Diwan fa la parte del Leone, Sorrentino “pibe de argento”

Mostra di Venezia, Paolo Sorrentino è El Pibe de Argento. Il suo È stata la mano di Dio centra la doppietta, Leone d’Argento (Gran Premio della Giuria) e Premio Mastroianni all’attore emergente Filippo Scotti, ma il Leone d’Oro va Oltralpe a L’événement di Audrey Diwan, dal romanzo di Annie Ernaux. I dolori del giovane Paolo, l’aborto clandestino di Annie nella Francia anni Sessanta: per entrambi l’ispirazione è autobiografica, il registro drammatico, e anche la giuria presieduta dal coreano Bong Joon Ho (Parasite) e composta da Saverio Costanzo, Virginie Efira, Cynthia Erivo, Sarah Gadon, Alexander Nanau e Chloé Zhao suggerisce una parità, giacché da regolamento della Biennale i due premi a È stata la mano di Dio sono attribuiti “in via eccezionale”.

Dopo i trionfi a Eurovision, Europei di calcio e Olimpiadi, però, le notti magiche italiane si fermano qui, il cinema è terra straniera: a Cannes Julia Ducournau Palma d’Oro con Titane, in Laguna la Diwan Leone d’Oro all’unanimità, l’uno-due francese ci strozza l’urlo in gola. Sorrentino emozionato, soprattutto per “il mio più caro amico Nicola Giuliano (il suo ex storico produttore, ndr)”, ribadisce di essere “L’uomo in più” del nostro comparto, ma al festival ha fatto palo, almeno per le attese: non gli è bastato il santo in paradiso, Diego Armando Maradona, né il favore accordato dai critici tra i 21 titoli del Concorso. Potrà consolarsi con la candidatura per l’Italia agli Oscar, ormai certa il prossimo 1° novembre, tuttavia il palmarès veneziano gli procura qualche patema d’animo in casa Netflix. Assegnando a The Power of the Dog, il western da camera della neozelandese Jane Campion, l’altro Leone d’Argento, quello per la regia, la Mostra non partorisce il concorrente unico del servizio streaming all’Award season americana: Sorrentino dovrà disputarsi altrimenti l’investitura per tutte le statuette.

Scricchiolii, poi, nei rapporti di potere nostrani: The Apartment di Lorenzo Mieli batte 2 a 1 Rai Cinema, che incassa il premio speciale della Giuria allo speleologico Il buco di Michelangelo Frammartino.

Se le decisioni di Bong e sodali non sono campate per aria, qualche dubbio lo sollevano: Penélope Cruz vince per Madres paralelas di Almodóvar, e ci può stare guardando alla carriera con Pedro, meno la Coppa Volpi maschile a John Arcilla del fluviale crime filippino On the Job: The Missing 8 che scippa Toni Servillo, Oscar Isaac e Vincent Lindon.

Addirittura incomprensibile il riconoscimento per la sceneggiatura – non originale in più di un’accezione – di The Lost Daughter, che la debuttante regista Maggie Gyllenhaal ha tratto da La figlia oscura di Elena Ferrante. Saverio Costanzo, che dal bestseller della Ferrante L’amica geniale ha diretto l’omonima serie prodotta da Mieli, deve aver fatto gli straordinari in giuria.

Di certo, il consuntivo è politicamente curioso: l’edizione della “ripartenza in sala” assegna quattro premi su otto ai tre titoli – non da noi, ma nel mondo lo è anche The Lost Daughter – di Netflix. È stata una Mostra solida, riuscita, con film buoni, non eccelsi, probabilmente troppi, che straccia Cannes ed estende anche sul tappeto rosso la propria dimensione internazionale: il sorpasso sulla Croisette è possibile, se non realizzato, e il merito è del direttore Alberto Barbera. Altre questioni rimangono aperte: il gigantismo dell’edizione ha costretto film medio-piccoli all’invisibilità, e non solo mediatica; l’afflusso ingente di accreditati ha creato problemi logistici; le ricadute sul box office – l’ottimo Qui rido io di Mario Martone venerdì ha fatto 8.610 spettatori – sono fin qui inesistenti; la bolla, l’autoreferenzialità festivaliera, s’avanza?

“Il set con Ornella Vanoni è stato una lotta ‘Senza fine’. È un mito vero e urticante”

A un certo punto, con un sorriso in apparenza solare, in realtà ancora preoccupato, Elisa Fuksas sussurra: “Abbiamo rischiato di perdere Ornella”.

Perdere perché la Vanoni, stizzita, stava per abbandonare il set. Perdere perché, sempre la Vanoni, a 87 anni è entrata in una piscina di acqua fredda “dopo aver mangiato e bevuto di tutto”.

Elisa Fuksas è la regista di Senza fine (prodotto da Moreno Zani e Malcom Pagani per Tenderstories e Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa per Wildside e Indiana production), un documentario in cui niente è come era previsto (“la sceneggiatura e il programma sono saltati dal secondo giorno”), ma è il risultato di una cavalcata sul dietro le quinte del cinema, di cosa vuol dire diventare una star e vivere da star (“in realtà Ornella è più un mito”), di come si affronta un set con una personalità così forte. Di come il regista deve mediare, magari capire l’ineluttabile, affrontarlo e renderlo inquadratura. Di come la storica frase di John Belushi in The Blues Brothers – “Sono in missione per conto di Dio” – è la stella polare di chi ha uno scopo e non intende fare prigionieri.

Perché la Vanoni?

