale, poi diminuisce l’efficacia del vaccino. Quanto durerà la copertura vaccinale della terza dose, avete dati di base?
Non lo sappiamo, è davvero troppo presto per dirlo e dipende anche dal tipo di variante che affronteremo. Vediamo che dopo 3 dosi ci sono molti più anticorpi prodotti che dopo 2 dosi.
Ci sono state più reazioni avverse dovute alla terza dose? Aumenta la reattogenicità, ovvero le reazioni sistemiche e locali?
Di nuovo, troppo presto per dirlo. Non ho dati. In generale, la maggior parte delle persone (88%) riporta effetti simili a breve termine dopo la terza dose rispetto alla seconda (dati di Clalit HMO). Uno studio recente di Macabi HMO dice che il 3% lamenta più di qualche giorno di effetti collaterali (io sono uno di loro tra l’altro). La mia sensazione personale è che la terza dose sia importante ora per le persone a rischio e sopra i 50/60 anni ma avrei preferito aspettare di più per le persone più giovani fino a quando non avremo più dati sulla reattogenicità nelle persone sotto i 60 anni. Vediamo anche cosa dirà la FDA.
La terza dose è aggiornata alla variante Delta, o sul ceppo di Wuhan?
No, è la stessa della precedente.
Si è parlato anche di una quarta dose in Israele, perché prevedete che una quarta dose sarà necessaria, ci sono dati di sicurezza ed efficacia?
La verità è che non lo sappiamo e quello che è stato menzionato è solo una possibilità, non un fatto certo.
Uno studio recente, citato anche da The Guardian, confronta il rischio di miocardite post-vaccino, con il rischio di miocardite da COVID, per i molto giovani. Sembra che ci sia da 4 a 6 volte più rischio di finire in ospedale per miocardite dovuta dal vaccino, che da COVID. Cosa ne pensa?
È davvero preoccupante (sono il padre di 2 ragazzi in queste età che hanno avuto il vaccino) ma non so fino a che punto il rischio sia maggiore che con la malattia. Bisogna valutare più studi.
La rivista Nature, ha pubblicato uno studio in cui si conclude che chi è vaccinato produce cellule B (Plasmacellule) della “memoria immunitaria”. Se ci sono queste cellule difensive, la persona dovrebbe essere protetta (anche se gli anticorpi rilevabili dal sierologico si abbassano notevolmente), perché le cellule B (e le “T” killer) non vengono “misurate”?
Questa è esattamente la differenza tra la scienza in laboratorio e i vaccini nella popolazione e nella salute pubblica. Non mi fraintenda, sono uno scienziato che lavora in laboratorio, ma anche se troviamo qualcosa in laboratorio, non significa che a livello della popolazione sarà vero. Misurare gli Abs (componenti cellulari del sistema immunitario) non è sufficiente per determinare se qualcuno è ancora protetto contro il COVID – non sappiamo quale sia la natura e la soglia degli anticorpi necessari – ci sono anche le cellule T che sono importanti per combattere i virus e questo non lo stiamo misurando (è difficile).
In conclusione, perché ritiene che dove hanno sostanzialmente fallito, nella loro durata, due dosi di vaccino possa essere diversa e più lunga la protezione dal contagio e dalla malattia la terza dose dello stesso vaccino?
In questo momento, è difficile dire in che misura 2 dosi saranno diverse da 3, ma sembra che il livello di anticorpi è più alto e quindi può durare più a lungo. Inoltre sappiamo da altri vaccini che a volte booster shot (richiami, ndr) aiutano a mantenere una risposta immunitaria più persistente quindi è una possibilità migliore, soprattutto perché c’è uno studio britannico che ha dimostrato che l’intervallo migliore tra due dosi di vaccino Pfizer BioNtech era 8 settimane. Vorrei che avessimo più dati, ma purtroppo non li abbiamo.
