Il pupillo di Macron e i suoi privilegi

L’“affaire Benalla” ha rappresentato la prima grossa crisi politico-istituzionale per il governo Macron. I fatti risalgono al 2018: durante il corteo del 1º maggio, uno dei più stretti collaboratori di Macron, Alexandre Benalla, viene filmato mentre picchia dei manifestanti indossando casco e fascia da poliziotto pur senza essere un agente. Lo scandalo scoppiò però solo il 18 luglio, quando il sito di Le Monde pubblicò il video dove si vedeva Benalla in azione, facendo tremare l’Eliseo. I francesi fecero allora la conoscenza del giovane braccio destro di Macron, appena 26enne, che, dopo due anni nel servizio d’ordine del Partito socialista, si era guadagnato la fiducia del candidato di En Marche! e per lui si occupava della sicurezza – dal 2016 – durante i meeting di Manu nella campagna per l’Eliseo. Benalla, scriveva ieri il giornale online Mediapart, è “l’uomo che ha messo a nudo la leggerezza di Macron sulle questioni di sicurezza”. La vicenda torna d’attualità perché da ieri l’ex “Monsieur sécurité” deve rendere conto ai giudici per le violenze di tre anni fa e di altre infrazioni. Nel tribunale di Parigi è arrivato in abito scuro, gel nei capelli e in evidente sovrappeso. In aula, anche Vincent Crase, che lavorava nella sicurezza del partito LaRem, e che figura nel video con Benalla. All’epoca si seppe che i vertici dello Stato erano stati sin dall’inizio messi al corrente dei fatti del 1º maggio, tanto che Benalla fu subito sospeso, ma solo per 15 giorni, dopo di che tornò a gestire la sicurezza di grossi eventi, come la festa sugli Champs-Elysées per la vittoria dei Bleus ai Mondiali di calcio. Solo dopo le rivelazioni di Le Monde fu licenziato. Ma la vicenda non finì lì. Si seppe che godeva di certi benefici, corsie preferenziali tra cui un badge per l’ingresso in Parlamento, un appartamento in centro e una vettura con autista. Benalla aveva anche la disponibilità di passaporti diplomatici. Un’altra procedura fu aperta contro di lui quando si scoprì che, pure dopo aver lasciato l’Eliseo, continuò a usare i passaporti in modo improprio per viaggiare tra l’altro in Ciad, pochi giorni prima di una missione di Macron nel Paese africano.

Benalla rivelò di aver conservato i contatti con il presidente. Nel 2018 emerse anche un selfie dell’aprile 2017, scattato a Poitiers, all’uscita di un comizio di campagna di Macron, in cui Benalla fa bella mostra di una pistola, quando ancora non era titolare di un regolare porto d’armi. Insomma, vi sono molti punti da chiarire non solo nelle vicende personali che riguardano l’imputato, ma anche i suoi rapporti con il presidente e in generale l’apparato dell’Eliseo. Il processo durerà tre settimane.

11 Settembre, pista saudita: ora non sono solo fantasie

Gli avvocati delle famiglie delle vittime vi leggono una conferma dei collegamenti tra i dirottatori dell’11 Settembre ed esponenti sauditi negli Stati Uniti; in realtà, i documenti resi pubblici dall’Fbi certificano contatti fra i terroristi e funzionari o religiosi sauditi, ma non forniscono la prova che il regime saudita fosse al corrente e complice del complotto ordito da al Qaeda. I familiari delle vittime dell’11 Settembre hanno bisogno di elementi più solidi per vincere la causa intentata al regime saudita e ottenerne robusti indennizzi, e devono sperare che dai documenti di cui il presidente Joe Biden ha ordinato la pubblicazione “entro sei mesi” esca qualcosa di più concreto. Appena concluse le commemorazioni del 20° anniversario degli attacchi terroristi, l’Fbi ha diffuso il primo di una serie di documenti relativi alle sue indagini sull’ipotetico sostegno ufficiale saudita ai dirottatori, cominciando ad attuare l’ordine presidenziale. Il documento di 16 pagine è del 2016 ed è un assaggio dell’operazione “Encore” – nome in codice –, di cui tre presidenti – George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump, prima di Biden – non vollero fare trapelare nulla.

