Alessandra freddata in casa, il killer si suicida. È il terzo femminicidio in Veneto in 10 giorni

Un solo colpo di pistola. Al volto. Alessandra Zorzin, 21 anni, parrucchiera, è stata uccisa così nella casa che occupava con il compagno e la figlioletta di due anni in Contrà Viale, una frazione di Montecchio Maggiore, a una decina di chilometri da Vicenza. Il marito Marco Ghiotto l’ha trovata in camera da letto, vestita, sfigurata. A toglierle la vita è stato Marco Turrin, 38 anni, guardia giurata. L’uomo, di Padova, ha aperto il fuoco ed è fuggito. Intercettato alle 20,30 da due pattuglie di polizia e carabinieri a Vicenza, si è tolto la vita.

È il terzo femminicidio in pochi giorni in Veneto. A Fumane, nel Veronese, Chiara Ugolini di 27 anni, è stata ammazzata da un vicino di casa, Emanuele Impellizzeri, entrato da un poggiolo, che poi era fuggito. In bocca la ragazza aveva uno straccio imbevuto di ammoniaca. A Noventa Vicentina, Rita Amenze di 31 anni è stata uccisa in un piazzale dall’ex compagno Pierangelo Pellizzari, che la picchiava e non sopportava la separazione, ma lei non aveva avuto il coraggio di denunciarlo.

L’omicidio di Alessandra è avvenuto ieri poco dopo mezzogiorno. Una vicina di casa ha sentito un litigio, poi un colpo secco, come di pistola. Per questo ha dato l’allarme. È arrivato il marito che è entrato nell’abitazione e ha scoperto la donna ormai morta. La segnalazione di una Lancia Y nera, che si era allontanata poco prima ha spinto i carabinieri a seguire le tracce di Turrin che “Ale” aveva conosciuto da qualche tempo. È tutto da chiarire il rapporto che c’era tra i due e perché la guardia giurata fosse entrata in casa. Di sicuro la donna gli ha aperto la porta. In ogni caso, Alessandra era una mamma appassionata, basta vedere le foto della figlioletta (che al momento dell’omicidio era all’asilo) postate su Facebook. L’ultima immagine, inserita come profilo il 12 settembre, le ritrae assieme, in riva a un laghetto alpino. La vittima lavorava come parrucchiera in un salone in viale Verona a Vicenza. Il titolare racconta: “Praticamente non la conoscevo perché abbiamo aperto l’attività lunedì, ha lavorato anche martedì, poi ha goduto del suo primo giorno libero”.

Il giorno di riposo le è stato fatale. I carabinieri hanno interrogato numerosi testimoni, tra cui il marito, che al momento dello sparo sarebbe stato a casa dei genitori. Ma a sapere con certezza cosa è successo in quella stanza era Turrin, la cui auto era stata segnalata prima nella zona del Lago di Garda, poi in Emilia Romagna. La caccia all’uomo è terminata in serata: attorno alle 20,30 il 38enne è stato intercettato dalle forze dell’ordine sulla sua auto a Vicenza ovest e si è tolto la vita prima di essere catturato.

Calabria, si dimette l’arcivescovo Bertolone. È il secondo addio nella Curia in due mesi

Come è stato a inizio luglio per il vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea Luigi Renzo, si è dimesso anche l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace Vincenzo Bertolone. Dopo 10 anni alla guida della diocesi, salutando la città, Bertolone, che sarebbe andato in pensione a novembre, ha parlato di un “martirio a secco”. Stando a fonti vicine alla Curia, il suo addio è riconducibile alla soppressione del Movimento Apostolico decisa lo scorso 10 giugno dalla Santa Sede dopo che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha constatato “la mancanza di trasparenza e la difficoltà di chiarimento circa la provenienza, la gestione e l’uso dei beni temporali”. Problemi che Bertolone aveva segnalato in una relazione inviata a Papa Francesco, ma che – a Roma – sembrerebbe non aver convinto in molti. Nella lettera di congedo l’arcivescovo ha rivolto un saluto anche al procuratore Nicola Gratteri e al collega Vincenzo Capomolla che “cercano di frenare sul nascere l’attecchimento della zizzania criminale, mafiosa e corrotta”.

