Per Big Pharma profitti super e tasse irrisorie

Utili stellari e tasse versate in proporzione irrisorie per le big pharma dei vaccini anti-Covid nel primo semestre dell’anno. Il monopolio della produzione dovuto alla detenzione dei brevetti dei vaccini, peraltro messi a punto grazie ai generosi finanziamenti per la ricerca erogati dagli Stati Uniti e dall’Unione europea direttamente alle aziende farmaceutiche, stanno spingendo i bilanci del cartello di fatto creatosi intorno ai preziosi vaccini anti-pandemia, verso vette mai viste. È la denuncia lanciata da Oxfam ed Emergency, membri della People’s vaccine alliance (Pva), in vista del summit virtuale sul Covid-19 che il presidente degli Usa Joe Biden intende convocare in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Gli analisti delle due Ong hanno puntato la loro attenzione su tre dei maggiori produttori mondiali di vaccini, Moderna, Pfizer e BioNTech.

A fronte di un investimento pubblico complessivo nel 2020 di oltre 8,3 miliardi di dollari, le tre aziende hanno registrato nel primo semestre dell’anno ricavi per 26 miliardi, con un margine di profitto superiore al 69% nel caso di Moderna e BioNTech, mentre resta non formalmente verificabile quello di Pfizer. La vendita di oltre il 90% delle dosi prodotte al miglior offerente tra i Paesi ricchi ha portato a rincari del prezzo per dose fino a 24 volte il costo stimato di produzione. A fronte di livelli di redditività esorbitanti, Moderna ha versato nel primo semestre 2021 un’aliquota effettiva di appena il 7% e Pfizer del 15%. “Aliquote così basse sono sintomatiche di un sistema fiscale distorto e iniquo – si legge nella ricerca – che consente a corporation con ricavi miliardari di pagare, in proporzione, molto meno di quanto versano al fisco famiglie che hanno il lavoro come unica fonte di reddito”. Si conferma di stringente attualità il confronto in atto all’interno dei Paesi del G20 e degli aderenti all’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per stabilire finalmente, dopo due decenni di colpevole omissione dei governi, una giusta tassazione globale delle attività delle multinazionali. La People’s vaccine alliance stima che Moderna abbia registrato, nel primo semestre 2021, ricavi dalle vendite del suo vaccino per oltre 6 miliardi di dollari, con profitti per 4,3 miliardi. La società prevede di realizzare vendite di dosi di vaccino per 20 miliardi di dollari nell’arco dell’intero 2021. Nel frattempo ha versato su scala globale al fisco appena 322 milioni di dollari. Moderna e BionNTech non hanno altri prodotti commerciali significativi, oltre ai vaccini per il Covid-19. Anche per Pfizer i proventi dalle vendite del vaccino, superiori a 11 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2021, rappresentano oggi più di un terzo dei ricavi registrati nel bilancio semestrale. Il colosso farmaceutico prevede di arrivare a 33,5 miliardi di dollari di vendite del proprio vaccino entro la fine del 2021.

Pfizer ha dichiarato che i margini di profitto sono inferiori al 30%, ma l’azienda fornisce dettagliate informazioni finanziarie solo per i ricavi e non per le spese sostenute per lo sviluppo e la produzione dello stesso. Inoltre Pfizer ha venduto solo lo 0,5% delle sue dosi di vaccino ai Paesi più poveri. Ma è opinione comune degli epidemiologi che se il Covid continua a circolare in altre parti del mondo può dar luogo a varianti più contagiose o aggressive in grado di resistere ai vaccini e rimandarci così al punto di partenza.

“Per tenere veramente sotto controllo questo virus, dobbiamo porre fine ai monopoli sui vaccini, condividere tecnologia e know-how, così da poter aumentare la produzione in tutto il mondo e vaccinare quante più persone possibile”, avvertono Sara Albiani, policy advisor per la salute globale di Oxfam Italia, e Rossella Miccio, presidente di Emergency. “I Paesi ricchi che iniziano la somministrazione delle terze dosi, mentre la maggior parte degli altri fatica a garantire le prime dosi al proprio personale sanitario, evidenziano la drammatica iniquità e miopia nel modo di condurre la nostra battaglia contro il virus”, concludono.