Il testo dà una serie di dettagli sulle indagini dell’Fbi sul presunto supporto logistico dato ad almeno due dei dirottatori – su 19, 15 erano sauditi – da esponenti sauditi negli Stati Uniti. In particolare, il rapporto dei G-men analizza le molteplici connessioni e testimonianze che lasciano sospettare che Omar al-Bayoumi, ufficialmente uno studente arabo a Los Angeles, fosse un agente, o un informatore, dell’intelligence saudita e che abbia fornito “assistenza di viaggio, alloggio e finanziamenti” a Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, ambedue poi a bordo del volo AA 77 che si schiantò contro il Pentagono. L’ordine esecutivo di Biden è stato emanato dopo che oltre 1.600 persone, feriti o familiari di vittime degli attacchi, gli avevano scritto una lettera aperta, chiedendogli di non andare a Ground Zero sabato scorso, se non avesse prima pubblicato le informazioni in possesso dell’Amministrazione sul ruolo negli attentati dell’Arabia Saudita. L’ambasciata saudita a Washington ha accolto “con favore” il rilascio dei documenti dell’Fbi, ma ha pure ribadito che “ogni accusa contro l’Arabia Saudita di complicità negli attacchi dell’11 settembre sarebbe categoricamente falsa”. Alla vicenda dedica attenzione ProPublica, un team di giornalisti non profit che smaschera abusi di potere. Il dossier reso pubblico si basa su un interrogatorio condotto nel 2015 da agenti dell’Fbi su un uomo – identificato solo come PII – che aveva lavorato nel consolato saudita di Los Angeles, che aveva ospitato in casa al-Hazmi e al-Mihdhar e che aveva contatti con due sauditi, Omar al-Bayoumi e Fahad al-Thumairy, che avrebbero offerto “significativo supporto logistico” ai due dirottatori. Thumairy era un diplomatico del consolato di Ryad a Los Angeles e sarebbe stato la guida religiosa d’una fazione estremista nella moschea che frequentava. PII potrebbe essere Musaed al-Jarrah, funzionario di medio rango dell’ambasciata saudita a Washington. Il documento fa anche riferimento a una telefonata del 1999 dall’apparecchio di Thumairy alla casa in Arabia Saudita della famiglia dei due fratelli che vennero poi detenuti a Guantanamo.

Settimane fa, tre ex funzionari sauditi erano stati interrogati, via Zoom, in un’aula di giustizia di New York, dagli avvocati delle famiglie delle vittime nella speranza che le loro deposizioni, fin qui evasive e reticenti, fornissero nuovi elementi. Nel 2004, le conclusioni della commissione d’inchiesta sull’11 Settembre affermarono che “non ci sono prove che il governo saudita o suoi funzionari abbiano finanziato” l’attacco all’America. Ma l’intensità dei rapporti tra Washington e Ryad ha sempre fatto dubitare della veridicità dell’affermazione.

“Chi se ne frega di Cdu o Spd: in Germania conta solo la Merkel”

Davanti al Comune c’è un chiosco di gelati alla spina. Il proprietario infila una cartuccia alla fragola nella grossa macchina d’acciaio e spilla una crema rossastra sul cono. Due euro per il sorriso di un turista attempato. “I miei genitori sono stati sposati da padre Merkel”. Sven parla appoggiato alla sua sputagelati, è nato e cresciuto a Templin la città dove la famiglia della cancelliera è emigrata a inizio anni 50. Horst Kasner, padre di Angela Dorothea, era un pastore luterano che, pochi mesi prima della nascita della figlia, scelse di lasciare la Germania Ovest e trasferirsi in quella dell’Est. Angela nacque ad Amburgo e subito dopo, la madre seguì il pastore Kasner a Templin. “Non la vediamo molto da queste parti – continua il gelataio – ma l’ammiro, la rispetto”. E appena si parla di futuro, delle prossime elezioni, si capisce che per Sven è una questione personale “non importa che sia della Cdu, potrebbe anche essere del Spd. Dei partiti non ci si può fidare, ma di lei sì”.

Un gruppetto di turisti attraversa la piazza del paese, magliette colorate, visiere per proteggersi dal sole, nascosto dietro nuvole invernali. Templin non ha grandi attrazioni: un piccolo museo comunale, una minuta torre medioevale e tanti corsi d’acqua. Gli alberghi organizzano tour sui battelli e circuiti termali. Tanto basta perché la cittadina dell’ex Germania Est sia un ritrovo per i pensionati. “Siamo di Lipsia, in vacanza per qualche giorno” la 73enne Karyn spiega che non era mai stata a Templin, ma stima molto la sua cittadina più illustre: “È una donna che avuto molta pazienza. Ha saputo trattare sempre e con tutti, anche con chi le rendeva le cose impossibili”. Sedici anni di cancellierato sono così tanti che i demeriti quasi spariscono. Sorgono invece tanti dubbi su chi la sostituirà: “Dei tre candidati nessuno ha la sua forza, nessuno sarà capace di avere un governo che duri a lungo come il suo”. In Germania si parla poco di programmi e partiti, la questione è la successione. L’eredità del potere, ma anche di un modo di intendere la politica. In quattro mandati la cancelliera si è distinta sempre per i lunghi tempi di reazione. Agisce solo dopo attente riflessioni. Studia quello che vogliono gli elettori, ogni mese commissiona almeno 15 sondaggi diversi, elabora previsioni. Se una riforma è richiesta della base socialdemocratica Merkel la mitiga e la adatta al suo governo conservatore. Questo metodo le ha fatto fare anche importati cambi di rotta, come per la questione del nucleare. Appena eletta, come chiedeva la Cdu, Merkel allungò fino al 2034 l’operatività delle centrali attive. Dopo il disastro nucleare di Fukushima le sensibilità degli elettori cambiarono e il pensiero della cancelliera con esse. Impose la chiusura di tutte le centrali entro il 2022. Ha saputo come rispondere alle esigenze dei tedeschi, anteponendole alle richieste della Cdu. Da quando è in carica l’astensione è sempre aumentata. Gli elettori non si sono sentiti chiamati alle urne per difendere le proprie idee, alla guida della Germania c’è già chi le sapeva interpretare. Questo non ha fatto bene alla Cdu, il partito ha perso parte della propria identità. “Io ho un lavoro di cui sono felice e se tutto procede come sta andando adesso non potrò lamentarmi”. Nico ha poco più di vent’anni, è un addetto alla segnaletica stradale. Voterebbe Merkel, ma non per il suo partito e ancora meno per il suo candidato. Su un palo, poco dopo il semaforo sul quale sta lavorando il giovane manutentore, c’è una caricatura di Armin Laschet. Die Partie, è il partito nato da un giornale satirico, ha eletto due europarlamentari e un deputato al Bundestag.

