“X-Factor” si rinnova con una competizione “gender free”: niente categorie, in finale in 12

Il punto di ancoraggio è nei giudici. “Quattro stronzi, ma siamo qui per questo”, ammette Manuel Agnelli, anche a nome di Mika, Hell Raton ed Emma. Non si sono parlati per giorni, battibeccando sui sì e i no. Ma saranno loro, anche in questa edizione di X-Factor che parte domani su Sky (e che dopo lo smacco sulla Serie A sarà uno dei residuali pilastri del bouquet satellitare) a garantire la continuità di un format in cui tutto, attorno, cambia.

Dopo l’addio di Cattelan, andato a giocarsi i secondi 40 anni di carriera tra Rai e Netflix, Ludovico Tersigni punta sul lato “aspirazionale” della sua conduzione: si sente un work in progress umano, complice dei giovani aspiranti talenti. “Un ottimo conduttore è il rame, che porta energia da una parte all’altra come spero di fare io”. Il suo role model è Fiorello, allo zio Diego “Zoro” Bianchi non ha chiesto consigli per la carriera, “bensì sulla vita”. Può farcela: ha la faccia da schiaffi e un sarcasmo-soft capitolino da teen idol della Generazione Daje. Quella che, spiega la curatrice Eliana Guerra, “non deve sentirsi fallita se non ha prodotto una hit a 20 anni, magari a 30 diventi Brunori”.

Farsi il mazzo è la parola d’ordine. Mika rivela che quest’anno si sono presentati artisti più “crudi”, perché in pandemia devi giocartela sulla verità e, dice Hell Raton, “sulla voglia di esprimersi”, forse con minore brillantezza tecnica ma con la capacità di soffrire. Come nota Emma, “tutto è in trasformazione, malgrado oggi faccia ancora più notizia quel che è attorno alla musica che non le canzoni”. Il successo effimero verrà spazzato via, se non sei disposto a morire sul pezzo. I Maneskin sono orgoglio e incubo di X-Factor, una pietra di paragone inarrivabile: “Ma anche loro sono un prodotto di contaminazione. Hanno saputo sopportare le pressioni e poi conquistato il mondo con il rock, che a noi suona come un ritorno, ma che per i ragazzi è qualcosa di nuovo”, insiste Agnelli.

Altra novità è l’abolizione delle categorie, così in finale andranno le 12 migliori proposte in assoluto. Le audizioni? Per il secondo anno senza pubblico ma stavolta per “scelta tecnica”. Tutto più libero, intimo e fluido, una foto di quanto sta accadendo ma ancora non si è compiuto, sentenziano i giudici. Sarebbe magnifico se, da padri nobili, i quattro catechizzassero i concorrenti sulla situazione in Italia: dove veri palchi per suonare non se vedono ancora, all’orizzonte. E qualche pressione in più sulle istituzioni da parte delle star di X-Factor, meglio se in onda, non guasterebbe per salvare grandi e piccini del settore.

Scrivere è come avere amanti

Anticipiamo stralci della lectio che Evgenij Vodolazkin, considerato “l’Umberto Eco dell’Est”, terrà venerdì
a PordenoneLegge.

La scrittura è una forma di sfogo creativo. È esattamente una questione di forma: il suo contenuto è quella strana forza che spinge una persona a impegnarsi nella ricerca scientifica, a danzare al Teatro Bol’šoj, ad affrescare una chiesa o scrivere romanzi. È una forza che può realizzarsi in modi diversi, in base alle circostanze e alla disposizione interiore. Può presentarsi presto oppure tardi, e poi d’improvviso scomparire. È pericoloso pensare che venga data per sempre…

La riflessione sulla natura dell’opera artistica ci porta alla questione del suo scopo. A mio parere, lo scopo della letteratura è esprimere l’inespresso. La letteratura non deve portare da nessuna parte. Non deve predicare (il sermone, per quanto di tutto rispetto, è un genere a sé). La letteratura è chiamata a svelare l’eidos, quella particolare forma ideale delle cose con cui lo scrittore instaura un rapporto diretto. Lo scrittore inserisce nel testo le sue costruzioni verbali e mentali, e così facendo offre nutrimento alla mente del lettore. Gli porge quelle “bocce” senza le quali è impossibile giocare a bowling. Facciamo un esempio: il lettore sa cos’è la paura della morte, soprattutto quando oltre la morte vede solo il nulla. Nabokov definisce questa paura come “il ronzio sordo della vuota eternità”. Nessuno aveva mai descritto una tale sensazione in modo così conciso e penetrante.

