Revisioni auto. Tariffe su del 22% C’è un bonus (ma per pochi)

Con l’estate ancora addosso è difficile tornare a pensare al budget familiare e alle spese che si abbattono solitamente tra settembre e ottobre. Ma la vita del consumatore, si sa, è impervia e lastricata di aumenti. Quindi meglio farsi coraggio e accettare che, dopo 13 anni di prezzi fermi, dal primo novembre gli automobilisti dovranno sborsare più soldi per la revisione che aumenterà di 9,95 euro, vale a dire il 22% in più. A prevederlo è stato un emendamento alla scorsa manovra che, come contentino, ha introdotto l’ennesimo bonus “Veicoli sicuri” che, tuttavia questa volta, non andrà a pioggia ma solo a chi si è potuto permettere di acquistare un’autovettura nuova. Il bonus, infatti, protegge dal rincaro delle tariffe della revisione auto quanti devono fare il primo controllo se effettuato entro la fine del 2023. Il bonus varrà comunque una sola volta e per un solo veicolo se si possiedono più auto. Il costo di questo bonus è stimato in 4 milioni l’anno nel 2021, 2022 e 2023. Ad ufficializzare l’aumento è stato un decreto interministeriale, firmato lo scorso 3 agosto dal ministero delle Infrastrutture insieme al ministero dell’Economia, adeguando così il costo della revisione in base alle tabelle Istat. Ritocco che non accadeva da 13 anni e che lo scorso anno, causa pandemia, era stato nuovamente fatto slittare.

Soldi alla mano, gli automobilisti da novembre pagheranno 54,95 euro se eseguiranno il controllo presso le sedi locali della Motorizzazione civile, mentre oggi per fare la revisione sono necessari 45 euro. Il prezzo sarà, invece, di 79,02 euro se si deciderà di rivolgersi presso un centro privato autorizzato: attualmente pagherebbe 66,8 euro. L’aumento del 22% rispetto alle tariffe attuali coinvolgerà tutti i veicoli a motore come anche i rimorchi. meglio, quindi, fare molta attenzione alla scadenza della revisione per in incappare in una sanzione. Il Codice della strada stabilisce una sanzione amministrativa dai 173 euro ai 694 euro (cifra che può raddoppiare in caso di recidiva e andare da 1.998 a 7.993 euro se il veicolo circola durante il periodo di sospensione). Inoltre, se si viene sorpresi a circolare con il veicolo durante il periodo di sospensione la multa è molto più alta e può andare da 1.998 a 7.993 euro, cui si aggiungono 90 giorni di fermo amministrativo. In questo caso, se si tratta di recidiva, scatta la confisca del veicolo.

 

Beni culturali, l’ente che ha preso 23 mln per 1 corso in 5 anni

A Roma c’è una Fondazione che ha il compito di gestire e organizzare un corso di studi di cui ancora non è chiaro il valore e la funzione (ora sospeso a tempo indeterminato) che non ha una sede. Eppure ha 19 dipendenti, innumerevoli collaborazioni, e nel 2021, a corsi interrotti e attività drasticamente ridotte, prevede di spendere 5 milioni di euro. Questa è la Fondazione Scuola per i beni e le attività culturali (SBAC), voluta dal Ministro Dario Franceschini nel 2015 e che dovrebbe formare professionisti d’eccellenza. Per ora ne ha formati 17, costando ai contribuenti quindi in media 1 milione e 347 mila euro per ciascuno di essi: dal 2016 al 2021, infatti, ha ricevuto fondi pubblici per quasi 23 milioni di euro. Nel contempo, anche un commissariamento tra il 2019 e il 2020.

In Italia, unico caso in Europa, esistono le Scuole di Specializzazione: titolo post-laurea diverso dal dottorato, abilitante per la medicina ma nei decenni esteso a tante altre discipline, come quelle dei beni culturali. Nel ministero, unico caso nella P.A. italiana, nei concorsi per funzionari è richiesta non la laurea, ma un titolo post-laurea: 7 anni di studi, di cui gli ultimi due (a differenza delle specializzazioni mediche) a pagamento. Molti tecnici chiedevano da tempo una riforma, ma Franceschini nel 2015 ha risposto aggiungendo un corso post-post-lauream: un biennale chiamato “Scuola del Patrimonio”, a cui si accede con dottorato o scuola di specializzazione, erogato da una Fondazione creata ad hoc. Sono 17 i posti nel primo biennio 2018-2020: un anno di corso e uno di tirocinio gratuito in istituti ministeriali (per persone con già 7 anni di studi alle spalle). Tra i compiti della Fondazione, anche una International School of Cultural Heritage annuale: 21 allievi nel ciclo 2019-20.