Maxi bollette, il governo prende ancora tempo alla ricerca di 3 miliardi
Sembrava fatta. Nella tarda serata di mercoledì è trapelata la notizia che nel Consiglio dei ministri di ieri (quello sul Green pass) sarebbe entrato anche il decreto anti-rincari per le bollette di luce e gas. Ma ieri mattina, dopo un incontro tra il premier Mario Draghi e i ministri dell’Economia e della Transizione ecologica, Daniele Franco e Roberto Cingolani, del provvedimento non se n’è saputo più nulla. Il governo continua a fare stime e simulazioni di impatto delle misure che pensa di adottare per evitare che sulle famiglie si abbatta una stangata da 500 euro l’anno. Un aumento senza precedenti che dovrebbe aggirarsi attorno al 40% per la luce e al 30% per il gas. Ma per evitarlo servono 3 miliardi. Più del doppio di quanto già è stato stanziato tre mesi fa quando, solo grazie a un intervento in extremis, sono stati evitati i mega-rincari delle bollette (fino al 20%, poi limati a +15,3% per il metano e +9,9% per l’elettricità) con 1,2 miliardi. E se ora il governo agisse nuovamente sugli oneri di sistema, come ha fatto a luglio, dovrebbe trovare 3 miliardi che servirebbero però a sterilizzare solo parte degli aumenti, così come ha fatto intendere il ministro Cingolani intervistato a Radio Anch’io (Radio Uno Rai) che sembra aver anche smesso di demonizzare il green: “C’è da mitigare l’aumento del trimestre, che c’è in tutto il mondo, e all’80% dipende dall’aumento del gas”. Soldi che vanno ad aggiungersi agli oltre 4 che servono per la riforma degli ammortizzatori sociali e ai 2 per la delega fiscale. Fondi che per il momento non è facile trovare. Di tempo ne è rimasto poco. Franco e Cingolani entro la prossima settimana devono consegnare il decreto che, a questo punto, dovrebbe prevedere una misura d’urgenza in grado di sterilizzare solo gli aumenti. Poi, in manovra, finirà una riforma strutturale degli oneri di sistema da trasferire sulla fiscalità generale. Senza speranze l’idea della Lega di sterilizzare l’Iva.
Statali, il Green pass dà l’assist a Brunetta per il “rientrate tutti”
Dal 15 ottobre non si entra al lavoro senza Green pass. È stato approvato ieri in Cdm il decreto che lo stabilisce, con il neanche celato obiettivo di accelerare sui vaccini prima dell’inverno. L’evento segna però anche il primo passo verso la fine dello smart working per i dipendenti pubblici visto che parallelamente ha preso prepotentemente forma anche un Dpcm, spinto dal ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta e redatto con l’Aran, l’agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, che riporterà in presenza fino all’85% dei dipendenti pubblici.
Nel testo che circola si stabilisce, in sostanza, che lo smart working nel pubblico impiego sarà regolato da un accordo individuale scritto e che in ogni caso non si potrà svolgere dall’estero. Non potrà poi interessare più del 15% dei lavoratori e dovranno essere stabilite le modalità dell’attività da svolgere fuori dall’ufficio. Potrà infatti essere utilizzato solo “per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità” e con precisa definizione di giornate, orari, riposi e forme di recesso. Bisognerà anche stabilire dove si svolgerà (rispettando condizioni minime di salute e sicurezza) e verificare che le dotazioni informatiche e la riservatezza delle informazioni siano adeguate: niente lavoro agile o smart, dunque, semplicemente “da remoto”. L’idea, poi, è di dare precedenza ai genitori con figli piccoli, ai disabili o a coloro che assistono i disabili. Cruciali saranno le modalità con cui il datore eserciterà controllo sulle prestazioni, uno dei nodi su cui Aran e sindacati discuteranno nell’incontro previsto il 22 settembre.
Si prevede pure di dividere il lavoro in tre fasce giornaliere: una di operatività, un’altra di contattabilità e un’altra di inoperabilità (nella quale rientrerebbe il diritto di disconnessione) e per il rientro in ufficio si dovrà essere convocati con un giorno di preavviso.
In linea generale, si tratta di indicazioni di cui si parlava già un anno fa quando si pensava anche di poter rivoluzionare il lavoro nella Pubblica amministrazione, previ adeguati correttivi (soprattutto tecnologici). A inizio anno Banca d’Italia, in un suo paper aveva fotografato la situazione dello smart working nel pubblico durante la pandemia e fino al secondo trimestre del 2020: la percentuale di lavoratori agili almeno una volta alla settimana era passata dal 2,4 per cento pre-pandemia al 33 per cento e ne avevano usufruito soprattutto le donne e i lavoratori più istruiti. La quota era stata simile nei servizi sociali non residenziali (ad esempio, gli asili nido e l’assistenza diurna ai disabili) e pari a circa il doppio nell’istruzione (59%). Si poteva fare anche di più: “Nella P.A. in senso stretto avrebbe potuto essere più pervasivo con un tasso potenziale pari al 53%” rilevava al tempo Bankitalia.