La letteratura non deve per forza fornire risposte: a volte è molto più importante porre la domanda in modo corretto. Di risposte poi ce ne saranno quanti sono i lettori. La verità non è unidimensionale. La domanda, in generale, sorge quando c’è già una risposta, sebbene ancora in germe. Il tipico dilemma dell’uovo e della gallina qui non funziona: le risposte sorgono prima delle domande. Domandare è dichiarare di non sapere qualcosa. Ma questo qualcosa, quindi, è già pensiero. C’è un pensiero preverbale, che diventa pensiero compiuto quando indossa la parola. Per parafrasare il socratico “so di non sapere”, potremmo dire: “Non so di sapere qualcosa”. Questo qualcosa è proprio la letteratura che riesce a coglierlo attraverso le sue domande. D’altronde che risposta può esserci senza una domanda? Si dice che Gertrude Stein, morendo, abbia domandato: “Qual è la risposta?”. Tutti rimasero in silenzio. Lei allora sorrise e disse: “In quel caso, qual è la domanda?”.

Prima di iniziare a scrivere, per molti anni mi sono occupato di medievalistica. L’arrivo tardivo alla letteratura non è cosa rara. Umberto Eco, che ha iniziato a scrivere a circa 50 anni, ha detto in un’intervista che nella vita di ogni uomo arriva un momento in cui si ha bisogno di un cambiamento. Alcuni lo fanno scappando con l’amante alle Bahamas, mentre lui, Eco, decise di scrivere. Mi sembra che per uno studioso del Medioevo sia una decisione molto naturale. E ponderata. Gli studi medievali richiedono decisioni ponderate. La medievalistica non fornisce materiale per affermazioni radicali, perché il materiale con cui ha a che fare non può essere adattato alla contemporaneità. Opera con categorie che mettono la contemporaneità in un vicolo cieco. Non esistono confini nazionali e statali, non esiste il punto di vista politico, ma la sola e semplice divisione tra verità e menzogna. E la verità si trova di rado agli estremi: di solito risiede nel mezzo. Proprio per questo tra tutti i secoli ho scelto il Medioevo.

Gli studi medievali hanno dato probabilmente le risposte più comprensibili alle mie domande. A poco a poco sono entrato in risonanza con questo tempo, fortemente legato all’eternità. Credo che la conquista più importante di questi anni sia di avere imparato a non avere fretta. Per questo tutti i miei testi sono, in un certo senso, romanzi di conoscenza. Tutti descrivono una situazione di ascesa, magari a zigzag, ma pur sempre un movimento verso l’alto. Diverso è per l’ultimo romanzo, Brisbane: il protagonista ha già raggiunto il vertice delle sue aspettative e lo aspetta una discesa lungo il crinale della vita.

 

Auguri a Dell’Utri sul Corriere. Il Cdr: “Siamo a disagio”

È arrivata la reazione del Comitato di redazione del Corriere della Sera alla pubblicazione della pagina di auguri per gli 80 anni di Marcello Dell’Utri. La scritta “Auguri, caro Marcello” sabato scorso era al centro di una pagina riempita con le firme degli “amici”, tra cui Giancarlo Galan, ex dipendente di Publitalia, la concessionaria di pubblicità delle tv di Silvio Berlusconi che aveva al vertice Dell’Utri, e poi presidente della Regione Veneto con condanna patteggiata per corruzione.

“Caro Direttore”, scrive il Cdr in una lettera inviata ieri a Luciano Fontana, “vorremmo esprimerti il disagio nostro e di molti colleghi dopo aver visto un’intera pagina del Corriere dedicata all’inserzione a pagamento per gli auguri di compleanno a Marcello Dell’Utri. L’iniziativa ha suscitato anche la reazione di molti lettori, con commenti non lusinghieri sui social”.

Dell’Utri è stato condannato a 7 anni per concorso esterno all’associazione mafiosa Cosa Nostra ed è indagato come possibile mandante occulto delle stragi mafiose del 1992-93.

“Comprendiamo che questa pagina”, precisa il Cdr, “è ben diversa da un’altra inserzione, sempre a pagamento, pubblicata sette anni fa, che era una strisciante interferenza nell’attività degli organi inquirenti”. Quella pagina uscì sul Corriere della Sera subito dopo la condanna per mafia inflitta dai giudici di Palermo. “Ma anche per questo precedente”, continua il Cdr, “riteniamo che chi gestisce le pagine pubblicitarie dovrebbe osservare maggiore attenzione ed evitare che sorga anche il minimo dubbio sull’assoluta intransigenza del Corriere della Sera nei confronti di chi ha condanne definitive per reati di mafia ed è imputato in altri processi, sempre per reati di mafia”.