Sul loro manifesto Laschet è ritratto come un minion: pupazzetti gialli dei cartoni animati che non parlano e hanno come unico scopo nella vita quello di servire il proprio padrone, cattivo. Il candidato della Cdu viene dall’estremo occidente del paese, da una famiglia francofona. A Templin si è sempre studiato il russo. E Merkel è stata per tutto il periodo scolare la migliore studentessa di lingua. Era talmente brava che il preside la inviò, a soli 12 anni, in viaggio premio a Mosca per il centenario della nascita di Lenin. La scuola in mattoni rossi dove ha studiato la giovane Angela è ancora al suo posto, tra la stazione dei pompieri e il fiume. A mezzogiorno i bambini scendono le scale, attraversano una strada in ciottolato e vanno verso la pista di atletica. “Qui non è cambiato molto da quando la Merkel è al governo – dice Anita coetanea della cancelliera – ci vedevamo da bambine. La sua famiglia è sempre stata ben voluta. Sono stata domenica sulla tomba di sua madre”.

Anita ha già votato per posta, non per la Cdu, ma non vuole parlare di politica: “Sarei stata contenta se avesse deciso di fare altri quattro anni come cancelliera”. Anita non prende nemmeno in considerazione la possibilità di una mancata rielezione. Merkel lascia nel momento in cui ogni sondaggio la darebbe come favorita, mentre il suo partito è al minimo storico. Ma sembra che nessuno, almeno a Templin una verde cittadina dell’ex Germania Est, addossi ad Angela la responsabilità del disastro a cui va in contro il partito che ha guidato per quasi un ventennio.

Tutte le regole delle campane a morto (e loro utili eccezioni)

Paese che vai, usanza che trovi. Nel mio ne esiste una legata in qualche modo alla numerologia. Sia chiaro, non escludo che sia presente anche altrove, saranno ben accette quindi informazioni che mi aggiorneranno a tal proposito. Tornando al punto, l’usanza di cui si diceva riguarda coloro che abbandonano la vita terrena per raggiungere l’aldilà. Pare infatti che quando ne parte uno/a sia regola fissa che altri/e due debbano salire sulla pista di lancio per raggiungerlo/a, così da completare il, per tanti versi magico, numero tre. Ne consegue che quando le campane a morto si inseriscono nei rumori del quotidiano, oltre all’inevitabile curiosità, Chi sarà?, si avvia l’attesa. Non è un’attesa che si macchia di previsioni indicando indiziati/e per le ragioni più varie (malattia o età). È piuttosto un momento sospeso sopra il quale par che domini il manzoniano motto “A chi la tocca la tocca”, che non esclude sorprese di sorta. Tuttavia scopro recentemente, e me ne sorprendo io per primo risiedendo in loco praticamente da che sono al mondo, che c’è un’altra regola nella regola, più sottile, sorta di codicillo insomma. Lo scopro durante un’oziosa oretta passata in panchina a fingere di essere immerso in chissà quali pensieri al solo scopo invece di ascoltare le chiacchiere altrui. Poiché in quel frangente eravamo giunti a quota due decessi (il Covid non c’entra), ne mancava uno per soddisfare l’ineffabile regola del tre. E lo sarebbe stata visto il lugubre scampanio che nelle ore del primo mattino aveva dato la ferale notizia permettendo a tanti, compreso il sottoscritto, di recitare una prece alla memoria ma anche tirare un sospiro di sollievo. Ma ascoltando scopro, ahimè!, che detta regola vale solo per i residenti e non per coloro che passano sulle rive del lago qualche giorno di vacanza e, ahiloro!, vi incontrano il destino. Così com’è capitato a quel terzo sfortunato che quindi non conta ai fini della regola suddetta. Ragione per la quale l’attesa ricomincia.

Gassman in biga, no a Shakespeare e “miao” in strofa

Mutande. Negli anni Novanta, fuori dalle stanze d’albergo di Harvey Weinstein ai festival di cinema, c’era la fila di donne pronte a lanciargli le mutande.