Ma, mentre proseguiva il primo ciclo di corsi, ancora non era chiaro il valore che avrebbe avuto nei concorsi nazionali e internazionali il titolo erogato da questo istituto privato a partecipazione pubblica. Poi, pochi mesi fa, la svolta: nel decreto Agosto si stabiliva che avrebbe visto la luce un “corso-concorso” per formare e selezionare la dirigenza tecnica del Ministero, organizzato dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione con l’aiuto, per decreto, proprio della Fondazione SBAC: 12 mesi di corso da tenersi nella sede della Fondazione, che oggi non esiste. E così, mentre Università e Accademie si organizzavano per offrire corsi da remoto e non interrompere la didattica con il Covid, la Scuola del Patrimonio, nel gennaio 2021 annullava il ciclo di corsi 2020-2022. Nonostante la Fondazione spieghi al Fatto che “il Corso Scuola del Patrimonio e il corso- concorso sono due progetti ben distinti, con diversi obiettivi e diverse articolazioni”, da allora non si ha notizia di un nuovo ciclo. Ci sono quindi 17 diplomati con un titolo erogato per una sola volta: la Fondazione dice che il corso dovrebbe riprendere nel 2022.

Le attività della Fondazione in questi mesi si sono ridotte a webinar online, partecipazioni a convegni o al G20 della cultura, e brevi corsi per i funzionari o per istituti pubblici. Non un rallentamento, per la Fondazione, che spiega al Fatto che le attività “si sono invece moltiplicate e articolate” impegnando la Fondazione “in molteplici progetti a sostegno delle competenze degli operatori del settore”. Costo di tutto ciò, secondo il budget 2021, 5 milioni. Nonostante la sospensione del corso principale, per il 2021 si prevede che i costi per il personale arrivino a 1,7 milioni, 900 mila più del 2019: l’organico punta ad ampliarsi, arrivando a 30 unità. Il rimborso previsto per la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, che ospita temporaneamente la Fondazione, passa dai 31 mila euro del 2019 ai 40 mila per il 2021. E così i gettoni di presenza per i membri del Consiglio di gestione, da 6 mila euro (2019) a 50 mila previsti per il 2021. Il MiC, che aveva ridotto i fondi per il 2020 da 3,5 a circa 2,5 milioni, torna a elargirne 3,5 per il 2021, e la Fondazione proprio per formare il personale del Ministero prevede per l’anno in corso di spendere 1 milione e 200 mila euro: nel 2019 erano 550 mila, tutti concentrati su corsi oggi sospesi. Per la sede della Fondazione si parla di Palazzo Rivaldi, nel centro di Roma, il cui restauro costerà allo Stato 35 milioni. Tutto questo prima di capire se, e quando, e con che valore la Fondazione erogherà il corso che dà il nome alla stessa.

La Fondazione si dice sicura che “l’ampliamento dell’assetto organizzativo è coerente con la crescita delle attività”. Ma mentre il settore è in pesante difficoltà, ci si chiede se investire 3,5 milioni annui in un corso post-post-lauream unico in Europa, di valore legale dubbio e sospeso a tempo indeterminato, sia una buona idea. Un dubbio che non sembra toccare il Ministro della Cultura.

Asili nido e sociale: i soldi vanno a chi non ne ha bisogno

Quella che state per leggere è una storia, due per la precisione, che ha già avuto una certa eco su parte della stampa (Il Messaggero, ad esempio, l’ha seguita attentamente), anche grazie alle proteste sdegnate arrivate a Roma da parte di sindaci e regioni del Mezzogiorno.

Partiamo dai fondi destinati con un decreto ministeriale, firmato da Andrea Orlando (Lavoro e Welfare) il 25 giugno, a potenziare i servizi alle fasce più svantaggiate della popolazione attraverso l’assunzione di assistenti sociali. Come ha rivelato in anteprima il giornalista Marco Esposito (peraltro autore del libro Fake Sud, di cui abbiamo parlato in queste pagine), solo il 18% dei fondi andrà al Mezzogiorno e nelle Isole, dove pure vive oltre un terzo della popolazione italiana e più ampie della media sono le fasce di esclusione sociale. Tra questi, peraltro, un terzo dei fondi andranno alla Sardegna, che tra le Regioni meno ricche presenta un miglior livello di servizi.

