“Brunetta, tesoro”: Panucci si raddoppia lo stipendio

Dalle parti del ministero della Pubblica amministrazione è festa grande, ma non per tutti. Sicché qualcuno si lamenta che Renato Brunetta fa, come suol dirsi, figli e figliocci. Per assumere come consulente di fiducia Renato Farina, che in passato è stato al servizio dei Servizi, ha rischiato l’osso del collo: ché Mario Draghi non ha gradito l’incarico al giornalista già in rapporti di amorosi sensi con Nicolò Pollari e Pio Pompa, promosso al rango di consigliere giuridico. E così seppur malvolentieri Farina è stato costretto a rinunciare e Brunetta a ingoiare il rospo che non avrebbe mai voluto ingoiare avendolo difeso fino all’ultimo con le unghie e con i denti fuori e dentro il ministero dove il caso Betulla ha tenuto banco per giorni. E dove ora si torna a respirare una certa un’aria pesante.

Perché adesso a Palazzo Vidoni è scoppiata un’altra grana: qualcuno si è accorto che con il favore dell’estate, quando l’attenzione è tradizionalmente più blanda, il cedolino di Marcella Panucci, potentissima capo di gabinetto del ministro forzista è lievitato di colpo. Ma solo il suo: gli altri sono rimasti a bocca asciutta nonostante lavorino ventre a terra appresso a Brunetta che è un vulcano di natura e adesso che si è messo in testa che davvero potrebbe essere nominato presidente del Consiglio, laddove Draghi lasciasse anzitempo per il Quirinale, si agita il doppio. Insomma pretende di essere su ogni dossier e che si lavori 48 ore al dì convinto che debba esser dato un segnale: si sta lavorando per ricostruire l’Italia che va rivoltata come un pedalino. E quindi basta con gli impiegati in smart working che favorisce i fancazzisti, certo. Ma pure al ministero bisogna mettere il turbo, anche se poi l’aumento, non si sa bene se preteso o accordato come premio produttività dal ministro, lo ha portato a casa solo l’ex direttore generale di Confindustria: il suo stipendio già di tutto rispetto è aumentato in pochissimo tempo di 50 mila euro. Grazie al ritoccone di una voce specifica che è letteralmente raddoppiata da febbraio a oggi, data di assunzione dell’incarico: fino a luglio Panucci percepiva un compenso di oltre 75 mila e 600 euro a titolo di retribuzione fissa più altri 68 mila come indennità per la diretta collaborazione: a agosto è andata in ferie avendo incassato un aumento stratosferico grazie al quale i 68 mila son diventati 124 mila.

Risultato? In un sol colpo il suo compenso complessivo si è attestato a quota 200 mila euro rispetto ai 145 mila pattuiti a inizio dell’incarico che pure non eran spicci. Brunetta del resto si è completamente affidato a lei, al punto che non si capisce chi sia il vero ministro. I bene informati non hanno dubbi: Panucci a Palazzo Vidoni conta come o più di Brunetta dunque le andava assicurato uno stipendio a cinque stelle e non c’è polemica che tenga. Anche se qualcuno ha preso a dire che la Pubblica amministrazione è in mano ai confindustriali di cui l’attuale capo di gabinetto è stata punta di diamante per otto anni, dal 2012 al 2020. Poi ha cambiato casacca: era in predicato per un incarico di governo, ma alla fine si è dovuta accontentare di Brunetta per servire la Patria che va ricostruita. Ma a patto che lo stipendio sia da leccarsi i baffi.

“Comunisti” e Cirinnà. Ecco l’ultima spiaggia

Stavolta nessun attacco ai radical chic. Nessuna presa in giro per l’ormai ex buen retiro della cosiddetta intellighenzia di sinistra con cui spesso ama infarcire i suoi discorsi. Perché ora a Capalbio potrebbe anche vincere e tutto fa brodo. Anzi, acquacotta, visto il luogo. Anche se uno sfottò non se lo risparmia. È la prima volta di Matteo Salvini a Capalbio e inizia così: “Mi dispiace non essere mai venuto, perché avete un paesaggio magnifico, un mare bellissimo e poi qua si trovano anche i soldi dentro la cuccia dei cani… Io ho avuto animali di tutti i tipi e mai che ci avessi trovato una diecimila lire…”. Il riferimento è all’episodio di fine agosto quando, all’interno della loro azienda agricola, nella cuccia di un cane appunto, la senatrice del Pd Monica Cirinnà e il marito Esterino Montino hanno ritrovato 24 mila euro in contanti.

Ci sono un centinaio di persone per il leader del partito che qui, alle Europee del 2019, fece il botto, col 47,2% dei voti. Quasi un voto di protesta dei maremmani doc nei confronti della borghesia romana e milanese che qui ha seconde case e attività. E spesso vuol dettare legge sulle decisioni politico-amministrative.

Ora quel tempo sembra lontano. Il candidato scelto dal Capitano per le Comunali è Valerio Lanzillo, di professione medico condotto, il “dottore” del paese. “È un bravo medico, ma non ha la stoffa del politico…”, raccontano. Lanzillo è appoggiato anche da Fdi e Lega. A sfidarlo c’è l’attuale assessore al Turismo, Gianfranco Chelini, a guida della lista civica che vinse le scorse elezioni e tuttora governa, e il candidato del centrosinistra Alessio Teodoli, targato Pd, che qui qualche voto ancora lo raccatta.

