Gli sgarbi Draghi-Franceschini in vista dell’elezione al colle

La nomina del nuovo sovrintendente del- l’Archivio di Stato lascia strascichi, culturali e politici, che arrivano perfino a lambire la prossima sfida per il Quirinale. I fatti sono noti. Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, ha nominato al vertice dell’Archivio centrale dello Stato Andrea De Pasquale, già direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Protestano le associazioni dei famigliari delle vittime delle stragi italiane, che in una lettera al presidente del Consiglio, Mario Draghi, ricordano che il sovrintendente dell’Archivio di Stato ha anche il delicatissimo compito di guidare il comitato che deve attuare la “direttiva Renzi”, quella che gestisce i documenti declassificati sulle stragi; e De Pasquale, da direttore della Biblioteca nazionale, aveva annunciato l’acquisizione del fondo Rauti con un comunicato (dai toni agiografici) stilato dalla famiglia Rauti, senza contestualizzare la figura e il ruolo di Pino Rauti: militante dei Fasci di azione rivoluzionaria e fondatore di Ordine nuovo, il gruppo fascista protagonista della strategia delle stragi, che secondo sentenze definitive è l’organizzatore dell’attentato di piazza Fontana e di quello in piazza della Loggia. De Pasquale aveva anche partecipato alla presentazione (celebrativa) della donazione, a fianco di Isabella Rauti, figlia di Pino e senatrice di Fratelli d’Italia, impegnata a riabilitare la figura del padre. Quali garanzie di rigore scientifico e di fedeltà alla Costituzione antifascista può dare un funzionario che elogia la figura di Rauti? Questo hanno chiesto a Draghi i presidenti delle associazioni ricevuti a Palazzo Chigi, Paolo Bolognesi (strage di Bologna), Manlio Milani (Brescia), Daria Bonfietti (Ustica), insieme a Ilaria Moroni (Archivio Flamigni).

Draghi ha loro risposto che da cittadino italiano, prima ancora che da presidente del Consiglio, desidera la verità sulle stragi. E ha compiuto un atto clamoroso: ha tolto a De Pasquale la guida del comitato sulla declassificazione, affidata invece al segretario generale della presidenza del Consiglio, assicurando inoltre che seguirà personalmente questo dossier. È un’ottima notizia, che segue quella dell’ampliamento della “direttiva Renzi” da parte di Draghi: anche Gladio e P2 sono aggiunti ai temi da cui togliere il segreto. Restano però aperti tre problemi e, sullo sfondo, un interrogativo. Il primo problema lo ha segnalato su queste pagine Tomaso Montanari: la destituzione di De Pasquale dal coordinamento del comitato consultivo per le attività di desecretazione lascia un’anatra zoppa al vertice dell’Archivio di Stato e appanna il prestigio di quell’istituzione. Il secondo ne è una conseguenza: la decisione di Draghi suona come una secca smentita della scelta di un suo ministro, quel Franceschini che non ha voluto ascoltare le ragioni delle associazioni, degli studiosi e dello stesso Comitato superiore dei beni culturali che criticavano quella scelta. Il terzo problema è più strutturale. Il comitato strappato a De Pasquale sta a valle delle attività di declassificazione. Riceve e gestisce i documenti su cui, a monte, il segreto viene tolto dai direttori dei servizi di sicurezza, dei carabinieri, delle forze armate, dei ministeri eccetera. È lì, a monte, che si gioca la partita cruciale. Sapranno e vorranno, le agenzie che in passato hanno posto il segreto, rimuoverlo e fare chiarezza sui depistaggi e sulle indicibili complicità con gli stragisti che furono decisi nel fuoco della guerra fredda?

L’interrogativo finale riguarda invece i prossimi mesi. Franceschini non nasconde la speranza di essere tra coloro che, se Draghi resterà a Palazzo Chigi, saranno in lizza per il Quirinale; e con le mosse che abbiamo qui ricordato può sperare di essersi assicurato i voti di Fratelli d’Italia. La memoria del passato può essere merce di scambio per il futuro?