Voglio che lei raggiunga l’eternità; anche se lei l’eternità l’ha già conquistata: la sua voce ti azzera anche quando vuoi litigare; così l’ascolti, ti trovi davanti il mito e la furia che può generare si stempera.

Sa di essere un mito?

Sì, però osservandola si ha la sensazione che il mito la abiti; (pausa) è consapevole ma non cosciente: il mito esce come un demone attraverso la sua voce; lei canta sempre, se uno a tavola dice “pane”, lei inizia con una strofa con dentro proprio “pane”.

Di stonare non le interessa.

Nulla. Lei incanta. Pure quando sbaglia le sue storiche canzoni o le cambia perché, sostiene, oramai l’hanno annoiata.

Era già un suo mito?

La questione mito non è parte di me.

Forse perché è cresciuta con un mito come padre.

È probabile, ma chi lo sa se è la mia natura? Però è vero, da subito sono stata abituata a confrontarmi con personalità molto forti; so trovare la distanza giusta per non morire e, allo stesso tempo, per permettere a queste persone di narrarsi senza morire: il racconto le consuma.

Il suo rapporto con la Vanoni.

In certi momenti le voglio bene come a una madre, come a un padre, come a una di famiglia e, come a una di famiglia, in certi momenti, la vorrei uccidere. Lei è urticante, perché è un mito, ti pone questioni personali, anche sul tuo rapporto con la dimensione assoluta ed eterna. E uno poi si chiede se diventerà mai come lei: assoluto ed eterno.

Ed è importante?

Non lo so, anche questo mi sono domandata; (pausa) tra i tanti temi che direttamente e indirettamente Ornella sollecita c’è quello del coraggio e del talento.

Come regista ritiene di avere talento?

Pure qui, non lo so; prima di questa intervista ho dovuto rivedere il trailer perché non ricordo mai quello che ho realizzato.

Cioè?

Non do molto spazio alla vita, per questo faccio succedere le cose per raccontarle. E allora o scrivo un libro oppure la mia dimensione preferita è quella della costruzione di un film, non del set.

Che accade sul set?

È un luogo dove può nascere qualunque situazione, dove girano persone, idee, energie, tensioni, soldi, tempo che passa.

Con la Vanoni vi sentite?

Sempre.

A lei il film è piaciuto?

E chi lo sa? Mi ha solo parlato delle rughe e si è stupita perché all’interno ho lasciato le nostre litigate; quelle litigate mi hanno salvato la vita professionale: poco dopo l’inizio delle riprese mi sono resa conto che la parte più interessante era ciò che avveniva fuori dall’inquadratura ufficiale. Ed è devastante.

L’importante è rendersene conto.

(Silenzio) Poi una sera Ornella non è voluta scendere per le riprese, ha parlato di stanchezza, di età, di mal di pancia. Io basita. Ma di fronte a certe motivazioni non potevo replicare.

Ha pur sempre 87 anni…

Appunto, quindi non ho insistito. Peccato che poco dopo mi hanno chiamato dalla produzione. Avevano incontrato Ornella: era fuori dal bar dell’albergo con in mano un gin tonic.

E lei?

Ho capito che il vero film era quello di raccontare la difficoltà nel realizzare una pellicola su di lei.

Infatti le vostre liti sono centrali.

La macchina da presa è stata la mia salvezza; (ci pensa) in una scena lei manifesta tutto il suo lato b, la sua insofferenza; diventa quasi capricciosa e si rifiuta di girare. Sono stata costretta a staccarmi dalla telecamera, nel frattempo ho chiesto al direttore della fotografia di non interrompere le riprese, ma senza farsene accorgere, e mentre camminavo verso di lei ho cercato di calmarmi. Ero furiosa.

E…

La realtà è che quando giri un film non ti frega un cazzo di nessuno. Devi solo arrivare in fondo e bene.

Ha pianto?

In quel caso no. Anzi, nonostante tutto, ho riso moltissimo. Con Ornella si ride.

Una canna con lei?

Non fumo.

Torniamo alla salvezza della macchina da presa.

Volevo litigarci, e avrei rischiato di perderla. Così mentre mi avvicinavo a lei ho recuperato quell’attimo di urbanizzazione mentale: sapevo che la cinepresa era accesa e che quel materiale lo avrei utilizzato.

Come entra il cinema nella sua vita?

Da sempre ho l’esigenza di scrivere; di recente ho ritrovato dei libretti di quando avevo sette anni con alcuni miei racconti: una pena.

Perché?

È tenero rileggere le vecchie riflessioni quando non sai niente di te e ti proietti a cinquant’anni dopo.

Qualcosa l’ha indovinata?

Non lo so, però sono sempre la stessa persona.

Ai suoi genitori leggeva questi elaborati?

No, però li mandavo ai giornali e la mia vita era scandita dall’aprire quotidianamente la cassetta della posta per attendere una risposta da Qua la zampa.

E dopo?

Finito il liceo ero incerta tra Lettere e Astrofisica.

Facoltà simili.

In realtà mi sarei iscritta a qualunque facoltà meno che Architettura. Quindi sono finita ad Architettura.

Sciogliamo questo arcano.

Non sapendo scegliere, l’unico cosa che so sempre è ciò che non mi piace: spesso cedo al “non” perché è l’unica certezza.

Con un padre architetto…

(Anticipa la fine della domanda) Seguire le sue orme sarebbe stata una follia e infatti non ci ho mai puntato.

Il cinema, come?