Salvini è atteso nella piazza della stazione, non proprio una location di gran pregio, ma forse lui non lo sa. “Sono qui in questo magnifico luogo…”, dice. Piazza Magenta, il gioiellino del borgo antico, però è a 6 chilometri. Nemmeno un manifesto che annunci l’appuntamento. Qui d’altronde tutta l’attenzione fino a ieri era per l’annuale sagra del cinghiale. “Sono l’unico milanese venuto a Capalbio in jeans, la prossima volta mi concedo un bagno all’Ultima spiaggia”, sostiene. Di vip capalbiesi nemmeno l’ombra. Solo qualche turista straniero, di ritorno dal mare, si ferma incuriosito. Poi torna a stuzzicare la sinistra. “Un tempo si occupava degli ultimi, ora degli ultimi arrivati (gli immigrati, ndr), un tempo c’era Berlinguer, ora Fedez e Cirinnà…”, afferma. “Salvini è l’unico leader che si è visto in campagna elettorale, quelli di sinistra qui ci vengono solo al mare…”, fa notare una fan. Tema forte, l’allargamento dell’Aurelia, di cui si parla dagli anni Ottanta, strada che anche quest’estate ha fatto i suoi morti. Salvini, sempre senza mascherina e piuttosto in forma (ha perso qualche chilo), promette di occuparsene. Qualche fotografo sperava di immortalarlo con Francesca (assente) a passeggiare in spiaggia al tramonto, ma niente. “Tornerò presto”, promette. L’Ultima Spiaggia sostituirà il Papeete?

Draghi sta sereno: ora sul Green pass garantisce Giorgetti

L’estensione del green pass prima di tutto. A Palazzo Chigi l’obiettivo è questo: arrivare in Cdm giovedì con l’obbligatorietà del certificato verde almeno per tutti i lavoratori del pubblico, possibilmente anche per quelli del privato. La volontà di Mario Draghi, però, si scontra non solo con i motivi più tecnici (che vanno dalle multe ai controlli), ma soprattutto con quelli politici. In primis le resistenze della Lega. Anzi, della Lega salviniana. Perché a Palazzo Chigi ci tengono a dire che per ora non è in programma un incontro con il leader del Carroccio. Garantisce Giancarlo Giorgetti. Non una buona notizia, comunque, visto che anche il ministro dello Sviluppo economico non può portare tutto il partito sulle sue posizioni. Lui, comunque, è nettissimo. “Quella di estendere il green pass a tutti i lavoratori è un’ipotesi in discussione. L’esigenza delle aziende è di avere la sicurezza per chi opera nei reparti. Credo, quindi, che si andrà verso un’estensione senza discriminare nessuno”, ha detto ieri. Di più: “Soltanto un contagiato, al netto delle conseguenze sanitarie, rischia di far chiudere tutta l’azienda. Dobbiamo dare un sistema di certezze sia sotto il profilo sanitario che sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro”.

Ma coperte dal grande sforzo sul green pass, le difficoltà aumentano. Tanto è vero che dall’agenda del Cdm è uscito il provvedimento sulla concorrenza. Se ne parla a ottobre, dopo le elezioni. Perché trovare una sintesi tra i vari partiti che compongono la maggioranza in questo scorcio d’estate diventa sempre più difficile. Tanto che diventa un caso la questione della liberalizzazione (l’obbligo di messa a gara) delle concessioni balneari: se ne parla da mesi, con presunti provvedimenti imminenti che compaiono e scompaiono, ma in questo momento è sparita dai radar. Almeno per ora: non è detto che non entri in futuro. D’altra parte, a suo tempo, a Palazzo Chigi insistettero anche con la Commissione Ue per non metterla nel Pnrr, nonostante la direttiva Bolkestein obblighi a mettere a gara le coincessioni, consapevoli che non l’avrebbero retta politicamente. E sono giorni che il solito Salvini fa le barricate preventive.

In Cdm, giovedì, andrà invece il disegno di legge delega sulla riforma fiscale (salvo ripensamenti dell’ultimo minuto). Tema potenzialmente esplosivo, che però sarà declinato in maniera tale da non suscitare alzate di scudi. Complice lo strumento della delega (che indica solo le direzioni di massima al Tesoro che deve poi scrivere i decreti legislativi), Palazzo Chigi vuole andare avanti, senza esporsi più di tanto. Nelle bozze che girano in queste ore, ci sono praticamente solo titoli. Anche perché non si tratterà di una grande riforma, visto che sarà praticamente a saldo zero, con grandi aumenti delle tasse non previsti. Poi si vedrà. Ma lo scambio concorrenza/fisco è l’ennesimo indicatore di una debolezza: la sostanza sarebbe tutta nella prima riforma, che però politicamente al momento non è affrontabile.

Il tema è complesso: difficile pensare che la situazione migliorerà dopo le Amministrative, con una Lega in crisi di nervi e un’alleanza giallorosa in costruzione e le leadership di tutti, a partire da quelle di Enrico Letta e Giuseppe Conte, che comunque dovranno trovare nuovi equilibri.

La caratteristica del governo Draghi sembra sempre più essere quella di andare avanti un passo dopo l’altro, con continui aggiustamenti di rotta, per cercare di tenere insieme i pezzi di una maggioranza difficile.