L’editore del Corriere, Urbano Cairo, proviene dalla scuderia di Dell’Utri ed era all’inizio della sua carriera uno dei suoi migliori manager nella raccolta pubblicitaria.

La Liguria incensa la “sua” fiction, ma si gira in Croazia

La serie tv ambientata nella Liguria degli anni Venti, una sorta di Downton Abbey che in alcuni punti della trama si tinge di giallo. Si chiamerà Hotel Portofino, andrà in onda su Sky (l’uscita in Italia è attesa la prossima primavera), e l’ambizione, racconta il produttore Walter Iuzzolino, è quella di raggiungere un bacino nientemeno che di “un miliardo di persone”. Una “pubblicità enorme”, insomma, promossa in questi giorni con toni entusiastici dalla Regione Liguria: “Il nostro territorio e Portofino – ha annunciato Ilaria Cavo, assessore regionale alla Cultura della giunta di Giovanni Toti – si candidano dunque per una lunga produzione che crea occupazione, fa cultura e valorizza il nostro territorio”. Un annuncio che lascia in secondo piano un piccolo particolare: il grosso delle riprese è stato girato in Croazia.

L’ambientazione della fiction è infatti una villa sul mare convertita in albergo da una coppia inglese – lei borghese in ascesa, lui nobile decaduto – personaggi che consentono di calare lo spettatore nello spirito del tempo. La dimora, però, come gli interni, gli affacci, gli scogli e le passeggiate sul mare, non appartengono al comprensorio dell’esclusivo porticciolo ligure, ma a Opatija (Abbazia), località di villeggiatura del golfo del Quarnaro che raggiunse il suo massimo splendore sotto l’Impero austroungarico. Il cast di attori protagonisti è di livello internazionale: Natascha McElhone, Anna Chancellor e Mark Umbers compaiono sul set insieme agli italiani Daniele Pecci, Lorenzo Richelmy e Rocco Fasano. Nessuno di loro, però, ha mai messo piede sul set italiano. Un mese abbondante di riprese si è svolto in Istria, fra Opatija, Rovinj (Rovigno) e Rijeka (Fiume). Dove, spiega un addetto ai lavori, “i costi sono decisamente più bassi”. Anche se non è questa la ragione che ha spinto a scegliere quel tratto di costa adriatica, assicura Iuzzolino, 53 anni, genovese trapiantato a Londra, amministratore delegato della società di produzione Eagle Eye Drama: “La storia all’inizio era ambientata in Devon o in Cornovaglia, ci è venuta l’intuizione di Portofino mi è venuta insieme a Cristina Bolla, presidente della Liguria Film Commission. Per il resto avevamo bisogno di un posto in cui ci fosse consentito di smontare una villa e farci un set e in Liguria non era molto facile… Lì abbiamo fatto tutti gli interni e comunque la Croazia ha scorci molto simili a questa parte di Mediterraneo”.

Le riprese in Liguria – tra Portofino, Genova e San Michele di Pagana – hanno coinvolto alcune comparse in costume e tecnici che ha supportato le riprese di paesaggi, “tappeti” e scene di raccordo. Una porzione limitata sull’indotto cinematografico, insomma, anche se “non è escluso che in futuro aumenti”: “La Liguria compare in molti esterni – spiegano dallo staff dell’assessore alla Cultura – e hanno comunque usato manodopera locale”. Certo, una cosa sono le fiction, non nuove a girare in posti diversi da quelli rappresentati (il set di “Trinità”, per dire, era in Abruzzo), un’altra la politica, che ha trasformato il caso in uno spot di marketing territoriale forse un tantino autocelebrativo. L’assessore Cavo ha tenuto a essere presente sul set, dove si è fatta immortalare con un gruppo di attori arruolati per qualche ora di lavoro: “Una giornata splendida – ha scritto sul suo profilo Facebook – un panorama mozzafiato, il clima degli anni 20. Sono partite oggi a Portofino le riprese della fiction Hotel Portofino. Si tratta di una produzione speciale, di una storia speciale. Un ringraziamento particolare va al produttore Walter Iuzzolino che è un genovese cresciuto a Londra e che è tornato nella nostra Liguria per valorizzarla: una storia che si ripete con un talento che, avendo la nostra regione nel cuore, vuole davvero raccontarla con le immagini e con una grande produzione, una serie tv che è solo all’inizio del percorso. E accanto ai responsabili della produzione, per una settimana ci sono una cinquantina di liguri che lavorano sul set tra tecnici e comparse.” Così invece Carlo Bagnasco, sindaco di Rapallo: “La realizzazione della fiction avrà un grande ritorno di immagine per la Liguria e per il Levante Ligure nonché un grande ruolo per la valorizzazione del territorio e per la promozione turistica della città di Rapallo”.

