Trova le differenze. “Il Covid tra i degenti delle Rsa: con il vaccino sono tutti ancora qui”

 

Meglio un sorriso sdentato del ghigno di certi politici

Buongiorno Selvaggia, le scrivo per raccontarle la mia storia. Inizio subito dicendo che per me domani è un grande giorno dopo anni di sofferenza. Domani finalmente metterò alcuni impianti per ricostruire in parte la mia dentatura. Ho 48 anni e da circa 5 anni ho cominciato a perdere i denti, e per perdere intendo dire che sono caduti come birilli. Mi hanno spiegato che ho una forte paradontite aggravata da un forte stress. Lo stress coincide con la perdita del mio caro papà.

Per lui ho lasciato il lavoro, dovendo occuparmene a tempo pieno (cosa che rifarei 1000 volte). Però mi ritrovo senza lavoro perché troppo “grande” per far sì che qualcuno mi assuma. Non percepisco nessun reddito, e vivo con mia madre pensionata. Dopo anni il mio compagno è riuscito ad ottenere un prestito e domani finirà questo incubo. Penso di essere l’unica in Italia felice di indossare la mascherina, sono due anni che la indosso 12 ore al giorno. Sono anni che non sorrido, cerco di parlare il meno possibile, e tutto per nascondere questo schifo che è la mia bocca. Le cure dentali non sono garantite per chi, come me, è povero.

Mi sono rivolta a chiunque, al massimo forse potevo aspirare ad una dentiera… Sinceramente ho detto di no, non ce la facevo a mettere una dentiera a 48 anni. Le racconto questo calvario per tutte le persone che fanno storie per il vaccino e il green pass. Parlano di dittatura sanitaria e sinceramente li trovo a dir poco ridicoli. Dittatura sanitaria, al massimo, è lasciare che qualcuno possa rimanere senza denti perché non può pagarsi un sorriso decente.

Cosa dovrei dire io che ho bisogno dei denti per mangiare (e non per fare la pubblicità al dentifricio Colgate) e ho dovuto attendere 5 anni prima di racimolare i soldi necessari? È un debito che ci porteremo dietro per anni ma purtroppo necessario. Tra qualche giorno finalmente ritornerò a sorridere, a mangiare, a mettere il mio amato rossetto rosso, etc. Lo faccia presente ai no-vax che parlano di dittatura, di ricatti.

P.s. Nel caso decidesse di pubblicare la mia storia, la prego di non pubblicare il mio nome, la vergogna per il mio problema è veramente tanta.

M.

 

Cara M.,

Il ghigno di chi in questi giorni parla di reddito di cittadinanza come metadone o di cittadini che preferiscono stare sul divano, magari senza denti, purtroppo, invece, è sempre splendente.

 

Salvini si è vaccinato per dare un contributo alle varianti

Lucarelli, io non ho ben capito una cosa: Salvini dice che i vaccini portano le varianti, che il green pass è una scemenza e così via, quindi mi chiedo: ma perché lui si è vaccinato? Ci si vaccina se si è convinti che sia la scelta più giusta per se stessi e per la comunità, per cui evidentemente è una conclusione a cui è arrivato pure lui. Perché allora non dice questo nei comizi e in tv ma invece parla della sua scelta di vaccinarsi come qualcosa che ha fatto sotto ipnosi o per accontentare qualcuno, non si sa bene chi?

Norberto

 

Si è vaccinato perché vuole dare il suo contributo alle varianti perché venga sterminata l’umanità, evidentemente. Non capisco perché non abbia fatto terribili appelli a non vaccinarsi, altrimenti. O no?

 

Il virus nelle Rsa: con il vaccino si sopravvive

Ciao Selvaggia, vorrei riportare la mia esperienza che deve restare anonima per tutelare tutte le persone coinvolte. Lavoro in Rsa. Siamo tutti vaccinati: tutti. Abbiamo resistito a tre ondate e ora è arrivato il covid. Primo positivo venerdì scorso. Nel giro di 5 giorni tutto il reparto si è positivizzato NONOSTANTE il protocollo covid che comprende isolamento, uso di dpi, accortezza, areazione, ecc. Quale è allora la differenza rispetto a un anno fa in cui nessuno era vaccinato? Te la spiego: nessuno… ripeto NESSUNO è in pericolo di vita o ha crisi respiratoria o polmonite. Nessuno. È una pseudo influenza. Saturano tutti bene. Tutti. Anche i più compromessi da patologie che si portano dietro da anni. Anche due centenarie. Anche chi aveva già l’ossigeno per bpco che aveva da anni. Ti ricordo cosa è successo da marzo 2020 a gennaio 2021 nelle Rsa della Lombardia? Il 50 % moriva. Qua nella mia zona anche il 60%! La terapia intensiva degli ospedali qui vicino ha praticamente solo non vaccinati, anche giovani. Lo dico perché parlo con i medici. Non perché invento. Ecco, spero che qualche scettico mi abbia letta.

N.

 

Cara N.,

la tua testimonianza è importante e potente. Sapere che grazie ai vaccini le Rsa hanno smesso di essere lazzaretti e sono tornate a rappresentare quel luogo in cui si vivono ancora anni preziosi di una vita piena di cose, ricordi, affetti e dignità, è una grande gioia. Grazie.

 

Bibbia Zagrebelsky e il “nulla” dell’Ecclesiaste, in cui sia la vita sia la morte non hanno senso

Da sempre il Qohelet è una sorta di enigmatico magnete che va oltre la fede ebraica o cristiana. Qohelet, cioè Ecclesiaste ovvero il “Predicatore” è un libro cosiddetto sapienziale dell’Antico Testamento e intestato a Salomone. Nel senso che il racconto attribuito al re figlio di Davide è una finzione, un mero artificio.