Stellantis ferma anche la Sevel

Un nuovo indizio diffonde cattivi presagi sullo stabilimento Sevel di Atessa (Chieti), dove si producono i veicoli commerciali Fiat. Dopo il momentaneo stop alla produzione di fine agosto, ora Stellantis ha deciso di ridurre i turni da 18 a 15, creando quasi mille esuberi. Se per 650 di questi il problema è tutto sommato contenuto, perché sono trasferisti che dovranno tornare nelle loro fabbriche di provenienza, per 300 interinali si tradurrà nella perdita del lavoro, perché i loro contratti precari verranno interrotti. La motivazione ufficiale è una difficoltà nell’approvvigionamento dei microchip. Ma le preoccupazioni sul sito abruzzese non sono nate ieri, la tensione nelle ultime settimane è cresciuta dopo l’avvio di una linea “gemella” di furgoni a Gliwice, in Polonia. Inizialmente prevista per aprile 2022, è stata anticipata a febbraio. I sindacati hanno anche segnalato il trasferimento di intere fiancate di veicoli nel Paese dell’Est, oltre che di commesse polacche arrivate alle aziende della filiera della componentistica. Se non una delocalizzazione in senso stretto, questa manovra sembra comportare un freno alle prospettive di crescita di Atessa, perla rara del pianeta Stellantis in quanto uno dei pochissimi siti non coinvolti nella cassa integrazione. Il mancato rinnovo dei lavoratori somministrati, sui quali le sigle dei metalmeccanici chiedevano risposte da tempo, è un segnale che va in quella direzione. Secondo il segretario Uilm Rocco Palombella, “è inaccettabile l’atteggiamento di inerzia del ministero dello Sviluppo economico, che non si decide a riconvocare il tavolo di confronto con Stellantis insediato a giugno”. Il problema di approvvigionamento di componenti deve essere chiarito – hanno detto la segretaria Fiom Francesca Re David e il responsabile automotive Michele De Palma – perché riguarda tutto il settore, ormai è chiaro che lo stabilimento di Gliwice stia determinando anche nuove strategie da parte di Stellantis”. Il futuro piano industriale del gruppo Stellantis – nato con la fusione di Psa e Fca – non è stato ancora svelato, se non per pochi singoli progetti: il passaggio da due linee a una di Melfi (che dovrebbe produrre esuberi) e la gigafactory che nascerà a Termoli. I nodi più delicati – il polo torinese, Pomigliano e Cassino – non sono ancora stati affrontati. L’amministratore delegato Carlos Tavares, che proviene da Psa, ha parlato di alti costi di produzione in Italia alcuni mesi fa. Il preludio di una gestione che si annuncia a trazione francese.

Così il Tesoro blocca i “rivali” Il cloud deve finire a Cdp-Tim

La partita è di tutto rispetto – quasi 2 miliardi stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) –, ma la gestione è affidata al classico metodo delle pressioni informali, al “si fa ma non si dice”. Parliamo del Polo strategico nazionale per il cloud (Psn), destinato a ospitare i dati della Pubblica amministrazione oggi sparsi in migliaia di data center spesso poco affidabili.

Ecco, il governo ha deciso di avviare un bando, accogliere proposte, però dietro le quinte fa di tutto per far prevalere solo una cordata: quella formata da Cassa Depositi e Prestiti in asse con Tim e con la partecipazione di Sogei, in house del Tesoro, e Leonardo, l’ex Finmeccanica. Una preferenza che si esplica, quando le cose si complicano, anche nell’invito a non partecipare inviato per le vie brevi ai potenziali rivali. Nei giorni scorsi, ad esempio, una chiamata partita direttamente dal gabinetto del ministro dell’Economia Daniele Franco è arrivata al Poligrafico dello Stato, che era pronto a partecipare insieme a Fastweb. Il contenuto, a grandi linee, è stato questo: dovete sfilarvi.

Andiamo con ordine. La necessità di portare i dati della P.A. sulla nuova tecnologia della “nuvola” garantendone la sicurezza si è fatta ormai impellente. Il Pnrr stanza 2 miliardi per l’operazione, il cui primo step è mettere in piedi il Polo strategico (Psn) e far migrare i dati più sensibili delle amministrazioni centrali, cioè ministeri e agenzie (entro il 2025), e poi quelli della P.A. locale.

Il ministro della Transizione digitale Vittorio Colao, sulla scia di quanto già pensato ai tempi del Conte-2, il 7 settembre ha confermato la scelta di non fare una gara, ma usare il Partenariato pubblico-privato (Ppp) per selezionare chi dovrà realizzarlo. In sintesi funziona così: per partecipare, i privati devono allearsi con una società “sottoposta a controllo, vigilanza e monitoraggio pubblico”. Insomma, una controllata al 100% dello Stato. Formalmente la scelta è dettata dalla necessità di avere sovranità sui dati evitando rischi associati ai fornitori extra-Ue, cioè i colossi Usa. Dal 2018, negli Usa vige infatti il Cloud Act, che può consentire alla giustizia o ai servizi di intelligence americani di accedere in alcuni casi ai dati ospitati al di fuori degli States. Questa scelta ha scombinato i piani delle cordate che si erano già iniziate a formare a maggio tra i big esteri e grandi partecipate italiane: Tim-Google; Leonardo-Microsoft e Fincantieri-Amazon. Il governo, però, è andato perfino oltre, divenendo giocatore e arbitro della partita. “Ci attendiamo che arrivi una proposta e se ci piacerà verrà valutata da una serie di soggetti, poi la potremo comunque pubblicare – ha spiegato Colao – il criterio di scelta non sarà ‘chi è l’azionista’ ma ‘chi ha le competenze per farlo’”. E invece è andata al contrario. Ai primi di settembre settembre dal gabinetto del Tesoro, guidato da Giuseppe Chiné, sarebbe arrivato lo stop al Poligrafico dello Stato. La Zecca dello Stato – che, va ricordato, è una controllata del Tesoro – era prontissima a partecipare in cordata con Fastweb. Il suo azionista ha fatto sapere che non era il caso. La mossa non è piaciuta a Fastweb e c’è il forte rischio di strascichi giudiziari: la società avrebbe infatti chiesto di avere una conferma scritta e non solo “per le vie brevi”, del motivo per cui il partner pubblico si è tirato fuori. La proposta, d’altra parte, era praticamente pronta: ci si lavorava da luglio, con tanto di testo scritto e fior di consulenti arruolati. La proposta era articolata in due ipotesi. Il Poligrafico, forte anche dell’esperienza maturata con la carta d’identità digitale, proponeva un investimento in tre data center per una spesa di 700 milioni o di 450 milioni con due data center e il potenziamento di quelli più sicuri tra quelli esistenti. In un primo momento era prevista la partecipazione di Sogei, poi sfilatasi a favore dell’altra maxi-cordata cara al ministero dell’Economia.