La politica locale ligure punta insomma sul “set-jetting”: il contrario di jet-set, fenomeno per cui sono gli spettatori ad alimentare il turismo nei luoghi che vedono in tv. Sperando che non vadano sulla costa giusta. O quella sbagliata. A seconda dei punti di vista.

Rai, Fuortes vuole una narrazione “positiva”. Promosso il creativo che ballava su YouTube

Cambiare la narrazione della Rai. Perché “questa azienda deve tornare ad avere un racconto positivo”. Non è possibile, infatti, che “sui giornali quando si parla di Rai lo si fa quasi sempre in negativo”. A parlare è Carlo Fuortes, che in questi giorni ha presentato a diversi dirigenti i suoi asset strategici per l’azienda. La comunicazione, dunque, è al primo posto, così come l’attenzione ai conti, come dimostra l’aver nominato capo staff l’ex Cfo Giuseppe Pasciucco. Ma è la narrazione il suo pallino. Così si è molto rammaricato che la stampa, a seguito delle prime scelte, abbia puntato il dito sulle nomine al maschile.

Così, per rivoluzionare l’area comunicazione Fuortes ha fatto una scelta tranchant: basta giornalisti, ci vuole un creativo. Così ecco tirar fuori dal mazzo Pierluigi Colantoni che, dopo un inizio a “comunicazione e immagine” con Costanza Esclapon (era Gubitosi), da un anno dirige i Nuovi Format. Casella cruciale: è il settore dove i cervelli si fanno venire in mente nuovi programmi invece di comprare tutto fuori, magari all’estero. In un anno, però, l’unica idea partorita è stata Sogno azzurro, una docu-serie andata in onda durante gli Europei di calcio, senza grandi risultati.

In questi giorni, però, Colantoni è stato molto impegnato a far sparire dal web una sua perfomance senza veli di qualche anno fa (era già in Rai) dove interpreta Anch’io, canzoncina zeppa di stereotipi sul rapporto uomo-donna. Che è un po’ la tematica della sua ampia produzione con chicche come Ikea o L’architetto. Ora, però, quel balletto hot genera imbarazzo. Altra sua perla è lo spot per i Mondiali 2014 in Brasile con il Cristo redentore in maglia azzurra: l’arcidiocesi di Rio l’ha considerato blasfemo e chiesto alla Rai 7 milioni di euro. Ma quando si è creativi, poco importa.

Per il resto, il nuovo a.d. ha intenzione di mandare segnali importanti già nei primi cento giorni. Per quanto riguarda il piano industriale, avrebbe intenzione di riprendere quello di Fabrizio Salini, che prevedeva lo sviluppo di direzioni di genere a discapito delle reti. “È un buon piano, riparto da lì”, ha spiegato. Nulla si sa, invece, dell’informazione, ma s’intuisce che Fuortes non avrebbe intenzione di entrare in un ginepraio che gli porterebbe solo guai. Procederà alle nomine di rito, cambiando direttori di reti e tg, ma nessuna rivoluzione e, soprattutto, niente newsroom unica. Una sorta di spettro, quest’ultimo, che si aggira tra Mazzini e Saxa dai tempi di Luigi Gubitosi.

Laburisti, vince il “povero ricco”