Vittime. Victim blaming: in neolingua, “colpevolizzare le vittime; qualunque dubbio tu esprima su una qualunque versione dei fatti di una qualunque autocertificata vittima, la stai colpevolizzando e fai un po’ schifo” (g.s.).

Vittime. “La nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime” (Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano, 1994).

Bambine. Nel 1972, in una puntata di Canzonissima, Vittorio Gassman – dopo che la sua voce fuoricampo aveva annunciato “voglio entrare in maniera semplice, tranquilla, modesta” – entrava in scena assiso su una biga, tirata non da cavalli, ma da signore impellicciate che il condottiero frustava per farle marciare. Pippo Baudo domandava chi fossero. Gassman rispondeva: “La baronessa Taranti Maielli, la presidentessa delle opere pie dell’alto Lazio, e altre ammiratrici che si sono prestate volontariamente per tirare la mia biga. Brave bambine, vi siete fatte ammirare, ora in scuderia”. Poi quelle uscivano mute e lui procedeva a fare il suo numero.

Cagna. Nel 1983, sul set di Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada, Lina Wertmüller gridava “Cagna!” a Valeria Golino, al suo primo ruolo. Oggi l’attrice ricorda l’episodio con affetto: “Le voglio un bene dell’anima. Meno male che l’ho incontrata”.

Miao. In una canzone del 1983 Marcella Bella cantava “Violentami, violentami, miao”.

Doppiaggio. Nel gennaio 2021 il New York Timesstigmatizzava il fatto che Soul, primo cartone Pixar con un protagonista nero, “inclusivo dell’esperienza afroamericana”, in Danimarca sia uscito doppiato da un attore bianco.

Shakespeare. Nel 2016 gli studenti di Yale chiesero che dai programmi di letteratura venisse tolto Shakespeare, la lettura del quale creerebbe “una cultura ostile agli studenti di colore”, proponendo di inserirvi invece autori donne e gay e di “decolonizzare il programma di studi”.

Indignazione. “L’indignazione dell’altro ieri, già non ce la ricordiamo più” (Luca Bizzarri).

Cultura. “Ogni cultura tende a essere comica agli occhi delle altre, ma non lo è mai ai propri occhi” (René Girard, Anoressia e desiderio mimetico, Torino, Lindau, 2009).

Cani. Tale John Whipple, visto che sua sorella aveva pianto tantissimo guardando Balla coi lupi, nel 2018 aprì il sito DoesTheDogDie.com, che, vicino al titolo di un film, elenca i possibili traumi che la visione può suscitare. Nell’elenco dei possibili dispiaceri associati a ciascun titolo ci sono: un cane muore? il film svela che Babbo Natale non esiste? qualcuno viene chiamato con il pronome sbagliato? ci sono battute sui grassi? ci sono scene di doccia? muore un drago? muore una persona LGBT? muore per primo un nero? Per The Crown, come possibile fonte di traumi, DoesTheDogDie segnala: la bulimia di Diana, il fatto che i colonialisti si riferiscano ai neri come “selvaggi”, la morte di fagiani, pesci, un cervo, e la presenza di aragoste sì vive, ma con l’evidente intenzione dei personaggi di mangiarle.

Robespierre. “Robespierre sarebbe fierissimo di Twitter” (g.s.).

Notizie tratte da: Guia Soncini L’era della suscettibilità. Marsilio, Venezia. Pagine 192, € 16,15

2. Fine

Missione: ucciderelo smart working

Brunetta è come quel giovane che prima ammazza i genitori e poi chiede clemenza al giudice perché orfano. È stato ministro della PA dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011; lo è di nuovo dal 13 febbraio scorso. In 50 mesi non ha fatto nulla per avviare una seria adozione dello smart working nella PA e ora dice che la PA non è pronta ad adottarlo, per cui i dipendenti pubblici, dopo 19 mesi di lavoro a distanza, debbono tornarsene in ufficio come se finora avessero scherzato.

Le lobby delle società immobiliari, petrolifere e automobilistiche gliene saranno grate. Meno grati gli saranno quei dipendenti pubblici che, costretti improvvisamente a lavorare lontano dagli uffici, in questi 19 mesi hanno fatto salti mortali per riorganizzare il proprio lavoro, la propria famiglia, la propria casa, la propria vita, contribuendo alla salvezza dell’economia, della salute, della scuola, dell’insegnamento, dell’ambiente e dei servizi. Brunetta ha impietosamente liquidato tutto questo come “un banale e più comodo lavoro da casa”.

