Ora il “povero” Bernardo viene mollato pure dalla destra

Il sospetto che Luca Bernardo, il candidato sindaco della destra a Milano, fosse stato scelto più per portare a casa un’onorevole sconfitta che per conquistare Palazzo Marino era già legittimato dalle prime uscite pubbliche poco convincenti. Ora però l’etichetta di “candidato a perdere” arriva pure da un nome di peso come Gabriele Albertini.

Due giorni fa, l’ex sindaco si è lamentato di come la destra non abbia preso sul serio la competizione: “Salvini è stato l’unico a provare a scegliere candidati per vincere, ma una volta che il vecchio leone sdentato ha detto di no, tutti hanno pensato più ad attribuire una eventuale sconfitta”. Come dire – non senza egocentrismi – che Bernardo non è all’altezza. Opinione legittima, ma di certo anomala nei tempi e nei modi, dato che Albertini è ancora parecchio ascoltato in città e Bernardo è pur sempre in piena campagna elettorale. Non a caso i partiti non hanno affatto gradito, con i big di FdI infuriati: “Sulla partita del candidato ha fatto tutto Salvini, noi non c’entriamo nulla”. Certo Albertini qualche rancore lo ha. Dopo aver cambiato idea un paio di volte sulla propria candidatura, aveva chiesto di poter indicare un sindaco e di esserne il vice. Gli screzi con Maurizio Lupi e un Silvio Berlusconi non più dalla sua parte come un tempo hanno fatto il resto. Ora a farne le spese è Bernardo: ieri un sondaggio di Youtrend assegnava la vittoria a Sala al primo turno, prevedendo tempi bui per la lista della Lega, ridotta al 14% e tallonata da FdI all’11. Un’altra grana per Salvini, disposto a mettere in conto una sconfitta, ma non una disfatta.

Da Pontida alla Sicilia, Salvini vuoto a perdere

Domenica scorsa sul pratone di Pontida è tornata la gente. Ma stavolta non c’erano bandiere della Lega. Solo uno sparuto gruppo di militanti del “Grande Nord”, il movimento che si ispira agli ideali della secessione e che alle prossime Amministrative sostiene Gianluigi Paragone nella corsa a sindaco di Milano, con tanto di striscioni e magliette inneggianti al “Nord libero” e alla “indipendenza della Padania”. Quest’anno, per il secondo di fila, nello storico pratone dell’alta bergamasca la Lega di Matteo Salvini non si è fatta vedere. La festa è saltata senza dare tante spiegazioni ai militanti. Non era mai successo nella storia del partito. Il raduno era stato annullato in passato solo durante tre drammatici momenti del partito: nel 2004 per l’ictus che colpì Umberto Bossi, nel 2006 dopo la sconfitta al referendum costituzionale e nel 2012 dopo le dimissioni del Senatùr in seguito agli scandali di famiglia. Nel 2020 è stata la paura del Covid a far annullare il grande raduno nazionale del Carroccio lanciato nel 1990 da Bossi, ma quest’anno no. Quest’anno gli eventi all’aperto si potevano organizzare. E invece in via Bellerio hanno deciso di lasciar perdere. Troppo alto il rischio del flop di partecipazione, ma soprattutto troppo alto il rischio di contestazioni contro il segretario e contro il governo Draghi. E dunque addio alle ampolle, ai druidi, ai vichinghi, a Miss Padania, al Leone di San Marco e in epoca più recente al tricolore, alle truppe cammellate dal Sud, alle bandiere della Russia e a quelle blu di “Noi con Salvini”. Niente di niente. Nel 1167 a Pontida i comuni del Nord sancirono l’alleanza contro il Sacro Romano Impero di Federico Barbarossa. Oggi Barbarossa rischiava di essere Draghi, quindi meglio non far niente.

Sopra il poil rischio della débâcle alle urne

Disertare Pontida è un fatto, ma anche un simbolo. A cui si aggiungono le fosche previsioni delle prossime Amministrative: al Nord il rischio di perdere le grandi città – Milano, Bologna e Varese – è molto alto e Salvini se ne sta accorgendo perché ovunque vada trova piazze mezze vuote. I presidenti delle Regioni sopra il Po – Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana – lo sanno e in caso di débâcle chiederanno a Salvini i congressi regionali. Ma non c’è solo Pontida. Dove le feste sono state organizzate – smentendo la motivazione del “non si può fare perché c’è la pandemia” – sono andate male. Anzi, malissimo. A Bologna il 4 e 5 settembre è stata organizzata una kermesse a La Montagnola, dove un tempo il Pci allestiva le feste dell’Unità. Poca gente, poco entusiasmo, molti militanti venuti solo per mangiare o addirittura per vaccinarsi perché fuori dalla festa era stato allestito uno stand con 200 dosi di Pfizer e Johson&Johnson. Anche a Formello, periferia nord di Roma, la festa “Itaca” organizzata da Claudio Durigon e dal senatore Francesco Giro è stata un mezzo flop. Aperta il 3 settembre da Salvini hanno partecipato tutti gli esponenti di governo del Carroccio, ma nessuno se n’è accorto.