Il Partito laburista norvegese è tornato al potere. A conteggio non ancora definitivo, avrebbe ottenuto 48 seggi sui 169 del Parlamento di Oslo, al termine di una campagna elettorale dominata, dopo otto anni di governo di destra, dalla pressione delle disuguaglianze economiche e sociali e dall’urgenza della conversione dell’economia nazionale, oggi dominata dallo sfruttamento di petrolio e gas, a fonti di energia sostenibili. È questo il dossier principale che terrà impegnato il futuro governo. Il leader laburista, Jonas Gahr Støre, 61 anni, ha commentato il deciso cambio di rotta del suo Paese con le parole: “Abbiamo aspettato, abbiamo sperato, abbiamo lavorato duro e ora finalmente possiamo dirlo: ce l’abbiamo fatta!”. Considerato l’erede di Jens Stoltenberg, di cui è stato ministro degli Esteri, Støre non è un volto nuovo della politica norvegese: ha vinto promettendo la riduzione delle disuguaglianze e l’aumento delle tasse ai ricchi, presentandosi come vicino alla ‘gente comune’ e attirandosi per questo l’ironia di chi ha ricordato la sua ingente fortuna personale, circa 14 milioni di euro, di erede di una famiglia di imprenditori. Malgrado la vittoria, la strada per la formazione di un governo appare ancora in salita: Støre cerca una coalizione con il partito di Centro, maggioritario nelle zone rurali e forte di 26 seggi, e la Sinistra Socialista, fortemente impegnata su tematiche ambientaliste e che porta una dote di 13 seggi. Una alleanza che gli consentirebbe di raggiungerebbe gli 89 seggi, una risicata maggioranza. Ma il compromesso appare complicato dalla distanza fra queste formazioni su molti dossier, e in particolare appunto sulla gestione del futuro dell’industria petrolifera. Il Labour ha fatto campagna per un futuro green, ma le posizioni di Støre non sono molto meno caute di quelle della premier conservatrice dimissionaria Erna Solberg che per il suo approccio pragmatico era stata soprannominata “Iron woman”. In questi otto anni si era concentrata soprattutto sul contenimento dell’immigrazione e sulla riduzione delle tasse. Come lei, anche il leader laburista pensa che bisogna dare tempo al Paese per adattarsi e trasformare la propria economia con una roadmap che protegga il settore dell’estrazione di gas e petrolio, che oggi dà lavoro a 160mila addetti e rappresenta il 14% del Pil norvegese.

In questo ha il sostegno dei centristi, mentre la Sinistra socialista chiede la cessazione immediata delle esplorazioni. Questa cautela rende del resto impossibile una alleanza alternativa o supplementare con i Verdi, che vogliono fermare la produzione di gas e petrolio entro il 2035.

“Dopo gli Usa sarà la Cina il nuovo padrone del Paese”

L’emirato islamico è ormai una realtà. Ma l’unità dell’Afghanistan è lontana, secondo il politologo Zalmai Nishat.

I talebani riusciranno a stabilizzare il Paese come sperano le grandi potenze?

I talebani non saranno in grado di garantire la stabilità dell’Afghanistan perché il loro governo è composto soprattutto da ministri della loro etnia, quella pashtun. Non sono stati inclusi quasi completamente i rappresentanti delle altre etnie e sono state escluse completamente la minoranza sciita-hazara e le donne. Va poi sottolineato che i talebani non sono compatti, bensì divisi tra loro e, per questa ragione, prima o poi imploderanno.

Chi e cosa ha permesso ai talebani di riconquistare il Paese?

Indagini della Fondazione Asia e di altre istituzioni hanno mostrato che la popolarità dei talebani è solo del 13 per cento. Anche se il Pakistan continua a negarlo, sono stati, ancora una volta, i suoi servizi segreti militari a finanziarli e supportarli nella riconquista dell’Afghanistan.

Perché l’esercito afghano e quindi lo Stato sono crollati di fronte al ritorno dei talebani?

Il sistema politico e amministrativo dell’Afghanistan, basato sulla costituzione del 2004, è altamente centralizzato in un Paese così multietnico, ancora molto lontano dall’essere una vera nazione. La massiccia concentrazione di potere nelle mani della presidenza ha ingigantito la corruzione declinata non solo attraverso l’uso improprio di fondi e contratti statali ma anche attraverso il favoritismo etnico. Il nepotismo di matrice etnica, come insegna Machiavelli, è la più pericolosa fonte di corruzione.

L’ex presidente Ghani è fuggito, ma l’ex primo ministro Abdullah, di cui lei era consigliere, è rimasto a Kabul. Come mai?

Ashraf Ghani e i membri della sua cricca erano decisamente corrotti. Sono fuggiti perché avevano paura di venire uccisi. Il dottor Abdullah non è fuggito poiché aveva assunto il ruolo di presidente dell’Alto Consiglio per la riconciliazione nazionale (Hcnr), un’istituzione indipendente che ha cercato di far dialogare i violenti gruppi estremisti talebani e il governo ugualmente odiato e corrotto. È stato ingenuo a pensare che i talebani fossero cambiati.

Perché questa volta il Fronte di Resistenza Nazionale è stato sconfitto?

Non si può parlare di sconfitta. A causa delle attrezzature militari americane cadute in mano ai talebani e ai 27 elicotteri e droni armati inviati dal Pakistan per essere usati contro gli uomini di Ahmad Massoud, l’ala militare della NRF ha deciso di mantenere la posizione nella zona più alta delle montagne dell’Hindu Kush e iniziare una guerriglia.

L’Isis-K è in realtà una minaccia creata dal Pakistan per convincere il resto del mondo che senza i talebani al potere, i tagliagole avrebbero preso il sopravvento ?