Negli enti locali, il ricorso a misure di lavoro da remoto era salita al 95%, con il grado massimo nelle Regioni e minimo, ovviamente, nelle Aziende sanitarie. Più eterogenea era stata la situazione tra i Comuni, con una maggiore concentrazione nella fascia del 50-75%. Le differenze, rilevava l’istituto, era legata al maggior grado di fornitura di servizi al pubblico svolta dai Comuni. “Offrire tali servizi in modalità di lavoro da remoto richiede non solo la disponibilità di infrastrutture digitali adatte, ma anche la capacità da parte dei cittadini di usare tali piattaforme”, si leggeva. E l’Italia allora, come oggi, era molto indietro.
In molti casi, però, le amministrazioni si sono “autoregolate” in base al bisogno e garantendo comunque continuità di servizio. L’unica incognita era stata legata alla corrispondenza tra i servizi “delocalizzati” e il relativo personale in lavoro agile. “In alcuni casi vi è una discrepanza tra la quota di personale che ha lavorato da casa e quella delle attività che sono state svolte. Ad esempio, gli enti che hanno affermato di aver esteso il lavoro agile a più del 75% del personale hanno dichiarato tassi di delocalizzazione delle attività inferiori a tale soglia in quasi il 40% dei casi”. C’era l’emergenza e il sospetto è che “l’uso dello smart working nella Pa possa essere andato al di là dell’effettiva telelavorabilità delle mansioni”. Nulla che però non potesse essere aggiustato con una gestione ‘non emergenziale’.
Controlli e orari folli: nel privato lo smart working resta selvaggio
“Dal lockdown in poi lavoro da casa per periodi di una settimana, la turnazione scatta quando le persone in ufficio superano le presenze ammesse dal protocollo anti-Covid. Per me è cambiato poco e in meglio. L’orario è lo stesso, dalle 8:20 alle 16:35, ma è più facile portare i figli a scuola o in palestra, il tragitto è più breve. Dalla direzione mi rigirano le richieste dei clienti ai quali rispondo tramite Pec, come facevo in ufficio. Se ci allontaniamo dal domicilio comunicato come sede di lavoro dobbiamo chiedere un permesso e niente buoni pasto”. Rossana racconta così la sua giornata da smart worker. Impiegata in un grande gruppo bancario da 17 anni, fa parte di quell’80% di dipendenti del settore del credito, su un totale di 310mila, coinvolti in questo gigantesco esperimento di massa, forzato e senza precedenti, di immissione nel cosiddetto “lavoro agile”, come viene definito nei contratti di lavoro.
Nel settore bancario le agenzie sono state sempre aperte, mentre nelle direzioni generali si sono raggiunte punte di lavoro da remoto del 95%. Da settembre la percentuale è scesa al 50% e si lavora sulla base di protocolli sindacali che concedono alle banche una deroga rispetto al contratto rinnovato a fine 2019, per il quale il telelavoro può essere praticato al massimo 10 giorni al mese e su base volontaria. “Al termine dello stato di emergenza fissato al 31 dicembre 2021 si deve tornare al contratto”, avverte il segretario generale della Fabi, il sindacato di categoria più rappresentativo, Lando Maria Sileoni. “Il post Covid deve essere strettamente regolamentato – spiega – lo smart working selvaggio comporta effetti collaterali che nel medio periodo sono rischiosi: il distanziamento dal management, l’isolamento, la perdita di contatto con gli altri colleghi, e soprattutto il rischio di esternalizzazioni, anticamera di tagli all’occupazione”.
Secondo la definizione dell’Osservatorio del Politecnico di Milano lo smart working è “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. In effetti nel periodo della pandemia il 97% delle grandi aziende italiane e il 58% delle piccole hanno adottato forme di telelavoro. Ma non è affatto scontato che i 6,8 milioni italiani costretti a lavorare a casa abbiano acquistato tutti il felice status professionale di “smart worker”, delineato dal Politecnico. Anzi.