Fuga dai comuni sotto Roma la lista in una città su 3

Se al Nord la Lega rischia grosso, le previsioni al sud sono ancora più nere. Nonostante i proclami di Salvini, che nel dicembre 2019 inaugurava il percorso del partito nazionale, sotto Roma oggi la Lega è ancora un partito fantasma. Non si è strutturato, ha poche sedi a macchia di leopardo e alle prossime Amministrative presenterà una propria lista – sotto forma di “Lega” o come “Prima l’Italia” – in poco più di un comune su tre sopra i 15 mila abitanti: solo 20 su 54. Se invece allarghiamo la mappa a tutti i municipi al voto nel Meridione – compresi quelli più piccolo – il dato diventa ancora più impressionante: solo nel 5% dei casi è stata presentata una lista del Carroccio. Il caso più emblematico è quello di Napoli dove la lista leghista “Prima Napoli” in sostegno a Catello Maresca è stata esclusa lunedì per la presentazione in ritardo. Episodio che ha fatto imbufalire candidati e militanti e imbarazzare Salvini e Giancarlo Giorgetti che nei giorni scorsi hanno annullato due eventi elettorali in città. “Qualcuno vuole far fuori Maresca”, ha detto il segretario evocando il complotto contro l’ex pm che adesso rischia addirittura di essere superato dall’ex sindaco Antonio Bassolino. Gode invece Giorgia Meloni, che nel capoluogo partenopeo avrebbe voluto far correre Sergio Rastrelli.

Ma il caso di Napoli non è isolato. In Campania, regione su cui Salvini aveva investito molto, la Lega corre solo in 4 grandi Comuni su 16 – Benevento, Caserta, Salerno e Melito di Napoli – e ha deciso di disertare quasi ovunque: da Eboli ad Afragola, da Gragnano a Santa Maria Capua Vetere, da Sessa Aurunca a Battipaglia e Frattaminore. Male anche in Puglia: qui è presente in 5 grandi comuni su 14 e ha deciso di disertare in città come Adelfia, Gallipoli, Nardò, Noicottaro e Grottaglie. In Basilicata e Molise la Lega schiera una lista solo a Melfi e Isernia, mentre in Calabria solo a Cosenza ma non è presente a Siderno (Reggio Calabria). L’unica regione dove il Carroccio si presenta ovunque è l’Abruzzo: qui c’è una lista in 5 Comuni su 5 al voto.

Classe dirigente Imbacati Cuffaro e altri ras siculi

Malissimo invece in Sicilia da dove è partito l’assalto della Lega al Sud. Salvini negli ultimi mesi è sbarcato più volte sull’isola per lanciare la candidatura di un leghista per il dopo Musumeci alle regionali del 2022. Ma il test delle Amministrative si annuncia già fallimentare. Qui si vota tra il 10-11 e il 24 ottobre e quindi le liste devono ancora essere presentate ma, sui 43 Comuni al voto, il Carroccio non si presenterà in 35. Tra le città più grandi correrà solo a Favara, Adrano e Caltagirone. Qui, nel catanese, la coalizione di cui fa parte anche la Lega che sostiene il forzista Sergio Gruttadauria ha deciso di imbarcare anche la Dc di Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia che ha scontato una condanna a 7 anni per favoreggiamento alla mafia. Per lanciare l’opa sull’isola Salvini ha bisogno anche di imbarcare riciclati e ras delle preferenze e quindi, dopo l’arrivo di cinque tra parlamentari e consiglieri regionali tra cui l’imputato Luca Sammartino da Italia Viva, la Lega ufficializzerà l’arrivo anche del deputato ex FI, oggi renziano, Francesco Scoma, indagato ad Agrigento come responsabile della campagna elettorale di Gianfranco Miccichè per l’inchiesta sulla società “Girgenti Acque”. Per vincere, questo e altro.

Altro che il “green”: dietro la stangata c’è il boom dei fossili

L’annuncio del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sull’aumento fino al 40% delle bollette non sembra aver lasciato spazio ad ambiguità: si deve andare avanti con l’energia fossile perché la transizione costa. “Va fatta senza indugi e con sacrifici enormi, però non può essere fatta a spese delle categorie vulnerabili”, ha aggiunto il ministro. Ma l’imminente seconda stangata che si abbatterà sulle famiglie il 1º ottobre, dopo che a luglio c’è già stato un rincaro del 20%, non ha ancora trovato soluzioni da parte del governo. Anche se è vero che il piano europeo di decarbonizzazione presentato in luglio è il più ambizioso del mondo – tagliare le emissioni del 55% entro il 2030 – non si può accusare la transizione ecologica di essere il colpevole, di sicuro non il solo, degli aumenti, come ha fatto il ministro. A spiegarlo è stato il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, parlando proprio del pacchetto per la transizione energetica Fit for 55. “Non dobbiamo essere paralizzati dall’aumento dei prezzi dell’energia”, ha detto Timmermans spiegando che “solo un quinto dell’attuale incremento può essere attribuito alla crescita del prezzo della CO2, il resto dipende dalle carenze del mercato. E se avessimo fatto il Green deal 5 anni fa non saremmo in questa situazione”.