“Salvini sbanda”: i presidenti Zaia&C. nella chat anti-Matteo

Si consultano sui problemi delle loro Regioni, discutono della linea (o della “china”) che ha preso il partito e soprattutto decidono insieme le uscite pubbliche. Che non sono casuali perché sono quelle contro il capo, cioè Matteo Salvini. Ieri il vaccino, oggi il Green pass, domani chissà. C’è una strategia e un metodo dietro le mosse dei governatori della Lega. La strategia è imporre la linea del Nord, spostare il partito verso il centro più che verso la destra di Giorgia Meloni e un giorno proporre una leadership diversa da quella del segretario passando dai congressi regionali. Di fatto una corrente interna alla Lega. Il metodo invece è quasi banale: una chat. Il modo più elementare per coordinarsi. Ce n’è una ufficiale in cui ci sono tutti e sette i governatori della Lega, compresi i salviniani Nino Spirlì (Calabria), il sardo Christian Solinas e l’umbra Donatella Tesei. Ma poi ce n’è almeno un’altra cui partecipano solo i governatori del Nord: Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana e Maurizio Fugatti. Si sentono tutti i giorni, condividono le interviste e criticano apertamente l’ala no-Green pass della Lega che si è manifestata la scorsa settimana in Parlamento con i voti con FdI: “La nostra linea non può essere quella di Borghi” è uno dei messaggi degli ultimi giorni. Da qui, la strategia per porre fine alle “sbandate” del segretario e smentirlo pubblicamente. I fedelissimi di Salvini, che vivono nella costante ossessione della cospirazione contro il capo, parlano di “riunioni carbonare” e si insospettiscono per la sequenza sistematica delle interviste sui giornali dei Presidenti di Regione: “Fanno tutto da soli senza consultare nemmeno Salvini –­attacca un big leghista – siccome hanno preso i voti nella loro Regione sono convinti che la Lega sia cosa loro ma non è così. Non possono bypassare Matteo”.

i governatori governatori si sono coordinati spesso nelle ultime settimane: prima hanno deciso di non difendere pubblicamente Claudio Durigon portandolo alle dimissioni, poi a inizio settembre hanno imposto a Salvini il cambio di linea sul Green pass. Dopo giorni di “no” all’estensione del certificato verde e all’obbligo vaccinale, hanno chiesto al leader una riunione via zoom e il documento che ne è uscito era una concessione totale alla loro linea: sì al pass per i lavoratori pubblici e addirittura sì a “obblighi o costrizioni” in via eccezionale. La prossima battaglia sarà sull’obbligo del certificato non solo per i dipendenti statali ma anche per i lavoratori del settore privato. Perché questo chiedono ogni giorno gli imprenditori del Nord proprio ai governatori perché “non vogliamo più richiudere”. Anche a costo di imporre l’obbligo del Green pass nelle fabbriche. E i presidenti, Zaia e Fontana su tutti, devono spiegare loro, con un esercizio di equilibrismo notevole, che la linea della Lega è quella di riaprire in sicurezza e che Salvini “fa così perché deve rincorrere la Meloni ma poi fa il contrario”. Tant’è che ieri Giancarlo Giorgetti lo ha annunciato dall’Umbria aggiungendo che chi “sta al governo deve assumersi delle responsabilità”. Poi, dopo le Amministrative, i Presidenti del nord chiederanno i congressi regionali e poi di continuare a sostenere Draghi fino a fine legislatura. A Palazzo Chigi lo sanno che i governatori stanno dalla parte di Draghi. E quindi sfruttano l’occasione per fare terra bruciata intorno a Salvini. Gli uomini del premier parlano spesso con Fedriga, Zaia e con Giovanni Toti.

Formalmente il triangolo Draghi-Gelmini-Fedriga è istituzionale perché quest’ultimo è il presidente della Conferenza delle Regioni. Ma attraverso di lui, nelle ultime ore, il premier sta tastando il terreno con i governatori del Carroccio per capire cosa ne pensano dell’estensione del pass. E finora ha ottenuto solo risposte positive . I presidenti di Regione però hanno come punto di riferimento il ministro dello Sviluppo economico Giorgetti, ma anche il responsabile del Turismo, Massimo Garavaglia, che nelle ultime settimane si sta staccando dalla cerchia del segretario. Parlano e poi decidono. Anche se Salvini non lo sa.

Qui rido io

Leggo l’editoriale di prima pagina su Repubblica, “L’Occidente collabori con Cina e Russia”, e quasi cado dalla sedia. Ma stiamo scherzando? Un mese fa, quando lo disse Conte per l’Afghanistan, e ancor prima quando lo praticò da premier firmando gli accordi per la Via della Seta e il 5G e predicando in Parlamento una politica estera “multilaterale”, mancò poco che gli atlantisti de noantri lo lapidassero per alto tradimento. Eccolo lì, il grillino servo di Putin e Xi Jinping, quello che vuole venderci a Mosca e Pechino e farci espellere dalla Nato, l’“avvocato dei tagliagole” che “sta coi Talebani” (Libero), arrapato dal “fascino dei kalashnikov” (Rep). Intanto gli stessi lo dipingevano pure come il cameriere di Trump, cioè del presidente Usa, ma si sa, la coerenza per i nostri Nando Mericoni è un optional. E giù attacchi renziani e destrorsi in Parlamento. E giù tweet dei nostri americani a Roma, da Riotta a Iacoboni. E giù inchieste su “Giuseppi” e i nostri 007 complici di Trump nel Russiagate, come avrebbe presto dimostrato il celebre “rapporto Barr” (purtroppo mai visto). E giù retroscena sui famosi hacker russi che truccano le elezioni in mezzo mondo e sugli spioni putiniani travestiti da medici che fingevano di aiutarci contro il Covid a Bergamo mentre ci rubavano segreti scientifici e militari per il vaccino Sputnik.