Proprio ora che – come egli stesso riconosce – è aumentata la consapevolezza sui vantaggi del lavoro da remoto e si è accelerata l’alfabetizzazione digitale dei dipendenti pubblici, questi, invece di trasformare l’esperimento ben riuscito in prassi ordinaria, debbono riavvolgere la moviola per tornare a una “normalità” antidiluviana. Il 9 settembre Brunetta ha pubblicato sul Foglio un appello intitolato “Tornare al lavoro”, dando così per scontato – sulla scorta delle diffamanti dichiarazioni di Ichino – che in questi 19 mesi di lavoro agile i dipendenti pubblici hanno fatto nient’altro che una lunga vacanza. L’appello prosegue in quarta pagina dove il titolo diventa brunettianamente grossier: “Lettera ai difensori (ipocriti) dello smart working nella PA”. Ma ricapitoliamo i fatti. Il primo marzo 2020 gli smartworkers erano 570.000 ma il 10 marzo ben 6,5 milioni di lavoratori furono costretti a operare da casa, blindati dal Covid. Ciò che fu realizzato in fretta e furia sotto la sferza della pandemia si sarebbe potuto introdurre razionalmente e gradualmente negli anni precedenti. Ma Brunetta non lo fece.

Comunque, i 19 mesi appena trascorsi si sono tradotti in un lungo e vasto esperimento corale che ha consentito alle aziende e ai lavoratori di testare tutte le modalità, le difficoltà e le opportunità del lavoro a distanza. In questi 19 mesi vi sono stati periodi di lockdown in senso stretto, durante i quali i capi hanno imparato a organizzarsi per obiettivi e i dipendenti, costretti in casa, hanno imparato a crearsi le postazioni, a coniugare i propri tempi e i propri spazi con quelli dei conviventi. Ma vi sono stati anche lunghi periodi di zone bianche o gialle in cui i lavoratori hanno avuto piena libertà di movimento e hanno potuto sperimentare un vero e proprio smart working, lavorando dove, come e quando preferivano. Brunetta dice che si è trattato sempre e solo di “una forma di lavoro domiciliare forzato realizzata nel giro di pochi giorni… senza una scelta organizzativa e strategica di fondo”. Ma non dice cosa è successo dopo quei primi “pochi giorni” e prima che egli comparisse a Palazzo Vidoni. Nei dieci mesi successivi al marzo 2020, la ministra Dadone , intuite le straordinarie opportunità riorganizzative offerte dalla terribile circostanza pandemica, aveva fatta propria la definizione dello smart working formulata dall’Osservatorio del Politecnico di Milano e aveva reso esplicita, attraverso dichiarazioni, documenti, proposte di leggi e decisioni, una vera e propria filosofia manageriale. Inoltre la ministra aveva creato un Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle PA e, al suo interno, una Commissione tecnica, chiamando a farne parte alcuni tra i massimi esperti della materia che avrebbero dovuto accompagnare il passaggio dell’esperimento da fatto emergenziale a una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa nella PA. Brunetta ha confermato formalmente questi due organismi e i loro compiti ma, di fatto, li ha ignorati.

Nel suo appello sul Foglio Brunetta spiega perché, a suo parere, almeno l’85% dei dipendenti pubblici deve tornare subito in ufficio. “Non esiste ancora una piattaforma sicura dedicata allo smart working nella Pubblica amministrazione, l’interoperabilità delle banche dati è un processo in fieri… Nessuna azione di accompagnamento è stata possibile, nessuna sensibilizzazione e formazione specifica dei lavoratori. La definizione in termini di luoghi, tempi, strumenti della prestazione e di esercizio dei poteri datoriali in capo all’amministrazione è stata assente”. Non sono stati effettuati “quei processi di trasformazione organizzativa nell’ottica della definizione di obiettivi prestazionali specifici e misurabili volti a riconoscere maggiore autonomia e responsabilità del dipendente”. Nessuna attenzione è stata prestata al diritto alla disconnessione; “nessun coinvolgimento adeguato delle parti sociali… Nessuna conoscenza acquisita nel tempo sul benessere del lavoratore e dell’ambiente di lavoro in cui opera è stato oggetto di ripensamento in chiave smart”. È rimasto in secondo piano il miglioramento della conciliazione vita-lavoro e della produttività. “È mancata la programmazione, è mancata la definizione dei target e degli obiettivi, e sono mancati gli strumenti informatici per la raccolta e analisi dei dati e il monitoraggio dei risultati raggiunti”.

Ma chi doveva fare tutto questo? La Dadone lo aveva bene avviato ma, dopo di lei, Brunetta ha impiegato sei mesi per strozzare in varie tappe l’esperimento in atto e ora rinvia lo smart working alle calende greche annunziando un percorso “né rapido, né semplice”. È dal 1990 – dall’anno in cui Inps adottò per primo lo smart working in Italia – che tutti gli antagonisti del lavoro agile ne ostacolano l’introduzione rinviando i suoi tempi ed enfatizzando le difficoltà che essa presenterebbe, le attrezzature megagalattiche, la formazione, il tempo e la cautela che esigerebbe. Con questo alibi migliaia di capi retrogradi hanno ostacolato per anni la modernizzazione delle organizzazioni, allo scopo recondito, antistorico e psicanalitico di impedire la ridistribuzione del potere in azienda e la ricongiunzione del lavoro dei dipendenti con la loro vita. Fornendo un supporto definitivo a questa nuova forma di luddismo, Brunetta passerà alla storia come il prototipo del luddista postindustriale.