È proprio il ritardo dell’Italia nel puntare sulle energie rinnovabili ad aver conferito peso al gas, da cui tutta l’Europa è ancora troppo dipendente e dove gli stoccaggi non sono stati ancora rimpiazzati. La causa della stangata va, quindi, ricercata nell’aumento dei prezzi delle materie prime dovuto alla ripartenza post-lockdown delle attività produttive a livello mondiale e alla riduzione di forniture di gas dalla Russia verso l’Europa in atto da gennaio, da quando l’Asia ha iniziato a fare incetta di gas naturale (Gnl) per sostituire il carbone per la produzione di energia. Fattore che ha fatto impennare i prezzi dei certificati di emissione di CO2 che le aziende energivore devono comprare per inquinare secondo quanto prevede il sistema europeo Ets (Emission trading system). Insomma, più si usa combustibile fossile più si devono acquistare permessi di emissione. Ma più si acquistano, più i prezzi si alzano spingendo il gas, i cui prezzi si impennano e fanno diventare più conveniente comprare carbone anche se il costo della CO2 è ora di 60 euro per tonnellata, contro 20 euro di un anno fa.

Elementi ben noti da mesi che, tuttavia, non hanno spinto il governo italiano a cercare una soluzione per arginare i rincari finiti in bolletta. Non è certo un bel segnale politico, soprattutto considerando che fra tre settimane si vota alle amministrative. Così in queste ore gli stessi leader di partito, da Conte a Letta, da Meloni a Salvini, hanno chiesto misure di contenimento per tagliare i rincari sulla bolletta. Sul tavolo del governo ora ce ne sono due: saltata la riduzione dell’Iva, restano un intervento emergenziale immediato per le famiglie con redditi più bassi e, poi, in manovra finirà la sforbiciata agli oneri di sistema (ad esempio quelli che finanziano le rinnovabili) che gravano sulla bolletta per 14 miliardi, cioè la stessa soluzione adottata a luglio quando il governo ha stanziato 1,2 miliardi, compresi 350 mila prelevati dal programma dei parchi. Se il governo agisse subito sugli oneri, questa volta dovrebbe trovare 2-3 miliardi, che vanno ad aggiungersi agli oltre 4 che servono per la riforma degli ammortizzatori sociali e ai 2 per la delega fiscale. Intanto il premier spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato una riduzione dell’imposta sull’elettricità dal 5,1% allo 0,5%. A pagarla saranno i big dell’energia.

Addio atomo, la passione del ministro rimane il gas

Il nucleare era un ballon d’essai e come ognuno dei palloni che il ministro Roberto Cingolani manda in aria è il gas che lo gonfia. Evaporata a seguito dell’incontro di ieri coi grillini – come d’ordinanza franco e cordiale, addirittura proficuo – la frescaccia dell’atomo di nuova generazione, resta appunto il gas. L’uomo nuovo del governo, che viene dalla frontiera della tecnica e della ricerca, è in materia di energia in ritardo di un ventennio sul dibattito (rinnovabili contro gas, il fossile buono), non ne conosce i contorni, non ne comprende lo sviluppo al di fuori delle compatibilità economiche per come le intendono le imprese: abbiamo guadagnato finora, vogliamo continuare a farlo in futuro allo stesso modo, la società s’accolli i danni.

Il ministro-scienziato della Transizione ecologica è riassunto tutto in quella frase benedetta affidata al Corriere della Sera da John Kerry, oggi inviato speciale per il Clima del presidente statunitense Joe Biden: “Il ministro Cingolani mi ha mostrato le mappe dei gasdotti, esistenti e in discussione. Ma attenzione: il gas naturale è comunque un combustibile fossile, composto all’87% circa di metano, quando lo bruci crei CO2, e quando lo sposti possono esserci perdite molto pericolose”, raccontò il candidato democratico sconfitto da George W. Bush nel 2005.

Il Pnnr del governo Draghi, lo abbiamo scritto cento volte, destina il 37,5% dei fondi alle politiche green (una delle percentuali più basse d’Europa) e pure lì trova il modo di metterci i fossili, magari mascherati: molto dell’idrogeno di cui parla il Pnrr è in realtà gas; gli idrogenodotti di cui si parla sono in realtà nuovi gasdotti costruiti “secondo standard compatibili anche con l’idrogeno” (il piano industriale di Snam ci mette già sopra i suoi bei miliardi).

Laddove proprio non può mettere soldi, magari per la contrarietà dell’Unione europea a farseli vendere come green, concede a investimenti nell’economia fossile che dovrebbe smantellare le autorizzazioni veloci (fast track) per le opere strategiche nella lotta al cambiamento climatico: la cattura di CO2 che l’Eni progetta a Ravenna tra le proteste dei comitati, l’uscita (phase out) dal carbone della Sardegna attraverso la metanizzazione e due mega-gasdotti di Snam (piano bocciato dall’Autorità per l’energia, ma tant’è…), la riconversione delle raffinerie per produrre carburanti (il programma waste to fuel avviato dall’Eni) e addirittura gli inceneritori di rifiuti per produrre energia.

