Capi-sceriffi e farmacie: che cosa c’è nel decreto

L’obbligo dell’esibizione del Green pass riguarderà oltre 20 milioni di lavoratori ed entrerà in vigore dal 15 ottobre fino (per ora) al 31 dicembre 2021.

I soggetti interessati Chi dovrà averlo

La bozza del decreto obbliga all’esibizione del Green pass per l’accesso ai luoghi di lavoro il personale delle amministrazioni pubbliche, delle Autorità amministrative indipendenti, della Consob, della Banca d’Italia e degli enti pubblici economici di rilevanza costituzionale, ai soggetti titolari di cariche elettive o di cariche istituzionali di vertice, ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari e ordinari, avvocati e procuratori dello Stato e membri delle commissioni tributarie e – infine – “a chiunque svolga attività lavorativa nel settore privato”.

Il testo definitivo dovrebbe includere anche le partite Iva, colf, babysitter, idraulici ed elettricisti.

Chi controlla e come Titolari e procedure

I datori di lavoro sono tenuti a verificare il rispetto delle prescrizioni. Gli stessi datori di lavoro “entro il 15 ottobre 2021” sono tenuti a definire “le modalità operative per l’organizzazione delle verifiche, anche a campione, prevedendo prioritariamente, ove possibile, che tali controlli siano effettuati al momento dell’accesso dei luoghi di lavoro” e a individuare “con atto formale i soggetti incaricati dell’accertamento della violazione degli obblighi”.

Sanzioni sospensioni, multe, no licenziamenti

Il dipendente pubblico senza Green pass “è considerato assente ingiustificato a decorrere dal quinto giorno di assenza”, il rapporto di lavoro “è sospeso fino alla presentazione della certificazione e comunque non oltre il 31 dicembre 2021” e in ogni caso “senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro”, ma scatta la sospensione dallo stipendio. Per i datori che non ottemperino agli obblighi sono previste multe fino a 2.000 euro in caso di recidiva. Magistrati e affini, invece, decadono dal servizio dopo 15 giorni di assenza ingiustificata (dunque senza pass) e sono soggetti a una sanzione non inferiore alla censura a opera del Csm. Tuttavia il tema è ancora dibattuto e non è detto che la stesura definitiva mantenga queste disposizioni. I lavoratori del settore privato privi della certificazione “sono sospesi dalla prestazione lavorativa al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro”. Anche qui nessuna azione disciplinare né licenziamento, ma sospensione dallo stipendio.

Tamponi prezzi calmierati e validità a 72 ore

Il decreto istituisce un Fondo per la gratuità dei tamponi “per cittadini con disabilità o in condizioni di fragilità” che non possono vaccinarsi per problemi di salute o che siano “esentati sulla base di idonea certificazione”. Le farmacie sono tenute a far pagare i tamponi “secondo le modalità previste dai protocolli d’intesa”. I tamponi avranno validità per 72 ore.

I guariti pass subito dopo la prima dose

I guariti dal Covid non dovranno più attendere 15 giorni dalla prima dose per avere il Green pass, ma lo otterranno subito dopo la prima somministrazione.

Tutti dicono di sì a Draghi. Ma lui non ci mette la faccia

Dal 15 ottobre per andare a lavorare – sia nel pubblico sia nel privato – servirà il Green pass. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato all’unanimità un provvedimento che mette “l’Italia all’avanguardia del mondo occidentale” (copyright, Renato Brunetta, ministro della Pa). Mario Draghi – dopo una settimana di stop, per cercare di redimere le problematiche di ordine giuridico e per permettere alla Lega di adeguarsi a questa decisione – tira diritto. E com’era già stato ad agosto, per il decreto sul Green pass obbligatorio nelle scuole e per i trasporti, non si presenta in conferenza stampa. Un modo per responsabilizzare i partiti, per depoli-ticizzare la decisione.