Siamo in piena stagione di rinnovi contrattuali e già gli accordi nazionali dei meccanici, dei chimici, dei tessili hanno messo qualche paletto. Ora tocca ai quasi 3,5 milioni di lavoratori del terziario e dell’artigianato, settori polverizzati dove si rischia di traghettare nel post-pandemia le nuove pratiche di sfruttamento del lavoro emerse nell’emergenza sanitaria. Controllo a distanza dell’attività sul computer, soprattutto nel settore della consulenza informatica, orari di lavoro ben oltre le 8 ore giornaliere senza il rispetto di pause e riposi settimanali e la piaga del lavoro nero, sono fenomeni che si sono allargati sotto la coperta della prestazione a domicilio. “Durante la pandemia le uniche situazioni regolamentate le abbiamo viste nei grandi gruppi, manca un accordo generale per stabilire dei criteri minimi”, rileva Tania Scacchetti della segreteria confederale della Cgil.
In Parlamento sono in attesa di esame 10 proposte di legge in materia e i prossimi due saranno decisivi. “Abbiamo riscontrato che così come è stata applicata è una modalità di lavoro tendenzialmente sgradita ai lavoratori – prosegue Sacchetti – occorre fissare dei criteri per evitare gli abusi e rispettare i diritti alla sospensione della reperibilità, alla privacy, a un ambiente idoneo, alla strumentazione fornita dall’azienda, senza penalizzazioni economiche e dando la priorità a chi ha figli piccoli e famigliari con disabilità”.
Intanto i grandi gruppi, che hanno colto appieno le opportunità di riassetto organizzativo offerto dalla pandemia, si attrezzano per consolidarle nel dopo emergenza. Enel ha appena consentito ai circa 15mila gli addetti che da marzo 2020 hanno lavorato in maniera continuativa da casa di ricominciare in presenza su base volontaria. “In questa fase, ciascuna unità operativa potrà decidere se lavorare nella propria sede di lavoro abituale o continuare da remoto – spiegano da Enel – chi non dovesse disporre del Green Pass potrà continuare a lavorare da remoto”.
Tim ha previsto la riapertura delle sedi con un graduale e volontario rientro in “desk sharing”, che in una prima fase prevede un giorno a settimana o una settimana al mese. Sono 36mila , su 42mila, i dipendenti oggi in remoto. Per il futuro il nuovo modello organizzativo prevede due modalitá a seconda dei ruoli: due giorni di lavoro da remoto e tre presso la sede per settimana o l’alternanza settimanale del lavoro da remoto e in sede, “garantendo sempre il diritto alla disconnessione”.
In Poste Italiane il lavoro da casa ha riguardato circa 16 mila dei 123 mila dipendenti, nelle strutture centrali e territoriali: personale di staff, supporto, backoffice e contact center. “Si lavora per obiettivi e si favorisce la conciliazione delle esigenze personali con quelle professionali” garantiscano dalla direzione. Oggi lo “smart worker” delle Poste può connettersi sia dal proprio domicilio che da un’altra sede comunicandolo, a condizione che non sia un luogo aperto al pubblico e che la privacy sia garantita. L’idea è di mantenere lo smart working per tutte le attività che lo consentono.
Ventura licenziato rai chiude i rapporti con “mr. Casellati”
“È stata attivata una procedura di risoluzione per inadempimento contrattuale”. In questo modo la Rai ha risolto la questione di Marco Ventura, il giornalista che fino a ieri è stato uno dei principali autori di Unomattina e che negli ultimi anni ha ricoperto anche il ruolo di portavoce dell’ex presidente Rai, Marcello Foa.
Cessato questo incarico a luglio, Ventura ha poi accettato di diventare consigliere per la comunicazione della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, restando però anche a Unomattina. Cosa che aveva suscitato forti perplessità a Palazzo Madama, ma pure a Viale Mazzini. Dove si è posto il problema di un conflitto d’interessi tra il ruolo di autore di uno dei principali programmi di Rai1 e il lavoro per la seconda carica dello Stato, dato che il Parlamento, insieme al Mef, è l’editore della tv pubblica: qui vengono eletti ben quattro membri del Cda.