 

11.9, il vuoto occidentale e la seduzione del male

No. Non sarò così disonesto con me stesso e con i lettori scrivendo che mi sciolgo in lacrime per quanto accadde vent’anni fa a New York. Non lo feci nemmeno allora mentre la tragedia era in corso. Quando accendendo la televisione vidi quello che tutti noi abbiamo visto fui preso da un sentimento ambivalente: da una parte un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano; ma d’altro canto pensavo che quell’evento avrebbe potuto essere un utile insegnamento per gli americani, colpiti, per la prima volta nella loro storia, sul proprio territorio. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano bombardato a tappeto, con tranquilla coscienza, Dresda, Lipsia, Berlino, col preciso intento, come dichiararono i loro comandi politici e militari, di uccidere milioni di civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco” e avevano sganciato una terrificante bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti. Adesso con l’11 settembre sapevano anche loro cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli crollare su se stessi lasciando sul terreno migliaia di vittime. Invece il cowboy, stordito da quel colpo imprevisto, cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan. Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nei commandos che colpirono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre (do you understand? Adesso mi tocca parlare in inglese perché l’italiano ormai non lo capisce più nessuno). Il problema era semmai Osama bin Laden. Ma ottenere la consegna dell’ambiguo Califfo saudita da parte dei Talebani – il Mullah Omar lo disprezzava, lo chiamava “un piccolo uomo” – non sarebbe stato difficile sol che gli americani non si fossero comportati con la consueta arroganza. Del resto durante l’Amministrazione Clinton, dopo gli attentati del 1998 in Kenya e Tanzania, c’erano già stati, per iniziativa dello stesso Clinton, dei contatti tra l’Amministrazione Usa e i Talebani per uccidere Bin Laden. Perché il Califfo era un problema per entrambi: per gli americani, ma anche per i Talebani perché per uccidere Bin Laden gli yankee bombardavano a tappeto le alture di Khost, dove pensavano si trovasse Osama, uccidendo centinaia di civili afghani che con Osama non avevano nulla a che fare. Ma all’ultimo momento fu proprio Clinton a tirarsi indietro. Dopo l’11 settembre fu il modo in cui gli americani pretesero la consegna di Bin Laden a essere decisivo. Il Mullah Omar chiese che fossero fornite delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden fosse davvero alle spalle degli attentati dell’11 settembre. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. A quel punto il Mullah Omar replicò che a quelle condizioni non poteva consegnare una persona che stava sul suo territorio. Cioè si comportò come avrebbe fatto qualsiasi capo di Stato di un Paese sovrano. O meglio: come non avrebbe fatto nessun capo di Stato, perché con quella decisione, presa per motivi di principio, il Mullah Omar si giocava il potere e in definitiva anche la vita.

In un lucido articolo scritto per il Fatto (Dalle Torri Gemelle a Kabul: così è crollato l’impero Usa) Pino Arlacchi sostiene che dopo il collasso dell’Urss gli americani avevano bisogno di ricreare un nemico per legittimare la propria egemonia sul mondo occidentale. Ma come nemico mortale l’Afghanistan era un po’ deboluccio. Così vennero le successive demonizzazioni dell’Iraq (per carità, le armi di distruzione di massa Saddam ce le aveva, gliele avevano date gli americani, i francesi e i sovietici, in funzione anti-iraniana e anti-curda, ma al momento dell’attacco del 2003 non le aveva più perché le aveva già usate sugli iraniani e sui curdi) e della Libia di Gheddafi le cui conseguenze disastrose sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma a furia di creare pericoli inesistenti l’atteggiamento degli americani, seguiti come cani fedeli dagli europei con l’eccezione della Germania di Angela Merkel, ha finito per diventare, come scrive ancora Arlacchi, “una profezia che si autoavvera”. E la profezia che si è autoavverata è oggi l’Isis. Proprio la distruzione dello Stato Islamico di Al Baghdadi ha messo in circolazione i veri terroristi internazionali che adesso scorrazzano in tutto il mondo e potrebbero diventare un pericolo che colpisce l’Occidente non solo dall’esterno, ma anche dall’interno. Gli Isis sono oggi in Afghanistan (ma verranno spazzati via dai Talebani che adesso non devono più combattere anche gli occupanti occidentali), in Pakistan, in Somalia, in Mali, perfino nelle Maldive, come ha documentato la bravissima Francesca Borri, in altre aree dell’Africa ex nera, in particolare, nella forma più truce, in Nigeria col gruppo Boko Aram. Isis non è uno Stato, è un’epidemia ideologica. E potrebbe anche contagiare molti occidentali che finora si sono fatti sedurre dalla sua ideologia totalitaria solo in piccoli gruppi (i foreign fighters). Ma di fronte al vuoto di valori che contraddistingue l’Occidente, molti più europei potrebbero esserne attratti. Meglio il Male del niente.