Anni fa, un amico che insegna in una scuola di cinema mi ha permesso di girare un corto di circa tre minuti. Sempre il mio amico lo ha mostrato a un produttore e gli è piaciuto.

E…

In realtà volevo diventare aiuto regista, ma nessuno mi voleva, il massimo dell’apertura è stata: ‘Dài, ti mettiamo nei titoli di coda’. ‘E che me frega? Voglio stare su set’.

A chi l’ha chiesto?

A un po’ di produttori e a Nanni Moretti.

Che ne pensa di Moretti?

Quando avevo dodici anni mia madre mi prendeva in giro, secondo lei sembravo proprio lui, soprattutto per la mia indecisione, l’asocialità, il vado non vado, il modo di mangiare sbagliato, soprattutto i dolci.

La svolta?

Per il mio primo vero corto ho chiesto i soldi a un gallerista milanese; (pausa) ai miei non potevo, mi avevano già comprato la casa, pareva brutto.

L’hanno rimproverata?

La loro reazione sconsolata è stata: ‘Perché devi vivere sempre così male? Così scomoda?’. Lo so, sono un po’ rigida: con mio padre non ho parlato quasi per un anno proprio per la casa. Non volevo quel regalo; (silenzio) Non può essere una colpa avere una famiglia che ti vuole bene e ti vuole aiutare.

Quindi l’ha vissuto come un senso colpa.

Eccome! Eppure quello (suo padre, ndr) ha lavorato tutta la vita, lavora ancora oggi come una bestia.

Il suo cognome lo ha sempre rivelato?

Sì, tanto si sbagliano tutti sia a scriverlo che ha pronunciarlo: ci mettono un po’ a capire.

Un po’ vi assomigliate.

(Non risponde, resta interdetta).

Lo sguardo.

Siamo dell’Est, della Lituania.

Ci è andata?

Mai, ho un un problema con la memoria: anche in questo mi sento vicina a Ornella.

Traduciamo.

Lei ha un’ottima memoria e un pessimo rapporto con il tempo passato: in tutto il film non ricorda mai una data, ed è da diventare matti perché mancano i riferimenti; (pausa) ho scoperto cos’è l’effetto Vanoni. Anzi, volevo intitolarlo proprio “Effetto Vanoni”.

Spieghiamo.

Tantissime persone hanno il suo mito, ma a livelli incredibili: quando la vedono perdono la testa, davanti a lei si obnubilano.

E su di lei?

Mi ha imposto questioni su quello che voglio fare, come voglio essere; sul rapporto con il tempo, con la morte.

La domanda che l’ha mandata in crisi.

Una sera, l’unica fredda, alle 23 dovevamo girare una scena in piscina, solo che la controfigura non sapeva nuotare.

Perfetto.

Ne parlo con Ornella e grazie alla mia capacità retorica la convinco a entrare in acqua.

Senza pietà.

Finite le riprese mi ha detto: ‘Sei stata crudele’; (sorride) insomma, prima della scena le avevo chiesto di non mangiare e invece si era scofanata la pizza, la pasta, il dolce e bevuto pure il vino.

Da restarci secca.

Uno dei produttori mi pregava: ‘Elisa per favore non la uccidere, o siamo rovinati’. E io: ‘Le avevo detto di restare digiuna’. Non solo: l’ho pure vestita con un abito pesantissimo, doveva impregnarsi di acqua, e mentre assistevo alla vestizione mi mostravo sicura di me, in realtà pregavo la Madonna.

Si è stupita di questa sua decisione?

Mi sono posta molte domande sull’approccio a quella serata: mi sentivo una merda, eppure non mi sono fermata.

È cinema.

Rivedo lei nell’acqua che urla mentre io cerco l’inquadratura giusta; a un certo punto mi avvicino, e in quel momento mi pone la domanda che mi manda in crisi: ‘Voglio sapere quello che devo fare e lo faccio’.

E perché è andata in crisi?

Sapevo esattamente cosa volevo, però mi ha schiantato la sua chiarezza d’intenzione e di riproduzione dell’intenzione. A me questo aspetto manca.

Cosa le ha insegnato la Vanoni?

La libertà in un periodo come il nostro in cui si promuovono leggi per censurare, quando in realtà non c’è più nulla da bollare. Tutti sono terrorizzati dal venire aggrediti: siamo diventati gli impiegati di un ministero invisibile.

È una radical chic?

No.

È stata bollata come tale?

Lo può pensare chi non mi consce, ma non ho niente di quel mondo, non mi piace niente di quel mondo lì; in realtà sono solo radicale, chic non credo e da mio padre ho ereditato la non appartenenza: lui è figlio di un medico morto nel 1950, che è arrivato a Roma per caso e si è innamorato di una ragazza che studiava Filosofia. Per stare insieme sono scappati di casa e mia nonna ha portato con sé solo libri. Mio padre è diventato orfano a sei anni e a sei anni cucinava alla madre che insegnava lontano da Roma. Papà si è sempre sentito un esule.

Girerebbe un documentario su suo padre?

Ci ho pensato a lungo e questo lavoro con Ornella mi ha posto di nuovo il dilemma. Non so se sono in grado, ma in fondo sarebbe un modo di rendere grazie a qualcuno che non ha mai grazia con se stesso.

Chi è lei?

Una eterosessuale. Un mammifero eterosessuale.

Unica certezza.

È difficilissimo rispondere e non mi interessa neanche tanto capirlo; meglio capire chi sarò.