La scadenza per presentare le proposte è fine settembre, ma così rischiano di arrivarne assai poche, se non nessuna perché il Tesoro di fatto sta decidendo quale partecipata pubblica può concorrere e quale no. Anche Fincantieri si è dovuta sfilare, tanto più che è controllata da Cdp. In teoria restano quelle formate da Almaviva-Aruba e “Consorzio Italia Cloud”, che racchiude 6 aziende italiane, ma al momento non hanno il partner pubblico e, visto come vanno le cose, trovarlo sarà un’impresa. Insomma, tutto sembra fatto per far primeggiare la cordata Cdp-Tim ed è soprattutto l’ex monopolista telefonico che – a quanto pare – se ne gioverebbe, tanto che il governo tiene a bagnomaria da mesi la società unica della rete con Open Fiber (a sua volta controllata dalla Cassa).

L’altro effetto di questi condizionamenti riguarda i possibili effetti sui costi per lo Stato. Come detto, la partita vale 2 miliardi, ma con una sola proposta in campo la concorrenza sulle tariffe offerte dagli operatori rischia di non esserci. Per dare l’idea, già nel dicembre 2020 Tim e Cdp (insieme alla controllata Sia) presentarono una proposta all’allora ministra Paola Pisano: il piano prevedeva di realizzare il Psn con un cloud di tipo “ibrido-privato” (l’ipotesi che oggi è la prima scelta del ministero). L’offerta ipotizzava un contratto di concessione esclusiva per 10 anni in grado di fruttare circa 400 milioni di euro l’anno di ricavi stimati, con margini lordi intorno al 38%. Roba da Autostrade per l’Italia, e non è mai un bel segnale…

I Radicali arruolano Buzzi e Carminati

Chi si è fatto vanto di arruolare fascisti, terroristi, mafiosi e massoni non avrà certo problemi di digestione con gli ultimi testimonial. È di ieri la notizia che a sponsorizzare i sei referendum sulla giustizia dei Radicali ci sono anche Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, due di cui la principale enciclopedia online riassume la notorietà con la lapidaria definizione di “criminali italiani”.

Il primo, Buzzi, negli anni 80 si beccò 14 anni e 8 mesi per omicidio e calunnia, proprio mentre il secondo, Carminati, passava il tempo nei Nar. Entrambi si sono poi ritrovati nel Mondo di Mezzo, costato loro più di un decennio di pena.

Ma scorrendo la galleria degli impresentabili c’è da perdere il conto dei pregiudicati. L’enclave degli ex terroristi è folto. I Radicali hanno offerto asilo a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, da anni impegnati nell’associazione Nessuno Tocchi Caino. La stessa in cui milita l’ex Prima Linea Sergio Segio. D’altra parte storico volto Radicale è Sergio D’Elia, 12 anni di carcere per banda armata e concorso morale in omicidio volontario. Nell’83 i Radicali candidarono Toni Negri: eletto in Parlamento, fu per questo scarcerato e poté dileguarsi in Francia, dove beneficiò per 20 anni – fino al rientro in Italia con patteggiamento della pena – della dottrina Mitterrand.

Più recenti alcune foto di Rita Bernardini, tra le più note figure del partito, insieme a Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo. Non meraviglia allora che i Radicali abbiano mostrato solidarietà per Cesare Battisti nei suoi primi giorni di carcere italiano. Radicale ad honorem era pure Michele Greco, boss mafioso morto all’ergastolo nel 2008 a cui fu consegnata la tessera. Tre anni fa invece i Radicali ospitarono in assemblea Mario Mori, l’ex comandante del Ros appena condannato a 12 anni per la Trattativa Stato-Mafia. E a proposito di militari, nel 1987 Marco Pannella candidò Ambrogio Viviani, Generale già nelle liste della P2. In anni più recenti ha invece rifiutato il seggio Nicola Cosentino, condannato per corruzione che non volle tradire FI. Nel 2016 al Congresso del partito a Rebibbia parteciparono, spettatori interessati, Marcello Dell’Utri e Raffaele Sollecito.