Conte a Merano unisce italiani e tedeschi in lista

Merano è l’unico Comune sopra i 30 mila abitanti in Trentino Alto-Adige che andrà al voto il 10 ottobre. Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte si presenterà con una lista di centrosinistra insieme a Pd, Ecosociali (il fronte di Nicola Fratoianni) e Verdi. Il progetto politico dell’ex presidente del Consiglio a Merano è un aggregatore sia politico che “interetnico”, dove questo aggettivo assume una valenza positiva: è l’unico progetto politico tra italiani e tedeschi. Non era accaduto prima, soprattutto se consideriamo che a Merano, seconda città dell’Alto Adige oltre che principale polo economico e culturale, ha sempre spopolato e vinto l’Svp, per sua natura disgregatore e che si alimenta nel perpetrarsi proprio del conflitto etnico.

Diego Nicolini, consigliere provinciale, tra i primi esponenti Cinque Stelle in Alto Adige e coordinatore della lista M5S Merano, non nega la soddisfazione per questo lavoro di tessitura svolto grazie a quegli attivisti M5S della prima ora: “Un nucleo forte, uno zoccolo duro di persone che non si è mai disperso e che è tornato all’attivismo perché crede nella ritrovata leadership di Conte”.

Il M5S potrebbe quindi essere determinante per l’elezione del nuovo sindaco di Merano, commissariato a causa del fallimento delle trattative di formazione della giunta comunale nelle precedente chiamata alle urne. “Le prossime elezioni si decideranno sul filo di lana – sottolinea Nicolini –; noi ci presentiamo con una lista più lunga rispetto alla precedente tornata, pulita al 100 per cento”. Parla di “rinascita” Nicolini, soprattutto rispetto alla credibilità che Conte suscita negli elettori di lingua tedesca: “I temi del nuovo Movimento 2050 si adattano perfettamente alle esigenze di Merano: vivibilità, lotta all’inquinamento e contrasto all’erosione del territorio”.

Camogli si candida per il Festival dell’Economia

Dopo il ben servito ricevuto dall’amministrazione leghista della provincia di Trento, il Festival dell’Economia cerca una nuova casa. L’ultima, tra le molte proposte di location arrivate in questi giorni agli organizzatori, è quella del direttore del Festival della Comunicazione di Camogli, Danco Singer.

“Ho parlato con Laterza che conosco da diversi anni per comunicargli anche a nome del sindaco la disponibilità ad accogliere il festival, abbiamo le strutture adeguate e collaudate di una manifestazione che va avanti da otto anni con ospiti internazionali, inoltre gli organizzatori avrebbero la sicurezza di un’ampia autonomia e non andrebbero certo incontro alle censure incontrate con la giunta leghista trentina”, racconta Singer. Il periodo per ospitare il Festival dell’Economia, prospettato dall’amministrazione di Camogli, è collocato nei primi giorni di giugno. Quello del borgo marinaro ligure sarebbe un palco già rodato, dunque, che con il Festival della Comunicazione appena concluso ha visto quattro giornate di dibattiti, concerti e spettacoli, a cui hanno partecipato oltre 30mila persone in presenza e sui social sono arrivate quasi 1,2 milioni di visualizzazioni.

Come ha spiegato il Fatto in un articolo del 15 settembre, la giunta leghista della Provincia autonoma, su proposta del presidente Maurizio Fugatti, ha definito l’evento ideato da Giuseppe Laterza nel 2006 “troppo di sinistra”, mettendo il festival nelle mani del gruppo editoriale del Sole 24 ore. E, in concreto, sistemando a capo del comitato scientifico Giulio Tremonti, l’ex ministro delle Finanze negli ultimi tre governi Berlusconi, con il compito di selezionare invitati e organizzare gli eventi. Con buona pace dell’impronta sociale che per 16 anni Laterza ha dato alla rassegna economica. Gli oltre 50 premi Nobel, ministri, governatori della Banca d’Italia, imprenditori e finanzieri sfilati negli anni non sono bastati a scongiurare lo sfratto.