 

La ragazza che chiede tre milioni di euro e la vedova che piange

E adesso, per la serie “Un’altra divertente rubrica per il programma tv che la Rai non mi fa fare dal 2001 perché sono criminoso e invece Pio & Amedeo no”, Arrangiate fresche.

Spagna. Una 19enne nata a Madrid reclama un risarcimento di oltre tre milioni di euro per non esser stata scambiata alla nascita con un’altra ragazza, e per essere cresciuta, quindi, nella propria famiglia biologica. È il caso clamoroso svelato da El País: le due bimbe nacquero lo stesso giorno in un noto ospedale della Capitale iberica. Le neonate furono incubate prima del contatto con le rispettive madri; ma dopo quella fase non ci fu alcuno scambio. Ci sono voluti 15 anni prima che una delle due ragazze coinvolte – la cui identità non è stata resa pubblica – si accorgesse di non esser stata scambiata alla nascita. Ha dunque avviato una battaglia legale per farsi riconoscere i danni subiti, dato che, in caso di scambio, sarebbe cresciuta nella famiglia di Isidoro Alvarez, il magnate di “El Corte Inglés”, la più importante catena di grandi magazzini di Spagna. La richiesta di tre milioni è attualmente congelata perché la giustizia spagnola è in attesa di capire come inquadrare giuridicamente l’accaduto. Sempre secondo El País, l’altra 19enne coinvolta nella vicenda è stata informata dei fatti, ma non risulta abbia sporto analoga denuncia. Inghilterra. Perché può essere così difficile elaborare il lutto per la morte di un marito? Laura Newhart, una giornalista di Londra che scrive di viaggi per diverse testate, negli ultimi 15 anni ha percorso gran parte dei suoi itinerari in compagnia di suo marito e del loro cane, Moony, una femmina di labrador retriever. Il marito è morto lo scorso marzo in seguito a una diagnosi di cancro: gli è venuto un infarto alla notizia. Moony è morta poco dopo sulla tomba del padrone. In un articolo su Outside, noto magazine di escursionismo, la Newhart ha descritto quindi la sua esperienza riflettendo sulla differenza fra il dolore per la morte del marito e quello per la morte del cane. Molte vedove faticano a esprimere ed elaborare il lutto per la morte del marito in forme codificate o socialmente accettate e comprensibili: la Newhart, per esempio, qualche giorno dopo la cremazione entrò fra le spazzole rotanti di un autolavaggio seduta a un pianoforte a coda sotto gli spruzzi. “Pensavo di avere un’esperienza consolidata nell’affrontare certi dolori, ma la tristezza per la perdita di mio marito è stata molto più grande di quella che ho provato per la morte del nostro cane. Mi ha molto sorpreso, quasi terrorizzato, la mia capacità di piangere così tanto”, ha scritto la Newhart, definendo il lutto per la morte del marito “un Vesuvio di dolore che ha coperto di cenere e lapilli la Pompei del mio cuore”. Secondo un articolo pubblicato nel 2002 dalla Wife & Husband Institute (WHI), un’organizzazione non profit americana impegnata nella ricerca sulle relazioni tra gli esseri umani sposati, la morte di un marito è un evento “devastante quanto la perdita di un animale domestico”, e in alcuni casi “anche più intenso”. Per la psichiatra Sandra Pritchard, esperta in servizi di sostegno per vedove fresche, nonché forte tabagista (8 pacchetti di Gauloises all’ora), c’è chi si vergogna che la morte del marito possa generare più sofferenza rispetto alla morte del cane. “Ma quando si rendono conto che la differenza è che il marito le ha sopportarte per anni, e dove lo trovano adesso un altro idiota simile, allora iniziano a rendersi conto del perché stiano soffrendo così intensamente”, dice la Pritchard soffiando un anello di fumo e saltandoci dentro. Oggi Laura Newhart porta il guinzaglio rosso di suo marito nella borsetta: “Lo farò per sempre, penso”.