E siamo a oggi. Tra i firmatari dei sei referendum ci sono Totò Cuffaro e Gianni Alemanno, mentre a ottobre il Radicale Luca Palamara, già radiato dalla magistratura, si candiderà alla Camera . Il tutto senza dimenticare la storica vicinanza del partito a Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi al centro di un lungo caso giudiziario, essendo quel reato – secondo la Cedu – non previsto all’epoca dei fatti contestati. Ma tant’è: oggi forse Pannella risponderebbe al nostro giornale come rispose nel 2013, quando seduto a fianco a Silvio Berlusconi – corsi e ricorsi: promuovevano referendum sulla giustizia – accompagnò il gesto dell’ombrello a un grido a favor di camera: “Toh, Travaglio!”.

La campagna clandestina di Michetti (anche al circolo)

Il povero Enrico Michetti sembra avere un talento straordinario e sfortunato: quando ci deve essere non c’è. E viceversa. Ieri sera il suo comizio nella preziosa cornice del “Circolo Reale Canottieri Tevere Remo” sarebbe dovuto restare segreto, una questione per pochi intimi. Il Tevere Remo, fondato nel 1867, è l’associazione sportiva più antica di Roma, è fieramente apolitico (o meglio trasversale) e non vuole in alcun modo essere collegato al candidato sindaco di centrodestra. Il patto era dunque che l’iniziativa rimanesse privata. Invece l’incontro, organizzato dalla lobby dei costruttori edili “Aspesi”, è finito nell’agenda pubblica di Michetti. E inevitabilmente sono giunti sul posto anche (pochi) giornalisti. È così che un sonnacchioso evento elettorale si trasforma in una meravigliosa commedia grottesca. Mentre Michetti si avvia a concludere un estenuante discorso sulla macchina amministrativa di Roma, l’ufficio stampa del circolo tiberino si avvicina al cronista e gli sottopone una richiesta bizzarra: “Mi deve fare la gentilezza di non dire che l’incontro si è svolto qui”. Il cortese rifiuto scatena il panico. Accanto a un inconsapevole Michetti, inizia un conciliabolo tra l’addetta stampa e uno dei dirigenti del circolo. La “trattativa” per oscurare il nome del Tevere Remo dall’articolo del giorno dopo diventa prima serrata e poi furibonda, al cronista viene chiesto “il favore” con particolare insistenza, alla fine un elegante signore con la spilla del Circolo Reale lo “invita” ad allontanarsi: “Scriva quello che le pare, basta che se ne va”.

Il tutto di fronte agli occhi allibiti dei collaboratori dell’aspirante sindaco. Non si può dire che la sua campagna elettorale sia fortunata: Michetti corre come un centometrista da una gaffe all’altra. Il suo rapporto con i dibattiti pubblici è curioso: quest’estate se n’è andato nel bel mezzo del primo confronto con gli altri candidati (“Non partecipo alle risse”). Una settimana fa è successo di nuovo: la sua permanenza accanto a Calenda, Gualtieri e Raggi è durata appena 13 minuti, poi Michetti ha lasciato il palco senza dire una parola (“Ha preferito raggiungere un gruppo di lavoratori che lo aspettava a Termini alle 13 per un incontro privato”). Ieri il terzo atto: all’incontro in Campidoglio con le Acli di Roma stavolta non si è nemmeno presentato. Raggi ci ha riso su: “Chiamiamo Chi l’ha visto?, ogni volta la sedia di Michetti è vuota”. A Calenda invece è attribuita un’altra battuta notevole sull’augusto candidato delle destre: “Si vede che ha lasciato la biga in seconda fila”.

Quando ci deve essere, Michetti non c’è. Ieri invece al Circolo Reale Canottieri Tevere Remo c’era eccome, solo che non ce lo volevano (o al massimo ce lo volevano in incognito). Fatto sta che Michetti ha parlato e soprattutto ha ascoltato le richieste dei costruttori edili nell’elegante club tiberino. I costruttori hanno fatto l’elenco delle loro aree di interesse (l’ex Fiera di Roma, l’ex Centro carni sulla Togliatti, il Velodromo dell’Eur): “Noi qualche idea su come riqualificarle ce l’avremmo”.

Michetti ha preso nota annuendo, poi si è lanciato in un intervento lungo, generico e fumoso, ma non privo di qualche perla. Come la complicata parentesi sulla “abluzione idrica” nella quale ha magnificato la qualità dell’acqua capitolina: “Ha una qualità altissima. Se metti una trota negli acquedotti di Roma, la trota vive sempre. E questo è un segnale, perché la trota è il pesce più sensibile di tutti”. Notevole anche l’argomento con cui il candidato sindaco ha tracciato i confini amministrativi che andrebbero attribuiti alla Capitale: “Per me tutto quello che è a un’ora da Roma è parte della città. Anche Caserta è Roma! La Reggia di Caserta sta a Roma come la reggia di Versailles sta a Parigi”.