“Questo decreto è per continuare ad aprire”, dice durante il Cdm. Alternative non ce ne sono. Neanche l’obbligo vaccinale. In conferenza stampa non va neanche Giancarlo Giorgetti. Doveva partire per un convegno italo-britannico, previsto a Pontignano alle 20, spiegano dalla Lega. Sarà. Ma il ministro dello Sviluppo economico è quello che ha reso politicamente possibile il provvedimento, smarcandosi parzialmente da Matteo Salvini. Metterci la faccia per lo stile dell’uomo poteva persino essere controproducente. Chi c’è difende la ratio del provvedimento. Con un vigore che ne racconta anche le problematicità. Dunque, se Roberto Speranza (Salute) insiste sulla necessità di rendere i luoghi di lavoro più sicuri e spingere di più la vaccinazione (l’obiettivo è arrivare all’80%), Andrea Orlando (Lavoro) ci tiene a rassicurare sul fatto che non esiste il licenziamento per chi non ha il certificato verde (prevista la sospensione dello stipendio). E pronuncia la parola “discriminatorio” per definire l’obbligo. Chi sprizza entusiasmo è Brunetta, che fa pure il verso a Fauci. E vede in arrivo la fine dello smart working, che però fino al 31 dicembre non si tocca. Da notare che nel testo finale del decreto si lascia aperta l’obbligatorietà del certificato per chi lavora da casa. Ci saranno le linee guida. Mariastella Gelmini (Affari regionali) mette il dito in un’altra piaga, quando dice che “bisogna convincere e non costringere a vaccinarsi”. Lo mette in positivo, ma la costrizione è nei fatti.

Inedita lite tra Speranza e Dario Franceschini, in cabina di regia. Il ministro della Cultura chiede che sia possibile la capienza al 100% anche in cinema e teatri. L’altro gli risponde che non ci sono ancora le condizioni. Draghi si schiera con lui. Il dossier sarà affrontato il primo ottobre, dopo le valutazioni del Cts. I 2 finora erano sempre stati schierati insieme sulla linea del rigore. Ma Franceschini deve rispondere al suo mondo di riferimento. E magari far sentire il suo peso in un esecutivo nel quale è decisamente più marginale rispetto al Conte-2.

Lo stesso Giorgetti chiede la riapertura delle discoteche. Massimiliano Fedriga (governatore del Friuli) insiste per il prezzo calmierato dei tamponi (saranno gratuiti per chi non può vaccinarsi, costeranno 8 euro per i bambini e 15 per gli adulti) e per la validità di 72 ore di quelle molecolari (secondo le indicazioni europee). La Lega governista cerca di andare incontro anche a quella parte del partito ferocemente contraria al Green pass. Mentre la battaglia dei sindacati per la gratuità dei test risulta perdente. Ma intanto Salvini dà uno stop a Claudio Borghi, a lui vicinissimo, ma schierato su posizioni sempre più radicali. Il Parlamento dovrà recepire l’invito del governo all’obbligo di Green pass, come tutte le istituzioni. I partiti sono favorevoli. “Speravo che l’obbligo Green pass venisse esteso al Parlamento così – twitta Borghi – mi avrebbe dato la possibilità di chiedere una pronuncia in merito alla Corte costituzionale a difesa del lavoro di tutti”.

Replica dura del segretario: “Se la politica impone il Green pass ai lavoratori, e addirittura a chi fa volontariato, è ovvio che i politici devono essere i primi a rispettare queste regole, a partire dal Parlamento. Punto”. La sconfessione è d’obbligo: il ragionamento di Borghi potrebbe sembrare una difesa della casta. Ma chissà che in futuro Salvini non gli dia ragione. Mentre il governo Draghi marginalizza sempre più il Capitano. La Lega si ridisegna.

Siete proprio sicuri?

Come volevasi dimostrare, l’obbligo vaccinale annunciato da Draghi il 3 settembre era una bufala: il premier sapeva benissimo che non si può fare il Tso a 4-5 milioni di persone, salvo essere il Turkmenistan, la Micronesia o la Polinesia. Così ha optato per la soluzione saudita: imporre il vaccino senza avere il coraggio di imporlo, cioè vietare di lavorare a chiunque non esibisca il Green pass o un tampone fresco di almeno 48 ore. Noi – lo ripetiamo per gli imbecilli che confondono vaccini, tamponi e Green pass, dunque No Vax, No Pass e magari No Tav – siamo favorevolissimi ai vaccini (volontari, non forzati) e al Green pass per chi lavora con soggetti fragili (in ospedali e Rsa) e per il tempo libero (in ristoranti, bar, cinema, teatri, musei, stadi, concerti…). Ma nutriamo molte perplessità quando c’è di mezzo il diritto su cui è fondata la Repubblica: il lavoro. Dubbi non filosofici o costituzionali (in casi gravi l’articolo 32 giustifica pure l’obbligo vaccinale), ma pratici. Qual è lo scopo del Green pass? Contenere il più possibile i contagi e dunque indurre il maggior numero di persone a vaccinarsi, visto che i vaccinati rischiano di morire, ammalarsi in forma grave e contagiare altri molto meno dei non vaccinati. Finora gli italiani hanno aderito in massa alla campagna e, stando a Figliuolo, siamo prossimi alla copertura dell’80% dei vaccinabili, sia pur più lentamente delle sue mirabolanti road map. Siccome la campagna prosegue, si può puntare al 90%, sempre senza costrizioni.