Per fortuna, nell’ambito della stessa PA, le migliori organizzazioni pubbliche – dalla Banca d’Italia all’Inps – hanno utilizzato questi mesi per perfezionare lo smart working dei propri dipendenti conducendo analisi scientifiche e precisi monitoraggi, varando l’organizzazione per obiettivi, stipulando i necessari accordi sindacali, ristrutturando gli uffici, formando i capi. Tutte buone pratiche che, in questi sei mesi, Brunetta avrebbe potuto sollecitare nell’intera PA.

Se almeno leggesse i rapporti delle tante ricerche recentemente eseguite da molte pubbliche amministrazioni, saprebbe che lo smart working ha quasi sempre elevato i livelli di produttività dei lavoratori. L’Inps, ad esempio, ha smaltito da remoto una montagna di lavoro dieci volte superiore a quella ordinaria. Se dunque il ministro vuole davvero incrementare l’efficienza del settore pubblico, tutto deve fare tranne che ridurre la quota di dipendenti in smart working.

In sintesi, Brunetta deve convincersi che, per assicurare servizi di qualità ai cittadini, alle famiglie e alle imprese, prima di tutto deve avere dipendenti pubblici motivati e felici. Se, invece, continua a sottoporli alle docce scozzesi del suo bipolarismo e ad assumere giovani a tempo determinato, facendo dello Stato un creatore di precarietà, rischia di concludere questa seconda esperienza di ministro in modo ancora più deludente di quanto abbia concluso la prima.

 

La piccola rom nata in carcere per colpa di una email

Non ha trovato che minimo spazio una notizia che, in un Paese civile, avrebbe dovuto finire in prima pagina. La notte dello scorso 3 settembre nel carcere di Rebibbia, cioè nella Capitale d’Italia, una bambina è venuta al mondo dietro le sbarre di una cella. Non dico in infermeria. Proprio in cella l’ha partorita sua madre Amra, una rom di 23 anni arrestata per furto a fine luglio scorso. L’unica assistenza le è giunta dalla compagna di detenzione Marinela, a sua volta incinta al quinto mese, che poi ha avvolto la neonata in un asciugamano e, gridando, è finalmente riuscita a richiamare l’attenzione delle guardie.

Questo infame luogo di nascita la bimba non se lo troverà inscritto sulla carta d’identità, ma rimane il marchio di un destino segnato: nata in galera, perché nessuno ha risposto a una email della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, che il 17 agosto chiedeva di trasferire la donna nell’apposita casa famiglia protetta, di cui forniva nome, indirizzo e disponibilità.

Mi piacerebbe poter sperare che almeno uno dei quattro candidati sindaci di Roma voglia assumersi l’impegno di un risarcimento, affinché la vita futura di questa creatura, e della sua giovane madre che ha già altri tre figli, non si riduca a un entra/esci dalla prigione ma – pur con tutte le difficoltà del caso – segua un percorso di reinserimento sociale. Trattandosi di rom, temo che sia un’illusione. Viene riversata su queste donne l’accusa di farsi mettere incinte apposta per poter continuare a delinquere, il che giustificherebbe la loro detenzione. In realtà si tratta di pochissimi casi. Del resto, fino a cinquant’anni fa, in Svizzera ne era contemplata la sterilizzazione forzata. Quelli del “rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave” devono mettere per forza nel conto anche i bambini in carcere. Magari fin dal primo respiro.

MailBox

 

“Imbecilli” e vaccinati: valutare i costi-benefici

Caro direttore, in merito a una sua risposta a un lettore di qualche giorno fa, capisco il suo punto di vista. Ma chi si vaccina e muore ogni giorno per gli effetti collaterali, o sta molto male con strascichi pesanti come nella malattia? Esistono anche questi, sa? O ancora, quelli che vanno in giro da vaccinati con la febbre perché “tanto io non contagio nessuno”, come li chiamiamo? Io mi sentirei comunque male a esprimermi pesantemente in questa situazione. Non la giudico perché è troppo sagace e intelligente!

Anna Solinas

 

Leggo or ora la risposta di Travaglio a un lettore riguardo agli anti-vax (a dir la verità, in questi giorni è capitato spesso). Quando ho letto l’opinione personale del direttore, sono rimasto di sasso. Tutto il lavoro fatto da lui e dagli altri giornalisti del suo giornale è stato rovinato da quel “un bel po’ imbecille” di troppo. Mi spiace scriverlo, ma non era un parere da esprimere vista la delicatezza dell’argomento e tutto il lavoro fatto da voi per una corretta comunicazione.

Marco Schiavetti

 

Caro direttore, lei dice che chi non si vaccina e poi muore di Covid “un bel po’ imbecille lo è”. Pensa che fossero imbecilli anche i miei 4 amici che si sono vaccinati e ora stanno male da oltre 2 mesi e non trovano soluzione? E pensa che fossero imbecilli quei circa 21.500 morti pochi giorni dopo la vaccinazione in Europa negli ultimi 3 mesi e i circa 2.750.000 europei che hanno avuto pericarditi, miocarditi, trombosi, emiparesi, cecità, edemi, infarti, dolori di testa atroci subito dopo la vaccinazione, e prima stavano benissimo? lo un anno fa con febbre a 40 e forti dolori sono guarito in soli 5 giorni, in casa, con il nimesulide. Sarò un imbecille anche io che, dopo aver considerato il contenuto dei vaccini e il rapporto costi/benefici del Covid, non mi sono vaccinato?