Davigo: “Lasciai gli atti al Csm, erano per la Presidenza”

Piercamillo Davigo spiega così ai magistrati di Roma come i verbali segreti dell’avvocato Piero Amara sulla presunta “loggia Ungheria” siano usciti dalla Procura di Milano: “Nella prima settimana di aprile 2020, il pm Paolo Storari venne da me a casa mia a Milano, riferendomi che a partire da dicembre del 2019 aveva raccolto da Amara dichiarazioni molto importanti riguardanti una loggia massonica coperta cui apparterebbero magistrati, alti ufficiali delle forze dell’ordine e imprenditori e che, nonostante le sue sollecitazioni, non si era proceduto a iscrizioni”. Il suo verbale del 5 maggio 2021 è stato ora depositato dalla Procura di Roma a conclusione delle indagini su Marcella Contrafatto, assistente di Davigo al Csm, ritenuta colei che fece arrivare i verbali al Fatto, a Repubblica e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Davigo rassicura Storari dicendogli che “il segreto investigativo non è opponibile al Csm… In relazione a ciò, ho ricevuto da Storari copia dei documenti. Poco prima di andare via dal Consiglio, ho detto al collega Marra che gli avrei lasciato copia di quei documenti nel caso in cui fossero serviti al Comitato di Presidenza”. Il 15 ottobre 2020, Contrafatto scrive via whatsapp alla collega Giulia Befera (non indagata), collaboratrice di Davigo al Csm: “Ma un grande titolo a effetto del Fatto Quotidiano… di grande effetto… appunto prima di lunedì… potrebbe veramente cambiare le sorti del destino, no?”. “Facciamo scatenà la bomba”. Il lunedì seguente, 19 ottobre 2020, per Davigo è l’ultimo giorno al Csm, perché – malgrado ritenga che da consigliere del Csm sia tenuto a completare la sua consigliatura – è invece costretto ad andare in pensione. Il “titolo ad effetto” non arriva e Contrafatto il 29 ottobre porta i verbali al Fatto, che però non li pubblica, temendo che potessero essere falsi o che la pubblicazione potesse danneggiare un’inchiesta in corso.

Il 25 dicembre è Giulia Befera a scrivere alla collega: “La vuole far scoppiare o no sta bomba?”. Befera poi spiega, nel suo interrogatorio: “La Contrafatto mi rappresentò che sarebbe stato bello ed eclatante se avesse avuto clamore mediatico la vicenda relativa ai verbali, alla loggia e al fatto che Davigo sapesse e avesse informato la presidenza del Csm e il presidente della Repubblica, venendo ripagato con la mancata riconferma”. E ancora: “La mia percezione all’epoca era che Marcella stesse esagerando, perché è un soggetto sopra le righe. Io le dissi ‘andiamo carcerate’”. Di Davigo dice: “Lui non voleva certo che tali notizie uscissero, dava sempre l’impressione di confidare nell’andamento della giustizia”. E poi: “So che anche la Contrafatto era a conoscenza dei verbali. Mi disse che sapeva dove erano collocati, cioè nella stanza di Davigo, in uno scaffale posto in basso”. La “bomba da far scoppiare” la spiega così: era un riferimento “all’atteggiamento di Davigo: mi domandavo perché continuasse a non far emergere pubblicamente ciò che sapeva su Ardita”. È Sebastiano Ardita, componente del Csm, il casus belli. Amara sostiene (senza prove) che faccia parte della presunta loggia. Davigo dichiara ai pm romani: a Contrafatto “avevo soltanto detto che Ardita non avrebbe dovuto avere accesso alla mia stanza per ragioni che non le potevo dettagliare, ma che attenevano al fatto che non lo ritenevo più affidabile”.

“Amara costruiva le accuse e poi le offriva ai magistrati”

La Procura di Milano indaga per comprendere se Piero Amara – l’ex legale esterno dell’Eni che ha rivelato l’esistenza della presunta loggia Ungheria – abbia calunniato, insieme all’avvocato Giuseppe Calafiore, il magistrato Marco Mancinetti, ex componente del Csm, additato dallo stesso Amara nel novero degli affiliati a Ungheria. Il fascicolo nasce dalle indagini di Perugia che, dopo aver archiviato Mancinetti dall’accusa di istigazione alla corruzione (e inviato l’archiviazione al Csm per i profili disciplinari), ha invitato i colleghi milanesi a comprendere come e perché sia stata “costruita” e “offerta” l’accusa di corruzione nei riguardi del magistrato. È alla procura di Milano che Amara il 15 dicembre 2019, parlando dell’esistenza della loggia, racconta che Mancinetti gli fu segnalato dal parlamentare (IV) e magistrato Cosimo Ferri, anch’egli accusato di appartenere a Ungheria (Ferri e Mancinetti hanno sempre smentito). Mancinetti aveva un “problema con il figlio che voleva entrare alla facoltà di medicina” e gli era stato presentato da Fabrizio Centofanti (socio e coimputato di Amara per reati fiscali, amico e coimputato di Luca Palamara per corruzione) dal quale seppe che l’incontro con il rettore di Tor Vergata era “andato male” perché Mancinetti gli aveva “proposto”, imbarazzandolo, di “dargli dei soldi”.