Che bisogno c’è di forzare la mano all’improvviso, senza uno straccio di dibattito parlamentare, col Super Green Pass e le sue odiose sanzioni (multe, sospensioni dal lavoro, demansionamenti, discriminazioni fra chi può pagarsi i tamponi e chi no)? Perché irrigidire l’ampia fetta di non vaccinati “perplessi”, che attendono di essere convinti, e gettarli con minacce e divieti fra le braccia dei No Vax ideologici? Se siamo i migliori d’Europa, perché tutti gli altri Paesi (peggiori di noi e con più No Vax di noi) non pensano neppure alla tessera verde per lavorare? Se l’80% degli over 12 sono vaccinati e dunque – sempre secondo la vulgata ufficiale – quasi totalmente al sicuro, che problema c’è se incontrano qualche raro non vaccinato con mascherina e distanziamento? Se almeno il governo ci mettesse la faccia con l’obbligo vaccinale, potrebbe punire i fuorilegge: ma, senza l’obbligo, è il governo stesso a riconoscere il diritto a non vaccinarsi. E allora che senso ha imporre a chi lo esercita il pizzo del tampone per lavorare, come – se fra l’altro – tampone e vaccino fossero intercambiabili e non due cose diversissime? Un supplemento di riflessione farebbe bene a tutti. Persino ai Migliori.

Da Houellebecq a Cercas, da Morin a Verdone: il Salone di Torino si “riveste” da Salone

“Don’t forget you are an Agnelli”. Non dimenticare che sei un Agnelli. Miss Parker, governante di famiglia, lo ricordava spesso al futuro Avvocato, ovvero Gianni, e a sua sorella Susanna. A circa un mese dall’avvio della trentatreesima edizione (al Lingotto Fiere, dal 14 al 18 ottobre), anche il Salone del Libro di Torino non dimentica di essere “la più grande e importante fiera libraria nazionale”, come peraltro è stato sottolineato ieri alla conferenza stampa di presentazione. E dunque, in perfetto stile miss Parker, rivendica il primato annunciando il ritorno ovviamente in presenza, dopo quasi due anni di assenza per il Covid, con una rassegna super-pop dettata da numeri e ospiti di rilievo.

Declinato sul tema “Vita Supernova”, fra Dante (la Vita nova) e le stelle, la kermesse potrà contare su una partecipazione pressoché in massa degli editori (il 97 per cento di quelli del 2019), su 18 mila metri quadrati di spazi in più per il pubblico e otto nuove sale. C’è soprattutto un programma di incontri, dibattiti, letture, lezioni magistrali, che lo scrittore Nicola Lagioia, direttore culturale della manifestazione, definisce “il più ricco di sempre” e di spiccata caratura internazionale. Si comincia con la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie e si prosegue con André Aciman, Javier Cercas, Alicia Giménez-Bartlett, Edgar Morin (che festeggerà i suoi 100 anni), Mathias Énard, Valérie Perrin, Michel Houellebecq, Hervé Le Tellier, per citarne solo qualcuno. Assai nutrito, poi, lo schieramento italiano, con Simonetta Agnello Hornby e Maurizio Maggiani, Dacia Maraini e Moni Ovadia, Alessandro Piperno e Altan, Stefania Auci, Alessandro Bergonzoni, Giulia Caminito, Maurizio De Giovanni, Goffredo Fofi, Carlo Ginzburg, Carlo Ossola, Lidia Ravera, Alessandro Robecchi, Vittorio Sgarbi e molti altri e molte altre.

I fatti di attualità, la cronaca, l’impegno civile, saranno impersonati da Stella Morris, compagna di Julian Assange, dalla giornalista turca Ece Temelkuran, dall’americana Jessica Bruder (l’autrice di Nomadland, il libro-inchiesta da cui è stato tratto il film di Chloé Zao); e, ancora, dallo scrittore iraniano Hamid Ziarati, da Romano Prodi e Gustavo Zagrebelsky, Pif, Marco Lillo e Marco Travaglio. Senza dimenticare il cinema e la musica: da Asia Argento a Chiara Tagliaferri, Carlo Verdone, Gabriele Muccino, Antonio Rezza, Giorgio Diritti, Giuliano Sangiorgi, Max Pezzali, Cesare Cremonini, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni e Vinicio Capossela.

“Hegel e Platone? Nella giungla ho capito che conta la vita vera”

Dormivo su un’amaca. Accanto al fuoco. Facevamo turni di guardia. A un certo punto mi sono svegliato.

E?

Ho visto migliaia di occhi fissarmi. Non so quali animali fossero. Col cavolo che sono andato a controllare.

Nel cuore dell’Amazzonia.