Enrico Costantini

 

Cari Anna, Marco ed Enrico, basta dire la verità: ogni farmaco ha effetti collaterali avversi e nessun farmaco dà il 100% di protezione. Si tratta di bilanciare ogni volta i rischi e i benefici. Per il Covid i rischi, sopra una certa età, sono infinitamente inferiori ai benefici.

m. trav.

 

Bersani, un liberale pronto per il Quirinale?

Mi rendo conto che la mia idea di vedere la Gabanelli al Quirinale è improponibile in una democrazia bananiera, perciò vorrei proporre il nome di un liberale che ha militato, per puro caso, nel Partito comunista: Pier Luigi Bersani. Lui stesso ha dichiarato più volte, senza essere smentito, di aver liberalizzato più di qualsiasi altro governante, quando era ministro. lo lo ritengo un socialdemocratico all’acqua di rose (poteva annientare nella culla Renzi e non l’ha fatto) che va d’accordo un po’ con tutti. Non è il mio tipo, però è sempre meglio di Napolitano, Draghi, Mattarella. Possibile che non lo si ritenga meglio del benefattore di Ruby Mubarak?

Angelo Casamassima Annovi

 

Silvio fugge dal Ruby ter e poi lo vogliono al Colle

In questi giorni che, come al solito, Berlusconi fugge dal processo Ruby ter: trova tutte le scuse per non andare a farsi processare, così può mentire spudoratamente e dire che non ha condanne. La cosa che mi indigna di più è che Salvini e Meloni lo candidano per la presidenza della Repubblica; considero questa proposta un vero e proprio vilipendio alle istituzioni. Mi stupisco della grandissima faccia tosta di queste specie di leader che mentono sapendo di mentire mentre una parte degli italiani finge di credere alle loro balle. Spero ci siano altre persone come voi che si battono perché ciò non accada.

Gino Barile

 

Israele: terza e quarta dose, ma richiudono

Ci avevano detto che con la vaccinazione avremmo sconfitto il virus raggiungendo l’immunità di gregge e non si è verificato: continuiamo a contagiarci. Ci portavano ad esempio Israele. Loro sì che sono bravi: si sono vaccinati tutti e son tornati a una vita normale! E ora eccoli lì che, invece, son tornati a prendere provvedimenti restrittivi per scongiurare il dilagare del contagio. Questi vaccini non valgono niente: sai che dico io? Non mi vaccino. Mi ricordo una battuta che vede un marito, arrabbiato con la moglie, evirarsi per farle un dispetto. Certo, un po’ di delusione c’è, ci aspettavamo di meglio, però a me basta che mi diano assicurazione che il vaccino diminuisca, di tanto o di poco, la probabilità che io mi contagi e mi eviti le più nefaste conseguenze del morbo, per precipitarmi a farlo.

Giampiero

 

Il “Corriere” e il caso degli auguri a Dell’Utri

Gli amici di Marcello Dell’Utri, condannato dalla Cassazione a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, hanno acquistato un’intera pagina del Corriere destinata agli auguri per i suoi ottant’anni. Quando Grillo tentò di comprare una pagina del quotidiano di via Solferino, con lo scopo di rendere noti i nomi dei 21 parlamentari condannati in via definitiva, invece, il permesso gli venne negato. Gli antichi Romani dicevano che pecunia non olet, nel senso che i soldi generalmente si accettano sempre, senza preoccuparsi troppo della loro provenienza, ma si sbagliavano: certi signori accettano solo il denaro di quelli che i pregiudicati li vogliono commemorare.

Jacopo Ruggeri

 

Legalizzare la cannabis toglie introiti alla mafia

Mai fatta una “canna”, ma ho firmato il referendum per la depenalizzazione dell’uso, la vendita legale e la coltivazione di cannabis. Come hanno fatto già 220 mila persone, perché il consumo di questa droga leggera è ancora punito con pene che arrivano a 6 anni di carcere. Sanzioni assurde, che intasano giustizia e carceri con migliaia di casi. Inoltre, questa legalizzazione taglierebbe introiti ingenti alle mafie, per spostarli nelle casse dello Stato e faciliterebbe la disponibilità di cannabis per chi ne fa un uso terapeutico. Nel metodo, poi, questo referendum rinforza la costruzione di un nuovo consenso liquido digitale.