Sì. A mio avviso l’Isis-K è stato sopravvalutato per mostrare che i talebani sono gli unici in grado di combatterla. Amrullah Saleh, l’ex vicepresidente, ha sempre affermato che è parte di una manovra pachistana per far tornare al potere i talebani. Non credo che l’Isis-K sarà una grande minaccia per l’Afghanistan e il resto del mondo. Bisogna invece sapere che i talebani non hanno mai interrotto i loro legami con al Qaeda e gruppi terroristici della regione.

Cosa vuole la Cina dai talebani?

Dall’annuncio del loro programma One Belt and One Road (Obor), cioè la via della Seta, i cinesi hanno iniziato a implementarlo in Pakistan nell’ambito del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), che alla fine potrebbe costare 100 miliardi di dollari. Inoltre, di recente, la Cina ha firmato un accordo di partenariato strategico con l’Iran che porterà miliardi di investimenti in Iran. L’Afghanistan è un collegamento cruciale tra l’Asia meridionale, occidentale e centrale, ed è fondamentale anche per il Pakistan. Dal momento che il Pakistan ha una partnership strategica con la Cina allo scopo di posizionare quest’ultima contro l’India, la Cina ha fatto affidamento sul Pakistan per avere a propria disposizione l’Afghanistan con il suo territorio e con le sue materie prime.

Zaki, udienza rinviata al 28.09 “Ho esercitato libertà di parola”

“Non ho commesso alcun reato, ho solo esercitato la libertà di parola. Voglio essere rilasciato perché sono stato rinchiuso troppo a lungo”. Così Patrick Zaki, 30 anni, ieri mattina si è rivolto al giudice che gli ha chiesto delle accuse per le quali è imputato, durante la prima udienza del processo che si è tenuto ad Al Mansoura. Chi temeva una condanna lampo ha tirato un sospiro di sollievo: l’udienza, durata appena cinque minuti, è stata aggiornata al 28 settembre. Il rischio è che Zaki fosse condannato a 5 anni di carcere per un post pubblicato sui social dove discuteva della discriminazione dei copti. L’accusa è di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”. Secondo l’articolo 80 “qualsiasi egiziano che ha pubblicato notizie, comunicazioni o indiscrezioni sulla situazione interna in modo tale da danneggiare lo Stato e gli interessi nazionali sarà condannato al carcere tra i 6 mesi e 5 anni e a una multa tra 100 a 500 sterline egiziane”. Studente all’Università di Bologna, il caso di Zaki ha coinvolto l’Italia da quando, nel febbraio 2020, è stato arrestato all’aeroporto del Cairo dove era rientrato per una visita in famiglia. All’udienza erano presenti rappresentanti diplomatici e Lubna Darwish, a capo del dipartimento per i diritti delle donne e la difesa di genere dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr). Si tratta dell’organizzazione non governativa con cui collaborava lo studente. Zaki ha anche dichiarato di non avere idea del perché sia ancora in custodia cautelare e ha chiesto di essere rilasciato in attesa del verdetto. La sua legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto il rilascio o almeno l’accesso al dossier che lo riguarda. Le richieste sono state respinte. “La decisione del giudice del tribunale di Mansura di aggiornare al 28 settembre quella che risulta essere stata un’udienza lampo è comunque una notizia che evita lo scenario peggiore, quella di una sentenza emessa dopo la prima udienza”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

“Rinascimento” e torture. Pelosi attacca la casa reale

Crescono le frizioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita: la pista saudita negli attacchi dell’11 Settembre 2001, l’affare Khashoggi, la guerra nello Yemen, il mancato rispetto dei diritti umani.

L’America di Biden non è condiscendente verso il regime di Ryad come quella di Trump, che ai valori anteponeva gli affari.

L’ultimo caso è quello di Abdulrahman al-Sadhan, 37 anni, collaboratore della Mezzaluna Rossa, arrestato nell’ufficio di Ryad dell’organizzazione nel marzo del 2018, colpevole di post al massimo satirici e condannato ad aprile a 20 anni di detenzione e a successivi 20 anni di divieto di espatrio. Nancy Pelosi, speaker della Camera, è “profondamente preoccupata” per le torture cui sarebbe stato sottoposto in carcere al-Sadhan, doppia nazionalità, Usa e saudita; e invita il Congresso a seguire l’esito del processo d’appello, apertosi lunedì, e “tutti gli abusi dei diritti umani del regime saudita”, la cui credibilità e rispettabilità sono state fortemente intaccate agli occhi dell’Amministrazione Usa dopo che rapporti d’intelligence ne hanno accertato le responsabilità nel sequestro e nell’uccisione del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, senza però arrivare a colpire con sanzioni come mandante l’uomo forte del regime saudita, il principe ereditario Mohammad bin Salman, per tutti MbS.