Il tutto su Stampa e poi su Rep di Sambuca Molinari, l’ameregano per eccellenza. Ma anche sul Foglio del rag. Cerasa (“Più Draghi e meno Dragone”). Poi lo scandalo degli scandali: Grillo va a trovare l’ambasciatore cinese a Roma e vuole portarci Conte (che non ci va). Minzolingua: “Il fattore C, lo strano legame tra i grillini e la Cina”. E Rep: “Il M5S filocinese, una spina per il Pd” che deve tenersi a distanza e stringersi vieppiù a FI&Lega. La quale Lega “guarda con apprensione al previsto incontro di Conte e Grillo con l’ambasciatore cinese”. A giugno. Poi il 3 settembre Salvini incontra e selfa l’ambasciatore cinese ed esce estasiato (“piena condivisione”). E niente più apprensione nella Lega e sui giornaloni. Tantomeno quando Draghi telefona a Putin e a Xi per coinvolgerli nel dialogo coi talebani e nel G20 su Kabul (finora senza esiti). Anzi, lì lo sdegno si tramuta in saliva sul “pragmatismo di Draghi”, anzi Dragone. Ieri la resa finale al nemico: “L’Occidente collabori con Russia e Cina”. Dopo la Via della Seta, la Via di Damasco. Tre sole spiegazioni possibili. 1) Draghi, con quella bocca, può dire ciò che vuole, tanto la lingua gliela prestano i giornaloni. 2) La Russia e la Cina con cui ora dobbiamo collaborare sono solo omonime di quelli a cui volevano venderci Conte&C. 3) Quel diavolo di Giuseppi, zitto zitto, ha espugnato anche Repubblica.

De Biasi, un’umanità da far girare la testa

Nel suo studio, nella redazione del settimanale Epoca, Mario De Biasi aveva tappezzato l’intera parete alle sue spalle con ritratti femminili provenienti dai cinque continenti: una giovane filippina che mangia camminando, una africana che tiene in braccio una neonata bianca, una cocotte sul palcoscenico; e ancora una modella nel suo sfilare, una musulmana che indossa il niqab, una debuttante al ballo. “Dovunque s’incontra la vita, s’incontra sempre la bellezza. E basta guardarsi attorno per vederla: anche in una foglia, in un sasso, in un balcone fiorito. Anche nei riflessi di una pozzanghera”. Scomparso nel 2013 a Milano a novant’anni, oggi lo ricorda una grande e generosa monografica alla Casa dei Tre Oci a Venezia: Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003 (a cura di Enrica Viganò, visitabile fino al 9 gennaio, catalogo Marsilio) che raccoglie ben 256 scatti divisi in dieci sezioni, capaci di raccontare l’intera epopea del fotografo nato a Belluno ma viaggiatore del mondo, tra i più poliedrici ed espressivi del secondo Novecento.

Si inizia, ça va sans dire, dal suo côté glam di fotografo delle dive. Ecco allora una sensualissima Brigitte Bardot alla Mostra del Cinema del 1957. Adagiata sulla spiaggia del Lido in gran toilette, tutti i fotografi le sono attorno e la immortalano. In una posa che ricorda appena incidentalmente la Sirena di Edvard Eriksen a Copenaghen, è una divinità timida che cela il sorriso dietro un vezzo della mano a coprire la bocca. In tema di cinema, dell’edizione del ’55 è la tenera immagine di Giulietta Masina in gondola abbracciata al suo regista del cuore, Federico Fellini, che l’aveva diretta appena diretta ne Il bidone, che concorreva alla mostra quell’anno.

La rincorsa di De Biasi, dunque, era la vita vera, la verità dietro la mise en place. Così, possiamo ammirare quanto è bella anche fuori dalle scene la divina Maria Callas, in uno scatto del ’57, anno in cui l’amica e giornalista Elsa Maxwell le presenta a un ricevimento Aristotele Onassis. Nello scatto, il soprano è sulla barca dell’armatore greco e ride di gioia per l’amore che spera la attende. Commovente, invece, è il ritratto domestico di una Carla Fracci trentenne, seduta sul divano della sua casa di Milano, che cuce la scollatura delle sue scarpette da punta. È così dolce e appassionata, che subito prende corpo il verso “il tuo fiore/si rincarna a meraviglia” che in quegli stessi anni – la fine dei ’60 – le dedicò nel componimento La danzatrice stanca Eugenio Montale. Anche a lui De Biasi, per un servizio su Epoca, ruba un aspetto privato e inedito: nella sua casa milanese il poeta ha appena disegnato una upupa. Adorava dipingere i soggetti naturalistici delle sue poesie, “per vederli meglio”: il mare, le Alpi Apuane, gli uccelli, il promontorio ligure di Fegina; e usava di tutto per i suoi acquerelli, non solo i colori, ma dal vino al rossetto, passando per la terra impastata all’acqua.