 

Un altro lockdown sarebbe devastante

Lo aveva affermato anche Aristotele nel IV secolo a.C. Siamo animali sociali. Nessuno può cancellare questo imprinting che abbiamo coltivato e modellato nel tempo. La ricerca scientifica si è interessata molto all’argomento ed addirittura è arrivata ad affermare che la nostra trasformazione da primati a uomini non sia legata esclusivamente a un’evoluzione dei processi di ragionamento, ma soprattutto a un processo “sociale”. Il nostro cervello è cresciuto sulla base della necessità di comprendere, interpretare e prevedere come si sarebbero comportati i nostri simili. Ciò ha creato la necessità di vivere in gruppo, in gruppi diversificati che hanno creato il cosiddetto “senso di appartenenza”, che non è altro che la condivisione di comportamenti, linguaggio, modi di relazionarsi, bisogno di protezione. Il fatto che la nostra normalità sia la socialità è dimostrato dall’evidenza che l’isolamento umano è un sintomo di molti disturbi psichici. Di contro, attività sociali ritardano i processi di invecchiamento e l’evoluzione di alcune malattie neurodegenerative. Cos’è accaduto con il Covid? Privati per lungo tempo della socialità fondante il nostro modo di vivere e costretti a rifugiarci in una socialità illusoriamente alternativa, abbiamo usato il suo surrogato tecnologico. È stata una soluzione? L’analisi delle conseguenze di tale scelta è decisamente negativo, almeno dal punto di vista sociale e psicologico. Come si legge su EpiCentro (ministero Salute) “durante il lockdown sono aumentati i livelli di ansia, depressione e sintomi legati allo stress, soprattutto nei soggetti di sesso femminile. Inoltre, la durata dell’esposizione al lockdown ha rappresentato un fattore predittivo significativo del rischio di presentare peggiori sintomi ansioso-depressivi”. Isolamento non è solo lockdown. È abituare la gente a star lontana, incutendo esattamente il sentimento opposto alla socializzazione, timore anziché senso di sicurezza. Sta per arrivare l’autunno, speriamo che non ci sia una nuova ondata.

 

Calenda poco coccolato dalla tv

“Gli antipatizzanti lo accusano di guidare il partito dei Rolex, dell’agiatezza e degli interessi costituiti dell’imprenditoria italiana, fatto sta che Carlo Calenda risulta essere un leader politico poco coccolato dalla grande stampa (…) e, in regime di par condicio ha un problema non da poco con la televisione pubblica e con quelle private. Vederlo lo si vede, sul teleschermo, ma in dosi sempre più omeopatiche e decisamente irrilevanti rispetto all’interesse mobilitato sui social. Ragion per cui (…) il fondatore di Azione e aspirante sindaco a Roma invierà a breve un’interrogazione all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom). (…) Sembra che il candidato di Azione abbia anche provato a farsi invitare in tivù come leader di partito per discettare di questioni nazionali, promettendo di non pronunciare nemmeno una parola su Roma. Nulla da fare, almeno per il momento. (…) Forse, per fare un esempio, potrebbe stabilire di conteggiare in quota Raggi gli spot ufficiosi di Conte, usare lo stesso metro per quelli pro Gualtieri dell’apparato dem e così via (…). Calenda farebbe bene a cercarsi qualche influente personalità che simpatizzi per lui pubblicamente”.

Roma: tribuni, abbracci e gladiatrici

Più passano i giorni e più Enrico Michetti, l’erede di Tertulliano e piazza Augusto Imperatore suscita in chi scrive sincera simpatia mista a tenerezza. Dipinto come un nostalgico di quando c’era lui caro lei, sol perché favorevole al più igienico saluto romano ai tempi del virus, all’appropinquarsi dei comitia

dell’Urbe la sua candidatura a sindaco, diciamo un po’ fuori contesto, suscita la giustificata apprensione di Giorgia Meloni. Che prima del fatidico 3 ottobre la faccia ce la dovrà mettere per forza, magari sovrapposta al faccione del centurione, bene attenta però a non esagerare. Perché se si fosse presentata lei nella corsa al Campidoglio non ci sarebbe stata storia, suprema garanzia per il populusque

della destra maggioritario a Roma. Tuttavia, non abbastanza per garantire a Michetti, probabilmente in testa al primo turno, di prevalere anche al ballottaggio. Ragion per cui sarebbe autolesionismo puro per la leader di FdI con il vento in poppa subire una musata per fare da scudo al decantato mister Wolf che (non) risolve problemi. Del resto, il candidato a rischio è una costante del voto locale, un carta vince carta perde soprattutto quando i sondaggi segnalano vaste quote d’incertezza. Ne sa qualcosa Giuseppe Conte che a Ostia, accanto a Virginia Raggi la definisce “una gladiatrice”. Poi però, a San Basilio, elogia il lavoro del competitor della sindaca uscente, Roberto Gualtieri (“un buon ministro”), per poi ammettere da capo del M5S: “Non mi aspetto molto da queste Amministrative”. Un lavoraccio. Quel Gualtieri che negli ultimi giorni non è più sicurissimo di arrivare come secondo al ballottaggio per poi sprintare vittorioso sul tribuno radiofonico. E qui spontanea sorge la domanda sul sostegno che il buon ministro starebbe ricevendo dal Pd e da Enrico Letta. Finora non proprio entusiasmante, ma chi ci dice che sia una disgrazia (rispose il contadino cinese a cui azzoppavano figli e cavalli con eccellenti conseguenze)? Problemi che non sfiorano Carlo Calenda che si è fatto direttamente un partito, così in caso di trombatura dovrà scusarsi solo con se stesso. Siccome, come dicono in città, chi ci ha i denti non ci ha il pane e viceversa, ora egli sostiene di subire l’oscuramento televisivo ordito dai suoi perfidi avversari. Mentre dovrebbe seriamente preoccuparsi del caloroso abbraccio di Giuliano Ferrara.