Cingolani, ministro in aspettativa dal colosso pubblico Leonardo, è intrappolato in una sorta di pensiero debole del suo ruolo in questa fase: pare voler avere il ruolo del vigile urbano in un processo di ristrutturazione in senso vagamente ambientale del modello di produzione e consumo usato fin qui. Da qui escono frasi tipo “la transizione ecologica deve essere sostenibile sennò non si muore di inquinamento, ma di fame: non si può ridurre la CO2 chiudendo da domani le fabbriche di auto” (cosa che, ovviamente, nessuno ha mai chiesto). Lunedì ha buttato lì che dietro l’aumento delle bollette c’è la transizione ecologica (che è in parte, ma solo in parte, vero). Per capirci, l’agenzia finanziaria Bloomberg – non Greenpeace o qualche “ambientalista radical chic” – ieri ha titolato un pezzo “Costruire nuove rinnovabili costa meno che bruciare combustibili fossili”.

Conte a Cingolani: “Niente nucleare, coordinati con noi”

La forma è salva, mentre per la sostanza è tutto da vedere. Ma l’avvocato voleva innanzitutto quello, mostrare che il ministro “inventato” da Beppe Grillo, Stefano Cingolani, deve rispondere anche a loro, ai Cinque Stelle, e soprattutto a lui, a Giuseppe Conte. Per questo il presidente del M5S lo dice ai microfoni, ma lo conferma anche nei colloqui privati: “Sono soddisfatto, è andata bene”. È andato bene, giurano tutti, l’incontro di ieri pomeriggio di Conte e dei ministri a 5Stelle con Cingolani, il titolare della Transizione ecologica fortissimamente voluto da Grillo, che però spesso va in direzione contraria rispetto al M5S: e vale per le trivelle e per gli inceneritori, a cui Cingolani non è affatto contrario, come per il nucleare di quarta generazione, a cui il fisico aveva aperto settimane fa per sommo disappunto del M5S. “Parole infelici” le aveva definite Conte, ed ecco perché la riunione di ieri al Mite, voluta dall’avvocato anche per rabbonire il corpaccione parlamentare.

Un incontro in cui il ministro assicura che lui non aveva mica aperto al nucleare: “Nulla del genere, io sono uno scienziato e avevo semplicemente risposto a una domanda sul nucleare di quarta generazione, tutto qui, ma non sono un fautore dell’energia atomica” sostiene il ministro. “L’impressione è che Cingolani spesso parli sottovalutando la portata politica di certe frasi”, sussurra un big che era all’incontro. Di certo nella riunione Conte ripete più volte che il M5S è contrario al nucleare e che la linea è quella. Per questo l’avvocato chiede al ministro “maggiore coordinamento”, ossia di rapportarsi di più ai 5Stelle di governo, e ovviamente a lui. “Ci sono molte cose da fare, aiutiamoci a vicenda” lo esorta l’avvocato. E Cingolani non si nega: “Nessun problema, io posso anche fare da parafulmine, non ho obiettivi politici o la voglia di candidarmi quando avrò concluso questo incarico”. Rivendica la sua natura di tecnico. Ma il suo ruolo è assolutamente cruciale, quindi politico. Figurarsi quando parla di reattori e centrali. Lo ricorda indirettamente Conte a riunione appena finita, quando morde Matteo Salvini di fronte ai microfoni: “Il capo della Lega può trasferirsi in Francia, dove hanno fatto la scelta nucleare”. L’avvocato ha un’altra linea, quella del M5S vecchia maniera: “Noi diciamo no perché è questa la scelta fatta dagli italiani con il referendum, e poi l’energia atomica costa moltissimo: su questo Cingolani ci ha dato ampie garanzie”. D’altronde, continua l’ex premier, “per raggiungere l’obiettivo di una riduzione del 55 per cento delle emissioni per il 2030, dobbiamo correre ancora di più rispetto al passato sulle rinnovabili, e anche su questo con Cingolani c’è piena sintonia”. Sillabe ufficialmente cortesi, ma che in controluce, sono una puntura di spillo per il ministro. “Però oggi si è mostrato disponibile” insistono i grillini di governo.

Reattivo anche quando Conte gli ha parlato del caro-bollette, il tema sollevato proprio dal ministro. Così l’avvocato ottiene facilmente dal fisico l’impegno ad affrontare il tema, con Cingolani che parla di iniziative del ministero dell’Economia, ma non cita mai Mario Draghi. Però bisogna dare risposte ai partiti dell’affollata maggioranza, partendo dai giallorosa, che in queste ore provano a coordinarsi.