Ma De Biasi, oltre che ritrattista di celebrità, fu indefesso scopritore del mondo e testimone della Storia. Attraverso i suoi reportage, ha narrato la rinascita dell’Italia nel secondo Dopoguerra; il gelo bianchissimo a perdita d’occhio della Siberia (dove le temperature possono collassare fino a meno 60 gradi); la lava rossa e incandescente dell’Etna in eruzione negli anni ’60 in Sicilia. E ancora, ha esplorato luoghi iconici come la Piramide del sole in Messico o il Taj Mahal in India. In tutte, è sempre l’umanità il più cangiante e magnetico dei paesaggi. Così, quando è invitato a documentare “L’operazione Luna” dei primi astronauti americani, non li ritrae durante le simulazioni con la tuta spaziale, tra colleghi pulsanti e macchinari, ma a pranzo immersi in una mensa desolata, mentre la luce riflessa sui tavoli vuoti e le sedie abbandonate rivela agli occhi tutta la loro umana incertezza. E non rinuncia nemmeno, al confine tra Austria e Ungheria mentre imperversa la rivoluzione ungherese del 1956, a fotografare un bacio rubato tra due amanti.

È come nel suo scatto più noto, Gli Italiani si voltano del ’54, con Moira Orfei che attira l’attenzione dei passanti: ispirandosi all’omonimo episodio di Amore in città di Lattuada, in cui vengono riprese le reazioni a Roma degli uomini al passaggio di belle ragazze, De Biasi decide di seguire Moira mentre con un abito bianco che sottolinea le sue curve sfila attraverso la Galleria Vittorio Emanuele. Allo stesso modo, De Biasi con le sue foto intercetta la temperatura – ora agitata, ora gioiosa, ora placida – di un secolo e fa girare la testa.

Libano. La fine del mondo è ora: si muore per la benzina

Nessun libanese avrebbe mai pensato di vivere fino a vedere la fine del mondo. Ma questo è esattamente ciò che sta accadendo nel Paese dei Cedri, quello che un tempo era la “Svizzera del Medio Oriente”: la fine di un intero stile di vita. La valuta ha perso oltre il 90% del suo valore dal 2019; si stima che il 78 % della popolazione viva in condizioni di povertà; ci sono gravi carenze di carburante e gasolio, i supermercati sono bui e vuoti perché non c’è energia. Le notti sono insonni nel soffocante caldo estivo. I generatori degli edifici funzionano solo per quattro ore prima di spegnersi verso mezzanotte per risparmiare il gasolio, se vengono accesi.

Agli uffici di cambio c’è sempre una lunga fila perché il tasso del dollaro oscilla come il pendolo degli orologi. Se circolano voci che il nuovo primo ministro incaricato sia vicino alla formazione di un governo il tasso della Lira libanese sale. Il Libano è senza un governo dall’esplosione catastrofica del porto il 4 agosto 2020 e i tre primi ministri delegati dal Parlamento a formare un governo non sono riusciti a formare un Esecutivo per le lotte intestine tra partiti, gli stessi che hanno portato questo Paese alla rovina. Tutti i mercati sono suscettibili di voci e speranze: ogni volta che il tasso del dollaro scende, la gente speranzosa corre a convertire i dollari nella inutile lira libanese.

I benzinai sono la nuova linea del fronte di questa guerra. Scoppiano risse perché ci sono sempre troppe persone che combattono per poco carburante. Anche in questo caso, il caldo torrido non aiuta. A volte scoppiano scontri a fuoco, si muore per una latta da 5 litri di benzina. Ad Akkar, una delle zone più povere del Paese, ad agosto è esplosa un’autocisterna mentre la gente si accalcava per riempire i propri veicoli, 33 le vittime. Non c’è tregua o un luogo sicuro da nessuna parte. Gli ospedali sono esauriti e sull’orlo della chiusura. Le cure contro il cancro non sono più garantite perché la Banca centrale non può finanziare i sussidi che hanno permesso agli ospedali di importarle. C’è a malapena carburante sufficiente per alimentare i ventilatori. Il Libano è uno Stato fallito.

 

Nord Corea e cybercrime. “Lazarus”: come imperversano gli hacker di Pyongyang

Nel maggio 2017, computer di tutto il mondo furono infettati uno dopo l’altro da un ransomware, il WannaCry. Un messaggio con una richiesta di riscatto di 300 dollari in bitcoin, in cambio di file salvati sugli hard disk, comparve sul monitor di quasi 300.0000 dispositivi informatici. Tra le vittime, Vodafone, FedEx, Renault, il National Health Service (il sistema sanitario britannico) e ancora la Deutsche Bahn (le ferrovie tedesche). Un attacco “senza precedenti”, lo definì Europol. La responsabilità non è mai stata attribuita ufficialmente alla Corea del Nord, ma molti analisti ritengono che dietro l’attacco ci sia Lazarus, un gruppo di hacker di Pyongyang. Ne ha la certezza Simon Choï, fondatore della ONG Issue Makers Lab, per il quale il cyber attacco è stato una risposta del regime nordcoreano alle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite scattate pochi mesi prima.