La ripresa c’è, ma è precaria: gli “a termine” gli unici a salire

Il rimbalzo dell’economia italiana – che qualcuno definisce “miracoloso” e qualcun altro, con più prudenza, “incoraggiante” – sta portando con sé pure questa volta una nuova esplosione di precariato. Tra aprile e giugno 2021, dice l’Istat, gli occupati sono cresciuti di 338 mila rispetto al trimestre precedente. A trainare il recupero di posti di lavoro, però, sono per larga parte i contratti a tempo determinato. I dipendenti a termine sono infatti cresciuti di 226 mila unità; quelli permanenti invece di 80 mila.

Ancor più chiara è la fotografia che si ottiene se il confronto è su base annuale: rispetto al secondo trimestre 2020, i dipendenti a termine sono aumentati di 573mila unità, i permanenti sono diminuiti di 29 mila, performance simile a quella registrata dagli indipendenti (meno 21 mila). Proprio come successo al termine della crisi scoppiata nel 2008, insomma, le imprese che stanno tornando a rimpinguare gli organici stanno assumendo precari.

Il blocco dei licenziamenti aveva fatto sì che fossero i primi a soccombere con la crisi Covid; le incertezze sul futuro, invece, li portano a essere i primi che tornano in gioco. Una dinamica evidentemente incentivata anche dalle norme approvate negli ultimi mesi, le quali – per non disturbare la ripresa con inutili formalità – hanno ridotto la portata del decreto Dignità, rendendo meno stringenti i vincoli sui rapporti a tempo determinato (parliamo della cancellazione delle cosiddette “causali”).

Quanto al numero totale delle ore lavorate (un indicatore molto fedele dello stato dell’economia), sta lentamente risalendo ma continua a essere ben distante dai livelli raggiunti prima del Covid: 10,4 miliardi di ore contro i quasi 11 miliardi del secondo trimestre 2019. Vale peraltro la pena ricordare che, anche negli ultimi anni precedenti alla pandemia, l’Italia non aveva ancora mai raggiunto i numeri del 2008, cioè di prima della crisi finanziaria, quando nel secondo trimestre le ore lavorate furono circa 11,6 miliardi. Questo pur avendo recuperato e superato il numero di occupati: è la conseguenza di una ripresa che si era basata su molto precariato e part time (spesso involontario).

Hotel e ristoranti: i ‘posti vuoti’ sono al livello del 2018

Non è vero che, con l’arrivo del Reddito di cittadinanza, sono diventate più difficili le ricerche di personale negli alberghi e nei ristoranti. E lo stesso si può dire per tutti quei bonus messi in campo per far fronte all’emergenza Covid. I posti di lavoro rimasti vacanti nelle imprese non sono aumentati rispetto agli scorsi anni. Questo dicono i dati Istat, diffusi ieri, sul secondo trimestre del 2021: la situazione è in linea con i periodi passati, cioè quelli senza sussidi statali. In alcuni casi, anzi, sembra addirittura un po’ migliorata. Comunque, al netto delle piccole oscillazioni, emergono numeri che ancora una volta dicono l’esatto contrario di quanto raccontato per mesi da molti imprenditori, con il megafono offerto dalla grande stampa cui si è unita buona parte della politica italiana, non solo quella di destra.

L’attacco al Reddito di cittadinanza condotto da Matteo Renzi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni – in maniera che appare sempre più coordinata – si basa su un teorema: il sussidio disincentiverebbe il lavoro, spingerebbe le persone a restare sul divano e renderebbe la vita impossibile ai titolari delle aziende, disperati poiché non riescono più ad assumere. Per tutta l’estate sono stati molti i datori, soprattutto nel settore del turismo, che lo hanno affermato occupando titoli di giornale e interi servizi di telegiornale. Esposizione ben inferiore, invece, è stata riservata ai numeri ufficiali che quella narrazione smentiscono nettamente.