Tre settimane dopo questa dichiarazione, Calafiore deposita alla Procura di Milano una registrazione, avvenuta il 23 maggio 2019, fra Centofanti e l’ex rettore di Tor Vergata Aldo Brancati che gli dice di aver dedotto, dalle parole di Mancinetti, che in cambio dell’aiuto a suo figlio era disponibile anche a pagare (versione poi smentita da Brancati a Perugia ed esclusa dagli inquirenti). Brancati avrebbe replicato che non era il caso poiché s’era mosso per amicizia nei riguardi di Centofanti e Palamara. La data del 23 maggio 2019 stuzzica la curiosità degli investigatori perugini perché, proprio in quei giorni, si decideva il futuro della procura di Roma e Mancinetti era un membro del Csm. La suggestione investigativa suggerita ai colleghi milanesi è che – per quanto al momento sia difficile ipotizzare il mandante – Centofanti abbia potuto raccogliere elementi contro Mancinetti per “conto terzi” e che la vicenda familiare del magistrato sia stata strumentalizzata per gestire ben altre vicende interne alla magistratura. La Procura annota il suggerimento fornito dall’ex consigliere Csm Spina a Palamara (intercettati entrambi il 16 maggio, sette giorni prima della registrazione) di conservare i messaggi telefonici che riguardavano Mancinetti e le vicissitudini universitarie legate al figlio: “A quale scopo?” si chiedono gli inquirenti che, in altri passaggi, sottolineano che Mancinetti non era schierato con il candidato sponsorizzato da Palamara.

Ottobre 2020, Amara sostiene a Perugia di aver saputo che Mancinetti aveva offerto al rettore 8mila euro. Per gli inquirenti è pura invenzione. Ferri smentisce di aver mai conosciuto Amara e di aver chiesto favori per conto di Mancinetti. Febbraio 2021, Amara dichiara di aver spinto Centofanti, insieme con Calafiore, a effettuare la registrazione perché Mancinetti, che peraltro aveva manifestato disprezzo nei loro riguardi, s’era lamentato delle condotte di Palamara in alcune interviste: non era idoneo a fornire giudizi di moralità. Centofanti conferma che fu Calafiore a suggerirgli di registrare ma decise di farlo perché un cronista de La Verità gli aveva chiesto se si fosse interessato alle vicende universitarie legate a Mancinetti. Palamara e Mancinetti negano un interessamento concreto alla vicenda che per la Procura si risolse solo con una segnalazione all’università.

Per gli inquirenti, Amara, con questa vicenda, c’entra poco o nulla e il suo racconto risulta non veritiero in più punti perché privo di logica: dopo aver organizzato l’incontro tra Brancati e Mancinetti, non vi partecipa; Centofanti dichiara che quell’incontro fu spinto da Palamara (non da Amara); Mancinetti, molto amico di Palamara, avrebbe potuto chiedere a lui, invece che a Ferri, di metterlo in contatto con Centofanti. Ma allora: perché Amara si ritaglia un ruolo da protagonista (inclusa la fase della registrazione, che colloca dopo lo “scandalo Palamara” mentre, in realtà, è avvenuta prima)? Cantone consegna ai colleghi milanesi un’ipotesi: Amara avrebbe potuto sapere dell’esistenza della registrazione e poi sfruttarla a proprio vantaggio per condire, con fatti concreti e realmente accaduti, le sue dichiarazioni sulla loggia Ungheria. Anche a rischio d’essere indagato per calunnia.