Gli indigeni mi ospitavano nelle capanne, ma spesso me ne stavo all’aperto. Quando fa buio lì devi essere pronto a perdere i riferimenti. Puoi aver paura delle creature che si nascondono, ma ti spaventa di più quel che ti porti dentro. Le sovrastrutture culturali. Il patriarcato, il matrimonio, il burqa alla fine sono la stessa cosa. Nella giungla, di notte, c’è invece profumo di desiderio, motore del pianeta e della vita.

Si è innamorato, laggiù, Mannarino?

Sì. Ma ho dovuto lottare contro me stesso, perché la natura impone leggi che non conosci. Nella penombra non capisci se quella pianta è carnivora, e decidi troppo in fretta di tagliarla con il machete. Solo dopo realizzi che stai ritrovando la tua identità umana.

Quale sarebbe?

Quella che si spoglia degli archetipi. I monoteismi, dal Dio cristiano a quello dell’Islam. Il logos occidentale. Il mondo delle idee di Platone. Il positivismo. Hegel. Gabbie per controllarti dall’alto, le pippe filosofiche e religiose che fondano la nostra società, ma che nulla hanno a che fare con il reale. Che è il recupero della nostra radice primitiva, ancestrale, magica. Solo accettando questa consapevolezza potremo salvare noi stessi e il pianeta.

Spogliarsi della razionalità per fare la rivoluzione.

La prima volta in Amazzonia sentii che c’era qualcosa di sbagliato nelle mie scarpe di plastica, le sigarette, il KWay. La giungla può espellerti come un corpo estraneo, se non ne accetti la natura divina. Ma se la onori diventi anche tu un frammento di divinità.

Come fanno le popolazioni autoctone.

Ti toccano, abbracciano, carezzano. Un contatto che mette in difficoltà noi abituati alla separatezza. Qui abbiamo rimosso la potenza del corpo, lo abbiamo mortificato.

Le donne tribali…

Sulla copertina del mio album ‘V’ c’è una guerriera. Può essere africana, o sudamericana, chissà. Non capisci se si stia calando o togliendo la maschera dal volto. C’è una rivelazione in atto, la stessa con cui ho intrapreso un viaggio profondo nella mia crisi personale. Nel disco mi denudo, mi voto all’irrazionalità, cerco il mio Dna di uomo, esploro l’energia di un pianeta fiaccato dal sistema, dalla manipolazione verticale. Decolonizziamoci.

L’uno e il tutto.

Sa chi potrà salvare il mondo? I popoli oppressi. In questi giorni i movimenti delle donne dell’Amazzonia hanno protestato a Brasilia contro i garimpeiros che vogliono desertificare la foresta. Femministe combattenti, come in Cile e Colombia. Nei loro occhi ho visto scintillare calma, rabbia e tristezza, ma anche la certezza di essere nel giusto. È stata un’epifania.

Molto del disco è stato registrato fra gli Stati Uniti, il Messico e il Brasile.

A Rio, nella favela Rossinha, ho conosciuto ragazzi che facevano spettacoli di strada. Uno di loro, nel buio, sfregava un fiammifero. Ogni volta che si spegneva lo riaccendeva. Diceva: ‘continuerò a fare luce per sempre’. Quel fiammifero illuminava tutta la Terra. Sono le piccole resistenze quotidiane a cambiare le cose.

A New York, invece…

Ogni volta che arrivo lì mi sovrasta l’angoscia. Sto male fisicamente. Giungla urbana? Se cammini dalla parte sbagliata arriva qualcuno e ti spara. Sono tutti sceriffi. Ero andato per lavorare con Mauro Refosco e con Joey Waronker, che mi era piaciuto con gli Atoms for Peace. Inseguivo un suono elettronico che si sposasse con la primitività delle percussioni sbattute in faccia. Per dare il ritmo alla mia definizione di un folk contemporaneo.

‘V’ è anche un romanzo di Pynchon…

Non l’ho letto. V per me è un simbolo con mille significati. Due linee che contengono cose: vagina, ventre, vita, verità, vulcano. Valore.

All’inizio del 2022 porterà l’album in tour.

Sarà un rituale sciamanico. Voglio indurre tutti in uno stato di trance.