Da 13 anni, Simon Choï e i suoi colleghi scrutano le attività online dei nordcoreani: “Se confrontiamo la minaccia delle armi nucleari e quella degli hacker, penso che siano questi ultimi i più pericolosi”. Ma se i test nucleari realizzati nel 2016 e 2017 hanno scatenato una serie di sanzioni economiche, che isolano e indeboliscono finanziariamente il paese, per ora i cyber attacchi non hanno sollevato reazioni e il regime è quindi sempre pronto a passare all’offensiva. Seongsu Park, ricercatore in sicurezza informatica presso Kaspersky, azienda specializzata in software antivirus, ritiene che “tenendo conto del numero di attacchi, degli sviluppi tecnologici e delle evoluzioni della strategia, Lazarus è il gruppo di hacker più attivo al mondo dell’anno”. L’impennata di attacchi online nordcoreani è difficile da quantificare dal momento che è sempre complicato attribuire pubblicamente la responsabilità dell’attacco a uno Stato. Ma gli hacker di Pyongyang presentano delle caratteristiche ben precise. “Non sono i migliori del mondo, ma sanno cosa vogliono, sono molto efficaci e soprattutto determinati – osserva Simon Choï, che si definisce un “anti-hacker”, avendo già collaborato con i servizi segreti sudcoreani -. Se necessario, non esitano a inviare anche una mail al giorno al loro bersaglio e per degli anni, fintanto che questo non si rassegni a cliccare sul link”. L’analisi di Choï è condivisa da Jenny Jun, autrice di una tesi alla Columbia University sulla cybersecurity e autrice di numerosi testi sulle offensive degli hacker della Corea del Nord. “Sono perseveranti, organizzati e le loro capacità si sono evolute notevolmente in dieci anni”. Anche i loro bersagli sono cambiati nel tempo, in funzione sia delle evoluzioni tecniche che delle esigenze del regime. “Il più grande sviluppo della loro attività si nota nel 2015. È da allora che sono diventati estremamente attivi nel crimine informatico – sottolinea Jenny Jun -. Secondo le Nazioni Unite, in un anno hanno rubato più di 300 milioni di dollari. In confronto, le esportazioni totali di carbone del Paese ammontano a 400 milioni di dollari”. Nel 2016, mentre le sanzioni internazionali isolavano il regime, i soldati del web di Kim tentarono la rapina del secolo. Il loro obiettivo era la Banca Centrale del Bangladesh, o piuttosto il suo miliardo di dollari conservato nella Federal Reserve degli Stati Uniti. La banca centrale venne infiltrata e, sfruttando la differenza di fuso orario tra Washington e Dacca, gli hacker riuscirono a falsificare i codici SWIFT (che permettono di trasmettere gli ordini di versamento tra banche) e a inviare 81 milioni di dollari a delle associazioni nelle Filippine, dove il denaro è stato riciclato. Il resto degli ordini di versamento è stato poi bloccato dalle autorità bancarie statunitensi.

Da allora, gli hacker si concentrano soprattutto sulle criptovalute. “Prendono di mira i portafogli digitali dei privati, come me o lei, utilizzando lo spear fishing, che si basa sull’invio di mail contenenti link per scaricare software dannosi -, osserva Ben Read, direttore per la sicurezza informatica presso Mandiant Fire Eye -. Quindi trovano le criptovalute nel portafoglio dell’utente e le liquidano”. A febbraio, tre hacker nordcoreani sono stati arrestati negli Stati Uniti accusati di aver rubato l’equivalente di 1,3 miliardi di dollari in criptovaluta. Questi hacker sono la mano armata del regime. All’inizio le loro offensive miravano a difendere pubblicamente il regime attaccando i suoi nemici. Sono un esempio di questa strategia i tentativi di attacco contro la Casa Bianca, la presidenza sudcoreana o gli studios della Sony Pictures, colpevoli, agli occhi di Pyongyang, di aver prodotto un film sull’assassinio di Kim Jong-un nel 2014. Questo uso “ideologico” dell’esercito di hacker sembra ridursi nel tempo. Dall’inizio della crisi sanitaria, sono stati presi di mira soprattutto i laboratori che lavorano sul vaccino, l’anglo-svedese AstraZeneca, il sudcoreano Celltrion e, secondo Reuters, anche Pfizer. Gli attacchi digitali permettono inoltre di raccogliere informazioni sulle innovazioni che si fanno all’estero. A questo erano probabilmente finalizzati gli attacchi contro l’industria degli armamenti nell’Europa dell’est o a una centrale nucleare indiana nel 2019. Gli hackers nordcoreani sono organizzati in gruppi. Simon Choï è riuscito a elaborare un quadro della loro organizzazione. “Siamo una ONG e le nostre risorse sono limitate, ma i servizi di intelligence hanno identificato sei gruppi distinti, che comprendono tra le 1.200 e le 1.300 persone molto attive e almeno 5.000 collaboratori”. Il dispositivo degli attacchi informatici sarebbe distribuito su almeno tre entità statali note. Il Reconnaissance General Bureau, i servizi segreti nordcoreani, controllerebbero i due gruppi più importanti, che rispondono agli acronimi RGB3 e RGB5, rispettivamente Lazarus e Kimsuky, i più attivi e conosciuti specialisti del settore. Sembra che il primo abbia accesso a dei server a Pyongyang e che sarebbe responsabile degli attacchi hacker più noti, quelli appunto alla Banca Centrale del Bangladesh e agli studios di Sony, oltre al caso WannaCry del 2017. Sono insomma gli esperti dei colpi grossi ai danni delle organizzazioni importanti. Da parte loro, gli hacker di Kimsuky si sarebbero stabiliti nelle città cinesi di confine, Dalian, Dandong o ancora Shenyang. Rispetto a Lazarus, sono meno visibili, poiché prendono di mira le singole persone per poi accedere alle risorse delle istituzioni.