Anche per questo caso di sottrazione di fondi a chi ne avrebbe più bisogno c’entrano gli ormai famigerati LEP ovvero i “livelli elementari delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” richiesti dall’articolo 117 della Costituzione scritto vent’anni fa. Per partecipare al bando, Parlamento e governo avevano fissato un “livello essenziale”, ma in una bizzarra forma mista col criterio della spesa storica: 1 assistente sociale ogni 5.000 abitanti, ma penalizzazioni per i reprobi che ne avessero meno di 1 ogni 6.500 abitanti (col che, se ne deduce, che i LEP dovrebbero valere su tutto il territorio nazionale, ma anche no). Ne è venuta fuori una graduatoria che, per uno stanziamento che doveva aiutare a combattere le disuguaglianze, è una sorta di pugno in un occhio: Milano avrà 1,9 milioni di euro, Torino 1,8 milioni, Genova 1,6 milioni, Bologna 1,1 milioni, ma Napoli 680mila euro, Roma e Palermo zero come pure Caserta (ma zero ne avrà anche Pavia, ad esempio). Giovanpaolo Gaudino, presidente del Forum del Terzo Settore della Campania, l’ha messa così: “Questa ripartizione aumenta il divario tra nord e sud del Paese. A parte pochi casi, infatti, i Comuni a cui non sono stati destinate risorse, o per i quali sono stati previsti fondi esigui, si trovano nel Mezzogiorno. Molti di questi proprio in Campania dove 31 distretti su 52 non avranno nessuno fondo”. La situazione è talmente paradossale che lo stesso Orlando ha annunciato che si proverà, almeno in parte, a sanare questo sfregio con una quota del Fondo povertà 2021, ma il problema resta.

La seconda vicenda di uso bizzarro dei fondi per il riequilibrio territoriale (anche qui in assenza di LEP) riguarda gli asili: 700 milioni destinati alle aree svantaggiate e alle periferie urbane difficili finiti, in parte non infima, in posti che di sicuro non hanno queste caratteristiche (ad esempio una scuola per l’infanzia in via Rimini a Milano e una in corso Massimo D’Azeglio a Torino per 6 milioni in totale). Fondi, questa è la ciliegina sulla torta, a valere sulla prima tranche di finanziamenti del Piano di ripresa e resilienza appena arrivata da Bruxelles.

Il relativo decreto, che porta la data del 2 agosto e la firma tra gli altri del Ragioniere generale Biagio Mazzotta, distribuisce 700 milioni del Piano Asili da 2,5 miliardi varato a fine 2019: andranno a 453 progetti di “messa in sicurezza, ristrutturazione, riqualificazione, riconversione, costruzione di edifici per asili nido, scuole dell’infanzia e centri polifunzionali per i servizi alla famiglia”. Il Mezzogiorno, stavolta, ottiene un più dignitoso 54,4% delle risorse con in testa la Campania (138 milioni per 87 progetti). Ma la quota sul totale non può essere l’unico criterio e comunque non spiega perché fondi per le aree svantaggiate del Pnrr siano finiti in zone semi-centrali di Milano e Torino o a Ferrara (due progetti per 2,8 milioni), a Pavia o Varese (la Lombardia è la seconda Regione per finanziamenti con 52 milioni). La spiegazione, in realtà, c’è: tra i requisiti per valutare i progetti, il Dpcm del 2020 assegnava punti anche a un livello avanzato di progettazione e alla quota di co-finanziamento assicurata dal Comune, entrambi indicatori di un ente locale in buona salute e con bilanci sani, spesso in Italia sinonimo di Settentrione. Pare, citiamo ancora Esposito sul Messaggero, che il ministro Bianchi – impaurito dai ricorsi – abbia promesso un rifinanziamento del progetto per coprire parte dei 2.200 progetti esclusi: basta che si ricordi di correggere i criteri di calcolo…

Quei 4,6 miliardi da spendere (al di fuori della Costituzione)

Si può derogare alla Costituzione con l’articolo di un decreto che riscrive un pezzo di una legge del 2009? La risposta sarebbe no, in pratica è quello che avviene con un pezzo del dl Infrastrutture approvato dal governo giovedì 2 settembre: in quel testo si interviene a modificare la disciplina di riparto del cosiddetto “fondo perequativo infrastrutturale” da 4,6 miliardi istituito dall’ultima legge di Bilancio e si scrive, implicitamente, che quei fondi non saranno distribuiti sulla base dei LEP, i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” secondo l’articolo 117 della Costituzione (uno dei parti della riforma “federalista” del 2001).

Andiamo con ordine. Tutti sanno che esistono livelli diversi di prestazioni e servizi pubblici tra città e campagna, Nord e Sud, aree ricche e povere, pianura e montagna. Questa situazione è persino peggiorata dopo le varie riforme federaliste: la pur parziale autonomia fiscale ha penalizzato soprattutto il Mezzogiorno e le cosiddette “aree interne”, aggiungendosi al taglio drastico degli investimenti pubblici (austerità) e allo scarso peso delle classi dirigenti delle zone più povere del Paese nella seconda Repubblica. La clausola di salvaguardia per “perequare” queste disuguaglianze erano appunto i LEP: in sanità sono arrivati con un quindicennio di ritardo i livelli elementari di assistenza (LEA), e molti non li rispettano, mentre su scuola, trasporti, infrastrutture e servizi sociali siamo in sostanza alle ripartizioni sulla base della “spesa storica”, meccanismo che continua a favorire i territori ricchi.