Del Qohelet è fin troppo nota l’estrema sintesi aforistica, contenuta nei nove versetti iniziali della prima parte. Per la serie: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet (versione della Cei, ndr), vanità delle vanità, tutto è vanità”. E poi: (Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà;) non c’è niente di nuovo sotto il sole”. È un testo su cui, in anni recenti, si sono cimentati lo scrittore Erri De Luca e l’ex presidente della Camera Luciano Violante. E adesso in libreria è arrivato Qohelet di Gustavo Zagrebelsky (Il Mulino, 161 pagine, 14 euro), già presidente della Corte costituzionale e professore emerito di Diritto costituzionale all’Università di Torino. Non è la prima volta che il grande giurista affronta temi a sfondo religioso, si pensi al Crucifige o alla figura del traditore Giuda.

Il sottotitolo di Qohelet è La domanda e Zagrebelsky con l’umiltà propria degli studiosi che sconfinano in altri campi precisa che le sue “meditazioni” vanno annoverate tra quelle di un “lettore comune”. Oggettivamente non è così e il già presidente della Consulta ci consegna un’opera ricca e originale che induce a nuove e profonde riflessioni (anche politiche) sull’Ecclesiaste. Il riferimento è al testo della Bibbia del Diodati del 1641, la prima traduzione in volgare. Il tema del Qohelet è il nulla, ché sia che l’uomo goda (potere, sesso e cibo) sia che viva nella tristezza e nella disperazione è comunque destinato alla polvere della morte, senza lasciare traccia di sé.

Oltrepassando la questione dell’attribuzione a Salomone, Zagrebelsky ne dà questa definizione: “Il Qohelet è un diluvio di gocce di veleno espresso per brevi frasi, ciascuna compiuta in sé; ma l’impianto di un discorso generale non c’è; c’è l’intento di certificare in tanti, e spesso incoerenti, modi la generale insensatezza dell’esistenza nel segno della onnipresente vanità”. Con una scrittura nitidissima e coinvolgente, il giurista scarnifica verso per verso l’Ecclesiaste attraverso tre “strati”: la Terra, l’uomo e la morte. In modo superficiale e banale qualcuno direbbe che l’approccio di Zagrebelsky è laico. Banale, appunto. La chiave del suo Qohelet è centralmente umana, decisiva quindi per tutti, credenti e non. Come dimostra il bellissimo capitolo finale: “La disperazione di Qohelet è l’incombenza della morte sulla coscienza. Non è la morte in sé”. Riguarda cioè la nostra condizione ineluttabile di “morituri”, “il tempo della vita in attesa della morte”. E se allora l’incoerenza del Qohelet non conduce in nessun posto, né alla cosmogonia mitica degli antichi né alla teologia, ecco che “la nostra vita continua attraverso i segni che abbiamo lasciato”. Cioè il “diritto di non passare invano sulla terra” che “appartiene alla morale collettiva”, non alla legge. Per Zagrebelsky è l’unico modo per rigettare “la visione lugubre della vita” del Qohelet.

 

La sai l’ultima?

 

Parma In una frazione di Lesignano Bagni da mesi scompaiono i gatti domestici

C’è un mistero che “scuote” il comune di Lesignano Bagni, in provincia di Parma. Una cinquantina di gatti, di razza comune e nessuno con pedigree pregiato, sono scomparsi dalle case dei loro proprietari.

La denuncia l’ha fatta, e chi poteva sennò, una veterinaria locale, Luana Giusti, che ha raccolto gli episodi sospetti da marzo di quest’anno: “Capita quasi sempre di sera. A volte ne spariscono anche due o tre nelle stesse ore. Ma nessuno è mai riuscito a vedere nulla di strano”, ha dichiarato la donna. Nessuno di questi gatti è stato mai ritrovato, né vivo né morto. Bisogna dire che anni fa, nella stessa zona, era stato scoperto dai carabinieri un giro di scommesse illegali sui cani da combattimento, e i carabinieri avevano fermato un uomo che rubava proprio i gatti per usarli come cavie d’allenamento per i cani . Ma ora dicono che la pista non è questa. Che ci sia un filo che porta fino a Vicenza?

 

Terni Rissa per un boomerang, denunciate sei mamme e un’anziana che picchiava con una stampella di metallo

Quando si dice effetto boomerang. Pare sia stato proprio una versione giocattolo di un boomerang, di quelli che si trovano in regalo con le patatine, a scatenare una rissa tra sei donne nel centro di Terni, in piazza Solferino. La lite è nata dopo il gioco, lanciato in aria da un bambino, è finito nel passeggino di un altro piccolo. La mamma che lo spingeva ha reagito verbalmente, e da lì è nato uno scontro anche fisico che ha coinvolto le due mamme, alcune amiche e la donna di uno dei ragazzini che, nel parapiglia, ha anche iniziato a sferrare dei colpi con una stampella d’acciaio. Gli altri presenti, tra cui anche un padre che non è intervenuto, hanno chiamato la polizia e così la lite è finita con la denuncia di seri persone. Alcune di loro, più tardi, si sono anche recate al pronto soccorso per farsi curare contusioni e lesioni lievi. La prossima volta che andate a Terni, meglio lasciare a casa il Supertele.

 

Argentina. Amante in fuga: si nasconde in uno scatolone, ma alla fine si tradisce

Amore in scatola. A qualcuno la scena ha ricordato un quadro di Metal gear solid, videogioco cult di fine anni 90 in cui un giustiziere solitario doveva penetrare complessi quartier generali nemici senza farsi scoprire dalle guardie. In una città non identificata dell’Argentina, una donna bussa furiosa a casa di un uomo (forse il fidanzato) che si affaccia dal balcone. Le grida e gli schianti attirano l’attenzione dei passanti e spingono l’uomo ad aprire la porta. Nel frattempo, dallo stesso balcone si affaccia una donna affetta da nanismo in biancheria intima, che, con l’aiuto degli stessi passanti, si cala giù. Per non farsi notare, forse sentendo che l’altra donna stava per riuscire di casa, la donna si nasconde in uno scatolone che era per strada. Solo che poi comincia a camminarci dentro e a spostarlo gradualmente pensando di non farsi notare. Quando esce in strada, la fidanzata ci mette poco ad accorgersi della scatola semovente. Il video si interrompe su un inseguimento.