Abusi sessuali: Andrew tenta la fuga

Ennesimo capitolo della saga del principe in fuga. Il principe è Andrew, terzogenito della regina Elisabetta, molto amico del finanziere americano Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere nell’agosto del 2019 a New York, mentre scontava una condanna per sfruttamento della prostituzione. Una delle ragazze sfruttate, Virginia Roberts Giuffre, accusa da anni il principe di aver abusato di lei in tre occasioni quando era minorenne.

Lo scorso 10 agosto gli ha intentato una causa civile per danni morali e materiali. La novità, diffusa dai legali della Giuffre, è che gli atti sarebbero stati notificati al principe, atto necessario per attivare la procedura legale. In questo grottesco gioco al rimpiattino non si è ancora capito se la notifica sia valida; dovrà essere un giudice americano, lunedì, a deciderlo. I legali di Virginia la raccontano così: il 26 agosto, un loro incaricato sarebbe arrivato alla residenza di Andrew, il Royal Lodge a Windsor, e avrebbe parlato con il responsabile della sicurezza, che gli avrebbe risposto di aver ricevuto istruzioni di non accettare documenti giudiziari. Avrebbe ottenuto solo il numero di telefono di un avvocato, chiamato invano. Il giorno dopo, tornato al Lodge, avrebbe lasciato i documenti alla polizia, visto che il principe non era disponibile di persona. Secondo loro questa procedura è compatibile con il diritto inglese. Il team di difesa del principe ribatte che no, non è regolare perché la richiesta di collaborazione all’inchiesta dovrebbe essere inoltrata da un funzionario Usa, non dai legali dell’accusa. Alla domanda se il principe questa notifica l’avesse ricevuta hanno risposto con un utile “no comment”. Un invio via email non è considerato ammissibile.

Insomma, Andrew da tempo dichiara tramite i legali di aver offerto collaborazione, circostanza negata anche dal procuratore Usa, ma sembra voler sfruttare ogni via formale per sottrarsi al confronto. Perché? Non è chiaro quale sia la strategia difensiva, a questo punto. Se lunedì il giudice deciderà che la causa civile è stata notificata regolarmente, la posizione del principe diventerà più spinosa e imbarazzante per i reali. Se continua a non collaborare corre il rischio di un giudizio diretto e di un verdetto di colpevolezza con una compensazione molto costosa. Ma accettare di chiudere la vicenda con una transazione economica equivarrebbe a una ammissione di colpevolezza, dopo anni in cui Andrew ha negato pubblicamente di avere mai avuto a che fare con la sua accusatrice. In più, se il giudice Usa deciderà che ci sono elementi per procedere, la causa potrebbe diventare penale, trascinando la Corona in uno scandalo insostenibile che potrebbe coinvolgere anche molti altri vip del giro Epstein. Al netto delle ripercussioni pubbliche, spetterebbe all’accusa dimostrare senza ombra di dubbio le violenze. Difficile a tanti anni di distanza: è la parola di lei contro quella di lui.

Covid, ministra indagata per incapacità va all’Oms

Agnès Buzyn è stata iscritta nel registro degli indagati per “aver messo in pericolo la vita altrui” con la sua cattiva gestione della pandemia di Covid-19 dalla Corte di Giustizia della Repubblica (Cjr), la sola in Francia a poter giudicare i ministri passati o in carica. La Buzyn è stata ministra della Salute del governo di Emmanuel Macron dal maggio 2017 al febbraio 2020. Era lei dunque responsabile del dicastero quando la Cina annunciò la comparsa di un nuovo coronavirus e si preparava a chiudere una città di undici milioni di abitanti come Wuhan.

Il 24 gennaio 2020, uscendo dal Consiglio dei ministri, Agnès Buzyn, ematologa, rassicurò i francesi: “Il rischio di importazione del coronavirus è molto basso”. Il 26 assicurò che “le mascherine sono completamente inutili per le persone non infettate”. Pochi giorni dopo, il 30, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) dichiarava invece che l’epidemia di Covid-19 è “un’emergenza di salute pubblica di portata internazionale”. Quindi, il 16 febbraio, ormai in piena crisi sanitaria, Buzyn lasciò il governo per candidarsi a sindaco di Parigi, probabilmente spinta dalle pressioni dell’Eliseo, per sostituire il macronista Benjamin Grivaux, travolto da uno squallido scandalo di sex tape.

La campagna per Parigi fu un disastro. Il 17 marzo, mentre la Francia si confinava, Buzyn, umiliata alle urne, rilasciò un’intervista a Le Monde: “Lasciando il ministero – diceva –, piangevo perché sapevo che l’onda dello tsunami stava arrivando”. Perché allora andarsene se la situazione era così grave? si chiesero i francesi all’epoca e la parola di Buzyn non fu più credibile. La Cjr aprì l’inchiesta nel luglio 2020, dopo una pioggia di denunce contro l’impreparazione del governo, che si era fatto cogliere dall’epidemia senza i dispositivi sanitari di base come mascherine, camici per i medici e tamponi. Il governo fu anche accusato di aver reagito in ritardo all’emergenza e, sulla scia di inchieste giornalistiche, di aver mentito sulle mascherine, dicendo ai francesi che non servivano a proteggersi dal contagio solo per nascondere che gli stock in realtà erano vuoti.