“Norme senza coerenza, serve chiarezza”

“Capisco la difficoltà della materia e la gradualità dettata da ragioni di ordine politico, ma l’importante è dare soluzioni coerenti che non introducano disparità di trattamento tra lavoratori. Al momento la situazione merita di essere migliorata”. Raffaele Guariniello, che di normative sul lavoro è tra i maggiori esperti in Italia, alla vigilia di un nuovo decreto che estenderà l’obbligatorietà del pass al mondo del lavoro, vede il rischio di interpretazioni contrastanti.

Dottor Guariniello, cosa ne pensa di questa estensione?

Sono scelte che spettano al legislatore, mi auguro tuttavia che lo stesso legislatore si faccia ora carico anche di una normativa omogenea. Lo dico perché ritengo indispensabile fornire alle istituzioni ogni collaborazione per il raggiungimento di un giusto e fondamentale obiettivo, la salute di tutti i cittadini.

A cosa si riferisce?

Ci sono quattro decreti: il 44, il 105, il 111 e il 122, norme che non si inseriscono affatto – come a molti piace sostenere – in un vuoto normativo, ma che affiancano il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (Tusl), il decreto 81.

In conflitto tra loro?

Il problema principale è la sorte del lavoratore non vaccinato. In base al Tusl, il datore è tenuto ad adibire il lavoratore eventualmente ritenuto inidoneo dal medico (nel nostro caso il non vaccinato) ad altra mansione “ove possibile”. Il decreto 111 che dispone l’obbligo del pass per il personale scolastico e universitario è invece più drastico: l’inosservanza dell’obbligo è considerata assenza ingiustificata e dal quinto giorno si è sospesi dal lavoro e non sono più dovuti retribuzione e compensi. E questo vale anche per per i lavoratori esterni che entrino in contatto con le strutture scolastiche. Una deroga – seppur in vigore fino al 31 dicembre 2021 – al Tusl. Una soluzione ancora diversa per il personale sanitario, che ha l’obbligo di vaccinarsi. Qui il datore deve destinare ad altra mansione e, in caso di impossibilità, si incorre nella sospensione dallo stipendio. Infine per i lavoratori delle Rsa, anch’essi soggetti all’obbligo: l’inosservanza comporta l’immediata sospensione dal lavoro. Soluzioni dunque diverse a seconda del tipo di lavoratore. E c’è un altro problema delicato.

Quale?

L’obbligo del Green pass non si applica ai lavoratori scolastici esenti dal vaccino in base a idonea certificazione medica. Vien da chiedersi quale sia la sorte di queste persone. I decreti legge non lo dicono. Il rischio è che nel silenzio rientri in gioco il Tusl, che torni determinante il giudizio del medico competente, che potrebbe ritenere comunque inidoneo il non vaccinato, il datore dovrebbe trovare una mansione alternativa e – ove non possibile potrebbe non essere agevole il recupero al lavoro.

I medici aziendali hanno già detto di non volerne sapere…

Ho letto. E se la prendono anche con il Garante della privacy che a maggio (un’altra norma!) aveva stabilito che solo il medico competente, mai il datore di lavoro, può trattare i dati relativi alla vaccinazione dei lavoratori. Ma dai decreti scopriamo che le verifiche sono affidate anche ai responsabili delle strutture interessate e ai rispettivi datori. Siamo proprio sicuri di mantenere questa soluzione?

Multe, sanzioni e controlli. I nodi da risolvere del Pass

Funzionerà per tutti come nella scuola. Il decreto legge che il governo approverà oggi estenderà l’obbligo di Green pass a tutti i lavoratori dipendenti, gli oltre 14 milioni delle imprese private e i circa 1,2 milioni di impiegati pubblici non interessati dalle norme che già regolano il settore sanitario e appunto la scuola (circa 3,5 milioni). È lo strumento scelto per spingere oltre 4 milioni di italiani a presentarsi nei centri vaccinali.

Il controllo spetterà ai vertici amministrativi degli uffici pubblici, dalle amministrazioni centrali e periferiche ai tribunali e agli enti locali, fino al più piccolo Comune; nel privato toccherà ai datori di lavoro o ai loro delegati. Chi non ha il lasciapassare non potrà entrare sul posto di lavoro, sarà considerato assente ingiustificato e alla quinta assenza – almeno nel pubblico impiego – sarà sospeso dal lavoro e dallo stipendio fino all’ottenimento della certificazione o fino alla fine dell’emergenza (che al momento è indicata al 31 dicembre prossimo, ma poi chissà). Nelle intenzioni del governo le nuove norme saranno applicabili in tutti i luoghi di lavoro, compresi gli studi professionali. La disciplina relativa ai lavoratori autonomi e dei parasubordinati dovrebbe tuttavia essere rimandata a un successivo provvedimento.