I loro recenti tentativi si sono concentrati su Celltrion, il laboratorio farmaceutico sudcoreano, oltre che su Novavax e AstraZeneca. Altri gruppi operano sotto la guida del ministero della Difesa nordcoreano (il ministero delle Forze armate popolari) che, secondo Simon Choï, è dietro l’operazione di hacking contro la centrale nucleare indiana nel 2019. Infine, il ministero nordcoreano della Sicurezza di Stato si concentrerebbe essenzialmente sulla vicina Corea del Sud. “È molto difficile determinare esattamente dove operano, le possibilità sono diverse – ossserva Ben Read -. Al contrario possiamo identificarli con un livello di certezza abbastanza alto. Bisogna osservare in quale fascia oraria operano, che tipo di linguaggio e che metodi usano”. Si potrebbe pensare che questa intensa attività degli hacker nordcoreani esponga il paese a ritorsioni online. Ma è qui che l’isolamento e l’arretratezza economica della Corea del Nord diventano paradossalmente dei punti di forza. Con poco più di 1.000 indirizzi IP per 25 milioni di abitanti, la Corea del Nord sembra meno permeabile alle offensive dei pirati informatici rispetto ai suoi nemici. Infatti, se meno persone sono connesse a Internet, anche le falle del sistema sono meno numerose. Secondo Simon Choï, è dunque “molto difficile introdursi” nella rete del paese, che prende il nome di “Kwangmyong” (letteralmente “luce brillante”) ed è basata per lo più sul sistema intranet. “Ma – aggiunge l’esperto – una volta che si riesce a entrare, penso che sia molto più vulnerabile”.

 

Lobby&C. Cingolani può salvare le auto di lusso tanto i parlamentari non si fanno neanche trovare

Questa storia ha del meraviglioso perché è la cristallizzazione di tutto quello che non solo non va, ma che pure appare difficile cambiare nonostante i proclami. La racconta, in uno sfogo su Facebook, Federico Anghelè, direttore di The Good Lobby in Italia, una non profit con l’obiettivo di dare voce anche a gruppi di interesse che arrivano dalla società civile. Che accetta e diffonde, insomma, l’importanza dell’attività di pressione sui decisori pubblici a patto che sia equa e democratica, arrivando dunque anche dai cittadini, di cui la politica dovrebbe essere naturale proiezione. E invece…

“Ecco una piccola storia triste (ed emblematica) – scrive Anghelè – The Good Lobby e altre organizzazioni della coalizione #Lobbying4Change stanno facendo enorme fatica a contattare i capigruppo della Commissione in cui si discute la proposta di legge sulla regolamentazione del lobbying: non rispondono alle mail, non si trovano al telefono. È un paradosso: noi lobbisti della società civile che vorremmo rendere più trasparenti e inclusive le relazioni con i decisori pubblici non riusciamo a dare il nostro contributo perché i parlamentari sono difficili da trovare. Poi leggi la stampa (internazionale) e capisci perché sembra impossibile regolamentare il lobbying in Italia: perché è tutta questione di relazioni e non di conoscenze (nel senso di competenze). Grandi gruppi industriali non hanno bisogno di mandare mail, chiedere appuntamenti, sperare in un incontro. Vantano ministri (Cingolani, responsabile della transizione ecologica) ex membri del loro consiglio di amministrazione (Ferrari) che in Europa fanno pressione affinché le super car vengano esentate dagli obblighi “ecologici” previsti per tutta la produzione di autoveicoli a partire dal 2035”.

Lo sfogo accompagna un articolo di Bloomberg che racconta come, mentre in Europa si inizia a discutere di come ridurre le emissioni dei motori delle automobili, il nostro ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, da Cernobbio si sia nuovamente concentrato sulla necessità di salvaguardare le case automobilistiche di altissima gamma le cui prestazioni, con altri motori, potrebbero essere danneggiate. Tanto, è il punto, di Lamborghini non se ne producono poi molte.

Quel che è certo, ad oggi, è che ancora mancano: una legge che regoli gli incontri tra i portatori di interesse e i decisori politici; un obbligo di ascolto in parti uguali; e, in buona parte dei palazzi, i registri degli incontri con i lobbisti. “Le difficoltà (in parte superate) che abbiamo avuto nel contattare i capigruppo della Commissione Affari costituzionale alla Camera rappresentano uno dei tanti esempi della sconnessione tra istituzioni italiane e cittadini – spiega Anghelé quando lo contattiamo – Basta fare un rapido confronto tra i siti di Camera e Senato e quelli del Parlamento europeo: a Bruxelles per ogni rappresentante c’è l’elenco degli assistenti, il numero a cui trovarli e un indirizzo email. Secondo i regolamenti europei, a tutta la posta elettronica va risposto, comprese le richieste di incontro. A Roma, oltre all’indirizzo email, non compaiono altre informazioni utili. A meno che non si sia disposti a perdersi nei meandri dei centralini di Camera e Senato”.