Per restare alle infrastrutture (ma qui accanto potete vedere cosa accade su asili e servizi sociali), bisogna intendersi sull’enormità del problema. Il relativo rapporto di Bankitalia, pubblicato a fine luglio, ci spiega che nell’ultimo decennio la media pro-capite degli investimenti per ogni abitante del Mezzogiorno è stata di circa 780 euro, il 17% in meno degli oltre 940 euro ricevuti dai residenti del Centro-Nord. Per ridurre il divario accumulato, al Sud e alle Isole dovrebbe essere destinata per anni una quota di spesa almeno pari al 45% del totale nazionale e “in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione”, che è del 34,4%: invece, nell’ultimo decennio, al Sud è andato appena il 30% dei fondi.

A questa situazione intendeva, in parte, rispondere il fondo perequativo da 4,6 miliardi di euro dal 2022 al 2033 creato con l’ultima finanziaria e che prevedeva il riparto dei fondi dopo aver individuato i famigerati “livelli elementari delle prestazioni”: si trattava, in sostanza, di fare una ricognizione del patrimonio esistente e individuare criteri oggettivi – richiesti invano da vent’anni dalla Costituzione – per ripartire i fondi a favore, in sostanza, delle aree più svantaggiate, che significa Mezzogiorno e aree interne. Non in maniera generica però: sulla base di – pur non infallibili – criteri quantitativi. Ecco, il nuovo articolo del dl Infrastrutture cancella l’idea, pur obbligatoria secondo la Carta, che vadano definiti i LEP e si preoccupa di trovare un modo rapido di distribuire i fondi attraverso un accordo con le Regioni. A quanto risulta al Fatto Quotidiano è stato il ministero dell’Economia, oggi guidato da Daniele Franco, a ritenere impossibile definire i livelli essenziali in tempo per la prima tranche del 2022 (che però ammonta a soli 100 milioni): non tutto il governo è compatto su questo punto, il ministro competente Enrico Giovannini, ad esempio, non è del tutto convinto che si possa aggirare la Costituzione con questa leggerezza.

Sta di fatto che questo fondo da 4,6 miliardi fa gola a molti. La ministra del Sud Mara Carfagna, ad esempio, aveva tentato di annetterlo al suo dicastero con un emendamento al dl Semplificazioni lo scorso luglio, poi saltato per una sollevazione unanime della maggioranza conclusasi con un voto notturno che mise in mora la ministra di Forza Italia. Ora siamo a una versione più soft di quel tentativo, visto che il ruolo del ministero della Coesione territoriale – insieme a quello dei governatori e dei ministeri interessati ai vari progetti– viene rafforzato. Al netto del ruolo della Carfagna – o di chiunque sia il ministro quando si tratterà di gestire davvero i fondi – la novità più rilevante però, come detto, è la rinuncia alla definizione dei LEP, che pone a governo e maggioranza due problemi: uno, già visto, è di natura costituzionale; il secondo, che pure ne discende, è di sistema politico.

Questo modello di spesa premia gli esecutivi, tanto nazionali che regionali, i quali preferiscono la trattativa diretta tra loro piuttosto che fastidiosi diritti formalizzati che rendano la distribuzione delle risorse automatica sulla base di criteri chiari (che sono essi stessi, ovviamente, una decisione politica). Una scelta del genere è particolarmente miope se avallata dai presidenti delle Regioni del Sud: è il modello perdente che in questi trent’anni li ha portati nella situazione descritta da Banca d’Italia e da cui siamo partiti. Per altri esempi, basta leggere qui accanto la storia di due recenti decreti di riparto fondi.

Prove ed errori. Sbagliare ci rende umani facciamolo più spesso, anche sulla scena

A volte sento il desiderio di sentirmi nuova. Quello che desidero è rischiare. Fin da piccoli ci insegnano a detestare l’insuccesso, ma al contrario di quello che sembra, “sbagliare” è uno degli strumenti più preziosi per fare l’attore. Non dimenticherò mai quando da piccola dissi che volevo fare l’artista, la ballerina. Mi dissero: “sei legnosa come una scopa” e giù grasse risate. Ebbene, questa cosa mi fece sviluppare una grande forza. Fu lì che decisi che avrei fatto questo mestiere. Quando un pagliaccio prende una torta in faccia ti dispiace vederlo tutto ricoperto di panna, ma il povero pagliaccio ha preso una grande risata. Quella risata, è l’unica cosa che conta. Quando iniziai a fare teatro mi resi conto che la reazione del pubblico, quel rumore che torna indietro come il risucchio di un onda è “la grande verità”. Il perdente è un personaggio che ha in sé dolore e sincerità. Per esempio: quando racconti una barzelletta che non viene capita e cerchi di spiegarla, può essere un’impresa disperata, ma è proprio la tua disperazione che può far ridere chi ti ascolta. Più ti arrampichi sugli specchi, più la gente ride! Un errore può diventare un successo. La scorsa settimana ero ospite a Domenica in, dovevo cantare in diretta un pezzo famosissimo di Kramer che è il leitmotiv di “Buonanotte Bettina di Garinei e Giovannini, famosa commedia musicale che sto portando in giro dal 94. Quel pezzo si chiama Simpatica e fa così… “c’è qualche cosa in te che va diritto al cuore simpatico sei tu…”. L’ho cantata almeno 250 volte a teatro, e l’ho sempre fatta bene. A Domenica in invece ho scordato gran parte delle parole e ho stonato di brutto. Ero disperata! Beh, voi non ci crederete, ma ho ricevuto telefonate di complimenti da tutta Italia. Di colpo, in quanto imperfetta, ero diventata più umana. Il successo è anche questo. D’ora in avanti sbaglierò più spesso!