Per il privato fino a ieri sera non era stato ancora stabilito quanti giorni dovranno passare per arrivare alla sospensione, ma il meccanismo sarà analogo. I controlli dovranno avvenire in modo da tutelare la riservatezza del lavoratore, se cioè si è vaccinato o è guarito o ha fatto un tampone negativo nelle ultime 48 ore. Naturalmente saranno esclusi coloro che non possono essere vaccinati contro il Covid-19 in presenza delle patologie indicate nella circolare già emanata dal ministero della Salute, sulla base di un valido certificato medico. È quello che già avviene per i lavoratori della scuola e per l’accesso ad aerei, treni, navi, locali pubblici e di intrattenimento al chiuso, nei quali il Green pass è obbligatorio da settimane. Dovrebbe diventarlo anche per utenti e clienti che vorranno accedere a negozi e uffici pubblici. Non è chiaro se ci saranno anche sanzioni amministrative, cioè pecuniarie, per chi si presenta senza pass all’ingresso del luogo di lavoro. C’è chi parla di multe fino a 1.000 euro (finora erano solo 400) e chi le esclude.

Ieri sera i tecnici del governo stavano scrivendo le norme, che nelle intenzioni dovrebbero separare nettamente il Green pass dalla materia disciplinare regolata per lo più dai contratti collettivi di lavoro che prevedono, per alcune infrazioni, la sospensione come sanzione o come misura cautelare. Norme delicate su cui si prevede un ampio e articolato contenzioso, anche costituzionale. Sarà espressamente escluso il licenziamento, come richiesto dai sindacati, per chi non ha il lasciapassare verde. Ove possibile dovrebbe essere previsto che i lavoratori privi del Green pass possano svolgere la loro prestazione in smart working, o comunque in modo da evitare o ridurre i contatti interpersonali e dunque il rischio di contagio, ma i sindacati hanno chiesto anche di evitare demansionamenti strutturali.

L’obbligo del Green pass per andare al lavoro dovrebbe entrare in vigore il 10 o il 15 ottobre per dare il tempo di vaccinarsi a chi deciderà di farlo. È possibile un’entrata in vigore scaglionata a partire dal 1° ottobre. I sindacati, che per lo più avrebbero preferito l’obbligo vaccinale che resta in vigore solo per gli operatori della sanità pubblica e privata cui sono stati aggiunti quelli delle Residenze sanitarie assistenziali, hanno chiesto la gratuità dei tamponi, che se negativi consentono il rilascio del certificato almeno per 48 ore. In molti casi, specie se la prestazione può essere articolata in alcuni giorni da casa e altri in presenza, potrebbe essere una soluzione. I tamponi gratuiti li ha chiesti anche la Lega, il cui leader Matteo Salvini è contrario al Green pass obbligatorio ma ha dovuto farsene una ragione. Il governo però non intende concederla per non favorire, con risorse pubbliche, chi decide di non vaccinarsi. Si tratta su un breve periodo iniziale di gratuità dei tamponi, forse a carico delle aziende che certamente non la prenderebbero bene.