“La condanna di al-Sadhan rinnova gli attacchi dei sauditi alla libertà d’espressione”, dice la Pelosi. In aprile, il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, aveva commentato la condanna twittando che “l’esercizio dei diritti umani non dovrebbe mai costituire un reato perseguibile”. Analisti statunitensi notano che MbS sta cercando da anni di reprimere il dissenso, mentre introduce riforme sociali ed economiche che mirano ad ammodernare il Paese, dove, però, le donne continuano a subire discriminazioni e mortificazioni. La sorella di al-Sadhan, Areej, fa sapere che la salute del detenuto va peggiorando: “Siamo molto preoccupati per la salute e la sicurezza di mio fratello che langue sotto tortura nelle carceri saudite, mentre ci viene totalmente negato ogni contatto con lui”. Numerose organizzazioni attive sul fronte dei diritti umani, fra cui Amnesty international, si sono mobilitate a favore di al-Sadhan,

La Ong Mena Rights Group, basata a Ginevra, indica che al-Sadhan è stato giudicato e condannato per avere gestito due account satirici su Twitter: era accusato di finanziare il terrorismo, di sostenere e/o di simpatizzare con l’Isis e di preparare e inviare messaggi che “causerebbero pregiudizio all’ordine pubblico e ai valori religiosi”. Inoltre, la Ong dice che la famiglia di al-Sadhan aveva saputo che l’uomo in carcere aveva subito brutali torture, fra cui “scosse elettriche, percosse con fratture delle ossa, essere appeso per i piedi e costretto ad assumere posizioni innaturali, minacce di morte e di decapitazione, insulti ed umiliazioni”. Il mese scorso, le autorità saudite hanno arrestato diversi membri della famiglia reale, attivisti, intellettuali e studiosi dell’Islam. Le strette relazioni del presidente Trump con il regime saudita hanno rafforzato e galvanizzato MbS. L’Amministrazione Biden cerca ora di ‘ricalibrare’ i rapporti con Riad, che resta tuttavia un alleato di Washington nello scacchiere mediorientale, in particolare in funzione anti-iraniana. Biden non ha finora mai parlato con MbS e ha avuto solo un colloquio con re Salman. Fra i segnali di raffreddamento delle relazioni tra i due Paesi, l’annuncio che gli Stati Uniti non appoggiano più “le operazioni offensive saudite” nello Yemen, la sospensione di vendite di armi e le sanzioni prese nei confronti di personalità saudite per il ‘caso Khashoggi’. Ma i paladini dei diritti umani, come pure la sinistra democratica, ritengono che l’Amministrazione non abbia ancora fatto abbastanza e che mantenga eccessivi legami economici e di sicurezza con il regime saudita.

Chiese, “ben di Dio” o di mercato?

A Firenze la pandemia ha svelato le implicazioni della metamorfosi delle chiese. Nel dicembre 2020 la basilica di Santa Maria Novella è chiusa: perché ormai completamente assimilata a un museo, e dunque sigillata ai visitatori dal Dpcm varato il 3 novembre dall’allora premier Giuseppe Conte. Il culto ha così luogo nella piccola Cappella della Pura, separata dal corpo della chiesa e con ingresso autonomo.

Secondo il Codice di Diritto canonico (canone 1214), “con il nome di chiesa si intende un edificio sacro destinato al culto divino, ove i fedeli abbiano il diritto di entrare per esercitare soprattutto pubblicamente tale culto”. Dunque, mentre scrivo, Santa Maria Novella non è, paradossalmente, una chiesa: perché ora non è destinata al culto divino, e perché già da un pezzo i fedeli non hanno il diritto di entrarvi per esercitare il culto privato. E bisogna sottolineare che “è costante prassi della Segnatura Apostolica considerare la chiusura di fatto al culto divino (in mancanza di una decisione formale) come equivalente a una sua riduzione a uso profano”.

Ma se Santa Maria Novella non è più una chiesa, cosa è? Un museo, risponderebbero in molti. È, questa, una risposta che si basa sull’opinione, oggi trionfante, che la caratteristica fondamentale del museo sia la presenza di una biglietteria: di un fatturato. È l’assunto su cui si è fondata l’intera riforma dei musei imposta da Dario Franceschini. Ma le chiese accessibili a pagamento non diventano centri di studio o ricerca, e assai di rado investono in una didattica di impronta scientifica e non confessionale. Ed è, d’altra parte, fin troppo evidente che non assumono nulla del carattere necessariamente laico dei musei della Repubblica: proprio a Santa Maria Novella è prevista, accanto alle normali gratuità, anche quella per i “membri di ordini o congregazioni religiose e clero diocesano”. Una discriminazione su base confessionale che, già grave in una chiesa di proprietà statale (la basilica appartiene al Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno), diventerebbe lunare in qualunque museo.