Alla fine anche stavolta, suo malgrado, Michetti ha dovuto lasciare la sedia vuota: il tempo era scaduto e lo aspettavano in collegamento televisivo su Teleroma 56.

La Lega vota la fiducia, ma Salvini non si vede

Il cortocircuito si manifesta a metà mattinata. Alla Camera, in Commissione Cultura, la Lega vota con Fratelli d’Italia e contro la maggioranza sul parere che riguarda il decreto green pass per scuole e trasporti smentendo quello dei suoi ministri perché, scrivono i deputati del Carroccio, “siamo contrari a uno strumento che ghettizzi e discrimini gli studenti”. Pochi metri più in là, però, al Senato, il capogruppo Massimiliano Romeo annuncia che la Lega voterà la fiducia sul decreto di fine luglio con cui è stato introdotto il certificato verde per bar, ristoranti, piscine e palestre in vigore dal 6 agosto. E poi c’è anche la via di mezzo, quella sul decreto che arriverà oggi in Consiglio dei ministri sull’estensione del green pass per tutti i lavoratori del pubblico e del privato: sì ma anche no. Sebbene Matteo Salvini, su pressione di Giancarlo Giorgetti e dei governatori del Nord, nelle ultime ore abbia ammorbidito di molto i toni contro il pass degli ultimi giorni, ancora ieri pomeriggio frenava sull’ipotesi di estendere il certificato ai lavoratori del settore privato.
Prima si è mostrato attendista chiedendo di “vedere il provvedimento” ma poi ha spiegato: “La posizione della Lega è chiara, siamo per la difesa della salute dei cittadini, anche sui luoghi di lavoro. Ma non si può pensare di estendere l’obbligo del Green pass a 60 milioni di italiani”. Un modo per coprirsi a destra con Giorgia Meloni che per tutto il giorno sventola il drappo rosso del green pass e anche per alzare la posta con il governo. A partire dalla richiesta, condivisa con i sindacati, di non far pagare i tamponi ai lavoratori. Pressione che arriva anche dalla leader di Fratelli d’Italia. Sul punto però ministero della Sanità e da Palazzo Chigi fanno muro: se ne parlerà in cabina di regia che non sarà, come chiesto da Salvini, tra i leader ma tra i ministri.
Resta il dubbio su cosa farà la Lega oggi in Consiglio dei ministri. Da Palazzo Chigi c’è fiducia sul fatto che alla fine Salvini non farà strappi, ma il partito è spaccato tra l’ala dei ministri e governatori favorevoli all’estensione del pass perché così chiedono le industrie del Nord (“Sì purché non crei caos” ha detto all’Huffington Post Massimiliano Fedriga), e quella dura e pura guidata da Borghi e Bagnai. I governisti fanno notare che negli ultimi giorni Salvini è passato dal “no al green pass” al sì per i dipendenti pubblici al “vedremo” di ieri e per questo sono convinti che alla fine il leader della Lega si piegherà di fronte alla volontà di Draghi. I più vicini al segretario invece sono più cauti e Salvini continua a ripetere ai suoi che l’estensione totale del pass farebbe dell’Italia “l’unico caso in Europa”. E per di più, è il ragionamento di Salvini, sarebbe una sorta di quell’obbligo vaccinale. Decisive saranno le interlocuzioni che Salvini avrà stamane con Giorgetti ma anche con Draghi: i due dovrebbero sentirsi per trovare un accordo.
Intanto ieri al Senato la Lega ha votato la fiducia al decreto green pass-1. Troppi gli oltre 100 emendamenti presentati da FdI e dagli ex 5S e troppo rischiosi perché alcuni di essi piacevano trovavano il sostegno del Carroccio. Così è arrivata la fiducia salvando anche la Lega che in aula, sugli emendamenti, rischiava di spaccarsi tra governisti e no green pass come già accaduto alla Camera. “Votiamo sì, ma bisogna abbassare i toni e convincere invece che obbligare” ha detto Romeo. La fiducia è passata con 189 sì, 32 no e 2 astenuti. Assenti nella Lega i no-pass Simone Pillon, Armando Siri ma soprattutto Matteo Salvini. Anche Matteo Renzi non c’era: era a Milano a presentare il suo libro.

Il rilancio sui tamponi: i sindacati chiedono la gratuità “transitoria”

Vaccinarsi è una cosa giusta, ma l’obbligo al momento sembra valere solo per i lavoratori. Così come anche il costo dei tamponi. Mario Draghi ha infatti comunicato ai sindacati di voler seguire senza esitazioni la strada tracciata da Giancarlo Giorgetti, che sembra in questo momento il leader della Lega, per un green pass obbligatorio per i lavoratori dipendenti che, come annuncia il segretario della Cgil, Maurizio Landini, potrebbe essere adottato dal mese di ottobre. Per entrare in fabbrica, in ufficio, in azienda, occorrerà dunque esibire il certificato verde ed essere vaccinati oppure aver fatto un tampone nelle ultime 48 ore. Un provvedimento che riguarderebbe, secondo quanto spiegato dal governo, circa 300mila lavoratori pubblici (su 3,2 milioni) e ben 4 milioni nel privato (su 14,7 complessivi).