Oggi in Cdm il dl per attenuare la stangata: taglio degli oneri

Nel Consiglio dei ministri di oggi sul Green pass finiscono in extremis anche le bollette. A meno di ultimi colpi di coda, ieri sera è stato completato il provvedimento per evitare che sulle famiglie si abbatta un colpo da 500 euro l’anno a causa del maxi rincaro di ottobre. Un aumento senza precedenti, come annunciato lunedì scorso dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani e che dovrebbe aggirarsi attorno al 40% per l’elettricità e al 30% per il gas. La misura confermerebbe così il taglio degli oneri di sistema, cioè dei balzelli che sono all’interno delle tariffe e che vanno dal sostegno alle rinnovabili ai costi del nucleare, e che potrebbero essere spostati sulla fiscalità generale. Il provvedimento arriva dopo giorni di pressioni. La soluzione scelta dal governo ricalca quella emergenziale già usata a luglio, quando si è deciso di intervenire stanziando 1,2 miliardi. In questo caso per sterilizzare gli aumenti ne serviranno fino a 3 miliardi. Ad aver chiesto al premier Mario Draghi di intervenire sono stati tutti i partiti, ma anche l’Europa. Ieri pomeriggio il pressing è arrivato dal commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni che ha chiesto all’Italia e agli altri Paesi “di attivare un ombrello che aiuti a limitare i costi della transizione energetica”.
Da lunedì, allo studio del governo c’erano due soluzioni: una riduzione sostanziale dell’Iva su luce e gas dal 10 al 4% e la sterilizzazione degli oneri di sistema. Ma la prima misura, quella scelta dal governo spagnolo, è un’operazione ora impraticabile per l’Italia: troppo costosa nell’immediato non potendo scaricarne i costi sui grandi produttori di energia. Si è anche parlato della possibilità che il governo prevedesse un bonus sociale per le famiglie in difficoltà. Poi, si è optato per la ridurre gli oneri di sistema, che nelle bollette pesano circa il 20%. E per attuarlo si deve ridurre la componente fiscale in bolletta. Si tratta della strada caldeggiata anche dall’Arera, l’Autorità per l’energia, che già settimane fa ha comunicato al governo l’imminente aumento delle tariffe a causa. Secondo l’Authority si devono eliminare dalla bolletta gli oneri non direttamente connessi agli obiettivi di sviluppo ambientalmente sostenibile e quelli finalizzati al contrasto della povertà energetica.

Caro bollette, Enel&C. si tengono mega utili

Dopo un 2020 all’insegna delle difficoltà innescate dalla pandemia, a fine anno i maggiori produttori nazionali di energia idroelettrica potrebbero contare su un tesoretto di circa 5 miliardi di extra-profitti, grazie all’impennata dei prezzi dell’elettricità scatenata dal rincaro del gas. Una situazione simile si verifica in Spagna dove, contro il caro bolletta, Madrid ha varato un pacchetto di misure choc che, secondo alcuni esperti, potrebbero essere replicate anche da Roma. Ma la lobby europea dell’elettricità si è già messa di traverso. Le misure spagnole, subito operative per decreto legge, si aggiungono a quelle approvate a giugno e sono sia strutturali che temporanee, specie quelle fiscali. Il governo di Madrid ha approvato un prelievo di sei mesi sui “profitti eccessivi” realizzati grazie all’aumento dei prezzi elettrici dalle “centrali non emettitrici di CO2” (nucleari, idroelettriche ed eoliche), pari al 90% degli utili ottenuti con prezzi superiori ai 20 euro per megawattora (MWh). Per ammortizzare “una situazione eccezionale e senza precedenti” il governo di Pedro Sanchez prevede di recuperare 2,6 miliardi entro il prossimo 31 marzo.

Secondo Goldman Sachs, le misure fiscali introdotte dalla Spagna ridurranno gli utili per azione dei produttori del 5% circa dal 2022 al 2025, del 10% per Iberdrola e del 15% per Endesa, i due campioni nazionali, ma “sembrano un passo verso una parziale ri-regolamentazione delle bollette energetiche” e “potrebbero violare la direttiva dell’Ue sull’energia”. Gli analisti di Barclays replicano però che i prezzi e le attese sugli utili di molte società elettriche non hanno ancora incorporato il rialzo del gas, specie per alcuni giganti come le francesi EdF ed Engie e la tedesca Rwe. Contro la manovra spagnola si è subito schierata la lobby continentale di settore Eurelectric. Secondo il segretario generale dell’associazione, Kristian Ruby, la legge di Madrid “ostacolerà la capacità dell’Europa di rispettare i suoi impegni climatici indebolendo la fiducia degli investitori. Le centrali elettriche colpite rispettano il principio “chi inquina paga” che riflette i costi del carbonio ed è il fondamento per realizza gli obiettivi climatici del Green deal. La proposta distorce gli incentivi di mercato per investire nelle future rinnovabili”, conclude Ruby.