Una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non diventa per questo un museo. Da un punto di vista dello “sviluppo della cultura” è una perdita netta: ma lo è anche dal punto di vista religioso, nonostante i momenti riservati all’accesso per il culto. Perché “se i fedeli devono consultare complicati dépliant nei quali sono indicate le possibilità di orari o di giornate nei quali si può accedere alla chiesa, quello è proprio il momento nel quale gli interessati decidono di cambiare chiesa, e, in breve tempo, cancellano dalla propria mente e dalle proprie consuetudini di frequenza l’edificio di culto dove prima si recavano”.

È la mia stessa, personale esperienza. Per ragioni familiari sono legatissimo, fin dalla nascita, proprio a Santa Maria Novella: e ricordo distintamente il vero e proprio dolore con cui vissi la progressiva perdita della sua identità di chiesa. I momenti più surreali erano quelli che seguivano la fine della messa domenicale, quando trenta secondi dopo l’ite missa est i nuovi, solerti guardiani comunicavano che non ci si poteva trattenere a guardare le opere d’arte: bisognava semmai uscire come ‘fedeli’, e rientrare come ‘turisti’. Era un’ingenua, benintenzionata ma devastante, sconfessione dell’identità stessa di quel luogo unico al mondo. Non avevo mai saputo separare, dentro di me, la preghiera e la partecipazione alla liturgia dallo sguardo – ora penetrante ora distratto, fulmineo o indugiante – con cui carezzavo da anni la Trinità di Masaccio o il Crocifisso di Brunelleschi, le figure favolose di Filippino e quelle danzanti di Ghirlandaio, o ancora i raggi caldi del sole che brillava in mano a quel dotto Aquinate di cui avevo ricevuto in dono l’impegnativo nome di battesimo. Dove finiva dentro di me il ‘fedele’ e dove iniziava il bambino perso in quel caleidoscopio di forme e di colori, e poi, pian piano, lo storico dell’arte, e il fiorentino adulto, non del tutto inconsapevole di se stesso e della sua città? Ora – mi si diceva – queste cose andavano separate: e a separarle era un biglietto, una piccola somma di denaro. Ma, più ancora, una barriera, un filtro, un cartello. Era come mettere una sbarra in mezzo al salotto di casa. E pazienza se a dire il contrario non è ‘solo’ l’ovvia evidenza culturale, ma la stessa Conferenza Episcopale Italiana, che nell’Istruzione in materia amministrativa del 2005 ha scritto, con cristallina chiarezza, che “solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione culturale di una chiesa da quella religiosa, perché di fatto i due aspetti sono inseparabili”.

Le chiese, in Italia, sono sempre state la prosecuzione delle piazze con altri mezzi: luoghi pubblici, luoghi in cui entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma, e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno avere. (…)

La definitiva trasformazione di Santa Maria Novella in uno spazio turistico (in quel “semplice bene di consumo turistico” dal quale gli Orientamenti per la pastorale del turismo della Cei mettevano inutilmente in guardia nel 1992) non è frutto solo della secolarizzazione che avanza, o della nostra incapacità politica di finanziare il patrimonio culturale attraverso la fiscalità generale. C’è qualcosa di più profondo: che riguarda la nostra stessa idea di società, e di cultura. E non ce la possiamo cavare addossando la responsabilità di questa triste fine ai poveri frati domenicani: presenti a Santa Maria Novella in numeri sempre più esigui, e comprensibilmente non disposti ad abbandonare la loro vita religiosa per diventare i custodi di un ‘museo’. (…) Questa piccola simonia ha effetti profondi non solo sulla comunità cristiana, ma anche sul rapporto tra le antiche chiese e le comunità civili che, secoli fa, le hanno costruite. A cadere è quel rapporto sentimentale, quella relazione intima, che non era necessariamente fede e non era necessariamente amore per l’arte: ma era quello che portava i cittadini a varcare, qualche volta l’anno, la soglia delle loro chiese. I cittadini: questa terza categoria che non si esaurisce in quelle dei fedeli e dei turisti. Gli umani in quanto tali: il popolo elettivo delle antiche chiese italiane.