Come detto, gli ultimi arrivati sono contenuti nel report Istat sul mercato del lavoro nel periodo tra aprile e giugno 2021. È soprattutto in quel momento dell’anno che in genere partono gli arruolamenti degli stagionali e iniziano i preparativi all’estate e infatti è stato in quei mesi che è partito il coro di lamentele di titolari di bari, pizzerie, hotel e stabilimenti balneari: “Ci rispondono che preferiscono prendere il Reddito di cittadinanza o il bonus Inps piuttosto che sporcarsi le mani”, dicevano.

È strano allora constatare come nel secondo trimestre 2021 l’indice di posti vacanti nel settore Alloggio e Ristorazione si sia fermato al 2,3%. Andando a ritroso sulle serie storiche dell’istituto di statistica, nel secondo trimestre 2019, ultimo anno pre-pandemico, quell’indice era al 2,6%, mentre nel 2018 – quando non c’erano né il virus né il Reddito di cittadinanza – era al 2,2%. Insomma, scostamenti da “zero virgola”, talmente irrilevanti da non meritare di essere presi in considerazione. In ogni caso, assolutamente imparagonabili con la situazione che veniva descritta, con le urla di dolore che lasciavano presagire un problema decuplicato da un anno all’altro.

Quando parliamo di “tasso di posti vacanti”, chiarisce l’Istat, ci riferiamo “alle ricerche di personale che, alla data di riferimento (l’ultimo giorno del trimestre), sono iniziate e non ancora concluse”. “In altre parole, i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo”.

Le tabelle sui posti vacanti venute fuori ieri sono coerenti con un altro dato, pubblicato dall’Inps a fine agosto, che indica le assunzioni effettive di lavoratori stagionali a maggio: in quel mese sono stati firmati quasi 143 mila contratti di lavoro stagionale. Un record storico, sicuramente determinato dal fatto che, in molti casi, erano recuperi di assunzioni non avvenute nei mesi precedenti, quelli caratterizzati dalle chiusure.

La comunicazione orientata di questi mesi ha aumentato la percezione di un fenomeno che nella realtà è molto più contenuto e comunque non può essere ascritto ai sussidi, spesso irrisori e incapaci di disincentivare il lavoro. In genere, l’interesse politico ed economico che si nasconde – e su questo Matteo Salvini è stato esplicito – consiste nel tentativo di trasformare in incentivi alle imprese i fondi che oggi sono destinati al Reddito di cittadinanza.

I meriti (rimossi) del Reddito di cittadinanza

Se lo si guarda attraverso i numeri e non con gli occhi della propaganda, il Reddito di cittadinanza ha funzionato. Perché l’obiettivo era quello di contrastare evidenti sacche di povertà presenti nel Paese, di alleviare, parzialmente, la malapianta del lavoro povero, di consentire a un determinato strato sociale, povero, emarginato, fuori dai circuiti istituzionali, di prendere contatto con questi ultimi. Ma anche nell’avviare persone al lavoro non se l’è cavata male.

Rapporto Inps. Nell’ultimo rapporto annuale, l’Inps lo scrive nero su bianco: “Il RdC ha funzionato come rete di salvaguardia dalla povertà anche e soprattutto per i cosiddetti lavoratori poveri, precari e non, con delle retribuzioni tanto basse da rappresentare una quota pari al 12% delle retribuzioni annue medie dei lavoratori”.

Parliamo, dunque, di una popolazione che in larga parte non lavorava, circa due terzi, scrive l’Inps, e che quando lo faceva era per lavori pagati mediamente 4.148 euro l’anno: 350 euro al mese. Di questo parliamo.