La questione era stata sollevata dal Fatto in un paio di articoli di
cui l’ultimo lunedì scorso, a seguito di una richiesta di spiegazioni da parte del consigliere Riccardo Laganà all’a.d. Carlo Fuortes. Ora, dunque, Viale Mazzini ha risolto la questione sciogliendo il contratto da autore a Ventura, che dovrà accontentarsi della Casellati. Contratto che però non viene terminato per questioni di opportunità o conflitto d’interessi, ma perché il giornalista non aveva informato la Rai. A quanto si apprende, infatti, pur trattandosi di una collaborazione esterna, era comunque prevista l’esclusiva: in caso di altre mansioni professionali, il giornalista avrebbe dovuto avvisare mamma Rai. Cosa che, secondo Viale Mazzini, non è accaduta.
Resta però una domanda: se l’incarico per Casellati fosse stato comunicato, come si sarebbe comportato il vertice Rai? A Viale Mazzini se n’è fatta più una questione di forma (la mancata comunicazione) che di sostanza (il possibile conflitto d’interessi). Ma, si fa sapere, è stato comunque il modo per ovviare una situazione che nelle ultime ore stava diventando imbarazzante.
Resta ora da vedere che fine faranno gli altri possibili conflitti, a partire da quasi tutti i consiglieri (Fuortes compreso).
Raggi, Gualtieri e don Antonio. La lite sulla visita a San Basilio
La si potrebbe chiamare la disfida di San Basilio. Non parliamo del santo nato in Cappadocia nel 329 d.C. ma del quartiere di Roma che prende il nome da una chiesa a lui dedicata. Siamo nella periferia Nord Est della città, uno dei quartieri più difficili per quanto riguarda spaccio, racket e microcriminalità. “Il più grande mercato a cielo aperto della cocaina della Capitale”, lo definiscono le forze dell’ordine. Chiaro che per i candidati al Campidoglio è un palcoscenico ghiottissimo. E un giro da queste parti in campagna elettorale è d’obbligo. Così ha fatto Roberto Gualtieri che, mercoledì sera, verso le 22.30, si è fatto una passeggiata accompagnato da don Antonio Coluccia, sacerdote impegnato da anni contro la criminalità che gli è valsa la definizione di prete anti-spaccio e per cui gira sotto scorta. Insomma, tonaca ambitissima in questa campagna elettorale, specie da quei candidati cosiddetti “Ztl”, che la periferia l’hanno sempre vista da lontano.
Insomma, mercoledì è arrivato Gualtieri. A sorpresa, però, a un certo punto è spuntata pure la sindaca Virginia Raggi, che da queste parti negli ultimi anni si è vista più spesso. Così i due candidati, insieme a don Coluccia, hanno proseguito insieme la visita, non senza qualche imbarazzo da parte dei rispettivi staff. La sindaca ha poi postato un video su Twitter: “Stanotte, prima di tornare a casa, sono andata a San Basilio. C’era Gualtieri, mai visto prima in zona. L’ho portato a conoscere il quartiere e vedere cosa abbiamo realizzato in questi anni”. Anche Gualtieri posta il suo bel video, dove però la Raggi non compare. “Un grazie davvero sentito a don Coluccia che mi ha guidato per le strade di San Basilio facendomi vivere i problemi di un quartiere con tante difficoltà”, ha twittato l’ex ministro. Aggiungendo sibillino: “Ps. Grazie a Virginia Raggi per essersi unita a sorpresa alla nostra iniziativa notturna”.
Le versioni divergono. “È venuta a marcare il territorio”, dicono dal Pd. La polemica su chi ha portato chi e su come sono andate le cose ieri è esplosa sui social. Tanto che i due protagonisti sono dovuti tornare sulla vicenda. “Lei ha saputo che ero lì e si è precipitata, per poi dire che mi ci aveva portato lei. Ma non voglio fare polemiche, credo che ai cittadini non interessi. Ognuno ha il suo stile”, spiega Gualtieri. “Sono anni che io vado a San Basilio dove stiamo facendo un lavoro importante, Gualtieri ci è andato per la prima volta in campagna elettorale, come stanno facendo i soliti volti dei partiti che delle periferie si dimenticheranno tra qualche settimana”, ribatte la sindaca. Tra i due litiganti non poteva mancare il terzo incomodo, Carlo Calenda. “Non sapevo che mercoledì ci fosse un happening a San Basilio, che è il primo posto dove sono andato. Queste passeggiate sono incomprensibili, specie se ci si porta dietro i fotografi…”. La disfida di San Basilio termina qui. In attesa della prossima.