Di fronte alla determinazione di Draghi, i sindacati cercano di limitare i possibili danni chiedendo di considerare un periodo transitorio in cui assicurare tamponi gratuiti. Si potrebbe fare anche ricorrendo alla sanità integrativa, spiegano alcune fonti sindacali. Il governo non ha detto del tutto no, ma si vedrà oggi nel testo del decreto. Più garantita l’ipotesi che le sanzioni non produrranno licenziamenti o demansionamenti, mentre il governo ha assicurato che cercherà una soluzione per il problema delle quarantene in caso di contagio che, dallo scorso mese, inon sono più equiparate alla malattia e non sono quindi più coperte dall’Inps.

Da quello che filtra da palazzo Chigi, in realtà, l’intenzione è comunque quella di non far pesare sulle casse pubbliche il costo dei tamponi, un modo forse che avallerebbe l’ipotesi di sanità integrativa..

La materia è complessa, difficile tracciare una linea netta. Anche nel caso di una fede vaccinista, il modo in cui evitare discriminazioni assilla i leader sindacali. Non a caso Landini, uscendo dall’incontro, ricorda che la strada migliore “è arrivare a un provvedimento legislativo di obbligo vaccinale, così come prevede la Costituzione e come impone la situazione sanitaria che stiamo vivendo”. Ma Draghi ai sindacati ha detto che “la discussione nell’esecutivo per ora non prevede questa scelta, se non per alcune attività che l’hanno già resa obbligatoria, come la sanità”.

La vaccinazione, ovviamente, eviterebbe qualsiasi problema, ma come dimostrano le cronache degli ultimi tempi, la vaccinazione integrale è statisticamente impossibile e tra i non vaccinati non ci sono solo no-vax estremisti, ma anche molti “esitanti”, persone che al momento fanno prevalere la paura, o stili di vita diversi. La misura, poi, al momento sembra riguardare solo i lavoratori dipendenti o tutti quelli che “entreranno nel luogo di lavoro”, ma esistono commercianti, liberi professionisti, disoccupati che sarebbero esclusi da quest’obbligo producendo un’ulteriore discriminazione.

Finora la misura è stata applicata solo al personale sanitario e a quello scolastico. In quest’ultimo caso è stata prevista come sanzione la sospensione dal lavoro dopo cinque giorni con relativa sospensione dello stipendio. L’ipotesi di estensione a tutto il lavoro dipendente farebbe dell’Italia la prima in Europa ad assumere una tale decisione con tutti i problemi che questo comporta come spieghiamo nell’articolo alla pagina successiva.

Tra i problemi anche quello della Itt di Barge, multinazionale che nello stabilimento in provincia di Cuneo produce pastiglie e impianti frenanti per il settore dell’automobile: ieri è stato proclamato lo sciopero, due ore per ogni turno di lavoro a oltranza, fino a quando non verrà ristabilito il “diritto alla mensa”, dicono Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltec Uil e Ugl, le quattro sigle sindacali presenti nell’azienda, che sembra intenzionata a non recedere dalla sua decisione.

Green pass contro i lavoratori: l’Italia di Draghi come l’Arabia

Aveva deciso di estendere il Green pass a tutti i lavoratori – pubblici e privati – e così farà. Mario Draghi va avanti per la sua strada, senza cedere neanche alle richieste dei sindacati. Con un metodo che ormai è abbastanza rodato: l’obbligatorietà del Green pass è stata introdotta per la prima volta il 6 agosto (scuole, trasporti – a far data dal 1º settembre – ristoranti e bar al chiuso, eventi, piscine palestre). Poi il premier ha fatto una fuga in avanti, aprendo all’obbligo vaccinale. Un modo per arrivare più facilmente al Green pass. E se la prima tappa è stata una minima estensione dell’obbligo di certificato verde, sul successivo

punto di caduta Palazzo Chigi non ha mai avuto davvero dubbi. Così da oggi – se tutto va come previsto – l’Italia sarà il primo Paese in Europa a introdurre il Green pass obbligatorio per i lavoratori. Ci si avvicina solo la Grecia, dove esiste l’obbligo di due tamponi la settimana. Mentre nel mondo siamo di fatto equiparati solo all’Arabia Saudita, che dal 1º agosto ha imposto la vaccinazione a tutti i lavoratori del settore pubblico e privato che desiderano frequentare il posto di lavoro in presenza.

Draghi, dunque, va avanti. Anche se poi tradurre in norme il principio è tutt’altro che facile.