 

Senza luoghi comuni. Tra saggio e narrativa, Dacia Maraini ci porta la scuola dentro casa

La scuola è un luogo comune che si difende e si attacca incrociando luoghi comuni. Così che ogni discorso sulla scuola è uguale al precedente e sarà seguito da una copia.

Un altro modo di trattare il problema scuola è rendere estremo il problema, oppure ogni parte del problema. La scuola è un fallimento, anzi il percorso che inevitabilmente porta al fallimento. La scuola è il solo strumento per impedire il naufragio di una comunità, di un Paese.

Dacia Maraini, nello scrivere questo suo ultimo libro (La scuola ci salverà, Solferino), ha avuto un’idea semplice ( come è semplice la lunga autostrada di scrittura che ha tracciato la sua vita) e ci parla di scuola mettendosi dentro la scuola, osservandola dai quaderni, dai banchi, dalle persone, da due grandi dialoghi, adulti e bambini, ma anche adesso e allora. Dove “allora” non è lontanissimo e “adesso” non è la celebrazione del presente come avanzamento di civiltà, ma misuratore senza enfasi della distanza.

In questo libro Dacia Maraini è sfuggita del tutto a trappole quasi sempre inevitabili. Una è il cadere nei propri ricordi, la mia classe, la mia maestra, il mio sillabario. Un’altra è lo sguardo da fuori, colto e documentato ma estraneo, da ministro o da pedagogista. Questo libro si divide in due parti. La prima è una rappresentazione della scuola, persone, problemi, istituzioni, un continuo sfiorare, senza sostare, sui dibattiti che si ripetono all’infinito quando si pronuncia la parola “scuola”.

Ma funziona un espediente che dà sempre buoni risultati nello scrivere anche politico di Dacia Maraini. Niente rimane astratto, ogni argomento viene calato al livello della esperienza di chi scrive e – facile presumere – di chi legge. Così che il saggio diventa conversazione e il lettore sa che non deve guardare in alto, ma guardarsi intorno per far parte della discussione.

La seconda parte sono “I racconti” che sono la sorpresa e il regalo che la Maraini fa ai suoi lettori. Essi sono allo stesso tempo un compenso per l’attenzione, e un fascicolo di documentazione per quelle delle cose dette dalla saggista che possono sembrare astratte. Interviene allora la narratrice che presenta fatti, persone, e una sensazione di cose realmente accadute che (tipico della scrittura di Dacia Maraini) ti tiene ben piantato nella realtà.

In questo modo l’autrice ha ribaltato la tradizione del saggismo colto, che si assume un compito e lo vuole svolgere con la demolizione di un altro punto di vista (ostile oppure amico). Puoi benissimo convivere con la scrittura di Dacia Maraini, a88 patto di accettare che, in luogo di combattimento, ci siano argomenti.

 

La scuola ci salverà Dacia Maraini – Pagine: 224 – Prezzo: 15 – Editore: Solferino

 

Gli amletici interrogativi di Cristiano Ronaldo: meglio la fama o la fame?

 

BOCCIATI

Perché non possiamo non dirci cristiano Meglio la fama o la fame? A cena con il giornalista del Daily Mail Piers Morgan, Cr7 solletica la nostra compassione a proposito della sua popolarità. “Quando inizia, è fantastico. Sei famoso, sei un giocatore fantastico, vinci trofei, fai gol, sei in prima pagina sui giornali, in televisione. Ma dopo molti anni, guardi la vita in un modo diverso. Hai una ragazza, hai figli, vuoi un po’ di privacy e non c’è più privacy. La mia privacy è andata. Sai quante volte sono andato al parco con i miei figli negli ultimi due anni? Zero”. E noi che pensavamo che avesse un parco tutto suo. Ma pure il resto del tempo libero è uno strazio. “Se vado al parco, così tante persone arriveranno all’improvviso. I bambini saranno nervosi, io sarò nervoso, la mia ragazza sarà nervosa. Non posso andare in un bar con gli amici perché so che non si sentiranno a loro agio con me lì. Evito di fare questo genere di cose, perché le persone intorno a me saranno più nervose di me”. Purtroppo non si può più fare nulla: “Mi sento come se fossi un po’ in una gabbia permanente. Ma è troppo tardi per cambiarlo”. Enfin, un’affermazione con cui non si può non essere d’accordo: “Essere me stesso è noioso”.