 

BarcellonaIl vescovo più giovane di Spagna si dimette per amore di una psicologa autrice di romanzi erotici

Tutto per amore… di romanzi erotici. Succede in Spagna, anzi in Catalogna. Il vescovo di Solsona Xavier Novell, il più giovane prelato di Spagna a gestire una diocesi (è stato nominato a 41 anni nel 2010) e noto per posizioni omofobe e oltranziste, ha lasciato l’incarico il mese scorso, ufficialmente per “Motivi personali”. Qualche giorno fa, però, sono emerse le vere motivazioni dietro il gesto. Novell, che ora ha 52 anni, ha dismesso la toga per un amore carnale. Fin qui, tutto già visto. Però l’amata, ha rivelato il sito Religion Digital, non è una donna qualsiasi, ma una scrittrice erotica, a quanto pare. Si tratterebbe di Silvia Caballol, 38 anni di Barcellona, psicologa e, alle cronache, divorziata. Tra i suoi libri: Trilogia amnesia e L’inferno della lussuria di Gabriele. Niente di inedito: “Posseduta dal demonio della lussuria, cominciò a succhiare e baciare il suo collo, le labbra, il pettoo” e via discorrendo. L’erotismo è condito con accenti di satanismo: lo zampino del diavolo.

 

Martina Franca (TA) Va a firmare un contratto a scuola vestita da sposa, ma non è una favola di dedizione al lavoro

Doveva suscitare commozione la foto di una donna, una docente di matematica, immortalata mentre firmava un contratto per un lavoro a scuola in abito da sposa. Carmela Santoro, infatti, è andata a sbrigare la pratica prima di recarsi in chiesa per la cerimonia nuziale. Inizialmente era stato lo stesso istituto dove prenderà servizio a condividere lo scatto, presentandolo come una testimonianza di abnegazione. “aveva un impegno molto importante ma ha trovato il modo di venire comunque a scuola. Auguri Carmela, sei già entrata nei nostri cuori”. Solo che Santoro è stata assunta come supplente e solo per un anno. Subito sui social si sono scatenate polemiche sull’immagine decisamente eccessiva veicolata dal gesto: possibile che per lavorare oggi si debba mettere da parte ogni cosa? Santoro non è un po’ esibizionista? Invece la storia è ancora diversa: “Sono stata costretta ad andare a scuola a firmare altrimenti avrei perso un anno di lavoro”, ha detto. Per legge doveva andare entro quel giorno. Fine della favola.

 

Roma L’Agcom sanziona Disney per una puntata dei Griffin esulta il leghista Simone Pillon: “Cartone blasfermo”

Topolino è finito nei guaiLa casa di produzione Disney èstata multata per 62.500 euro dall’Agcom, per aver mandato in onda sul canale Fox, in fascia protetta, un episodio del cartone satirico per adulti “I Griffin” in cui si rappresentava la natività in modo irriverente. Ma nel sepolcro imbiancato italico le scene sono state considerate “blasfeme”. Sono partite le denunce pubbliche, da parte di leghisti e integralisti cattolici, e alla fine l’Agcom ha valutato che il messaggio sarebbe nocivo per i minori. La multa è “un lieto fine” solo per il senatore leghista Simone Pillon, che ha festeggiato sui social scrivendo: “Alla Walt Disney, dopo il cartone blasfemo e la fatina Lgbt di Cenerentola è rimasto ben poco dello spirito e dei valori del fondatore”. Il senatore oscurantista ha svelato così il suo vero e sempiterno obiettivo politico. Celebranti anche Roberto Calderoli e il deputato Daniele Belotti. Viene da chiedersi se abbiano mai visto altre puntate della serie.

 

Basilea Il nuovo sballo: i bar vendono palloncini riempiti di gas esilarante. Ma a volte non c’è nulla da ridere

Se pensate di aver visto tutto e che la notte non ha più nulla da offrire allora visitate Basilea e la sua vita notturna. Secondo il sito di informazione locale Blick, infatti, una decina tra bar e locali della città svizzera avrebbero cominciato a offrire ai clienti palloncini riempiti di protossido di azoto, meglio noto come gas esilarante. Come suggerisce il nome, dare una boccata di gas provoca uno sballo di una decina di secondi, che pare dia le vertigini. Sembrava una trovata da film in bianco e nero, e invece pare sia la nuova frontiera del divertimento. Niente di illegale, e anche questo è il bello. E un costo contenuto: 5 franchi, meno di una birra. Pare però che non sempre vada tutto liscio. A volte qualcuno finisce sul pavimento con le contorsioni in stato di incoscienza per aver inalato troppo gas in una volta. Le autorità locali stanno alzando la guardia e pensano di rendere la pratica illegale. Nessuno ha ancora indagato sul perché come supporto per assumere il gas si siano scelti proprio i palloncini. Un occhio strizzato alla tradizione comica, forse.

La patacca di Rialto: si scrive mecenati, si legge padroni

 

“OTB and Renzo Rosso / funded the restoration / of the Rialto Bridge / returning it to its magnificence / for the world to enjoy /OTB/Only The Brave Foundation/October 2019”. È questa la scritta che campeggia sulla piastra d’ottone di ottanta per sessanta centimetri che è stata solennemente murata sul pavimento del Ponte di Rialto, mentre Cristiana Capotondi presentava, Andrea Bocelli cantava l’inno nazionale, il patriarca di Venezia benediceva e Brugnaro e Zaia si prendevano la scena.