Così, fanno notare, non è affatto casuale la tempistica del tweet del segretario dem Enrico Letta, diffuso subito dopo l’incontro al Mite: “Questo aumento delle bollette è assolutamente eccessivo, ci vuole un intervento del governo per ridurre una tantum gli oneri di sistema e limitare un impatto che è una gelata sui consumi”. Poi però si torna a Cingolani, perché quella tra il ministro e il Movimento in fondo è soprattutto una tregua. E non può bastare ad Angelo Bonelli, co-portavoce di Italia Verde. “Spiace dirlo, ma l’incontro non è servito a nulla” sostiene Bonelli. Durissimo: “Cingolani si deve fare da parte, sta sabotando la transizione ecologica: con le politiche attuali sul clima, l’Italia raggiungerà i target europei con 29 anni di ritardo”.

Ottimismo obbligatorio

A metà luglio, appena Carlo Fuortes fu nominato ad della Rai, fu salutato con tappeti di saliva dall’intera stampa nazionale, come del resto il nominante Mario Draghi. Il quale, essendo il genio onnisciente e infallibile che sappiamo, non poteva che aver nominato un altro genio. Infatti Fuortes – che, a dispetto del cognome da tanguero, è nato a Roma – iniziò subito a sfornare idee geniali, come Repubblica notò col dovuto risalto: “Ribattezzato in azienda Napoleone per la postura con la quale si aggira nel palazzo – mano sul petto quando parla, piglio decisionista – Fuortes ha già inviato a tutti i direttori le lettere con i tagli da fare… Ha vietato ai membri del Cda di parlare con l’esterno e con le strutture interne. Ha imposto il ‘lei’ a chiunque, dall’ultimo degli uscieri ai top manager. Una rottura di prassi consolidate che la dice lunga sul nuovo corso del servizio pubblico. E sulla mission ricevuta da Draghi”. Erano anni che si denunciava la vera piaga della Rai: tutti si davano pedestremente del tu o del voi. Ci volevano i Migliori, col nuovo corso e la mission, per imporre finalmente il lei. Ora, risolto il problema principale, restano i dettagli. L’informazione sarà improntata al più sfrenato ottimismo perché – ripete Fuortes – “la Rai deve tornare a una narrazione positiva”. Oggi, com’è noto, tg e talk sono armi improprie lanciate h 24 contro i poteri costituiti. Inchieste sul ruolo di Draghi nel bidone Mps-Antonveneta, reportage à gogo sulla trattativa Stato-mafia, non-stop sul Ruby-ter, inseguimenti ai commercialisti della Lega, renziani perseguitati da domande sulle complicità del Rinascimento Saudita nell’11 Settembre, interviste a pm e vittime di reati sulla schiforma Cartabia, speciali sulle tangenti americane di Fca e sugli scandali vaticani, rubriche fisse di Greta Thunberg sulla transizione ecologica di Cingolani dal fossile al nucleare. Ora basta: “narrazione positiva”.

Non c’è neppure bisogno di inventare nuovi ordini: basta copiare le veline del Minculpop, che 90 anni fa abolirono la cronaca nera (nessun furto, rapina od omicidio nel paradiso fascista) e toccarono vette ineguagliabili di humour involontario: “Notare come il Duce non fosse stanco dopo 4 ore di trebbiatura”, “Non occuparsi della Garbo”, “Non pubblicare fotografie del pugile Carnera a terra”. Uno dei gerarchi meno proni, Leandro Arpinati, quando il Duce gli comunicò la nomina di Achille Starace a segretario del Partito nazionale fascista, protestò: “Ma è un cretino!”. “Sì”, rispose la Buonanima, “ma è un cretino obbediente”. Poi, a Salò, ebbe un lampo di sincerità: “Come si fa, in un Paese di servitori, a non diventare padrone?”. La Rai ovviamente non c’entrava, ma solo perché si chiamava Eiar.

Genesis, pronti per il tour d’addio tra il “fantasma” dell’ex Peter Gabriel e i dolori di Phil Collins