Specchio riflesso. In un’intervista al sito mowmag.com il professor Umberto Galimberti, già professore ordinario di filosofia della storia e di psicologia generale e di psicologia dinamica all’Università di Venezia, nonché membro ordinario dell’International association of analytical psychology, commenta le posizioni dei colleghi (Cacciari, Vattimo, Barbero, Agamben) sul green pass. “Non capisco perché gli intellettuali si devono distinguere dalla gran massa, penso per ragioni narcisistiche. Perché insomma, se c’è una pandemia e il vaccino funziona, e non è una ipotesi ma la realtà verificata, a questo punto è inutile fare gli ‘obiettori’, se non per distinguersi e cercare di farsi notare tra noi intellettuali”. Insomma, gli chiedono, sono tutti narcisisti? “Ma sicuramente, non c’è altro senso nel loro comportamento. Mattarella ha parlato chiaro, Draghi anche, persino il Papa… cosa vorrebbero fare loro di diverso per contenere questa pandemia?”. Che dire? Amen.

 

PROMOSSI

Buon sangue. In una bella intervista di Candida Morvillo su “F”, in occasione della presentazione a Venezia de “Il silenzio grande”, il regista Alessandro Gassmann riflette su famiglia e società. “E’ una storia di persone che parlano e ascoltano. Oggi, tutti parlano ma nessuno ha più intenzione di sentire il pensiero dell’altro. “Il silenzio grande” è ambientato nel 1965 anche per raccontare quelle famiglie dove ci si guardava in faccia, le relazioni erano concrete, più profonde. C’è stato un lento, inesorabile, abbandono del mestiere di genitore. Io sono stato un padre amorevole, ma severo e rigido come mio padre con me. Non è vero che, a lasciare libero un figlio, si fa il suo bene. Infatti, la mia generazione ha figli allo sbando, impreparati, spaventati e profondamente ignoranti”. L’intervistatrice gli chiede come sia riuscito, di questi tempi, a essere un padre severo. E lui: “Anche rendendomi antipatico. Mio figlio ha avuto il motorino a 16 anni, è potuto tornare tardi la sera a 18. Questo è: fino ai 18, fai quello che ti viene detto. Anzi, per me, la maggiore età andrebbe alzata a 21. Mi sono fatto rispettare, con dolcezza, ma con fermezza: con me, una discussione non si apre. Io dico ‘non esci’; tu non vuoi litigare con me; quindi, non esci. Bisogna essere duri, se serve, e dolcissimi il resto del tempo. E sempre pronti ad ascoltare. Sull’ascolto, tutto il merito va a mia moglie, che è molto più presente di me”. Parole condivisibili, intelligenti e coraggiose, in tempi i cui “responsabilità” è diventata una parolaccia (e in cui i partiti, inseguendo briciole di consenso, vorrebbero per esempio il voto a 16 anni).

 

Da Barbero a Cacciari, la polemica sul pass aiuta il fronte no-vax

 

BOCCIATI

Simposio allargato Di settimana in settimana cresce lo sconcerto generale nel sentire voci autorevoli e d’incontestabile spessore intellettuale dichiararsi contrarie al green pass obbligatorio per questioni di principio. Le perplessità di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben in merito al prolungamento ad libitum dello stato d’emergenza, a cui si sono aggiunte nelle ultime settimane le considerazioni di Gianni Vattimo sull’importanza della lotta civile dei no pass, hanno tenuto banco durante tutta l’estate, utilizzate più o meno strumentalmente da tutti coloro che avessero bisogno di una legittimazione autorevole per le proprie ritrosie vaccinali.
Questa settimana si è unito alla rosa dei critici lo storico Alessandro Barbero, che ha sottoscritto assieme a centinaia di docenti universitari un documento per dire no al green pass obbligatorio per accedere agli atenei, dubitando della legittimità di un certificato obbligatorio per accedere a ‘diritti fondamentali come lo studio o il lavoro’ in assenza di obbligo vaccinale.
Agamben, Cacciari, Vattimo e Barbero convengono tutti su un punto: il green pass è un obbligo surrettizio, è un’ipocrisia formale (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, Vattimo) .
Ed ecco che arriviamo al punto. Tutti e quattro gli autorevoli accademici chiamano in ballo i loro colleghi, chiedendosi come mai si siano sottratti a un dibattito sull’opportunità formale di determinate misure, sulla legittimità di provvedimenti graduali e giuridicamente poco ortodossi.
Lo ha detto chiaramente Barbero rispondendo a un’intervista del “Corriere della Sera”: “Vivere in un Paese in cui non si può salire su un treno o entrare in un ufficio pubblico o andare all’università se non si possiede un pezzo di carta che però — per carità! — non è assolutamente obbligatorio, è surreale e inquietante. Chi si preoccupa di questa violazione dei diritti magari esagera, e io sarei ben contento di discutere con chi pensa che nella situazione che stiamo vivendo si tratti di preoccupazioni troppo astratte. Invece tutto questo avviene senza un dibattito pubblico equilibrato, e in mezzo alla canea degli insulti da una parte e dall’altra, e questo è addirittura terrificante”.
Che filosofi, ricercatori, docenti universitari si esercitino su considerazioni di questo genere è non solo comprensibile ma addirittura auspicabile: speculazioni etico-politiche sulla liceità di misure straordinarie adottate dal governo sono il pane quotidiano per un consesso accademico. Ma il dibattito pubblico non è un simposio platonico e la strumentalizzazione di qualsiasi contenuto funzionale alla causa è ormai prassi. Possono davvero dei fini pensatori nonché navigati uomini di mondo, aver sottovalutato l’uso massivo e pretestuoso che il fronte no vax-no pass avrebbe fatto delle loro dotte perplessità? Possono sul serio aver rimosso il rischio di trasformarsi nell’egida intellettuale dietro alla quale si sarebbero schermate folle di complottisti e antivaccinisti? Beh, tra i compiti di un intellettuale, oltre a quello di ragionare, c’è anche quello di contestualizzare. A giudicare dall’accaduto vale la pena ricordarlo.