In tutto si parla di 14.500 denunce (di cui una piccola parte è stata giudicata legittima), contro Agnès Buzyn, ma anche contro l’ex premier, Edouard Philippe, e l’attuale ministro della Salute, Olivier Véran. La messa sotto inchiesta di Buzyn è la prima in questo dossier incandescente per Macron, con le prossime presidenziali tra meno di sette mesi, mentre l’epidemia ha fatto più di 115 mila morti in Francia e migliaia di persone protestano nelle strade contro il pass sanitaire. Altre convocazioni – che non necessariamente sfoceranno in nuove iscrizioni al registro degli indagati – potrebbero seguire e mettere in difficoltà anche lo stesso Véran, i cui uffici e la casa sono stati perquisiti l’ottobre scorso e del materiale informatico confiscato, con l’obiettivo anche per i magistrati di capire se il governo avesse tutti gli elementi per riconoscere l’emergenza e, in caso affermativo, se li avesse ignorati.

Dopo la catastrofica parentesi in politica, Agnès Buzyn, 58 anni, è tornata a indossare il camice bianco all’ospedale militare Percy di Clamart, nella regione parigina, prima di essere chiamata, a gennaio, a un posto di prestigio all’Oms, a Ginevra. Ieri il premier Jean Castex ha preso le difese dell’ex ministra: “Nessuno può dubitare della serietà e dell’impegno dimostrati da Agnès Buzyn all’inizio di questa epidemia senza precedenti, in un momento in cui nessuno ne conosceva i rischi reali”. La macronista Aurore Bergé, presidente del gruppo LaRem in Assemblea, ritiene invece che la decisione della Cjr sia un “pericoloso precedente”: “Se un ministro dovrà un domani essere indagato per ciò che non avrebbe dovuto fare, per non aver fatto abbastanza o averlo fatto male, su quale criteri si definirà il ‘male’ fatto?”.

Biden vuole chiudere con l’11 Settembre. Ma inciampa su Kabul

I tintinnii delle campanelle che scandiscono gli attimi degli schianti e dei crolli; i minuti di silenzio; la mesta lettura lenta dei nomi delle vittime, affidata non più ai figli ma ai nipoti; i discorsi: i riti della commemorazione dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001 si sono ripetuti a New York a Ground Zero, a Washington al Pentagono e a Shanksville, in Pennsylvania, dove il volo UA93 piombò al suolo senza raggiungere l’obiettivo per la rivolta dei passeggeri contro i terroristi. Ieri, più solennità del solito: era il 20° anniversario, coi presidenti della guerra al terrorismo schierati in prima linea, George W. Bush, Barack Obama, Joe Biden. Tutti, tranne Donald Trump, che preferisce spargere fiele e va a Ground Zero solo quando Biden se n’è andato (poi torna subito in Florida a commentare un incontro di boxe).

Commozione e cordoglio s’intersecano con l’imbarazzo per le rivelazioni del Washington Post: l’attacco con un drone condotto il 29 agosto a Kabul contro presunti terroristi sarebbe nato da un errore di valutazione – ci furono dieci vittime civili, fra cui alcuni bambini –. I militari Usa sostennero di avere colpito un’auto di miliziani carica di esplosivi, ma ora pare che la vettura non fosse un’autobomba: l’intelligence avrebbe scambiato bombole di acqua con ordigni esplosivi.

A Kabul, i talebani danno segnali di tregua: non celebrano l’anniversario come una vittoria e rinunciano a insediare il governo nel giorno simbolo della vulnerabilità statunitense. La Cnn riferisce che la decisione sarebbe stata presa su richiesta degli Usa e di altri Paesi Nato, inoltrata tramite il governo del Qatar, che con i talebani ha stretti rapporti. Alla cerimonia dell’insediamento sono stati invitati rappresentanti di Cina, Russia, Iran, Turchia e, appunto, Qatar. Ci sarebbe pure stato un allarme dell’intelligence per possibili attentati Isis a Kabul in coincidenza con l’ufficializzazione del governo e negli Usa in coincidenza con l’anniversario. Russia e Qatar, dopo un consulto a Mosca, esprimono la volontà di cooperare per ridurre le tensioni.

Da domani, riprendono i voli commerciali da e per Kabul. E sono “oltre 250 gli stranieri, inclusi cittadini statunitensi”, ad avere lasciato l’Afghanistan da giovedì, riferisce l’inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad: “È un fatto positivo”, commenta, ringraziando il Qatar che ha fornito aerei ed equipaggi.

Non tace, invece, nell’anniversario al Qaeda: il network della rete terroristica ha pubblicato un video di 60 minuti del suo attuale leader Ayman Zawahiri, che fa un elogio funebre dei “martiri” uccisi nell’ultimo anno. Tra questi anche Mohammed Saeed Alshamrani, il militare saudita radicalizzato che compì un attentato in una base militare a Pensacola, in Florida. “Gerusalemme non sarà mai ‘’giudaizzata’”, afferma tra l’altro Zawahiri.

Nei loro discorsi, Biden, Obama, anche Bush hanno molto insistito sul concetto di unità degli Usa: “Subito dopo l’11 Settembre, abbiamo visto qualcosa di raro: un vero senso d’unità nazionale”, dice Biden che però preferisce non parlare al memoriale. “L’unità non va mai distrutta. L’unità è la nostra forza maggiore: non vuol dire che dobbiamo credere tutti nella stessa cosa, ma che dobbiamo avere rispetto gli uni degli altri e per questo Paese”.