Ma l’ironiaveneziana ha subito partorito il logo di un immaginario comitato No Grandi Targhe. A indignare, la scelta della lingua (non italiano, non latino, non veneziano, ma uno scialbo inglese), del materiale (un vero pugno in un occhio sulla pietra d’Istria del Ponte), delle dimensioni (più faraoniche che dogali): e, naturalmente, lo spazio trionfale concesso al marchio di una holding, appunto la OTB, che controlla i marchi di moda Diesel, Maison Margiela, Marni, Viktor & Rolf, Amiri, Jil Sander, Staff International oltre al club calcistico L.R. Vicenza. Insomma, il Ponte di Rialto è ora il monumentale piedistallo di un pacchianissimo cartellone pubblicitario permanente, pagato con i 5 milioni di euro offerti per il finanziamento del suo restauro. Renzo Rosso, il ‘mecenate’, ha replicato: “Bisogna guardare la bellezza di quello che è stato fatto. C’è sempre chi critica, ma a queste persone vorrei dire: perché non lo avete fatto voi?”.

Proviamo allora a prendere sul serio questa domanda da spaccone milionario, e chiediamoci perché non l’abbiamo fatto noi, questo restauro del Ponte di Rialto. Noi veneziani (come Comune), noi italiani (come Stato). Da decenni, lo Stato è in ritirata sul fronte della manutenzione del patrimonio culturale, e le finanze degli enti locali sono state massacrate al punto da non lasciare ai sindaci molta scelta. E così è iniziato il periodo dei ‘mecenati’. È una prospettiva assai diversa da quella dei costituenti, che immaginarono che la cultura sarebbe stata finanziata con soldi che si “troveranno non già nelle elargizioni di mecenati milionari, ma nelle finanze dello Stato che provvederà a premere nei giusti limiti e con le dovute gradazioni sulle private fortune; si troveranno nel concorde tributo di tutti i cittadini”. La progressività fiscale avrebbe preso i soldi dalle tasche dei ricchi per permettere allo Stato di mantenere i monumenti senza dover tornare a ringraziare i signori, come nell’antico regime. Ma oggi, dopo aver smontato la progressività fiscale e aver rimesso financo il governo della cosa pubblica nelle mani dell’aristocrazia finanziaria, lo Stato è povero, e alcuni pochissimi privati sono ricchissimi.

La retorica corrente paragona i mecenati di oggi a quelli celeberrimi della nostra storia dell’arte. Basterebbero il testo, il materiale e le dimensioni della patacca di Rialto per sorridere di questo paragone, ma la faccenda è seria. Prendiamo i Medici. L’obiettivo delle loro enormi donazioni allo Stato fiorentino era quello di prendersi lo Stato stesso: cosa che, alla fine, avvenne. Cosimo I cambiò il volto di Firenze e mise in piedi la più incredibile macchina mecenatistica della storia moderna europea: ma fu anche un tiranno sanguinario e inflessibile. Il più importante storico di questo fenomeno, l’inglese Francis Haskell, ha scritto che i mecenati italiani del Seicento “soffocarono la ribellione con la loro assoluta sicurezza nei valori ereditari”: “l’eterodossia fu uccisa dalla gentilezza”.

Oggi la posta in gioco non è la libertà degli artisti, ma la possibilità che il patrimonio culturale giochi dalla parte dei diritti, e non da quella dei privilegi; dalla parte della costruzione dell’uguaglianza, e non da quella della legittimazione dell’enorme, e crescente, disuguaglianza attuale. È giusto che un ricco imprenditore possa amplificare il suo punto di vista e i suoi affari anche grazie a un patrimonio culturale che appartiene pure ai cittadini più poveri, che comunque lo mantengono con le tasse? Quando consentiamo a qualcuno di marchiare il Ponte di Rialto la situazione ricorda la moneta di Augusto dove il supposto salvatore sta in piedi e la res publica è inginocchiata. In quella moneta il testo diceva una cosa, ma l’immagine denunciava il contrario: allo stesso modo i comunicati ufficiali di oggi parlano di nuovi mecenati, ma le immagini e i simboli rappresentano nuovi padroni. Quando prendiamo la decisione politica di non finanziare più il patrimonio culturale di tutti con i soldi di tutti (attraverso le tasse), ma di tornare all’epoca in cui pochi mecenati ‘pensavano per tutti’, non mettiamo nel conto un fattore fondamentale: “Che cosa succederebbe se, quando calcoliamo la produttività, l’efficienza, il benessere tenessimo conto anche della differenza tra un’umiliante elemosina e un beneficio fornito in quanto diritto? … Quanto siamo disposti a pagare per avere una società giusta?” (Tony Judt).

“Adesso basta quote rosa: per le donne sono una minorazione”

“Siamo nella condizione di dire basta alle quote rosa, a questa formula che invece di liberare le donne statuisce, oltre ogni intenzione, una condizione di statica indispensabilità. Essere indispensabili per forza di legge è la negazione della forza e del potere della condizione femminile oggi in Italia”.

Eva Cantarella è la donna che ha studiato e illustrato meglio di tutti la storia anche drammatica delle donne, il cammino verso l’emancipazione, le lotte e le conquiste femminili.

Professoressa, lei vorrebbe le quote rosa al macero. Grideranno allo scandalo.

Sono divenute, per paradosso, una minorazione delle capacità femminili. Siamo così forti che non abbiamo bisogno di tutor e magari pure maschi.

Esiste questa punta di ossessione verso l’esatta parità aritmetica tra l’uomo e la donna.

Un fenomeno soprattutto mediatico, con fiumi d’inchiostro a commentare ogni temuta discriminazione.

Le diranno che nega la storia recente.

Chi le parla ha vinto il concorso da professore ordinario al tempo in cui l’università era un coperchio totalmente maschile. Figurarsi se non conosco quale e quanta discriminazione abbia patito la donna. Ma conosco la nostra forza, conosco le conquiste ottenute. Io voto una donna se è più brava di un uomo, voto due donne se ambedue sono brave così come scelgo un maschio se ritengo che sappia difendere meglio di altri i miei diritti.

Il volto femminile colora quotidianamente la cronaca nera. E qui le donne sono ancora vittime indifese.

Voglio augurarmi che sia la coda finale del patriarcato morente. La forza dell’identità femminile è tale che all’uomo non resta, per affermare il proprio potere, che ricorrere a quella biologica. Con la sua forza fisica intende regolare i conti.