Non si danno voti ai professori

 

Fuga dal calcio. Sky è in profondo rosso, mentre Dazn “moltiplica” i suoi abbonati

Anche se la specialità del Pianeta Pallone è da sempre quella di nascondere la polvere sotto il tappeto e far finta che nella casa tutto risplenda, un paio di notizie di questi giorni, il rosso di 690 milioni con cui Sky ha chiuso il bilancio 2020 e la diatriba Dazn/Auditel sull’audience reale delle prime due giornate di serie A (i cui diritti tv sono ora detenuti da Dazn), meritano di essere approfondite. Perché se è vero che il calcio italiano si regge quasi interamente sui soldi delle tv, ebbene Flaiano aveva ragione, ma qui la situazione è grave ed è seria.

Sky ha chiuso il 2020 con 690 milioni di passivo: un vero tracollo se confrontato con i 18,8 milioni di rosso del 2019. I ricavi della pay tv sono diminuiti dell’11% e tra le voci sensibili ci sono i -178 milioni di abbonamenti, i -44 di nuove installazioni e/o noleggi e i -171 di raccolta pubblicitaria. Sky, che vantava un tetto di 4,8 milioni di abbonati, non ha comunicato il numero delle disdette; ma sorprende che proprio nell’anno della pandemia, con gli italiani costretti in casa a lungo, a dispetto di condizioni che avrebbero dovuto “favorire” una maggiore fruizione del calcio in tv, ci sia stato invece il grande rigetto: tv spente e un’emorragia di disdette. Considerando poi che Sky ha detenuto i diritti fino a giugno 2021 e che i campionati 19-20 e 20-21 sono stati praticamente un unicum (il primo chiuso ad agosto e il secondo partito a settembre con le coppe europee a fare da trait d’union), pensare che la fuga di abbonati sia proseguita anche nei primi 6 mesi del 2021 non è peregrino. Io non ne sono sorpreso, visto che la Serie A è l’unico campionato al mondo in cui gli arbitri contano più dei giocatori e dove la narrazione avviene in stile Istituto Luce (manco la gente fosse stupida); ma in queste righe non m’interessa sviscerare i perché.

È invece importante dire che nel primo campionato dell’era Dazn è subito esploso il giallo degli ascolti: fino a ieri rilevati da Auditel e oggi da Nielsen su mandato della stessa Dazn. Ebbene: Adnkronos ha rivelato che gli ascolti resi noti da Dazn (4,3 milioni di spettatori la 1a giornata, 4,7 la 2a: quasi i 4,8 di Sky) secondo Auditel sarebbero gonfiati del 58,1%. E questo perché un abbonato che abbia visto, ad esempio, Verona-Inter venerdì, Juventus-Empoli sabato e Milan-Cagliari domenica viene contato come fossero 3. Addirittura, se negli stessi giorni l’abbonato avesse visto anche Udinese-Venezia venerdì, Lazio-Spezia sabato e Genoa-Napoli domenica (2 gare al giorno) verrebbe contato come fossero 6 abbonati diversi. Premesso che Auditel misura solo la presenza davanti al televisore e Dazn ha anche la fruizione in streaming, gli ascolti di Verona-Inter sono 236 mila per Auditel contro 402 mila per Dazn; e così per Juventus-Empoli (448/728), per Milan-Cagliari (344/551) e per tutte e 10 le partite.