I discorsi del presidente non scalfiscono, però, l’astio di Trump e dei suoi sodali. In un breve video, il magnate dice che l’11 settembre è un “giorno triste” e che “stiamo vivendo un momento triste visto come si è chiusa la guerra contro coloro che hanno causato tanto dolore nel nostro Paese”, ignorando il fatto che la resa ai talebani fu da lui negoziata 18 mesi or sono. Criticando Biden, “uno sciocco”, Trump parla di “pianificazione sbagliata” e di leader “che non hanno capito che cosa stava accadendo”: “Il 20° anno della guerra avrebbe dovuto essere un anno di vittoria, invece Biden e la sua inetta Amministrazione si sono arresi”.

L’“affrettato” ritiro dall’Afghanistan deciso da Biden è “il più grande imbarazzo” per gli Stati Uniti: il presidente è un “incompetente alla guida del nostro Paese: “Siamo scappati, ormai non ci rispetta nessuno”. Gli fa eco Rudolph Giuliani, il sindaco sceriffo di New York dell’11 Settembre, ma anche il legale di Trump in tutte le cause elettorali perse. I giorni dell’unità sono ancora lontani: Trump e i suoi puntano sempre sulla polarizzazione.

Ieri, a Kabul, in controtendenza rispetto ai giorni scorsi, circa 300 donne afghane completamente velate hanno espresso oggi il loro sostegno al regime talebano nell’anfiteatro dell’università, intervenendo in difesa delle misure adottate dall’Emirato islamico. Impossibile valutare la spontaneità della partecipazione all’evento.

La maggior parte di loro indossava il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi, mentre alcune indossavano il burqa, l’indumento – obbligatorio durante il primo regime talebano (1996-2001) – che copre totalmente il corpo con una sorta di retina all’altezza degli occhi. Molte avevano guanti neri.

Nell’anfiteatro dell’Università Shaheed Rabbani, le oratrici hanno criticato le donne scese in piazza nei giorni scorsi nel Paese per chiedere il rispetto dei propri diritti. “Siamo contro queste donne che manifestano in piazza sostenendo di rappresentare le donne afghane”, è la denuncia. “Il governo che c’era ha abusato delle donne, che sono state reclutate solo per la loro bellezza”.

I panda impagliati di Jung e il marxismo nei tortellini

 

Portavo sempre una pallottola nel taschino. Un giorno un evangelista impazzito lanciò una bibbia dalla finestra. La bibbia mi avrebbe trapassato il cuore se non fosse stato per la pallottola.

(Woody Allen)

 

Stiamo esplorando le leggi nascoste che regolano la struttura e il funzionamento della materia comica, così come emersero dall’analisi degli errori di traduzione anni 70 delle raccolte di Woody Allen. Queste leggi nascoste dovrebbero guidare anche il traduttore di testi comici.

 

COMICITÀ: LE QUATTRO LEGGI NASCOSTE

1. ESATTEZZA

L’anti-climax, abbiamo visto, è la tecnica preferita da Allen. Nel racconto Le memorie di Schmeed, Allen narra il nazismo dal punto di vista del barbiere di Hitler. L’anti-climax (nazismo/barbiere di Hitler) gli serve come premessa dell’intero brano. Questo accade in molti testi di Allen. Per esempio, ne Il caso Kugelmass, la premessa è l’anti-climax fra un professore di lettere ebreo, calvo, e “negli alimenti fino al collo”, che finisce dentro il libro Madame Bovary e diventa l’amante di Emma. Poi, con una permutazione (in questo caso, un’inversione), Madame Bovary finisce nella New York di oggi, e la storia ha sviluppi. Quando l’anti-climax è fra Allen stesso e un grande autore, il risultato è il genere della parodia. Tutti i racconti di Allen sono parodie: di un genere (il giallo d’azione, il carteggio epistolare, il saggio filosofico), e di autori famosi (Kafka, Mickey Spillane, Dostoevski, Saul Bellow). In questi casi, il punto di vista di Allen è sempre quello del liceale che deve studiare Kierkegaard e si vendica prendendolo in giro. Che è il significato del titolo originale della sua prima raccolta, Getting even: non “Saperla lunga”, ma “Rivincite”, appunto. Vendicarsi. Quando l’aggressione culturale si unisce all’autoironia e al gusto per l’assurdo, il risultato è la creazione dell’inedito: “E la durata della terapia! Due anni! Cinque anni! Se uno di noi non riusciva a curare un paziente in sei mesi gli rimborsavamo i soldi, lo portavamo a una qualsiasi rivista musicale e riceveva o una fruttiera di mogano o un completo di coltelli in acciaio inossidabile per l’arrosto. Ricordo che potevi sempre riconoscere con quali pazienti Jung aveva fallito, poiché lui gli regalava grossi panda impagliati.”

 