La guerra è raccontata dal volto delle donne. La tragedia dell’Afghanistan è segnata quasi esclusivamente dall’imposizione del burqa.

Converrà che è una violenza orribile.

Non è in discussione la natura violenta di questa imposizione e la retrocessione della donna a oggetto, quanto il sospetto che la tragedia femminile afgana ci sollevi dalla domanda: perché il regime talebano è ancora vincente, e l’Occidente laggiù chi ha aiutato, chi ha arricchito, chi magari ha ucciso?

C’è, ed è vero, una ipocrisia di fondo. Il burqa, segno della retrocessione femminile, come utile paratia per covare lo sdegno senza avanzare autocritica, senza indagare sui nostri errori. Biden se l’è cavata dicendo che gli Usa hanno smesso di esportare la democrazia. Ma la faccenda è più complessa. Molto tempo prima degli Usa sono stati i Sumeri a esportare la democrazia. Questo per la precisione.

La storia insegna ma ha cattivi scolari, diceva Gramsci.

Alle donne la storia di discriminazione ha insegnato tanto e ha contribuito a sostenere le lotte di liberazione. In sessant’anni abbiamo conquistato più di quel che si è visto nei duemilacinquecento anni precedenti. Questo è un fatto.

Lei ha scritto un libro sulla emancipazione femminile attraverso lo sport. Le scorse Olimpiadi si sono colorate di rosa.

E sarà una meravigliosa turbina che darà ancora più forza al motore femminile. Perciò dico che non abbiamo bisogno di forme di solidarietà pelose, e nemmeno del circuito scandalistico (al quale anche noi partecipiamo) di maniera, che a volte pare densamente intriso di ipocrisia.

Professoressa, facciamo conto che lei sia grande elettrice e debba scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Uomo o donna?

Io sceglierei il più bravo.

Se potesse proporre un nome?

Se potesse rivivere Zenobia di Palmira senza alcun dubbio voterei lei.

Zenobia.

Sotto l’imperatore Aureliano, quando Roma amplia i suoi confini fino all’odierna Siria, Zenobia si fa nominare regina di Palmira. Sotto il suo comando la città rinasce e si espande. Aureliano ritiene che Zenobia sia una semplice portatrice d’acqua ma, quando s’accorge che la regina batte moneta, cambia idea.

Quindi Zenobia presidente.

Assolutamente sì.

C’era una volta Mani Pulite: Greco accusa, Davigo querela

È la prima conseguenza concreta di quella spaccatura del pool di Mani Pulite di cui tanto si è parlato in questi mesi: l’ex magistrato Piercamillo Davigo ha intenzione di querelare il procuratore capo di Milano Francesco Greco, l’ex collega con il quale quasi trent’anni fa ha condiviso le indagini più importanti di questo Paese. L’ex consigliere del Csm ha infatti mal digerito le parole di Greco nell’intervista di ieri al Corriere della Sera. Il procuratore traccia un bilancio della sua esperienza ormai agli sgoccioli (a novembre andrà in pensione) nella Procura di Milano, parlando per la prima volta di quei verbali di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, consegnati dal suo sostituto Paolo Storari a Davigo, allora consigliere del Csm. Si tratta degli interrogatori in cui Amara rivela l’esistenza di una presunta loggia denominata “Ungheria”, della quale, a sua detta, facevano parte magistrati, avvocati, politici e imprenditori.

Quello che sta andando in scena a Milano è dunque uno scontro, i cui protagonisti (Storari, Greco e Davigo) sono tutti magistrati perbene e di grande esperienza: ognuno però dà una propria versione di ciò che è accaduto intorno a quei verbali, arrivati anche nelle redazioni di due quotidiani, Il Fatto e Repubblica (per la Procura di Roma la “postina” sarebbe stata l’ex segretaria di Davigo, ritenuto estraneo alla vicenda).

Partiamo dunque da Greco. Al Corriere lo dice chiaramente: “Aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile”. Poi la stoccata a Davigo: “L’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante”. Ma perché Storari consegna all’allora consigliere Csm i verbali di Amara? Al Corriere il 24 luglio Davigo aveva spiegato: “Nell’aprile 2020 Storari mi descrisse una situazione grave, e cioè che a quasi 4 mesi dalle dichiarazioni di Amara su un’associazione segreta i suoi capi non avevano ancora proceduto a iscrizioni, che il codice invece richiede ‘immediatamente’. Per evitare possibili conseguenze disciplinari, gli consigliai di mettere per iscritto” la sua richiesta di procedere subito all’iscrizione. L’inerzia investigativa, nella versione di Storari al Csm, è diventata una preoccupazione e una divergenza di vedute con i suoi capi. Per Greco però “nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi… è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse”. Storari però avrebbe consegnato ai pm di Brescia le e-mail in cui chiedeva ai capi di iscrivere.

Una volta ricevuti i file word dei verbali da Storari, Davigo preoccupato, informa – vincolandoli al segreto – alcuni membri del Csm. Ma in modo informale. “Se la procedura da seguire non consente di mantenere il segreto, allora non si può seguire”, ha infatti spiegato l’ex consigliere. Che, come ha ricostruito, ne parlò con alcuni membri del Csm, con il vicepresidente David Ermini e con il pg di Cassazione Giovanni Salvi: “Nessuno si è sognato di dirmi di formalizzare”.

Ieri Greco ha attaccato Storari anche sulle modalità in cui informò Davigo. “Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri”. E ancora: “Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso”.

Insomma per Greco quella di Storari è stata “una coltellata alla schiena”: “Ha tradito anche la fiducia della collega (l’aggiunto Laura Pedio, ndr), ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo… mentre i verbali ‘circolavano’ per Roma”.

Versioni diverse che insieme alla lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 consegnano l’immagine di una Procura spaccata, mentre Storari continua a lavorare nel proprio ufficio, dopo che il Csm ha rigettato la richiesta di Salvi di trasferirlo altrove. E in questa Milano lacerata, la querela di Davigo a Greco può rappresentare la rottura definitiva di ciò che fu Mani Pulite.