Lega, al posto di Durigon va l’avvocato del suo staff
Nella Lega dicono che per un posto così importante, che diventerà caldissimo nelle prossime settimane con la legge di Bilancio, serva la “continuità”. Una formula dietro cui si cela il vero padrino dell’operazione: Claudio Durigon. Secondo i bene informati, è stato proprio l’ex sottosegretario all’Economia della Lega a imporre il nome del suo successore a Matteo Salvini. E così si è arrivati a Federico Freni, romano, avvocato amministrativista, ma soprattutto consigliere di Durigon al ministero dell’Economia: era il suo punto di riferimento nel settore dei Giochi, la delega più pesante del leghista al Tesoro. E lo sarebbe rimasto con qualunque altro sottosegretario visto che nella Lega viene considerato un esperto in materia. Un modo per Durigon di piazzare al suo posto una figura senza alcun ruolo politico e che lavori in perfetta continuità con i suoi obiettivi e sia in grado di prendere in mano i dossier, da Quota 100 al Reddito di cittadinanza fino alla rottamazione delle cartelle esattoriali, lasciati sul tavolo dall’ex sottosegretario. “Se viene fatto questo nome è evidente che dietro c’è Durigon – dice un big leghista – tanto più che Freni non ha ruoli nella Lega”.
Il Carroccio ha deciso che nelle prossime ore farà il nome di Freni al presidente del Consiglio Mario Draghi e al ministro dell’Economia Daniele Franco. Saranno questi ultimi a decidere ma è improbabile che si opporranno dopo aver portato Durigon alle dimissioni di fine agosto causate dalla sua proposta di intitolare un parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dal Tesoro fanno sapere che l’indicazione ufficiale del nome di Freni “non è ancora arrivata”. Se la nomina di Freni a sottosegretario sarà ufficializzata, sarà un modo di Durigon e Salvini per non concedere un altro punto al fronde nordista del Carroccio che spingeva per il padovano Massimo Bitonci (la Liga veneta lamenta di non aver rappresentanti nel governo) in contrasto con il ligure Edoardo Rixi. Freni invece è considerato un profilo di spessore nel partito e con un curriculum vicino a quello del Carroccio: oltre alla cattedra di diritto Amministrativo all’università Pegaso e alla Luiss, è stato consulente giuridico del gruppo della Lega alla Camera e al Senato ed è l’avvocato che sta preparando il ricorso al Consiglio di Stato per l’esclusione della lista del Carroccio alle Amministrative a Napoli. Sul suo nome però aleggia anche un potenziale conflitto d’interessi: come ha riportato Gianni Dragoni su puntoeacapo.org, Freni è stato avvocato dell’Inpgi nella causa sul contributo di solidarietà che ha permesso all’Istituto di risparmiare 18 milioni ed è ancora consulente per gli appalti pubblici. Non solo: Freni ha acquistato dall’Inpgi una casa ai Parioli scontata, come per tutti gli inquilini, del 25%. Niente di male se non fosse che a vigilare sull’Istituto è proprio il Mef dove Freni andrà a occupare la carica di sottosegretario. E, viste le cattive acque dell’Inpgi, si vocifera da tempo un intervento pubblico.
L’Arbitro che può essere Re. Ma il Sergio bis si allontana
Per insediarsi al Quirinale, il 3 febbraio del 2015, a Sergio Mattarella bastò attraversare la piazza. Giudice costituzionale dal 2011, da quando era rimasto vedovo abitava dall’altro lato della strada in una foresteria del Palazzo della Consulta. Con lui tornava un cattolico al Colle dopo i tre lustri “coperti” dall’azionista Carlo Azeglio Ciampi e dal postcomunista Giorgio Napolitano. Un cattolico della sinistra democristiana, poi ulivista e democratico. Venne eletto dodicesimo capo dello Stato il 31 gennaio 2015: 665 voti al quarto scrutinio. Alla vigilia, alcuni diabolici esponenti di Sel, l’allora sinistra vendoliana, avevano pronosticato: “Sarà un grande presidente, magari prenderà 666 voti”. Cioè, il numero della Bestia. Gliene arrivò provvidenzialmente uno in meno.