I Genesis si sono messi nei guai. Chiedendo ai loro fan quale brano sceglierebbero come ultimo bis nei concerti, hanno letto risposte come Watcher of the skies, Supper’s Ready o The Knife, cavalli di battaglia dell’epos progressive con Peter Gabriel. Stando agli “spifferi”, più probabile che il pezzo di commiato a ogni set sarà Abacab, l’ipnotico hit pop minimale che fu una delle pietre di fondazione del successo globale della band. Comunque vada, gli aficionados oltranzisti potranno consolarsi con una buona metà del capolavoro Selling England by the Pound (Dancing out with the Moonlight Knight, I Know what I like, The Cinema Show e la maestosa Firth of Fifth) più Carpet Crawlers e il brano guida dall’ambizioso The Lamb Lies down on Broadway. E sarà come sempre la rievocazione del tempo aureo con l’arcangelo Gabriel ad accendere i cuori di quanti potranno assistere al tour in terra inglese, che parte il 20 settembre da Birmingham, per proseguire sino a fino anno in America. Poi si vedrà. Perché Phil Collins ha già deciso che “spente le luci sul palco per l’ultima volta, metteremo tutti a letto”, e quella dei Genesis sarà una vicenda da consegnare alla storia del rock. The Last Domino?, non casualmente preceduta da una maxi antologia discografica, sarà il passo d’addio live per una band che ha cambiato pelle più volte, perdendo per strada pezzi fondamentali come Gabriel e Steve Hackett, asserragliandosi nella ridotta del trio Collins-Mike Rutherford-Steve Banks. Il problema è che Phil ha alzato, e non da oggi, bandiera bianca: alla batteria si accomoderà suo figlio Nic, mentre lui – ha dichiarato giorni fa in una scioccante intervista – non è “più in grado nemmeno di reggere in mano una bacchetta”. Da anni la sua salute va irreparabilmente declinando, come aveva lui stesso rivelato nell’autobiografia dall’eloquente titolo No, non sono ancora morto. A poco sono valse le operazioni alle vertebre dopo che un problema al collo generato dal lavoro ai tamburi nel tour del 2007 gli ha generato un deficit alle terminazioni nervose. Quanto alla sua vita privata, è andata in tilt più volte. A una prima crisi matrimoniale con Orianne, la mamma di Nic, aveva reagito “ritrovandosi ad aprire il frigo al mattino per scollarsi una vodka davanti ai bambini”). Più tardi, all’atto della separazione definitiva, la signora aveva fatto sottolineare dal legale che “Phil non si lava più e non è in grado di fare sesso”. Come tornare a battere il tempo della vita? Morire sul palco no. Dopo Charlie Watts, non c’è spazio per altri lutti. Ma per plaudire il crepuscolo di un guerriero fragile, quello sì.

Agatha e Max folgorati sulla via di Damasco

Una grande scrittrice nata nel Devon il 15 settembre 1890, Agatha Christie, e un grande archeologo, Sir Max Mallowan: una strana coppia? Certo autoironica: “Un archeologo è il miglior marito che una donna possa avere: più lei diventa vecchia, più lui si interessa a lei” (Agatha). “Potrò mai piacerti? Sono uno scavatore di morti” (Max). “A me i cadaveri interessano moltissimo”.

Agatha Mary Clarissa Miller, che ereditò il cognome Christie dal marito Archibald (un pilota da cui divorziò nel 1928), scrisse 80 romanzi tradotti in 34 lingue, conosceva bene il Medio Oriente. Nel 1930 giunge a Baghdad e da qui va in visita a Ur, in Bassa Mesopotamia, dove il più giovane Max (nato a Londra nel 1904) è il promettente assistente del direttore Leonard Woolley. Quando la Christie deve tornare a Baghdad, la moglie di Woolley prega Mallowan di accompagnarla: scocca la scintilla e i due si sposano rapidissimamente. Stavolta è un legame duraturo, anzi la scrittrice diviene un po’ archeologa. A Ur era stata appena scoperta la grande tomba di una coppia regale del XXVIII secolo a. C. Agatha pubblicò un nuovo giallo, Murder in Mesopotamia: in copertina uno spaccato del grande sepolcro. Mallowan lavora intensamente anche in altri siti. Tell Brak, in Siria, è un insediamento dalla lunghissima vita: Max scava fra l’altro, nel 1937 e 1938, il “tempio degli occhi” (3500- 3300 a.C.). Agatha scatta belle foto di operai e inservienti del posto e documenta in un film le operazioni sul campo. In Iraq, due fra i siti principali sono presso Mosul (una delle aree più devastate dai conflitti recenti). Ninive, capitale degli Assiri, è nota soprattutto per gli immensi palazzi dei re Sennacherib (704-681 a. C.) e Assurbanipal (668-626 a.C.). Anche qui Agatha scatta foto “di colore”, coordina il lavoro degli operai e cura la conservazione dei materiali rinvenuti.

Durante la Seconda guerra mondiale Max si arruola come volontario presso la Raf, che gli varrà il titolo di ”Sir”. Nel 1947 siamo alla fase culminante della sua carriera, lo scavo di Nimrud, che si protrae fino al 1961: ora il sito è devastato, soprattutto dagli attacchi dell’Isis. La Christie curò la documentazione fotografica, presentando sulla rivista Illustrated London News un bel volto femminile ribattezzato “la Monna Lisa di Nimrud”. Dopo tanto viaggiare e scavare, i Mallowan tornano in Inghilterra. Lui insegna a Oxford e pubblica Nimrud and its remains (1966), la sua opera più nota; lei continua a inanellare successi, anche teatrali. Moriranno a poca distanza l’una dall’altro, Agatha nel 1976, Max nel 1978.

Piccolo grande teatro “È fragile e salva il mondo”

Anticipiamo stralci di “Intervista a me stesso” di Giorgio Strehler, pubblicato sul programma di sala de “La grande magia” (1984-85), conservato presso l’Archivio del Piccolo Teatro di Milano e in libreria da oggi con De Piante Editore, prefato da Claudio Longhi, attuale direttore del Piccolo.

Il 14 maggio 1987 il Piccolo festeggerà i suoi quarant’anni di attività. Questa data coinciderà con i tuoi quarantacinque anni di teatro. Questo fatto ha per te un significato particolare?