Pd e 5S uniti dopo il voto: Letta blinda l’intesa con Conte

“Gliel’ abbiamo data su”. Festa dell’Unità nazionale di Bologna, ore 16, aspettando la chiusura del segretario Enrico Letta, l’atmosfera è sintetizzata da uno dei personaggi storicamente mitici della kermesse. Ovvero il militante/cuoco. Traduzione (garbata): “Abbiamo superato il lutto”. Traduzione (ruvida): “Basta, non ne possiamo più di pensarci”. Il lutto è quello per la politica come ideologia, impegno totalizzante, ambizione di cambiare il mondo, magari persino per il comunismo. L’umore è quello che si definisce “scialla”, con un termine adolescenziale. E tanto vale impegnarsi per portare a casa i migliori risultati possibili. Anche se non ci sono né leadership, né visioni del mondo che convincono l’elettore storico del Pd. Ma Giuseppe Conte è stato accolto venerdì con un’ovazione. E anche Nicola Zingaretti sabato. Letta non scalda, ma neanche provoca le idiosoncrasie dedicate a Matteo Renzi.

La strada è quella di un partito che conta di vincere le Amministrative e da lì opporsi al centrodestra in coalizione e con l’asse privilegiato con i 5Stelle. Letta lo dice con nettezza: “Stiamo entrando in una fase nuova che sarà caratterizzata da un bipolarismo estremo, rispetto al quale le amministrative e le suppletive ci porteranno in un nuovo schema. O si sta di qua o di là”. Perché, “dall’altra parte non c’è più Berlusconi, ma Salvini e Meloni, che sono estrema destra”. E poi rivendica la scelta di aver cercato fino all’ultimo candidati unitari nelle città. Come la centralità dei dem: “Attorno a noi si costruirà l’alternativa vincente alla destra estrema”.

È lo schema che Zingaretti sabato ha rivendicato come suo, quello che Conte ha confermato dicendosi pronto a sedersi attorno a un tavolo per discutere il voto ai candidati che andranno al ballottaggio. Eccola, la tolda di comando dell’alleanza in costruzione.

A sentire Letta a Bologna c’è meno gente di quella per l’ex premier e pure per l’ex segretario. L’orario pomeridiano non ha aiutato, ma la presenza dà anche il polso dei pesi in campo. Tiepido anche il gruppo dirigente del Pd. Oltre alle capigruppo Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, e al Sottosegretario, Enzo Amendola, ci sono i ministri, Andrea Orlando e Dario Franceschini (che da sempre sogna il Colle), piuttosto defilati. Non c’è Lorenzo Guerini e con lui manca quasi in blocco Base Riformista, che l’asse con M5s lo vede male. E poi il Governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini e il vice segretario del Pd, Peppe Provenzano, che sognano la guida del partito. Le ambizioni personali si scontrano con il fatto che un Letta vincente nelle città sarà più forte. Ma anche che un progetto alternativo non c’è. In prima fila, Matteo Lepore, candidato sindaco in città per una coalizione che tiene dentro anche M5s e Iv. Il futuro.

Letta parla per meno di un’ora. Tasso di emotività bassissimo, ma qualche direzione chiara. “Vorrei che la parola chiave fosse unità”, ribadisce. Poi chiama l’ovazione per Sergio Mattarella. Di questi tempi suona pure come un endorsement per il bis del Presidente. Ma Letta delinea un programma di governo, che può essere, all’occorrenza, anche l’occasione per spingere la Lega fuori, accompagnare Draghi al Colle e condurre il paese al voto. Promette il ddl Zan e lo ius soli, condanna chi è ambiguo sui vaccini e sul green pass, si prende un impegno per la scuola sempre in presenza. Poi, cerca il volo con un proverbio turco che ammonisce a non fidarsi dell’ascia che sega il legno. Effetto straniante, tipo quello delle metafore bersaniane. E allora, mentre la festa si chiude sulle note di “Live is life”, dal palco, solo con un gruppo di ragazzi, chiede la bandiera del Pd. La sventola. Quasi stupito di aver trovato il gesto simbolico che suggella la giornata. La platea gli regala un applauso di fiducia. E lui se ne va, senza il tradizionale giro delle cucine. A ciascun giorno, la sua dose di Pd.

Green pass, sbarchi e fisco: Draghi tenta di convertire Salvini

Green pass, sbarchi, riforme e l’inizio della battaglia sulla legge di Bilancio che già si annuncia molto complicata. Mario Draghi ha un problema nella sua maggioranza: la Lega che ogni giorno apre un nuovo fronte. Questa sarà la settimana decisiva perché il premier dovrà affrontare i nodi a uno a uno per evitare di finire nel pantano quando inizierà la sessione di Bilancio, a inizio ottobre. Matteo Salvini invece alza i toni per provare a recuperare consenso in vista delle amministrative che si annunciano disastrose per la Lega e insieme logorare il premier per mandarlo al Quirinale a febbraio.

Il primo fronte è quello dell’estensione del green pass per i dipendenti pubblici e per i lavoratori del settore privato dove già oggi è obbligatorio il certificato, quindi ristoranti, bar, trasporti, cinema, palestre e così via. Il premier avrebbe già voluto approvare il decreto giovedì ma il caos provocato dalla Lega alla Camera e questioni di carattere tecnico hanno fatto ritardare la norma. Che però, come ha annunciato Draghi in Consiglio dei ministri, arriverà a breve. Già questa settimana, probabilmente giovedì con la cabina di regia anticipata a mercoledì (anche se non è stata ancora convocata).

Lo scoglio però resta la Lega di Salvini. Che dirà “sì” all’estensione per i dipendenti statali (“per i lavoratori a contatto col pubblico si può fare” ha detto nei giorni scorsi) ma resta contrario a quelli del settore privato, misura che sfiora l’obbligo vaccinale. Sui dettagli del decreto ci sta lavorando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Roberto Garofoli che dovrà sciogliere un altro nodo caro ai sindacati: chi pagherà il prezzo dei tamponi, se i lavoratori o le aziende. Ad ogni modo il decreto sul green pass dovrà passare tramite un accordo tra Draghi e Salvini dopo le tensioni della settimana scorsa e i voti del gruppo leghista alla Camera contro il governo: tra oggi e domani i due dovrebbero vedersi a Palazzo Chigi per trovare la quadra.