 

Tasse ai ricchi e più welfare: la battaglia si decide adesso

La pandemia globale ha causato morte e sofferenza a milioni di persone e creato una crisi globale dalla quale non si vede una chiara via d’uscita. È arrivata in un mondo che inizia a fare i conti con la crisi climatica, che richiederà investimenti ingenti per la transizione ecologica, e ha creato 100 milioni di nuovi poveri, un trend che sta leggermente migliorando nel 2021 ma che continua a peggiorare nelle regioni più fragili del pianeta. Contemporaneamente, la pandemia ha aumentato la concentrazione della ricchezza nei miliardari.

Buona parte dei 9mila miliardi iniettati nel sistema dalle banche centrali per evitare il tracollo è finito nei mercati finanziari, e da lì in parte nelle tasche dei super ricchi. La ricchezza totale dei miliardari è cresciuta di 5 mila miliardi di dollari durante la pandemia, arrivando 13 mila miliardi in totale. Invece di livellare le disuguaglianze, la pandemia le ha esasperate. L’uscita dal Covid rappresenta la principale sfida di tutti i governi ma anche un’opportunità storica: se nel breve periodo i governi stanno bilanciando la necessità di abbassare le tasse e aumentare gli incentivi per proteggere settori chiave dell’economia e stimolare la ripresa con il bisogno nel medio periodo di aumentare le entrate, prima o poi arriverà il conto da pagare. In questo contesto, una tassazione più progressiva diventa una necessità, per evitare che a pagare come al solito siano tutti tranne chi ha le spalle più larghe.

Se le entrate devono aumentare, non devono farlo in modo uguale per tutti. Serve chiedere di più a chi ha di più, attraverso una tassazione progressiva. Per farlo, serve però abbandonare 50 anni di tagli fiscali a imprese e ricchi e smettere di credere alla favola che ridurre le tasse aumenta la crescita, l’occupazione e il benessere per tutti: i dati dicono tutt’altro. Né nel Regno Unito, dove l’imposta sul reddito delle imprese (la nostra IRES) è stata tagliata dal 30% precedente alla crisi finanziaria del 2008 al 19% di oggi, né in India, dove l’aliquota è stata tagliata dal 30 al 22% nel 2019, né negli Stati Uniti, dove il super taglio di Trump ha ridotto l’aliquota dal 35% al 21% nel 2017 si è visto un aumento degli investimenti. Gran parte del taglio fiscale è finito in dividendi e riacquisto di azioni proprie da parte delle aziende per gonfiare il valore in Borsa per gli azionisti.

Per anni ci hanno pure raccontato che a pagare un eventuale aumento delle tasse delle imprese (la cosiddetta “incidenza”) alla fine sarebbero i consumatori e i lavoratori, quando tutti sanno che nel breve periodo sono gli azionisti a farlo. E nel lungo? C’è un vivo dibattito, ma senza una chiara definizione di quando il breve periodo finisca e poi, come diceva Keyes, al lungo periodo meglio non pensare. Finalmente però qualcosa si muove. Gli Stati Uniti, nell’ambito di un più generale attivismo statale si accingono ad aumentare l’imposta sui redditi delle imprese dal 21 al 28% e l’aliquota sulle plusvalenze per i super ricchi (il top 0.3%) al 39% per finanziare un piano di investimenti di 3500 miliardi di dollari in iniziative sociali, ambientali e sanitarie.

La pandemia ha creato un’opportunità unica per ripensare l’economia, ma il cambiamento non avverrà da solo, sarà una lotta. Le lobby del business americano, che rappresentano case farmaceutiche, banche e i giganti del digitale hanno già speso un 1,5 miliardi di dollari per bloccare la riforma fiscale di Biden solo nei primi 6 mesi del 2021. I sindacati, invece, solo 22 milioni: è Davide contro Golia, ma il vento inizia a cambiare e una tassazione più progressiva trova il consenso di gran parte dell’opinione pubblica. La chiave per rispondere alla domanda su chi dovrà pagare il costo di una società più inclusiva e con minori disuguaglianze è quindi la giustizia. E l’opinione pubblica sa riconoscere se una riforma è giusta.

Questa settimana nel giro di 24 ore il governo britannico ha dovuto modificare la proposta iniziale di finanziare un aumento delle spese per l’assistenza agli anziani attraverso un aumento sulle tasse solo per chi lavora (esentando quindi pensioni e rendite) aumentando le tasse anche sui dividendi. Questo non è bastato a fermare le critiche alla misura in quanto non progressiva con il partito conservatore che ha perso 5 punti nei sondaggi post-annuncio. L’opinione pubblica è a favore di un maggiore welfare state, ma vuole anche un sistema fiscale più giusto, dove multinazionali e i super ricchi pagano la loro giusta parte. Questo non arriverà però da solo. Chi continua a beneficiare dell’attuale sistema che favorisce capitale e rendita a discapito del lavoro farà di tutto per fermare il cambiamento. “Questi non perdono mai, ma stavolta perderanno” ha detto Bernie Sanders. Nelle prossime settimane lo sapremo.