Il sospetto che sinistramente si sta insinuando e sul quale Sassoli de’ Bianchi, presidente dell’Upa (investitori pubblicitari), ha chiesto di fare subito chiarezza è che gli amanti del calcio in tv se la stiano dando a gambe. Il che sarebbe una tragedia. I diritti del nostro calcio, già venduti al ribasso, verrebbero ancor più deprezzati (tra Italia ed estero la Serie A vale 1,2 miliardi contro i 2,1 della Liga e i 3,6 della Premier League) e per i club, ormai costretti a perdere i Lukaku, i Donnarumma, i Ronaldo, gli Hakimi e i De Paul senza colpo ferire, questo sarebbe un colpo mortale. Ma come dice il proverbio: chi è causa del suo mal…

 

L’altra estate. Vegetariani e artisti di strada: un camping che prova a fare la differenza

“Sia chiaro, qui Amaro del Capo non ne vendiamo”. Guardo estasiato dal sotto in su il mio interlocutore. Pensa forse di choccarmi e non sa che da anni non aspetto altro, queste mode eccessive mi creano il rigetto. Ecco dunque un’offerta di amari minori, locali e buonissimi. Tutto qui è locale, minore e buonissimo. In questo spazio in pietra che sorge in una radura verdeggiante vicino a Isola di Capo Rizzuto, località Sovereto, mi imbatto in tipi umani che fanno la differenza.

Davanti a me sta Pino, uno dei cuochi più bizzarri e affascinanti che abbia mai conosciuto. Ma dirlo cuoco o oste è poco. La barba rada e scura, un orecchino sul lato sinistro, Pino (generalità: Giuseppe Caiazzo) appartiene alla specie dei filosofi naturali, e fa da amabile e ospitalissimo commentatore del mondo. Ha riaperto nel 2011 questo spazio cucina-ristorante con parcheggio. Glielo aveva offerto il suocero senza chiedergli affitti e lui è partito con in suoi principi, rinsaldati l’anno precedente in quel congresso naturista del 2010 di cui io nulla so ma che per lui deve essere stato una pietra miliare dell’esistenza. Ha speso quanto aveva per mettere a posto le strutture e adeguarle alle norme di legge, piastrelle, forno e il resto. Il padre che ha un orto gli ha dato zucchine, pomodori, bieta, fagiolini e insomma tutto ciò che serviva a mettere in tavola piatti vegetariani. Il primo impatto con la clientela è stato ottimo. Così, con i primi 500 euro risparmiati ha comprato la prima carne, ma i clienti gliel’hanno rifiutata. Quali salsicce, gli hanno detto, noi veniamo qui per i piatti vegetariani. E così l’identità del posto è diventata chiara. A quel punto ha chiesto al padre di dare fondo alle risorse della terra, ché quelle e non altro avrebbe cucinato, a partire dalle buonissime lasagne vegetariane. Finché nella radura si è aperto il campeggio.

L’idea è nata quando due ragazzi, risalendo dalla spiaggia di sotto, gli hanno chiesto se potevano mettere lì una tenda. Ma di nuovo “sia chiaro” che questo è un campeggio speciale, non di quelli alla moda. L’avventura ha fatto il salto nel 2016 grazie all’incontro con un circolo Arci di Crotone che ha il volto giovane di Alessandra Basso, la presidente, una ragazza bruna che ha condiviso e rilanciato il verbo di Pino. Chi viene qui dimentichi le chiavi della macchina, perché è campeggio e non parcheggio. E per quanto possibile dimentichi anche il telefonino.

Solo il piacere del silenzio e dei rumori incantevoli della natura. E della lentezza. Certo che ci sono le attività sociali; anche la musica, ma a mezzanotte si chiude. E sempre a volumi contenuti. E per favore niente schiamazzi, niente ubriachi che lasciano in giro le tracce dei loro eccessi. Anche se spendono tanto. Piuttosto teatro, fumetti, laboratori yoga, il corso “voce creativa e corpo sensibile”. Tutto all’insegna del “baratto culturale”, che vuol dire che qui si ospitano gratis i giocolieri e gli artisti di strada e i narratori di fiabe che in cambio danno alle comunità cangianti dell’estate i loro talenti e saperi.

Qui si incontrano le comunità, da Libera agli ecologisti all’Associazione delle persone down. “Vogliamo dare ospitalità tutto l’anno. Se ci sono infrazioni alle regole? Sarebbe assurdo”, risponde Alessandra con il sorriso accattivante sotto gli occhiali. “Noi siamo l’Arci, se fai la nostra tessera sai dove sei”. Pino però incalza con la sua ironia. Il discorso sta prendendo una piega troppo ragionevole. Siamo diversi, rivendica. E la nostra mail non è “punto com”, ma “punto it” come Italia, anche questo “sia chiaro”. Poi mi guarda in tralice. Non devono essere un po’ strani quelli che, lavorando grazie alle vacanze altrui, sono costretti a dichiararsi “aperti per ferie”? Lo scruto, lo ascolto nella sua inesauribile favella, con quel congresso naturista che riaffiora ogni mezz’ora, e starei a sentirlo tutta notte.