La disposizione delle parole

L’esattezza che rende esplosive le gag riguarda non solo la scelta dei termini, ma anche la loro disposizione nella frase. Una battuta come “L’opera di Lovborg può essere divisa in tre periodi. Prima venne la serie di drammi sull’angoscia, la disperazione, il timore, la paura e la solitudine (le commedie)” fu rovinata dal traduttore che nel 1976 dispose le parole in questo modo errato: “L’opera di Lovborg può essere divisa in tre periodi. Prima vengono le commedie sull’angoscia, la disperazione, il timore, la paura e la solitudine (le farse)”. Il termine “commedie”, messo prima, anticipa la punchline; ma lo svelamento non deve essere anticipato, se vogliamo ottenere l’effetto comico: nella battuta originaria di Allen, infatti, è alla fine della frase. Questa è una nota importante per i traduttori di testi comici che non vogliono uccidere le gag. A volte, inoltre, l’effetto sorpresa è maggiore se la parola-chiave è nascosta nel prefinale: “Una tipica cena (secondo DeRochet) consisteva in una crêpe sottile come antipasto, del prezzemolo, un bue e una torta di crema.” Questo tipo di battuta è un throwaway linguistico, la gag che sorprende perché inserita con noncuranza mentre si dice altro. Il suo analogo cinematografico è la gag in cui la scena in primo piano è puramente didascalica, mentre la scena comica è sullo sfondo. Per esempio, in Amore e guerra, mentre due dignitari parlano in primo piano di politica europea e complotti, sullo sfondo Napoleone e il suo sosia, cui stava insegnando la sua camminata imperiale, cominciano ad azzuffarsi come bambini all’asilo. La gag viene chiusa dall’ultima frase del dignitario: “Mi danno del matto. Ma un giorno, quando sarà scritta la storia di Francia, ricorderanno il mio nome: Sidney Applebaum.” La traduzione italiana omologò in modo banale, perdendo l’incongruo riferimento ebraico, e uccise la risata (“Mi dicono matto. Però un giorno, quando sarà scritta la storia della Francia, fra queste pagine non mancherà il mio nome: Pinco Pallino.”). Aaaaargh!

 

2. BREVITÀ

Al momento giusto, lo svelamento deve avvenire rapidamente. Freud sosteneva che l’inconscio produce la risata se, grazie alla tecnica del motto di spirito, raggiunge la coscienza all’improvviso; ma già l’aveva scritto Shakespeare nell’Amleto: “Brevity is the soul of wit”, la brevità è l’anima del motto di spirito. È la seconda legge nascosta della comicità. Lo conferma la psicologia sperimentale: l’elemento cruciale di una battuta è la rapidità con cui la narrazione devia verso il finale a sorpresa (McGhee & Goldstein, 1983). L’arte della battuta consiste nel dire tutto il necessario con il minor numero di sillabe possibili. Ne consegue che fare la parafrasi è un altro modo con cui i traduttori (e i giornalisti che recensiscono uno spettacolo comico) possono rovinare una battuta, per esempio così: “Abbiamo deciso di mutare tattica e vedere se avremmo potuto fare qualche gesto diplomatico come leccare i piedi al dittatore.” Versione corretta: “Decidemmo di cambiare tattica e vedere se leccargli i piedi poteva funzionare.” Altro esempio di aggiunzione nociva: “Spinelli fu per anni un fervente comunista italiano, e ottenne a suo tempo un enorme successo con un suo compromesso culinario fra tortellini in bianco e agnolotti al sugo rosso.” Versione corretta: “Spinelli fu per anni un fervente comunista italiano e ottenne a suo tempo un enorme successo quando rivelò il suo marxismo includendolo astutamente nei tortellini.” Nell’Italia dell’epoca si parlava di compromesso storico, e il traduttore, colto da follia, decise di attualizzare la battuta, uccidendo la punchline surreale di Allen. Se la deontologia della traduzione impone il principio dell’equivalenza fra testo di partenza e di arrivo, questo vale a maggior ragione per i testi comici, dove l’effetto è tutto nei dettagli. Nabokov suggeriva ai traduttori di interporsi fra autore e lettore il meno possibile: questa invisibilità è fondamentale per l’effetto comico. Ci si riesce sapendo, oltre che di traduzione, di prassi divertente. “Dubbs chiese a suo fratello com’era nell’altro mondo, e suo fratello disse che non era diverso da Cleveland” (Woody Allen).

(72. Continua)

Corrispondente da Kabul convertito a Matteo Salvini

Nei giorni della caduta di Kabul, una nuova firma è comparsa su Repubblica: Mattia Sorbi, freelance diventato dalla sera alla mattina referente del quotidiano dall’Afghanistan. Una scelta motivata dal fatto in quelle ore fosse l’unico (o fra i pochi) reporter italiano sul campo. Una carta che Sorbi si era già giocato nel 2020 a Minsk, in un video su Tpi, con la stessa faccia ma un altro nome, Patrizio Russo. Nel 2014 suoi reportage dal Donbass erano apparsi sulla tv filorussa Zvezda tv. Ma a creare più di un mal di pancia nella redazione romana non è solo l’affidamento di corrispondenze di guerra a un precario pagato a pezzo né un po’ di indulgenza di troppo che gli è stata contestata nei confronti dei talebani. Sorbi, che si definisce corporate communication manager e public affairs consultant, non ha mai nascosto una spiccata passione per la politica, sebbene dalle idee cangianti. Nel 2008 è negli Usa, volontario per Obama. Dopo aver bazzicato il Pdl lombardo, nel 2016 annuncia su uno dei suoi profili Facebook (ne ha almeno tre) la sua candidatura a Milano con i Moderati con Sala (Udc), lista mai pervenuta. Nel 2018 nuovo annuncio: “Candidato con Noi con l’Italia per Fontana” (sebbene il suo nome non risulti nella banca dati del Viminale). In ogni caso, per la vittoria di Fontana festeggia: “La lobby Lgbt rappresentata da Gori in Lombardy è fuori, ora Family Day everyday. Gori perdente, vi abbiamo purgato ancora”. La conversione alla Lega sembra sincera e spesso commenta i post di Matteo Salvini: “Bravo ministro, il popolo è dalla sua parte… avanti così” (19 luglio 2019). Caso Sea Watch: “Sta gente del Pd ha massacrato il popolo italiano e difende gli stranieri irregolari”. E riserva messaggi da hater per l’ex presidente della Camera: “Signora Boldrini ogni volta che starnazza dice solo puttanate”, “signora Boldrina stia zitta, non starnazzi e vada via dall’Italia”. Posizioni distanti, insomma, dal fu giornale-partito fondato da Eugenio Scalfari.