Stamattina ci sarà la cabina di regia e oggi alle 16 il Cdm, ma per tutta la notte a Palazzo Chigi hanno lavorato a scrivere il decreto. Evitare ricorsi, eccezioni di costituzionalità, richieste di danni, stabilire sanzioni e controlli su una materia del tutto nuova è lo scoglio principale. Senza contare che, oltre alle richieste di garanzie dei sindacati, stavolta bisognava superare le resistenze della Lega. Anzi di mezza Lega, quella che fa capo a Matteo Salvini. E se al leader del Carroccio il premier ha ceduto (o ha finto di cedere) sul no all’obbligo vaccinale, in realtà ha puntato su Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, della Lega governista per portare l’ estensione del certificato a tutti i lavoratori.

Da notare che per giorni si è parlato di un incontro imminente tra il premier e Salvini. Ma alla fine non c’è mai stato: garantiva Giorgetti. Da vedere se davvero sarà così, se oggi in Cdm i ministri del Carroccio si allineeranno a Giorgetti. E ieri, nell’incontro decisivo con i rappresentanti dei lavoratori, il premier ha voluto i ministri coinvolti, sia in vista della scrittura del decreto, sia per blindare politicamente il provvedimento. Oltre a Giorgetti, c’erano Roberto Speranza (Salute), Andrea Orlando (Lavoro) e Renato Brunetta (Pa). Nessuno di loro era contrario alla linea del premier. Il quale, comunque, ha cercato di indorare la pillola: “Il Green pass funziona, è monitorato, è una soluzione accomodante”, ha detto ai sindacati, spiegando perché si è preferito imporre il pass e – per ora – non l’obbligo di vaccinazione. È un “percorso che unifica”, ha sottolineato.

E dunque, i sindacati si sono trovati davanti un muro, rispetto alle richieste dei tamponi gratuiti per chi non è vaccinato. Draghi e la maggior parte dei ministri sono convinti che azzerare il costo potrebbe annullare l’incentivo alla vaccinazione costituito dal Green pass. Quindi sì ad accordi per il prezzo calmierato come per la scuola, no alla gratuità, anche se non è detto che l’ala rigorista del governo non conceda al pressing di Salvini – che ha più volte invocato i tamponi gratuiti – e dei sindacati almeno un breve periodo transitorio.

Basterà ad avere il sì di tutta la pattuglia leghista? Ieri la riunione politicamente è andata liscia. Ma Giorgetti non è Salvini.

L’importante è mentire

La battaglia contro le fake news è diventata una comica, per due motivi. 1) Tv e giornali sono convinti che le balle siano un’esclusiva dei social network e non si accorgono di esserne i maggiori produttori mondiali. 2) Le patologie e le deviazioni si possono combattere finché restano eccezionali; se diventano normalità, anzi regola, la battaglia è persa. Basta aprire un giornale o un talk a caso: la bugia è la norma e la verità l’eccezione. Lunedì a Ottoemezzo Mieli sosteneva restando serio che, sì, i media sono benevoli con Draghi come con Conte: mi è scappato, e me ne scuso, di ridergli in faccia. Sallusti invece diceva che sì, le ammucchiate non gli piacciono, ma quella di Draghi s’impone perché “con Conte l’Italia aveva 1500 morti al giorno”. Ora, in 18 mesi di pandemia, l’Italia non ha mai superato né i 1500 né i 1000 morti al giorno; in compenso l’estate scorsa i morti erano meno di 10 al giorno con zero vaccinati, mentre quest’estate sono 7-8 volte di più con due terzi di vaccinati (ieri 73 morti, contro i 9 di un anno fa); se dunque il numero dei morti dipendesse dal premier, Sallusti dovrebbe incolpare Draghi. Invece la panzana sallustiana sui banchi a rotelle ormai è modernariato (i banchi a seduta innovativa esistono in tutt’Europa e non furono una trovata di Azzolina&Arcuri, ma il frutto di 400mila ordinativi dei dirigenti scolastici su 2,4 milioni).

Folli, su Rep, scrive che le bollette aumentano perché la transizione ecologica “comporterà passaggi dolorosi e soprattutto avrà un costo”, dunque è tutta colpa del M5S. Peccato che il grosso degli aumenti dipenda dal boom di gas, petrolio e materie prime, ma lui è solo un editorialista di Rep e mica è tenuto a saperlo. Rep e Corriere sostengono che i verbali segreti di Amara furono recapitati al Fatto dall’ex segretaria di Davigo “per farlo restare al Csm”: peccato che il Csm abbia pensionato Davigo il 19.10. 2020 e l’ex segretaria ce li abbia portati 10 giorni dopo. Il Giornale Unico Draghiano ripete da giorni che arriverà l’obbligo vaccinale per tutti (mai visto), poi vira sul “Super Green Pass” (Stampa), o “Green Pass per tutti al lavoro” (Corriere) o “Green Pass per lavorare” (Rep) o “Green Pass totale” (Giornale) anche prima che si veda l’ombra di una norma. L’importante è mentire. Poi qualcuno scrive che il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha detto che “la Provvidenza ha collocato Draghi nel posto in cui si trova”, senza neppure pagare i diritti al cardinal Pietro Gasparri che disse la stessa cosa del Duce dopo i Patti Lateranensi. Altri scrivono che Buzzi e Carminati han firmato i referendum radicali per la “giustizia giusta”. Due notizie talmente enormi che sembrano false: infatti sono vere.

