Dopo un 2020 all’insegna delle difficoltà innescate dalla pandemia, a fine anno i maggiori produttori nazionali di energia idroelettrica potrebbero contare su un tesoretto di circa 5 miliardi di extra-profitti, grazie all’impennata dei prezzi dell’elettricità scatenata dal rincaro del gas. Una situazione simile si verifica in Spagna dove, contro il caro bolletta, Madrid ha varato un pacchetto di misure choc che, secondo alcuni esperti, potrebbero essere replicate anche da Roma. Ma la lobby europea dell’elettricità si è già messa di traverso. Le misure spagnole, subito operative per decreto legge, si aggiungono a quelle approvate a giugno e sono sia strutturali che temporanee, specie quelle fiscali. Il governo di Madrid ha approvato un prelievo di sei mesi sui “profitti eccessivi” realizzati grazie all’aumento dei prezzi elettrici dalle “centrali non emettitrici di CO2” (nucleari, idroelettriche ed eoliche), pari al 90% degli utili ottenuti con prezzi superiori ai 20 euro per megawattora (MWh). Per ammortizzare “una situazione eccezionale e senza precedenti” il governo di Pedro Sanchez prevede di recuperare 2,6 miliardi entro il prossimo 31 marzo.
Secondo Goldman Sachs, le misure fiscali introdotte dalla Spagna ridurranno gli utili per azione dei produttori del 5% circa dal 2022 al 2025, del 10% per Iberdrola e del 15% per Endesa, i due campioni nazionali, ma “sembrano un passo verso una parziale ri-regolamentazione delle bollette energetiche” e “potrebbero violare la direttiva dell’Ue sull’energia”. Gli analisti di Barclays replicano però che i prezzi e le attese sugli utili di molte società elettriche non hanno ancora incorporato il rialzo del gas, specie per alcuni giganti come le francesi EdF ed Engie e la tedesca Rwe. Contro la manovra spagnola si è subito schierata la lobby continentale di settore Eurelectric. Secondo il segretario generale dell’associazione, Kristian Ruby, la legge di Madrid “ostacolerà la capacità dell’Europa di rispettare i suoi impegni climatici indebolendo la fiducia degli investitori. Le centrali elettriche colpite rispettano il principio “chi inquina paga” che riflette i costi del carbonio ed è il fondamento per realizza gli obiettivi climatici del Green deal. La proposta distorce gli incentivi di mercato per investire nelle future rinnovabili”, conclude Ruby.
Se Madrid piange, Roma non ride. Secondo il ministro della Transizione ecologia Roberto Cingolani, le bollette a ottobre potrebbero rincarare del 40% a causa dell’aumento dei prezzi del gas e della CO2. Il governo già a luglio è intervenuto per prevenire un aumento del 20% delle bollette iniettando 1,2 miliardi di entrate dalla vendita di crediti di emissione di CO2. L’agenzia di regolazione del settore, Arera, continua a riproporre la sua soluzione di lungo termine: togliere dalle bollette gli “oneri generali di sistema”, che valgono circa 14 miliardi di cui 12 per il sostegno alle fonti rinnovabili, e spostarle a carico della fiscalità generale. Ma la proposta spagnola non piace nemmeno alle imprese italiane. Enel, con una produzione netta di 42,5 Terawattora (TWh), nel 2020 controllava circa il 16% della produzione nazionale e il 35,6% delle vendite totali. Altri cinque gruppi maggiori (Edison, A2A, Hera, Axpo ed Eni) detenevano il 24,2% della generazione netta e il 25,3% delle vendite totali. Secondo la banca dati Aida, dal 2016 al 2020 le sole capogruppo di Enel, Hera, A2A, Edison e Sorgenia hanno realizzato utili netti per 25,13 miliardi, 22,56 dei quali in capo all’ex monopolista di Stato. I conti 2020 sono stati difficili per il Covid: a livello consolidato Enel lo scorso anno ha realizzato utili netti di 5,1 miliardi (+9% su base annua), A2A per 364 milioni (-6%), Hera per 302,7 (+0,6%), Iren stabile a 235 ed Edison una perdita di 68 contro il “rosso” di 411 del 2019. Ma le semestrali hanno già segnato forti rialzi, tranne che per Enel (utile netto a 1,78 miliardi, -8,7%).
Il motivo lo spiega l’economista Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: “La situazione attuale è un caso di fallimento del mercato. Oggi (ieri per chi legge, ndr) un megawattora vale 183 euro sul mercato spot. Il prezzo medio ad agosto era di 112 euro, nei primi mesi del 2021 era sui 90 euro. Si era a 22 euro per megawattora a maggio 2020”. Nel giro di 17 mesi i prezzi si sono moltiplicati per otto volte. “Se pensiamo agli impianti idroelettrici costruiti decenni fa e già totalmente ammortizzati – continua Tabarelli – possiamo immaginare che i costi di produzione non superino i 10 euro. Dunque 173 euro sono extraprofitti. Ciò consente ad alcuni produttori di realizzare enormi profitti a fronte del salasso dei consumatori: eppure questi impianti sono in concessione ai produttori dallo Stato o dalle Regioni, dunque questo oro che cola, almeno in parte, appartiene a tutti gli italiani. Ciò a mio avviso obbliga a un intervento normativo. Poiché la produzione netta nazionale idroelettrica nel 2020 era di circa 48 terawattora (48 miliardi di kilowattora), a oggi sono stimabili 4,8 miliardi di extraprofitti. Direi che una metà di questi si potrebbe restituire ai clienti. Un discorso simile si potrebbe fare per altre fonti rinnovabili già ammortizzate, che hanno costi di produzione bassissimi e hanno già ottenuto grandi incentivi pubblici. Per i produttori non sarebbe una misura insopportabile, visto che l’idroelettrico vale 48 terawattora su 273 totali, il 18% circa, a fronte di 302 di domanda finale. Certo – continua Tabarelli – andrebbe in contrasto con la direttiva europea sulla tassazione energia. Ma ogni intervento già proposto è in contrasto: sia la riduzione dell’Iva che il trasferimento degli oneri di sistema, come vorrebbe Arera. Ma il sistema europeo dei prezzi di energia e gas è fuori controllo e questo giustifica ogni intervento. C’è un precedente, non di successo, ma anche quello giustificato dall’impennata dei mercati: è la Robin Hood tax introdotta dal ministro Tremonti del governo Berlusconi nel 2008 a carico dei petrolieri quando il prezzo del greggio schizzò a 140 dollari barile. La norma fu poi dichiarata incostituzionale ma allo Stato entrarono diversi miliardi di euro. D’altronde, quando i prezzi delle azioni aumentano troppo alla Borsa valori si fermano le negoziazioni, mentre sul mercato elettrico questo non succede. È una questione di dignità politica: va restituita ai clienti parte della super-redditività realizzata dai produttori, come cerca di fare la Spagna”.