È molto semplice: la mia vita di teatro coincide totalmente con quella del Piccolo. Quello che ho fatto fuori dal Piccolo – una vasta attività nel campo della lirica – è stato un preludio al mio lavoro in questo teatro, qualche esperienza all’estero. È un lungo lavoro di teatro, un lungo itinerario nel mondo delle ombre, dell’immaginario, della finzione che ricrea la realtà. Allo stesso tempo ho tentato accanitamente di vivere la vera vita – alla quale non ho mai rinunciato – e il mio impegno politico.

È chiaro, questi sono i fatti…

Sì, sono fatti, ma nulla è veramente sempre chiaro, almeno per me. Qual è il significato, l’utilità, la lezione di questi fatti? Quale esempio possono dare? Dovrei poter riflettere su questa avventura nella sua globalità.

Puoi farlo ora…

Ma dovrei scrivere più di un libro sul teatro.

Prova a dire la prima parola che ti viene in mente.

Sbalordimento, stupore… Mi sembra impossibile essere riuscito, lungo questi anni, in condizioni difficili, a dare vita a circa 200 spettacoli di prosa e musicali, a 200 autori che sono stati la parola del mio lavoro, che hanno determinato l’orientamento delle mie scelte critiche. Non riesco ancora a credere che, a un certo momento, in un certo Paese, si sia riusciti a creare – in una situazione assurda così poco propizia alla creazione – un teatro d’arte pubblico e che si sia riusciti a farlo progredire per quattro decenni. Ancora oggi pur vivendo in tempi delle comunicazioni di massa, della confusione sempre più pesante dei linguaggi, dell’indifferenza, dello smarrimento, dell’orribile nevrosi dei consumi e del terrore consapevole o inconsapevole della minaccia nucleare, gli spettacoli sono cosa ben fragile. Il teatro, in apparenza, è una cosa così inutile, così superficiale. È così facile, allora, lasciarsi andare oppure impegnarsi eccessivamente, farsi delle illusioni, o perderle, fare troppo o troppo poco teatro. Spesso mi chiedo: come alcuni tra noi siano riusciti, e riescano ancora, a raccontare alla gente tante storie scritte da altri. Come siano riusciti a fare vibrare, talvolta, nel cuore degli uomini delle parole stupende che illuminano e che li aiutano a vivere? Posso parlare di un’illusione alla quale non so rinunciare? L’illusione della trionfante necessità del Piccolo Teatro, dunque in gran parte anche la mia. Avrei potuto, senza quest’illusione, fare quello che ho fatto? Non lo so.

Tu vedi dunque il teatro come un’istituzione morale, un avvenimento storico, qualcosa che può cambiare il mondo. Non ti sembrano concetti vecchi, sorpassati? Non ti sembra che questi concetti populisti siano fuori moda? Che tutto ciò ha un inconfondibile sapore di vecchia cultura di sinistra?

No, non riesco proprio a pensare in altro modo al teatro, malgrado tutti gli aggiornamenti, le revisioni del vocabolario. Quante volte ho dovuto parlarne, spiegare che Brecht voleva dire che l’arte è responsabile, che il suo campo di azione è l’uomo e che, partendo da lì, è possibile cambiare il mondo. Perché allora non dovrebbe essere possibile farlo partendo dal teatro? Per me è una realtà inconfutabile.

Lo dici continuamente. Io ti chiedo semplicemente: queste convinzioni possono servire ancora a qualche cosa?

Con umiltà, ma anche con convinzione, io “uomo di dubbio”, non ho alcun dubbio su questo problema. Non sono idee superate. Al contrario io penso che siano contemporanee, che occupino un posto dentro la grande complessità del presente e del futuro.

Pensi che l’avventura del Piccolo Teatro esprima questo modo di vedere, di considerare la storia e l’arte come qualcosa di coerente, esemplare, unico?

Unicamente per me. Non per gli altri. Ognuno deve fare quello che può e che sa. La sola cosa di cui sono sicuro è che il teatro è comunicazione. Non posso credere a un teatro dell’incomunicabilità. Ecco perché io credo che la storia del Piccolo Teatro sia coerente e, pur con tutti i suoi limiti, esemplare…

Non riesco a capire se tu sei pessimista o ottimista…

Come Gramsci io sono con la mia ragione profondamente pessimista. Vivo l’angoscia terribile del nostro piccolo tempo storico, ma in fondo al mio cuore sono meravigliosamente ottimista, malgrado tutte le trappole e l’ipotesi di vita che oggi sembra vincente. Il mio caro vecchio Goldoni l’aveva perfettamente compreso quando, in una dedica, scriveva che il cuore, la semplicità e l’umanità vincono sempre.

Quei viaggi di rubli e dollari: il romanzo dei soldi a Dc e Pci

“Questo libro nasce da un litigio di cui mi ritrovai testimone”, racconta Gianluca Calvosa. Quello tra due ex comunisti che a distanza di lustri l’uno dall’altro avevano ricoperto ruoli di primo piano nel Pci. Esce oggi in libreria “Il tesoriere” ambientato nei Settanta: una spy story ispirata dai racconti a Calvosa di alcuni protagonisti di Pci e Dc di quegli anni, tra cui Gianni Cervetti, tesoriere del Pci di Berlinguer e subentrato a Cossutta. Il brano che riportiamo è del giugno 1971.