Il secondo fronte su cui Salvini sta mettendo in imbarazzo Draghi è quello degli sbarchi e della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finita nel mirino dopo le dimissioni del sottosegretario Claudio Durigon. La Lega ha subissato Lamorgese di interrogazioni parlamentari sulla gestione dell’immigrazione, sul rave party di Viterbo e pure sulla situazione del cimitero di Palermo (a prima firma Salvini). Ieri Lamorgese al Corriere si è detta disponibile a incontrare il leader della Lega ma poi ci è andata giù durissima: “Attaccando me danneggia il governo”, ha spiegato, ben sapendo di avere le spalle coperte dal premier e dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Tra rave, sbarchi senza sosta e clandestini violenti, è spaventoso che l’unica sua preoccupazione siano le critiche della Lega – ha replicato Salvini – Se non può, non sa o non vuole fare il suo lavoro, lo lasci fare a qualcun altro”. Per tutto il giorno Lamorgese è stata presa di mira dai colonnelli leghisti e da Fratelli d’Italia. Anche sugli sbarchi servirà un incontro a tre Salvini-Draghi-Lamorgese e da Palazzo Chigi filtra irritazione per gli attacchi quotidiani.

Infine, ci sono i temi economici. La Lega si prepara alla battaglia in difesa di Quota 100 proponendo di prorogarla per tutto il 2022 (“Faremo le barricate”). Poi giovedì in Cdm dovrebbe arrivare anche la legge delega sul fisco e a breve la riforma sulla concorrenza rinviata a fine luglio: nelle ultime ore è emersa la volontà di Palazzo Chigi di far rientrare in questo pacchetto anche l’obbligo di gara per le concessioni balneari sulla scia della direttiva Bolkestein. Su questo la Lega (ma anche il M5S è contrario) è pronta a fare muro: “Siamo da sempre e per sempre contro la svendita delle spiagge, come vorrebbe imporre Bruxelles – dice Salvini – la Lega si opporrà, ovunque e comunque”. A inizio ottobre poi si aprirà anche la lunga battaglia sulla legge di Bilancio dove la Lega vorrà piantare due bandierine: l’abolizione del reddito di cittadinanza con un emendamento a firma Salvini (“Gli 8 miliardi sono soldi buttati via”) e una nuova rottamazione delle cartelle esattoriali. Draghi qualcosa dovrà concedere.

Ma mi faccia

Gombloddo! “Battaglia sul nucleare verde (sic, ndr). Cingolani a Cernobbio attacca: ‘C’è chi vuole farmi fallire’” (Repubblica, 5.9). Non fare il modesto: ci stai riuscendo benissimo da solo.

Attentato! “L’unica didattica a distanza che ha funzionato in questi anni è quella di Sergio Mattarella… la sua funzione educativa e maieutica verso la politica…” (Stefano Cappellini, Repubblica, 6.9). Sì, però piano con la saliva, se no poi affoga.

Il compagno Biscione. “I pm belve su Berlusconi: vogliono il suo scalpo. Il Pd lo candidi al Colle, così la politica si riprende il primato” (Piero Sansonetti, intervista al Giornale, 11.9). E lui uno strapuntino fisso a Mediaset.

Com’era verde la mia Betulla. “Eravamo tutti americani, ora lo siamo molto meno” (Renato Farina, Libero, 11.9). Veramente, più che americano, tu eri del Sismi.

Lombardi alla prima crociata. “Gelo di Roberta Lombardi su Raggi: ‘Io a Roma apolide dal 2016. Al ballottaggio con Gualtieri. Va preparato il dopo-Virginia’” (Messaggero, 9.11). Ma il dopo-Roberta mai?

Volare oh oh. “A Roma Michetti vola, anche contro la macchina del fango” (Giornale, 11.9). Infatti, a ogni confronto con gli altri candidati, scappa.

Maestri di giornalismo. “Perchè quello di Assange non è vero giornalismo d’inchiesta” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 8.9). Vuoi mettere invece quello di Grasso.

Ahi che dolor! “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente perchè il prof. Barbero è simpatico” (Grasso, ibidem, 11.9). Sono bei problemi: e adesso come facciamo?

La patente. “Anche Barbero, dopo Cacciari, Agamben e Vattimo, nobili intellettuali della Vieux Gauche, dà dignità e dunque –malgrado lui, malgrado loro– legittimità a una battaglia che in piazza degenera nella fascisteria della Nouvelle Droite” (Francesco Merlo, Repubblica, 8.9). Barbero, Agamben, Vattimo e pure Barbero: tutti fasci.

À la guerre comme à la guerre. “Boicottiamo Barbero e gli altri evasori vaccinali” (Domani, 9.11). Basta libri di storia: solo geografia e scienze.

Gente di poca fede. “L’ultima del processo Ruby ter. Il pm non crede che il Cav sia malato” (Libero, 9.9). Chissà come mai.

Un apostrofo rosa. “Raccontiamo i suoi flop e Gratteri si offende: noi non baciamo anelli” (Tiziana Maiolo, Riformista, 9.11). Meglio le mani.

Amori tossici. “Mi innamorai di Matteo Renzi, ma rifiutai di fargli da ministro” (Oscar Farinetti, Corriere della sera, 8.9). Già innamorarsi bastava e avanzava.

Il Piccolo Fratello. “Il talento di Mr. Renzi. ‘Sono felice qui’, dice, e se la misura della felicità è l’energia, l’entusiasmo, la generosità nel concedersi a selfie, autografi e domande, allora sì, Matteo Renzi è felice. Pare a tratti persino pacificato. Una passeggiata sui monti con il senatore di Iv e gli studenti della sua Scuola di formazione politica, tra vertigini, porte scorrevoli, dichiarazioni di felicità, ammissioni e idee sul futuro dell’ex ‘fratello piccolo’ degli italiani” (Paola Peduzzi, Foglio, 6.9). Non so voi, ma io mi sento tanto figlio unico.