Incrociando i dati dei componenti i nuclei familiari che hanno richiesto il RdC in età compresa tra i 18 e i 64 anni, l’Inps ha ottenuto informazioni riguardo agli estratti contributivi. Si tratta di una platea composta da 1,566 milioni di individui sul totale di 3,631 milioni che, almeno una volta, hanno fatto richiesta di RdC dal marzo 2019 al marzo 2021. In tal modo si è potuta scattare una fotografia dell’attività occupazionale dei percettori di RdC prima e dopo il beneficio. In realtà, la percentuale di individui con un estratto contributivo si riduce al 33% della platea (mentre era al 43% su chi aveva fatto domanda) interessando 699 mila persone. Da qui la prima evidenza: “Due terzi dei beneficiari nel 2018/2019 (erano) estranei al mercato del lavoro e alle prestazioni di sostegno connesse e dipinge un quadro di notevole esclusione sociale per gli individui coinvolti nella misura”. Il numero è simile a quello riportato dall’Anpal, l’Agenzia nazionale per il lavoro, che stima in 62% la quota di chi non ha mai avuto un’esperienza lavorativa sulla platea dei beneficiari tenuti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro (quindi quelli effettivamente abili).

Meno poveri. Qui, il primo successo: aver raggiunto una fascia di popolazione priva di alcuna copertura. Semmai, il limite è quello di aver posto una barriera con la residenza da almeno 10 anni, discriminando la popolazione immigrata (dato che prima o poi verrà pagato dall’Italia in sede di Corte di Giustizia Ue).

Per quanto riguarda il 33% che invece può vantare una qualunque posizione contributiva, la sua analisi ha il pregio di far emergere i working poor, il lavoro povero. Costretto, infatti, a ricorrere a una misura di protezione sociale per raggiungere, come tetto massimo, i famigerati 780 euro mensili. Questa quota di percettori è, ed era, sostanzialmente riconducibile al lavoro dipendente (72%) sia direttamente (50%) sia in quanto titolari di posizioni contributive legate ad altri ammortizzatori come la Naspi o la Cassa integrazione (22%) ma anche alla malattia (8%). Molto residua la parte del lavoro agricolo e domestico (6%) e di artigiani e commercianti (2,5%).

Se si rapportano i numeri di queste categorie al totale del mondo del lavoro si coglie ancora meglio la composizione sociale del Reddito di cittadinanza: i lavoratori dipendenti non agricoli corrispondono al 2,8% del totale dei dipendenti privati, i lavoratori agricoli autonomi e dipendenti sono il 14% del totale, i lavoratori domestici il 7% e gli autonomi il 3%.

Che lavoro fanno. Andando a guardare lo status occupazionale del 2019, viene fuori una fotografia abbastanza simile. Il 75% risulta non occupato e quindi vive solo con il RdC e, come già evidenziato, il 66% risulta non avere alcuna storia contributiva, quindi del tutto estraneo alle dinamiche del mondo del lavoro. Per quanto attiene agli occupati, invece, troviamo innanzitutto un reddito medio annuo imponibile di 4.148 euro che sale a 5.501 euro nella “manifattura” e scende a 3.195 nei “ristoranti e alberghi”. In quest’ambito lavora il 4,8% dei percettori di RdC mentre il 4,1% nel settore delle “Società di noleggio e servizi”. Il 2% nel “commercio”, l’1,7% nelle “costruzioni”, l’1,8 nella “manifattura”, il 5,9% è “occupato non dipendente” e tra questi ci sono anche gli agricoli. Per cui non è neanche vero che il RdC ha portato via il lavoro agricolo dalle campagne, vista la bassa quota. E in genere non ha tolto forza lavoro da nessuna parte, se è vero che quel 20% che ha lavorato almeno 3 mesi nel 2018 e nel 2019, corrisponde grossomodo a quanti percependo il Rdc hanno anche un’occupazione.

Secondo il presidente dell’Inps “ne emerge un quadro di effettiva esclusione sociale per gli individui coinvolti dalle misure”. Da questo punto di osservazione è piuttosto risibile valutare il RdC sul numero delle persone effettivamente impiegate. Per diversi motivi.

Tanti al lavoro. Innanzitutto, non esiste alcuna misura di sostegno al reddito o all’occupazione varata dalla legge Biagi in poi che abbia favorito l’ingresso nel mercato del lavoro. Tra il primo trimestre del 2021 e l’ultimo trimestre del 2007 (prima della “grande crisi”) il saldo in unità di lavoro è di -11,5% che sale a -13,4% in termini di ore lavorate). Come spiega Tridico, nella relazione al rapporto annuale, “in questo periodo la dinamicità del mercato del lavoro è stata molto scarsa anche per quelli più prossimi e occupabili nel mercato come i percettori di Naspi e di Cassa integrazione”. L’occupabilità dei percettori di RdC è molto più scarsa di questi lavoratori.