Se Madrid piange, Roma non ride. Secondo il ministro della Transizione ecologia Roberto Cingolani, le bollette a ottobre potrebbero rincarare del 40% a causa dell’aumento dei prezzi del gas e della CO2. Il governo già a luglio è intervenuto per prevenire un aumento del 20% delle bollette iniettando 1,2 miliardi di entrate dalla vendita di crediti di emissione di CO2. L’agenzia di regolazione del settore, Arera, continua a riproporre la sua soluzione di lungo termine: togliere dalle bollette gli “oneri generali di sistema”, che valgono circa 14 miliardi di cui 12 per il sostegno alle fonti rinnovabili, e spostarle a carico della fiscalità generale. Ma la proposta spagnola non piace nemmeno alle imprese italiane. Enel, con una produzione netta di 42,5 Terawattora (TWh), nel 2020 controllava circa il 16% della produzione nazionale e il 35,6% delle vendite totali. Altri cinque gruppi maggiori (Edison, A2A, Hera, Axpo ed Eni) detenevano il 24,2% della generazione netta e il 25,3% delle vendite totali. Secondo la banca dati Aida, dal 2016 al 2020 le sole capogruppo di Enel, Hera, A2A, Edison e Sorgenia hanno realizzato utili netti per 25,13 miliardi, 22,56 dei quali in capo all’ex monopolista di Stato. I conti 2020 sono stati difficili per il Covid: a livello consolidato Enel lo scorso anno ha realizzato utili netti di 5,1 miliardi (+9% su base annua), A2A per 364 milioni (-6%), Hera per 302,7 (+0,6%), Iren stabile a 235 ed Edison una perdita di 68 contro il “rosso” di 411 del 2019. Ma le semestrali hanno già segnato forti rialzi, tranne che per Enel (utile netto a 1,78 miliardi, -8,7%).

Il motivo lo spiega l’economista Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: “La situazione attuale è un caso di fallimento del mercato. Oggi (ieri per chi legge, ndr) un megawattora vale 183 euro sul mercato spot. Il prezzo medio ad agosto era di 112 euro, nei primi mesi del 2021 era sui 90 euro. Si era a 22 euro per megawattora a maggio 2020”. Nel giro di 17 mesi i prezzi si sono moltiplicati per otto volte. “Se pensiamo agli impianti idroelettrici costruiti decenni fa e già totalmente ammortizzati – continua Tabarelli – possiamo immaginare che i costi di produzione non superino i 10 euro. Dunque 173 euro sono extraprofitti. Ciò consente ad alcuni produttori di realizzare enormi profitti a fronte del salasso dei consumatori: eppure questi impianti sono in concessione ai produttori dallo Stato o dalle Regioni, dunque questo oro che cola, almeno in parte, appartiene a tutti gli italiani. Ciò a mio avviso obbliga a un intervento normativo. Poiché la produzione netta nazionale idroelettrica nel 2020 era di circa 48 terawattora (48 miliardi di kilowattora), a oggi sono stimabili 4,8 miliardi di extraprofitti. Direi che una metà di questi si potrebbe restituire ai clienti. Un discorso simile si potrebbe fare per altre fonti rinnovabili già ammortizzate, che hanno costi di produzione bassissimi e hanno già ottenuto grandi incentivi pubblici. Per i produttori non sarebbe una misura insopportabile, visto che l’idroelettrico vale 48 terawattora su 273 totali, il 18% circa, a fronte di 302 di domanda finale. Certo – continua Tabarelli – andrebbe in contrasto con la direttiva europea sulla tassazione energia. Ma ogni intervento già proposto è in contrasto: sia la riduzione dell’Iva che il trasferimento degli oneri di sistema, come vorrebbe Arera. Ma il sistema europeo dei prezzi di energia e gas è fuori controllo e questo giustifica ogni intervento. C’è un precedente, non di successo, ma anche quello giustificato dall’impennata dei mercati: è la Robin Hood tax introdotta dal ministro Tremonti del governo Berlusconi nel 2008 a carico dei petrolieri quando il prezzo del greggio schizzò a 140 dollari barile. La norma fu poi dichiarata incostituzionale ma allo Stato entrarono diversi miliardi di euro. D’altronde, quando i prezzi delle azioni aumentano troppo alla Borsa valori si fermano le negoziazioni, mentre sul mercato elettrico questo non succede. È una questione di dignità politica: va restituita ai clienti parte della super-redditività realizzata dai produttori, come cerca di fare la Spagna”.