Il Viminale: Ingroia ora rischia solo in Sicilia, via la scorta altrove. “A Reggio sarei sicuro?”

Ci risiamo. Già a fine 2020 il Viminale aveva dovuto riassegnare all’ex magistrato Antonio Ingroia la scorta, dopo le decisioni di Tar e Consiglio di Stato che hanno obbligato al ripristino della tutela armata. Ora il “regalo” per l’avvocato siciliano, già pm dei processi Contrada, Dell’Utri e Trattativa Stato-mafia, è stato inoltrato, tramite posta elettronica certificata, il giorno dopo Ferragosto dall’amministrazione del ministero dell’Interno: Ingroia è stato avvisato così della procedura di revisione in corso per la revoca della scorta su tutto il territorio nazionale esclusa la Sicilia. Dieci giorni di tempo dal 16 agosto per presentare rimostranze con le controdeduzioni. Oggi Antonio Ingroia svolge la professione di avvocato, impegnato anche in molti processi di mafia come parte civile, con studi legali in diverse città d’Italia. Già il Tar del Lazio un anno e mezzo fa, nelle motivazioni per il ripristino della scorta, colse un punto fondamentale forse sfuggito alla ministra Luciana Lamorgese: nel processo ’ndrangheta stragista a Reggio Calabria un boss di primo piano, non certo l’ultimo arrivato, come Giuseppe Graviano, amico stretto dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, attaccò duramente in aula l’avvocato Ingroia che lo stava interrogando nel ruolo di difensore delle famiglie dei carabinieri uccisi nel gennaio 1994, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Il Tar ha già riconosciuto, sconfessando il Viminale, che Ingroia rappresenta un simbolo dell’antimafia e giudiziario a rischio, come quell’attacco diretto di Graviano ricorderebbe. “La verità è nei cassetti della Procura di Palermo”, disse Graviano, accusando Giovanni Falcone, definendolo “falso eroe dell’antimafia” e aggiungendo: “Voi lo sapete…”, così si rivolse a Ingroia, all’epoca dei fatti a cui si riferiva il boss alla Procura di Palermo con Falcone e Borsellino. Ingroia, oggi, si limita a precisare: “Riconoscere il mio diritto alla scorta solo in Sicilia, ma non nel resto d’Italia, mi espone doppiamente, perché se sono a rischio in Sicilia come lo stesso Viminale stabilisce, evidentemente non posso stare molto più tranquillo una volta superato lo Stretto di Messina”. Tanto che il 27 ottobre l’avvocato Ingroia sarà in aula proprio a Reggio Calabria per il processo d’Appello ’ndrangheta stragista in cui è imputato lo stesso Graviano, appunto, e dove già i due si sono scontrati verbalmente.

Pistole spara-lazo, esposto all’Anac su ditta fornitrice

La Defconservices non è sconosciuta al Comune di Genova. Come riportato giovedì dal Fatto in relazione alle pistole spara-lazo scelte per la sperimentazione dei vigili urbani, l’assessore alla sicurezza Giorgio Viale spiegava che la verifica sui requisiti dell’impresa avverrà qualora l’ente dovesse decidere di acquistare il prodotto. La titolare di Defconservices, Danila Maffei, e il suo consulente Alessandro Bon nel 2010 furono arrestati (e quest’ultimo condannato in primo grado a 4 anni e prescritto in appello, pendente la Cassazione) per un traffico d’armi con l’Iran. Fra 2019 e 2021 però il Comune finalizzò tre contratti con Defconservices per circa 28 mila euro complessivi, con procedure negoziate senza previa pubblicazione (e unico invitato) o affidamento diretto. Avrebbe dovuto esser noto quanto gli inquirenti nell’ordinanza di arresto scrivevano su Maffei e cioè che risultava “già pluripregiudicata per reati contro il patrimonio”. Quanto basta per far valutare al consigliere Pd, Alessandro Terrile, “un esposto ad Anac”.

Femminicidio, arrestato ex marito di Rita Amenze

Pierangelo Pellizzari, l’uomo che venerdì mattina ha ucciso a colpi di pistola la moglie Rita Amenze a Noventa Vicentina, è stato arrestato ieri mentre cercava di rientrare nella sua casa nel Basso Vicentino. Il giorno prima, il marito aveva aspettato la compagna nel parcheggio dell’azienda dove lavorava per poi spararle in volto tre colpi e allontanarsi a bordo della sua Jeep. Alla scena erano presenti anche alcuni colleghi della donna che si trovavano nel parcheggio prima di entrare a lavoro. I carabinieri l’hanno poi cercato per tutta la giornata di venerdì nella zona in cui abitava, rinvenendo la Jeep abbandonata lungo un canale. Ma dell’uomo nessuna traccia, tanto da ipotizzare che si fosse tolto la vita. Fino a ieri, quando gli agenti che sorvegliavano l’abitazione di Pellizzari sono stati attirati da alcuni rumori, scoprendo l’uomo che cercava di entrare in casa da una finestra laterale. Secondo alcuni testimoni, Pierangelo Pellizzari è stato visto al bar mentre beveva un caffè poco prima di uccidere la ragazza.