Quasi sette anni dopo, il bis di Mattarella viene evocato da vari ambienti di Palazzo ma anche del Paese. Ormai è una tradizione: accadde con Ciampi, che però rifiutò; accadde con Napolitano, che invece accettò. La supplica più eclatante per un nuovo mandato gli è stata rivolta da Roberto Benigni. La reazione del presidente ha mescolato imbarazzo e soddisfazione ma su questa ipotesi incombe decisivo il rebus Draghi. Per la prossima tombola del Quirinale, infatti, sono in campo al momento solo due opzioni: il trasloco di SuperMario da Palazzo Chigi al Colle e appunto il Mattarella bis. Sembra che l’attuale Parlamento, diviso com’è, non possa andare oltre.
Nel febbraio del 2015, il grande elettore di Mattarella fu il Pd di Matteo Renzi. L’allora premier rottamatore non riuscì a far passare nell’opposizione interna di Pier Luigi Bersani il nome di Giuliano Amato. L’ex craxiano era il candidato designato dal patto del Nazareno tra lo Spregiudicato Renzi e il Pregiudicato Silvio Berlusconi. Amato avrebbe dovuto garantire un salvacondotto politico per la riabilitazione di B., condannato in Cassazione due anni prima. La scelta di Mattarella venne ratificata dal Pd il 29 gennaio: la classica riserva della Repubblica, com’era già accaduto nel 2006 con Napolitano dopo che i Ds presero atto dei tanti no a Massimo D’Alema. Più volte ministro nella Prima e Seconda Repubblica, Mattarella iniziò il suo impegno politico con una tragedia: il fratello Piersanti, presidente della Regione Siciliana, venne ammazzato dalla mafia nel giorno della Befana del 1980. Da ministro, Sergio Mattarella, fu protagonista delle clamorose dimissioni della sinistra Dc dal sesto governo Andreotti, nel 1989, contro una legge ad personam per Berlusconi imprenditore, la Mammì sul riordino del sistema radio-tv. Giurista accademico esperto di diritto costituzionale e parlamentare, legò il suo nome pure alla prima legge elettorale del post-Tangentopoli, il Mattarellum di stampo maggioritario.
In queste ultime settimane le quotazioni di un Mattarella bis sono in netto ribasso. Appena lunedì scorso – alla presentazione del libro Razza poltrona di Fabrizio Roncone del Corriere della Sera – Giorgia Meloni ha detto pubblicamente di essere contraria a un nuovo mandato del capo dello Stato. Se a questo aggiungiamo l’endorsement di Matteo Salvini per Draghi al Colle, a sostenere Mattarella restano forse solo Enrico Letta e Giuseppe Conte. Decisamente poco per un eventuale bis chiesto a gran voce dal Parlamento. Non sfuggano, altresì, le ragioni strumentali di un sostegno sovranista al premier: Draghi al Quirinale potrebbe portare al voto anticipato nel 2022 con la conseguente vittoria della destra a più di dieci anni dall’ultimo governo di Berlusconi.
Nel suo primo discorso presidenziale Mattarella si cucì addosso l’abito tradizionale di arbitro della Carta: “All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza”. In sostanza una cesura netta con la monarchia interventista del suo predecessore Re Giorgio, al Colle per nove anni. Questione di metodo. Rispetto al dirigismo (realismo) socialista di Napolitano, aduso a indirizzare i partiti con una quotidiana moral suasion, l’ex ministro della sinistra Dc si è ispirato socraticamente all’arte della maieutica, cioè della levatrice che aiuta a partorire l’esistente e ha una domanda come motto: “Cosa mi compete?”.
Su queste basi Mattarella ha affrontato la fase più delicata e controversa del settennato, iniziata con il trionfo gialloverde alle Politiche del 2018: l’estenuante parto del Conte I (il caso Savona, il finto tentativo di Carlo Cottarelli), l’agosto 2019 del Papeete e infine il Conticidio (copy Marco Travaglio) preludio al governo dei Migliori. E di quei giorni che videro l’avvento di SuperMario Draghi onnisciente e onnipotente resta insoluto un interrogativo: perché Mattarella non diede seguito alla sua minaccia di sciogliere il Parlamento qualora Renzi, l’autore della crisi, non si fosse piegato? In ogni caso, ora c’è il semestre bianco e la pistola del voto anticipato è scarica. Mattarella vive questa fase tra l’attesa e la preparazione degli scatoloni. Lui si è detto più volte contrario a un bis, ma il suo eventuale prolungamento è appeso al rebus Draghi. Cioè, va o non va al Colle? Terze vie, come Cartabia o Casini, per adesso non sono praticabili.