Ora In casa finalmente si Balla

Pezzi di vita appiccicati a pezzi di carta: da parati, da lettere, millimetrata a mano e riempita di progetti, da pacchi per rivestire mobili, fogli disegnati. E soprattutto, una costellazione di colori che si sfiorano, si toccano, fanno l’amore e generano un universo parallelo che porta il nome di Balla, anzi “FuturBalla”. È una promessa incisa su una targa in metallo al 39 di via Oslavia nel quartiere romano Delle Vittorie, che è stata la casa dove l’artista torinese Giacomo Balla (1871-1958) visse e lavorò fino alla morte. Una volta dentro si viene proiettati al cuore di un’opera d’arte totale, che solo in teoria occupa circa 200 metri quadri con terrazzo, perché in realtà è sconfinata come un luogo fuori dal tempo. Subito all’ingresso, sulla sinistra, c’è un poster che ricorda una mostra parigina cui partecipò l’artista nel 1921 nella storica Galérie Reinnardt di Place Vendôme. Con lui Marinetti e altri “Peintres Futuristes Italiens”, tra i quali Depero – il suo allievo più importante – con cui aveva firmato cinque anni prima il manifesto sulla Ricostruzione futurista dell’Universo, atto a realizzare una fusione completa tra le arti, le tecniche e i generi “per ricostruire l’universo, rallegrandolo”.

Protetta dal 2004 da un vincolo di tutela della Soprintendenza speciale di Roma, è stata sottoposta a lavori di restauro e manutenzione solo a partire dal 2018. Restauro che ha riportato alla luce disegni, bozzetti, progetti, e poi ancora arredi, vestiti, ceramiche. In coincidenza con l’anniversario dei 150 anni dalla nascita del pittore e teorico futurista, la visita alla casa di Giacomo Balla (a oggi le prenotazioni sono sold out) dialoga con la mostra gemella Casa Balla (fino al 21 novembre, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Domitilla Dardi) alla Galleria 5 del Maxxi, dedicata alla centralità della sua opera nel lavoro di artisti e designer contemporanei: Ila Bêka e Louise Lemoine, Carlo Benvenuto, Alex Cecchetti, Jim Lambie, Emiliano Maggi, Leonardo Sonnoli, Space Popular e Cassina con Patricia Urquiola hanno creato otto produzioni ispirate all’artista e che travalicano, come per Balla, il concetto del lusso legato alla materia prima e lo riconducono al lusso come idea.

Ma è in questa casa che tutto inizia e insieme finisce. E non soltanto perché in questo modo Giacomo Balla sembra quasi riemergere dalla damnatio memoriae in cui è stato sepolto vivo nel Secondo Dopoguerra per la sua adesione al fascismo, ma perché è in questa scatola del tempo che scoviamo le chiavi di decrittazione della sua arte, addentrandoci nel laboratorio dell’artista e dell’infaticabile opera delle figlie Luce ed Elica, artiste anch’esse, che spesso soprattutto nell’ultimo periodo completavano e collaboravano ai progetti del padre nello studiolo rosso, dove forme e incastri di verdi, giallo e blu fluttuano in un mare vinaccia dalle pareti ai mobili: e poi scaffali ricolmi di pennelli e strumenti da lavoro costruiti da Balla stesso, e ovunque quadri e disegni, pile di riviste e schizzi. Tuttavia, oltre alla cucina con la tavola apparecchiata per quattro e la tovaglia cucita dalla moglie Elisa Marcucci come se la famiglia fosse pronta a desinare; oltre alle camere delle figlie giocate sui toni del verde e dell’ocra con fregi geometrici che si ripetono dalle poltrone agli armadi; oltre a tutto, dunque, è soprattutto “la stanza del rumore” a colpire: una specie di stanzino con quattro sedie particolari su cui prendevano posto per ascoltare i loro vicini. Perché in questo desiderio erotico dell’ascolto delle vite degli altri, c’è il punctum del futurismo, che non è – come siamo da sempre portati a credere – un’arte meramente astratta o concettuale, ma estremamente viva, basata sull’osservazione dell’esistenza. Se tra le opere di Balla peschiamo Bambina x balcone, Dinamismo di un cane al guinzaglio, come pure Trasformazioni Forme e Spirito, Compenetrazioni iridescenti, ebbene, cosa c’è nell’ossessiva ripetizione di un gesto e di un tratto umano se non il respiro di un corpo, l’ansimare del sesso, l’avanzare velocissimo della vita? Si capisce tutto qui, solo qui, nell’arte nascosta in quella che è stata la sua casa.