È poi sbagliato misurare l’occupabilità sulla platea complessiva dei beneficiari (3,7 milioni nel 2020) in quanto in questo numero ci sono 1,350 milioni di minori, 450 mila disabili e 200 mila percettori di pensione di cittadinanza. Siamo intorno a 1,6 milioni che rappresentano i nuclei familiari beneficiari.

Ma, utilizzando i dati dell’Anpal, questi numeri arrivano a 1.150.000 individui se consideriamo solo quelli che sono tenuti a sottoscrivere il Patto per il lavoro. E di questi il 34,1% è stato “preso in carico” dall’Anpal e quindi avviato al lavoro. Si tratta di 392 mila persone, in larga parte al Sud, ma quel 34% sale al 54,4% nel Nordest, segno di una rispondenza a dinamiche produttive più brillanti.

Il RdC ha quindi inciso su sacche di povertà altrimenti invisibili e ha consentito di accendere un faro su una fetta di popolazione lavorativa sparita dai radar istituzionali. Non è poco.

 

Siccità e protezionismo, grano alle stelle

I cambiamenti climatici, tra siccità drammatiche e inondazioni devastanti, hanno ridotto i raccolti. Poi i rincari dell’energia, le difficoltà nei trasporti, la speculazione finanziaria che non fa vendere oggi ciò che domani sarà più costoso. Ma soprattutto la pandemia che ha spinto interi Stati, tra i quali Cina, India e Brasile, a ricostituire e ampliare le proprie riserve per timore di nuovi blocchi dei commerci mondiali. È questa “tempesta perfetta” che ha scatenato i pesanti rincari di molte materie prime alimentari e, su tutte, del grano.

Così, nei prossimi mesi i prezzi di pane e pasta potrebbero schizzare all’insù anche in Italia, primo Paese produttore al mondo di pasta e il maggior importatore di grano nella Ue – quasi 2 milioni di tonnellate di grano duro da Canada e Usa nella passata annata agraria – che tuttavia potrebbe avere difficoltà a soddisfare la domanda nazionale.

I rincari del grano sono da record. Dopo mesi di rialzi, in estate i prezzi del grano sono esplosi del 25%. Nella prima settimana di settembre hanno leggermente frenato ma restano intorno a 500 euro per tonnellata (+60% rispetto al 2020), vicini al record dei primi mesi del 2008, quando la media dell’ultimo quinquennio era di 250 euro. Il mercato del grano duro è sotto tensione soprattutto per il calo di oltre tre milioni di tonnellate dei raccolti tra Canada (maggiore produttore ed esportatore mondiale) e Usa, duramente colpiti dalla siccità: i dati sono incompleti, ma si teme un crollo di un terzo rispetto alle previsioni. Le cose non vanno bene nemmeno in Russia, primo produttore mondiale. Così il Dipartimento dell’Agricoltura Usa ha abbassato le sue stime sulla fornitura globale di 16,8 milioni di tonnellate a 1,066 miliardi (-1,58%). Poi ci si è messo anche il livello di scorte internazionali, largamente insufficiente a compensare la minor produzione. Così il prezzo all’ingrosso della semola è cresciuto ad agosto di quasi il 30% (+60% sul 2020). Anche per il grano tenero i prezzi sono alti, quasi 250 euro a tonnellata, in crescita del 35% circa in un anno.

Da mesi Italmopa, l’Associazione dell’industria dei mugnai che nel 2020 ha fatturato 3,85 miliardi (+7,5% sul 2019) lancia l’allarme. Ma la soluzione non arriverà a breve: l’epidemia potrebbe avere innescato cambiamenti permanenti nella domanda. Lo segnala il fatto che lo scorso anno l’import cinese di mais Usa è triplicato da 7 a 22 milioni di tonnellate, mentre sono raddoppiati gli ordini di grano da medioriente e Nord Africa. Pare scattata la ricostituzione delle scorte nazionali strategiche già vista durante le crisi petrolifere degli anni ’70 e quelle valutarie degli anni ’90.

A causa dell’aumento dei prezzi, il pane e la pasta stanno diventando costosi per i principali importatori, che oltre all’Italia sono Egitto, Turchia e Francia. Con una decisione storica l’Egitto, maggior importatore di grano e consumatore di pane al mondo, ha proposto di aumentare i prezzi agevolati del pane che sono fissi da 20-30 anni. Ma non è una mossa senza rischi: Se in Occidente gli aumenti fanno storcere il naso ai consumatori, nei Paesi poveri il pane è un prodotto politicamente sensibile e i rincari possono innescare sommosse popolari, come avvenne durante le Primavere arabe.