Aottomila chilometri di distanza, ma in direzione opposta, un altro funzionario governativo si sarebbe imbarcato per motivi analoghi su un altro volo diretto a Roma. Anche il suo bagaglio, una valigetta in pelle nera con doppia serratura in ottone, era assicurato al polso da una catena. E anche Vladimir Tokarev viaggiava con credenziali diplomatiche che, una volta giunto all’aeroporto internazionale Šeremét’evo, gli avevano consentito di usare l’esclusivo accesso riservato agli alti funzionari del partito e agli ospiti istituzionali. Una soluzione che dietro il pretesto di un trattamento di riguardo permetteva al KGB un controllo puntuale del transito di personale e bagagli speciali, sottraendolo allo sguardo dei curiosi.

A scortare Tokarev fin sotto la scaletta del Tupolev Tu-134 dell’Aeroflot erano stati due uomini dei servizi. (…). Altri due funzionari avevano accompagnato sua moglie e sua figlia per una breve vacanza fuori Mosca in una dacia riservata a ospitare i quadri ministeriali. (…). Il compito che gli era stato affidato non gli aveva garantito un posto in prima classe, in quanto la dottrina comunista non consentiva di acquistare privilegi sul mercato.

Secondo il protocollo al quale era ormai abituato, però, Tokarev era salito a bordo dopo che tutti i passeggeri erano già seduti e i preparativi per la partenza completati. Una volta atterrati, sarebbe sceso per primo. Per questo motivo gli veniva riservato uno dei due posti di corridoio della prima fila, per il resto lasciata di proposito vuota. (…). L’arrivo a Fiumicino fu un sollievo per Tokarev. (…).

Come previsto, allo sbarco trovò ad attenderlo sotto la scaletta due addetti all’ambasciata russa che lo scortarono fino al controllo passaporti. Lì un agente della polizia doganale si sbracciava, chiedendo alle persone in coda di tenersi a ridosso della parete su cui spiccava un grande manifesto del Colosseo. Alle loro spalle arrivava a passo svelto Victor Messina, preceduto da due agenti della polizia italiana in divisa. L’americano filò dritto senza esibire alcun documento. Davanti all’atrio del terminal, l’enorme limousine nera della rappresentanza statunitense a Roma appariva del tutto sproporzionata accanto alle utilitarie italiane. L’auto lo avrebbe condotto all’ambasciata Usa di via Veneto dove lo aspettava Luigi Ognibene, tesoriere della Democrazia cristiana, il partito di maggioranza al governo del Paese dal dopoguerra, nonché principale alleato politico degli Stati Uniti in Italia. L’incontro sarebbe durato il tempo necessario a contare i soldi, firmare le ricevute e sbrigare i pochi convenevoli di cortesia consentiti dall’inglese maccheronico del dirigente della Dc.

A distanza di pochi minuti, Tokarev salì a bordo di una Lancia Flavia con targa diplomatica che lo condusse all’ambasciata sovietica dove di norma si limitava a consegnare la valigetta e a recuperare la ricevuta dai beneficiari finali prima di ripartire per Mosca. Al suo rientro, sua moglie Katja e la piccola Elena sarebbero state puntualmente riaccompagnate a casa. Una precauzione necessaria che sembrava divertire molto la bambina. Quella sera però, diversamente dal solito, gli toccò restare a Roma avendo un’altra questione importante da sbrigare.

Nell’ufficio al secondo piano della splendida villa cinquecentesca dietro il Vaticano che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche aveva acquisito nel ’36 alla morte degli eredi del principe georgiano Abamelek, i funzionari dell’ambasciata russa, aperta la valigia con la coppia di chiavi recapitate il giorno prima da un altro corriere, controllarono che il contenuto corrispondesse a quanto disposto da Mosca e concordato con gli italiani. Il segretario dell’ambasciatore siglò quindi la prima delle due ricevute e autorizzò la chiamata.

Nella tesoreria della sede centrale del Partito comunista italiano, il Bottegone come lo chiamavano i compagni, qualcuno aspettava quella telefonata sulla linea diretta. Poco dopo, la Lancia Flavia varcò il grande cancello di ferro battuto di Villa Abamelek e scese rapida le curve strette del Gianicolo per raggiungere il punto d’incontro con una Fiat 128 grigio topo proveniente dalla direzione del partito. Le due auto proseguirono per un po’ a vista per poi fermarsi in un parcheggio pubblico della Garbatella, a ridosso delle Mura Aureliane, dove un gruppetto di bambini in calzoni corti e canottiera urlava all’inseguimento di un pallone malconcio. Il responsabile delle finanze del Pci si riservò alcuni minuti per controllare il contenuto della valigetta, quindi siglò la ricevuta.

“Roma 25.6.1971, ricevo la somma di 1.000.000 (un milione) di dollari quale contributo straordinario per le elezioni amministrative. Marco Fragale”.