Tra i bonus cane e rubinetti, ti imbrogliano con la caldaia

Super bonus, super sconto e super fregatura. Ho fatto ingresso nel mondo magico dei bonus qualche settimana fa e ne sono appena uscito un po’ traumatizzato, ma comunque ottimista. Avevo necessità di cambiare la caldaia da riscaldamento e ho seguito puntigliosamente le istruzioni di legge. Prima ho creato un cestello dei bonus in corso, dividendoli per interessi, funzioni e genere. Essendo maschio e con figli adulti ho eliminato quelli oggettivamente estranei all’affare che mi ero proposto: il bonus baby sitter, il bonus nido, quella di “mamma domani”, l’altro di “mamma single”, un quinto per genitori separati, un sesto per matrimonio. Bonus da 500 euro in su, che di questi tempi non sono male. Ho scelto di non accedere al bonus cane (19% di credito di imposta), a quello per le vacanze (fino a 500 euro), a uno specifico per le vacanze in Piemonte (tre pernottamenti al costo di uno). Era la caldaia il mio obiettivo, quindi ho via via scartato tutte le offerte pubbliche di sostegno alla mia vita familiare: no al bonus tv, esplicitando che col no mi sarei precluso un bonus correlato, quello della rottamazione della tv esistente. No alle terme (200 euro), no agli occhiali nuovi pagati dal governo, no allo smartphone (comodato d’uso per un anno per chi si trova nella triste condizione di essere ancora sprovvisto di cellulare). Chiudendo una proposta di bonus se ne apriva un’altra e così il fantastico mondo della realtà bonificata, mutualizzata, scontata, ridotta a lieve carezza al portafogli si faceva realtà. E se comprassi un’auto nuova? Meglio di no. Volevo la caldaia. E allora una bici? Ne posseggo già tre. E allora un’auto usata e scontata alla fonte a patto che fosse catalogata euro sei, la meno inquinante. Ho riflettuto ma sono stato irremovibile. C’è stato un momento, in questo bellissimo viaggio nel paradiso dei soldi regalati dove ho coltivato il dubbio. È stato quando mi si è presentato, alla lettera zeta, l’offerta strabiliante: mille euro per l’acquisto di zanzariere. Chiedo: cosa c’è di più necessario e impellente di una zanzariera? La zanzara, da quella domestica a quella aggressiva, formato tigre, è il nostro vero nemico contemporaneo.

Volendo esibire senso civico, avuto riguardo per il mio stipendio, ho sorvolato. Mi è però costato dire no alla sovvenzione per la campagna di Russia contro le zanzare, molto più che rinunciare, come in effetti ho fatto, al bonus mobili (non rientrando con l’Isee a quello luce e gas, né al sostegno per l’affitto, né all’altro per l’affitto studenti). Riflettendo e resistendo ho pigiato no all’acquisto del filtraggio dell’acqua potabile in casa (50% del credito d’imposta) e ho combattuto vittoriosamente contro un’altra offerta imperdibile: la razionalizzazione delle risorse idriche domestiche. Rubinetti, miscelatori eccetera. Lo Stato ha pensato proprio a tutto mi sono detto, e nel dirmelo ho riscontrato che effettivamente c’era anche un aiutino per i gerani, il gelsomino, le piante grasse e quelle da frutto: per il verde in terrazza il 36 per cento di sconto a valere sulla dichiarazione dei redditi per spese fino a cinquemila euro. Ho scelto poi di non avvalermi dell’ecobonus (risparmio del 50%), né del superbonus che essendo super mi avrebbe dato ancora più della spesa effettuata (110 per cento). Ho rifiutato il bonus facciata (90 per cento della spesa), del bonus ristrutturazione (il 50 per cento da scontare nella dichiarazione dei redditi entro un tetto di 96mila euro). Ho infine detto no allo sconto sugli elettrodomestici.

Finalmente è comparsa la lettera C di Caldaia. Ho respirato: chiunque la voglia sostituire con macchine a basso tasso di inquinamento gode del 65 per cento di sconto. Ne avevo vista una che faceva al caso mio: di ultima generazione, con tanta acqua calda prodotta. L’anno scorso costava 1.700 euro. Con il bonus caldaia l’avrei avuta per meno di 600 euro.

Euforico ho chiamato la prima ditta, che disponibile è giunta a casa in poche ore. Due giorni dopo il preventivo: 5.500 euro totali ma col supersconto avrei speso solo 1.925 euro. Cavolo: col bonus avrei pagato in più e non in meno! Allora ho bussato alla porta di un secondo artigiano. Più flemmatico ma puntiglioso mi ha spiegato che per avere il meglio del meglio avrei dovuto calcolare una spesa di 6.000 euro ma dalla mia tasca solo 2.100 euro: “Sappia che io devo fatturare tutto, anticipare un sacco di spese e attendere che lo Stato mi paghi il credito che lei mi ha ceduto. Non creda che ci guadagno”, mi ha detto. Stra-bonus o stra-fregatura?

Stremato da tanta paraculaggine, ho accettato di farmi infinocchiare però in un modo così educato e professionale. E tutto fatturato, altro che il solito magna magna!