Polli del Balcone. “Mentre la Cina agisce l’Europa non c’è e sa solo discutere. L’idea di andare in guerra è fuori dai nostri radar… Occorrono 15mila soldati Ue: ma chi decide come utilizzarli?” (Ernesto Galli della Loggia, Giornale, 9.9). Non so voi, ma io lo farei decidere a Galli della Loggia.

Canti orfinici. “Caro Bettini, Draghi salva l’Italia e tu vuoi cacciarlo? Roba da matti” (Matteo Orfini, deputato Pd, Riformista, 9.9). Ci si vede dal solito notaio.

Diritto allo studio. “Vaccini, pressing sull’obbligo. L’ipotesi si rafforza dopo la linea dura varata da Biden. Palazzo Chigi studia il piano per attuarlo, un mese per decidere” (Repubblica, 11.9). Come sarebbe “ipotesi”, “studia”, “un mese per decidere”? SuperMario l’ha annunciato solennemente il 3 settembre: non si era detto che Lui parla solo a cose fatte?

La parola all’esperto. “Se oggi la corsa per il Colle è vissuta come una partita a due tra Mattarella e Draghi, è perchè oggi fuori da questo schema si intravede solo il caos” (Francesco Verderami, Corriere della sera, 9.9). Uahahahahahah.

La parola all’esperta. “Montanelli comprò una sposa ragazzina… E la violentò più volte. Sappiamo anche questo, è stato lui a raccontare che lei non voleva” (Maaza Mengiste, “scrittrice”, Repubblica, 9.11). Montanelli non l’ha mai raccontato e non è mai avvenuto: Destà, la presunta stuprata, quando si risposò ed ebbe tre figli, chiamò Indro il primogenito. È la famosa la campagna di Rep contro le fake news.

Il titolo della settimana/1. “Afghanistan e ddl Zan: Salvini in Vaticano in cerca di una sponda” (Repubblica, 11.9). Pensa che l’Afghanistan sia un fiume.

Il titolo della settimana/2. “Emergenza fisco. Fermate le tasse” (Giornale, 9.9). Cavaliere, è lei?

Il titolo della settimana/3. “Appello a Mattarella. Riabiliti Berlusconi per riunire il Paese” (Alessandro Sallusti, Libero, 7.9). Ma soprattutto accorpare il Quirinale e San Vittore.

Altro che Cultura: il lato nobile e accettabile del potere può giustificare guerre e diffondere odio

Non è il solito volume che spiega quanto sarebbe bello il mondo se tutti investissero di più sulla cultura. L’Atlante della Cultura (add editore) scritto dal giornalista francese Antoine Pecqueur parla di cultura, sì, ma anche di tutto quello che ci gira intorno. Mappe e illustrazioni localizzano il soft power: la terza via che usa l’arte per mettere a punto strategie geopolitiche, promuovere governi, ideologie, rivoluzioni, dittature e armi. Insomma: la cultura che diventa la faccia presentabile del potere e del denaro, per infilarsi ovunque e condizionare il mondo.

Un museo, un concerto di musica classica, o un centro culturale, sono molto più di quanto si possa pensare. Nel migliore dei casi sono un fertilizzante per far nascere una certa appartenenza politica, nel peggiore possono essere il presagio di una guerra. Come in Russia, dove l’arte diventa una strategia militare, da combattere a tempo di musica. “Dall’Ossezia alla Siria – scrive Pecqueur – le azioni militari condotte dall’esercito russo sono accompagnate da concerti diretti da Valerij Gergiev, vicino a Vladimir Putin”. Mentre la Russia conduceva l’offensiva contro la Georgia, in una città osseta del Sud Gergiev tenne un concerto a grande impatto simbolico, con annesso discorso e bandiera russa sullo sfondo; ma anche musiche di Tchaikovsky per sottolineare il potere culturale della Madre Russia. O ancora nel 2016, dopo la liberazione di Palmira da parte dell’esercito siriano e russo, sempre Gergiev organizzò un concerto nell’antico anfiteatro parzialmente distrutto dallo Stato islamico. Poco dopo Putin definirà quel concerto “un’azione umanitaria”.

Anche l’Arabia Saudita tiene molto alla cultura, e non intende certo lasciarne il monopolio al Qatar. Nel Piano di sviluppo “Vision 2030”, il principe ereditario Mohammad bin Salman ha stanziato oltre 50 miliardi di euro per cinema, sale da concerto e teatri d’opera. “Come per dimenticare meglio la guerra in Yemen o l’affare Kashoggi”, commenta Pecqueur. E se ci sembra riprovevole che un governo tratti con un dittatore che fa a pezzi i giornalisti, allora la cultura diventa il mezzo migliore per tenere i contatti con Ryad. Come fa la Francia, che ha investito tra i 50 e i 100 miliardi per trasformare il sito archeologico di AlUla in “un enorme complesso con un parco naturale e infrastrutture turistiche, grande quanto il Belgio”.

Non tutto, poi, gira solo intorno all’economia: ci sono anche questioni ideologiche da coltivare. Come sta facendo la Cina in Africa. Tutto è partito dal dono del teatro d’Opera ad Algeri da parte del presidente cinese Hu Jintao nel 2006, inaugurato poi nel 2016. E continua con la costruzione degli Istituti Confucio, centri culturali che offrono corsi di lingua e borse per studiare in Cina: il primo è stato costruito a Nairobi, in Kenya, nel 2005. Ora la rete degli Istituti Confucio si sviluppa in 150 Paesi, con ormai 500 strutture. “La svolta è ideologica: diffondere la cultura cinese per migliorare l’immagine talvolta negativa che il regime di Pechino può avere nel continente”. Qualcuno sulla cultura investe già. Ma chi lo fa, spesso, non ha solo in mente di creare un semplice museo.