“Qui rido io”, ma anche no: il cinema stenta a riempirsi

Qui rido io o Non ci resta che piangere: il box office è mezzo pieno o mezzo vuoto? All’indomani della 78esima Mostra d’Arte Cinematografica, si torna prosaicamente a batter cassa: domanda, la Venezia ministerialmente votata alla “ripartenza in sala” ha avuto un effetto sul botteghino? Nì.

Apprezzato dalla critica ma ignorato dal palmarès lagunare, Qui rido io di Mario Martone, con Toni Servillo anima e corpo di Eduardo Scarpetta, al primo weekend sul grande schermo ha conquistato il secondo posto della classifica Cinetel degli incassi con 313.914 euro, 46.664 presenze e una media per schermo di 1.079 euro.

In tempi pre-Covid il risultato avrebbe stappato una bottiglietta di acqua naturale, oggi merita le bollicine, nazionali: se non il pubblico tout court, ha trovato degli spettatori, e una speranza. Sono serviti un autore apprezzato, Martone; il nostro miglior attore, Servillo; un personaggio (mis)conosciuto, Scarpetta; l’indicazione geografica tipica, la napoletanità.

Lunedì Qui rido io ha messo in cascina altri 33.839 euro per complessivi 349.244, mantenendo la seconda posizione al box office dopo il marveliano Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli (2.788.578 euro totali). In soldoni, alla ventesima settimana dalla riapertura sale dello scorso 26 aprile, non se la passa (troppo) male, facendo peraltro registrare il secondo miglior debutto italiano nel fine settimana dopo Me Contro Te Il Film – Il mistero della scuola incantata.

L’avventura cinematografica di Sofì e Luì è, pur nel ridimensionamento pandemico, l’unico successo della stagione, avviata lo scorso 1° agosto, e dell’anno solare: con 4.781.639 euro si mette alle spalle intesi blockbuster hollywoodiani quali Black Widow (4.772.588 euro) e Fast & Furious 9 (4.611.194 euro).

Se non ci siamo ridestati dal Covid più autarchici, giacché per (gli) altri italiani è un bagno di sangue, di certo siamo diventati più “dedicati”: il film dei Me Contro Te ha saputo richiamare il pubblico di bambini e preadolescenti – accompagnati da uno o più adulti – cui si rivolge, trovando una risposta in sala da effettivo “evento”. La cosiddetta eventizzazione cinematografica, già lungamente e largamente esecrata, pare oggi la sola possibilità di salvezza del comparto: “il Titolo”, capace di forza centripeta, interesse diffuso, bacino vasto.

Anch’esso plaudito a Venezia, domani esce Dune, l’ottima fantascienza herbertiana di Denis Villeneuve, con Timothée Chalamet e Zendaya nel cast per assicurarsi i teenager: l’esito dirà molto dei mesi che ci aspettano. Detto che il film nostrano più atteso, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Leone d’Argento e Premio Mastroianni a Venezia, arriverà solo il 24 novembre e solo in cinema selezionati, prima di approdare su Netflix il 15 dicembre, le sorti tricolori che vorremmo magnifiche e progressive si giocano in appena un mese, tra il 23 settembre di Tre piani e il 28 ottobre di Freaks Out. Entrambi invero poco elogiati dalla stampa, il primo adattamento (da Eshkol Nevo) di Nanni Moretti e il dispendioso spaghetti fantasy di Gabriele Mainetti prenderanno il polso alla domanda autoctona: l’outlook, a voler essere generosi, è stabile, il passaparola sarà sovrano.

La rieducazione alla sala non sarà spedita, il ritorno al futuro – il lusinghiero status quo pre-pandemico – difficoltoso se non impossibile, e il prospetto nel breve frastagliato: picchi di presenze per i film-evento quale soluzione di una continuità deludente. Tra le vittime collaterali della disaffezione theatrical anche la Mostra, da cui provengono Il collezionista di carte, ovvero l’interessante The Card Counter di Paul Schrader con Oscar Isaac, che al secondo weekend ha realizzato 313mila euro, Mondocane di Alessandro Celli (91.885 euro), Welcome Venice di Andrea Segre (62mila euro in cinque giorni).

Ma a preoccupare di più addetti ai lavori ed esercenti è il mancato sfondamento del sequel di Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani, con la valente coppia Paolo Cortellesi e Antonio Albanese: Ritorno a Coccia di Morto, uscito il 26 agosto dopo anteprime il 14 e 15, ha realizzato a oggi 2.345.832 euro. L’originale nel 2018 aveva rastrellato quasi dieci milioni di euro. Torna buona un’opera del figlio illegittimo di Scarpetta, Eduardo De Filippo: incassi e spettatori, Questi fantasmi.