L’opposizione fa il gioco di Putin

Le elezioni parlamentari per 450 seggi alla Duma e 39 nei parlamenti regionali si terranno da venerdì a domenica nella Federazione. Dalla sua cella Aleksej Navalny ha lanciato un appello via Instagram, prima dell’apertura delle urne, a tutti i suoi sostenitori, invitandoli a seguire la strategia del “voto intelligente”, ovvero destinare la preferenza a tutti i politici “pericolosi” perché capaci di battere quelli schierati da Putin per mantenere intatto il potere del suo entourage. A queste votazioni il partito del presidente, Russia Unita, si è presentato come fronte unico e compatto, come non hanno saputo fare quei pochi membri dell’opposizione ancora a piede libero. Nonostante il presidente mantenga alto il suo rating di preferenze, quello del suo partito, soprattutto per l’impoverimento collettivo e le conseguenze economiche e sociali della pandemia, ha raggiunto il minimo storico e oscilla intorno al 26%. Seppure abbia qualche cifra in più a Mosca, è proprio nella Capitale che la già minuscola opposizione si tallona e si combatte a vicenda invece di capitalizzare il malcontento verso l’ala politica dominante. Ha già ottenuto consensi tra giovani e adulti della classe media parlando di uguaglianza economica ed emergenza ambientale Michail Lobanov, 37 anni, professore di Matematica dell’Università di Mosca e rappresentante del Kprf, partito comunista russo, indicato ieri da Navalny come destinatario del “voto intelligente”. Tenterà di impedire la vittoria del cattedratico dalla bandiera falce e martello nei distretti del sud ed ovest di Mosca il pallido e giovanissimo Kirill Goncharov, candidato di Yabloko, la “mela” – questo vuol dire il nome del partito nato nel 1993 – in cui è cresciuto politicamente, prima di essere espulso, proprio Navalny. La battaglia tra i due oppositori potrebbe decretare il paradossale trionfo del meno amato candidato di Putin, Evgeny Popov, volto noto della tv per il suo controverso programma 60 minuti. In altri distretti di Mosca, come nel 208°, sono addirittura sei i dissidenti che si sfidano l’un l’altro. Secondo i dati delle prime analisi, sarà proprio il partito comunista, già tra i maggiori catalizzatori dei voti dei cittadini, a raccogliere le preferenze di tutti quei russi che non potranno votare i candidati di Navalny a cui è stato impedito di partecipare alle elezioni. Mentre le accuse di falsifikazja dei voti già aleggiano, Rostelcom, servizio che gestisce la rete internet nella Federazione, ha bloccato l’accesso alle liste dei politici indicati dal Fondo anti-corruzione, il movimento del dissidente ormai dissolto perché bollato dalle autorità come organizzazione estremista.

Altro che Isis, il drone Usa uccise 10 civili (7 bambini)

L’ultimo missile sparato dai militari americani in Afghanistan, il 29 agosto, uccise 10 civili, fra cui sette ragazzi e bambini, e nessun terrorista: sono le agghiaccianti conclusioni cui l’intelligence statunitense è giunta, aggiornando rapporti già anticipati da Washington Post e New York Times. Quella domenica, un drone MQ-9 Reaper seguì per ore un’auto a Kabul e, quindi, la colpì con un missile nell’ipotesi che fosse carica d’esplosivo. Ma la vettura non era di terroristi dell’Isis, bensì di un dipendente di un’organizzazione umanitaria californiana, la cui abitazione, condivisa da quattro fratelli con le loro famiglie, era vicina a un covo di integralisti, a una decina di chilometri dall’aeroporto; e le ‘bombe’ che vi erano state caricate erano taniche di acqua. Il tragico equivoco fu innescato da una soffiata: stava per esserci un attentato con un’autobomba, una Toyota Corolla: lo stesso modello dell’auto colpita.

Per giorni, i militari americani sostennero che esplosioni successive allo scoppio del missile provavano che l’auto era carica di ordigni. Ma le immagini pubblicate dal New York Times mostrano che vi fu una sola esplosione, quella del missile lanciato dal drone. Fra le vittime, anche due bambine di tre anni: “I militari lanciarono l’attacco che uccise dieci persone senza sapere chi stavano colpendo”, è la conclusione senza appello del New York Times: “Quell’auto non costituiva una minaccia per nessuno”. A essere annientata, fu buona parte della famiglia di Zemari Ahmadi, 43 anni, elettricista, dal 2006 alle dipendenze di un ente, che quel giorno aveva fatto vari tragitti con la sua vettura per lavoro, non per terrorismo.

