Anticipiamo stralci di “Intervista a me stesso” di Giorgio Strehler, pubblicato sul programma di sala de “La grande magia” (1984-85), conservato presso l’Archivio del Piccolo Teatro di Milano e in libreria da oggi con De Piante Editore, prefato da Claudio Longhi, attuale direttore del Piccolo.
Il 14 maggio 1987 il Piccolo festeggerà i suoi quarant’anni di attività. Questa data coinciderà con i tuoi quarantacinque anni di teatro. Questo fatto ha per te un significato particolare?
È molto semplice: la mia vita di teatro coincide totalmente con quella del Piccolo. Quello che ho fatto fuori dal Piccolo – una vasta attività nel campo della lirica – è stato un preludio al mio lavoro in questo teatro, qualche esperienza all’estero. È un lungo lavoro di teatro, un lungo itinerario nel mondo delle ombre, dell’immaginario, della finzione che ricrea la realtà. Allo stesso tempo ho tentato accanitamente di vivere la vera vita – alla quale non ho mai rinunciato – e il mio impegno politico.
È chiaro, questi sono i fatti…
Sì, sono fatti, ma nulla è veramente sempre chiaro, almeno per me. Qual è il significato, l’utilità, la lezione di questi fatti? Quale esempio possono dare? Dovrei poter riflettere su questa avventura nella sua globalità.
Puoi farlo ora…
Ma dovrei scrivere più di un libro sul teatro.
Prova a dire la prima parola che ti viene in mente.
Sbalordimento, stupore… Mi sembra impossibile essere riuscito, lungo questi anni, in condizioni difficili, a dare vita a circa 200 spettacoli di prosa e musicali, a 200 autori che sono stati la parola del mio lavoro, che hanno determinato l’orientamento delle mie scelte critiche. Non riesco ancora a credere che, a un certo momento, in un certo Paese, si sia riusciti a creare – in una situazione assurda così poco propizia alla creazione – un teatro d’arte pubblico e che si sia riusciti a farlo progredire per quattro decenni. Ancora oggi pur vivendo in tempi delle comunicazioni di massa, della confusione sempre più pesante dei linguaggi, dell’indifferenza, dello smarrimento, dell’orribile nevrosi dei consumi e del terrore consapevole o inconsapevole della minaccia nucleare, gli spettacoli sono cosa ben fragile. Il teatro, in apparenza, è una cosa così inutile, così superficiale. È così facile, allora, lasciarsi andare oppure impegnarsi eccessivamente, farsi delle illusioni, o perderle, fare troppo o troppo poco teatro. Spesso mi chiedo: come alcuni tra noi siano riusciti, e riescano ancora, a raccontare alla gente tante storie scritte da altri. Come siano riusciti a fare vibrare, talvolta, nel cuore degli uomini delle parole stupende che illuminano e che li aiutano a vivere? Posso parlare di un’illusione alla quale non so rinunciare? L’illusione della trionfante necessità del Piccolo Teatro, dunque in gran parte anche la mia. Avrei potuto, senza quest’illusione, fare quello che ho fatto? Non lo so.
Tu vedi dunque il teatro come un’istituzione morale, un avvenimento storico, qualcosa che può cambiare il mondo. Non ti sembrano concetti vecchi, sorpassati? Non ti sembra che questi concetti populisti siano fuori moda? Che tutto ciò ha un inconfondibile sapore di vecchia cultura di sinistra?
No, non riesco proprio a pensare in altro modo al teatro, malgrado tutti gli aggiornamenti, le revisioni del vocabolario. Quante volte ho dovuto parlarne, spiegare che Brecht voleva dire che l’arte è responsabile, che il suo campo di azione è l’uomo e che, partendo da lì, è possibile cambiare il mondo. Perché allora non dovrebbe essere possibile farlo partendo dal teatro? Per me è una realtà inconfutabile.
Lo dici continuamente. Io ti chiedo semplicemente: queste convinzioni possono servire ancora a qualche cosa?
Con umiltà, ma anche con convinzione, io “uomo di dubbio”, non ho alcun dubbio su questo problema. Non sono idee superate. Al contrario io penso che siano contemporanee, che occupino un posto dentro la grande complessità del presente e del futuro.
Pensi che l’avventura del Piccolo Teatro esprima questo modo di vedere, di considerare la storia e l’arte come qualcosa di coerente, esemplare, unico?
Unicamente per me. Non per gli altri. Ognuno deve fare quello che può e che sa. La sola cosa di cui sono sicuro è che il teatro è comunicazione. Non posso credere a un teatro dell’incomunicabilità. Ecco perché io credo che la storia del Piccolo Teatro sia coerente e, pur con tutti i suoi limiti, esemplare…
Non riesco a capire se tu sei pessimista o ottimista…
Come Gramsci io sono con la mia ragione profondamente pessimista. Vivo l’angoscia terribile del nostro piccolo tempo storico, ma in fondo al mio cuore sono meravigliosamente ottimista, malgrado tutte le trappole e l’ipotesi di vita che oggi sembra vincente. Il mio caro vecchio Goldoni l’aveva perfettamente compreso quando, in una dedica, scriveva che il cuore, la semplicità e l’umanità vincono sempre.