“Rischia di discriminare. E il tampone non può costare uguale per tutti”
Il decreto sul Green pass – pur “preferibile all’obbligo vaccinale” – crea “problemi sui controlli”, “situazioni borderline rispetto al diritto al lavoro” e “discriminazioni” relative al costo dei tamponi, fino a sollevare “dubbi di incostituzionalità”. Così il professor Michele Ainis – uno dei più noti costituzionalisti italiani – sull’ultimo provvedimento dell’esecutivo, che per quanto legittimo nella ratio porta con sé diversi dubbi.
Professor Ainis, con questa stretta si interviene su diritti fondamentali.
La strategia del governo è chiara a tutti, vuole ottenere il massimo della vaccinazione e si muove a tenaglia, stringendo gradualmente le misure. Inizialmente c’è stata una compressione dei diritti attinenti al tempo libero, come andare al ristorante o allo stadio. Ora invece entrano in gioco il diritto al lavoro o agli spostamenti.
È lecito che sia così? Siamo quasi gli unici al mondo.
Facciamo l’ipotesi che venga stabilito l’obbligo di vaccinazione. In quel caso, perdo la libertà di non vaccinarmi perché il diritto alla salute della collettività sovrasta tutti gli altri. Adesso questo obbligo non c’è, dunque esiste la libertà di rifiutare il vaccino: le conseguenze che derivano da questa mia eventuale scelta possono determinare alcuni oneri, ma non negare l’essenza dei miei diritti fondamentali né creare discriminazioni.
Il diritto al lavoro viene meno per chi non ha il Green pass?
No, nel senso che nessuno può licenziare un dipendente che non ha il Green pass o che non vuole sottoporsi al vaccino. Esistono però delle situazioni borderline, penso soprattutto a quei mestieri dove non è possibile mettere in smart working il dipendente. In quei casi bisogna ricorrere alla sospensione o si possono immaginare demansionamenti e trasferimenti a funzioni diverse. L’essenza del diritto ritengo che però risieda nel mantenimento del posto di lavoro.
Tutte soluzioni piuttosto contorte. Non sarebbe stato meglio imporre l’obbligo vaccinale ed evitare ambiguità?
Sarebbe molto più traumatico e credo finirebbe per radicalizzare ancor di più lo scontro, portando persino a disordini sociali. Anche perché oggi non ci sono numeri così tragici da ritenere proporzionato il ricorso all’obbligo vaccinale. Da questo punto di vista capisco di più il Green pass, una misura mediana che salva questo criterio di proporzionalità, almeno in linea di principio. Ma purtroppo i principi camminano sulle gambe fallibili degli uomini.
Altro problema: è giusto che chi non è vaccinato paghi decine di euro al mese per tamponarsi?
Questo secondo me è un problema, ci dovrebbe essere un intervento sul prezzo dei tamponi. E invece vedo che il criterio sarà quello dell’età, con costi variabili sopra e sotto i 18 anni, a prescindere dal fatto che chi si sottopone a tampone sia il figlio di un milionario o di un disoccupato. Se ci deve essere una discriminante per il pieno accesso ad alcuni diritti, che sia di censo, non di età.
La Corte costituzionale potrebbe evidenziare alcuni di questi problemi?
Come ho detto, ho delle perplessità sul costo dei tamponi e sulle possibili discriminazioni. Più difficile contestare la negazione di alcuni diritti: diverso sarebbe, per esempio, se venisse impedita tout court l’iscrizione all’anno accademico per chi non ha Green pass.
È giusto equiparare lavoratori pubblici e privati?
Sì, perché non si spiega la differenza tra chi sta allo sportello in Comune o in banca. C’è però un serio problema di controlli. Chi verifica se la colf è in regola col Green pass? Si può trasformare ogni cittadino in un gendarme? Peraltro una persona difficilmente può verificare se quella mostrata dalla colf sia davvero una certificazione in regola.