A Kabul, dove sono ripresi i voli commerciali e umanitari, è ora di regolamenti di conti fra talebani, in particolare tra il vice-premier, il mullah Abdul Ghani Baradar, e il ministro dell’Interno Khalil ur-Rahman Haqqani; fra loro, ci sarebbe stata una lite furibonda a palazzo presidenziale, dice la Bbc: oggetto del contendere, il merito della vittoria e la ripartizione del potere. Intanto, la Cia avverte che il ritorno di al Qaeda in Afghanistan potrebbe avvenire presto: una smentita della tesi secondo cui la guerra sarebbe stata un successo dal punto di vista della lotta al terrorismo. Che la leadership talebana non fosse coesa era noto ed è stato confermato dalle lungaggini nella formazione del governo e dalle sorprese al suo annuncio. Baradar, che doveva esserne il premier, non compare in pubblico da sette giorni e avrebbe lasciato Kabul per Kandahar, dove sarebbe ricoverato in ospedale, forse ferito nella lite con Haqqani. Lo dice su Twitter The Pashtun Times: sarebbe “sotto la protezione del Pakistan e nessuno lo può vedere“. Voci della sua morte vengono invece smentite. I talebani chiedono agli americani e agli occidentali di essere generosi con gli aiuti, dicono di stare per formare un esercito regolare e annunciano d’avere trovato 12 milioni di dollari in contanti e in lingotti nelle case d’esponenti del governo deposto: un segno di corruzione. Dalla Valle del Panshir, a nord di Kabul, vengono ancora segnali di resistenza.

Del ritorno in forze di al Qaeda “in soli 12-24 mesi” ponendo “una significativa minaccia agli Usa” ha parlato il generale Scott Berrier, che guida l’intelligence della Difesa Usa, intervenendo al summit Intelligence & National Security. Nello stesso evento, David Cohen, vice-direttore della Cia, ha detto che “stiamo già cominciando a vedere alcune indicazioni di potenziali movimenti di al Qaeda in Afghanistan … Ma sono i primi giorni e ovviamente teniamo gli occhi molto aperti”. Indicazioni che contrastano con le affermazioni del Segretario di Stato Antony Blinken, che, parlando alla Camera, ha detto che al Qaeda è stata “significativamente degradat” dalla guerra in Afghanistan e ha perso la capacità di pianificare e condurre azioni esterne.

Boris Johnson rimescola le carte e boccia il ‘falco’ Raab

Cronaca di un rimpasto annunciato. Alla fine Boris Johnson ha dovuto cedere alle pressioni, quelle interne al Partito conservatore e quelle di una opinione pubblica sempre più scontenta, e ha cambiato caselle importanti del suo esecutivo. La caduta più fragorosa è quella di Dominic Raab, ‘falco’ brexiter retrocesso dagli Esteri alla Giustizia, ma con qualifica di vice primo ministro, dopo la débâcle sull’Afghanistan: nei giorni del ritiro Usa e della caduta di Kabul nelle mani dei Talebani, in vacanza a Creta, aveva dato ordine di non passargli telefonate. Del resto è un avvocato con studi a Oxford e Cambridge, e un occhio per il dettaglio che rende il passaggio alla giustizia meno imbarazzante. Per fargli posto è stato sacrificato il solido, leale e competente Robert Buckland, la cui uscita dal governo crea già qualche mal di pancia nel partito. Al posto di Raab è promossa Liz Truss, finora nel ruolo importante di ministro del Commercio Internazionale, incaricata della missione di concludere accordi commerciali post Brexit. È la seconda donna agli Esteri nella storia del paese. Scontatissima la bocciatura di Gavin Williamson, il ministro dell’Istruzione. Verrà ricordato per aver gestito malissimo l’emergenza Covid nelle scuole, compreso, per due anni di seguito, il disastro degli esami di maturità, nonché per aver scambiato la star del rugby Maro Itoje per l’eroe nazionale e giocatore del Manchester United e della nazionale inglese Marcus Rashford. Per lui non sembra ci siano altri incarichi, nemmeno di sottogoverno. Viene rimpiazzato da Nadhim Zahawi, sottosegretario al Commercio che ha dato ottima prova di sé occupandosi della campagna vaccinale.

L’onnipresente Michael Gove, finora nel ruolo strategico di capo di gabinetto, passa al ministero dell’Edilizia popolare e comunità locali: di fatto dovrà venire a capo di una delle grandi ambizioni di Johnson, il levelling-up, cioè la ripresa economica delle regioni più arretrate del Paese, missione quasi impossibile ma dal cui successo dipende molto del consenso elettorale del primo ministro. Resta al suo posto, per ora, il ministro degli Interni Priti Patel, figlia di immigrati ma portabandiera del sovranismo inglese più estremo, tanto da autorizzare la violazione della legge del mare per rimandare indietro con la forza i barconi di migranti nel Canale della Manica.