Massimo Marnetto

Adozione. “Da 2 anni siamo in attesa di andare in Cina. Ma senza risposte”

Siamo una coppia adottiva in attesa di partire per la Cina dal 2019. Abbiamo seguito con apprensione la vicenda dei genitori adottivi in India e purtroppo è di questi giorni la notizia del decesso di Enzo Galli (l’uomo contagiato dal Covid durante il viaggio in India con la consorte per adottare la loro bambina, ndr). Non abbiamo le competenze per dire se ci siano delle responsabilità, né conosciamo tutti i dettagli di questa vicenda, che non vogliamo assolutamente, nel rispetto del dolore altrui, strumentalizzare. Come coppia adottiva in attesa di partire temiamo ora che la soluzione più comoda sia quella di ritardare le partenze o evitarle a scopo cautelativo. La soluzione non è questa. Sono anni o meglio è da sempre che le famiglie adottive chiedono maggiore attenzione dalle istituzioni. Non si può parlare di adozioni solo quando se ne muore. Non si può rispondere alle coppie che ci sono altre emergenze nel nostro Paese. Siamo anche noi cittadini italiani, meritiamo risposte, soluzioni e impegno politico costante sia quando occorre un intervento diplomatico per sbloccare adozioni sospese da ormai due anni, sia quando come in tali situazioni un cittadino abbia necessità di rientrare in patria e non è giusto che debba fare una colletta tra parenti e amici sperando di poterselo permettere. Il mondo adottivo è un mondo che merita la dovuta attenzione da parte dei capi di Stato, da parte dei ministeri coinvolti, da parte della collettività tutta.

Loredana Di Pizio

Conte ha sbagliato a definirsi stanco, ma è l’unico leader

La frase di Giuseppe Conte sulla sua stanchezza è un evidente errore di ingenuità, peraltro abbastanza raro in una persona che comunicativamente sbaglia poco. È ovvio che, se dici “sono stanco e non so quanto durerò” andando su e giù per l’Italia, e lo dici quando sei capo del Movimento 5 Stelle da pochissimo e quel tour lo hai appena cominciato, presti il fianco ad attacchi di ogni tipo. Ancor più se sei Conte, e dunque per 3 giornalisti su 4 hai torto a prescindere. Quella frase, però, rivela involontariamente l’unico vero limite di Conte. Ovvero il suo essere “alieno” alla politica. In un Paese che ha la memoria storica dei pesci rossi morti, giova ricordare che Conte fino a poco più di tre anni fa non c’entrava nulla col mondo storto che ora frequenta. Di colpo è passato da una vita di avvocato e professore di successo a quella di un Presidente del Consiglio di due governi, peraltro di segno opposto. E il secondo di quei due governi ha pure attraversato (primo in Europa) una pandemia che ahinoi perdura ancora. Conte è un unicum politico mondiale, che costringe (o almeno dovrebbe costringere) gli scribi nostrani a sforzi suppletivi e sfaccettature continue. Prassi mentali troppo faticose, e dunque buona parte dei media risolve il problema crivellando a nastro il “diverso” e celebrando la “restaurazione”. Conte resta però un “diverso”, e come tale – se solo si ferma un attimo a riflettere su quel che sta facendo – avverte subito voglia di tornare alla vita di prima, meno faticosa e più redditizia. Essere diverso dagli altri è la forza di Conte, perché ne sottolinea la lontananza dagli “altri”. Ma è anche il suo limite, perché è tutta da valutare una sua tenuta alla distanza in un microcosmo politico fatto non solo – ma temo soprattutto – di furbetti, conformisti, cinici e carogne. Verrebbe da dire che Conte può disarcionarsi unicamente da solo, vuoi per stanchezza e vuoi per inesperienza, perché al momento non ha rivali nella sua parte politica. Bastano due parole per ribadirlo: “espulsione” e “ovazione”.

L’espulsione del candidato reo di avere insultato Giorgia Meloni non è solo una mossa sacrosanta, perché certi toni vanno bene al massimo per una gara di rutti tra Borghi e La Russa, ma è pure l’ennesima sottolineatura della diversità contiana. Se lui caccia dalle liste chi anche “solo” insulta, la destra fa l’opposto. Grida al sacrilegio se riceve critiche, ma poi nelle sue milizie smandruppate apre porte e baracche (anche) a insultatori, nostalgici, antisemiti e fascistoni. Questa sensazione di totale estraneità di Conte dalle mefitiche logiche partitiche è per lui manna dal cielo (e per gli altri kryptonite). Quanto poi all’ovazione, basta pensare a come Conte sia stato accolto la settimana scorsa alla Festa dell’Unità di Bologna. Una manifestazione d’affetto arrivata non dal suo popolo naturale, ovvero i 5 Stelle, ma da quegli elettori (di cui faceva parte lo stesso Conte fino al 2018) che fino a due anni fa guardavano ai grillini come a dei trogloditi ipodotati. Quella standing ovation, che senz’altro avrà indispettito giornaloni e tromboni, dice una cosa molto semplice: che anche gli elettori del Pd vogliono Conte. Per meglio dire: che la maggior parte di loro ne ha apprezzato le qualità di Presidente del Consiglio nel secondo governo e che vuole ora quel “campo progressista” di bersaniana memoria. Conte, a oggi, è l’unico leader credibile da contrapporre a questa destra troppo spesso vomitevole. A meno che, nel frattempo, non sia Conte stesso a rompersi le scatole.