Sono al contempo felice e triste di essere qui in Italia. E devo ringraziare questo Paese, gli italiani e i media che danno voce al messaggio di un’esule afghana e del suo popolo e Paese martoriato. Da una parte, il mio arrivo qui rappresenta la vita e la speranza.
Dall’altra, posso dire che sono una privilegiata, e questo mi dà un senso di forte tristezza per le amiche e colleghe rimaste imprigionate laggiù.
Negli ultimi anni ho lavorato sodo per realizzarmi come donna e come imprenditrice in Afghanistan, dopo aver vissuto tutta la mia vita in Iran. Sono stata un’immigrata di seconda generazione, nata da un esilio che risale all’invasione sovietica. Tre anni fa, concluso il mio percorso di studi e di formazione in Iran, pur potendo raggiungere i miei familiari in Italia, ho deciso di tornare in Afghanistan come atto politico di cittadinanza attiva, per servire il mio Paese e la mia gente, nel momento del bisogno.
Il tempo da noi si era come fermato. La prima cosa che notai era la mancanza di donne emancipate. Uno stimolo per me a mettermi in gioco con ancora più determinazione. Ho lanciato la mia avventura imprenditoriale con il mio primo ristorante sulle ceneri di “Le Jardin”, gestito prima da alcuni francesi. Aveva subito due attentati terroristici ed era rimasto abbandonato. Quello era il forte senso di rinascita che volevo. Dalle ceneri, come la Fenice. Lo chiamai “Sahar Paz”. Anche il nome è molto significativo. Sahar, infatti, è il mio soprannome e significa “alba”. Di nuovo, un segno di rinascita e luce. Non era solo un ristorante, ma un centro culturale e di attivismo per l’emancipazione di noi donne. Ero circondata da ragazze veramente in gamba, che continuo a sentire quotidianamente, e per cui mi piange il cuore. Gestivamo insieme dei progetti per e con le donne, ma anche destinati ai bambini di strada. Spero davvero che presto anche loro potranno raggiungermi per continuare a costruire insieme giardini di luce lungo la strada dei diritti.
Il successo di Sahar Paz mi ha portato a pensare a un secondo spazio: “Ospite di Sahar”. Ho lavorato duramente otto mesi per realizzarlo ed era pronto a essere inaugurato proprio quando sono stata costretta a fuggire, chiedendo asilo politico in Italia.
Con i talebani alle porte di Kabul tutto è diventato buio in un attimo. Ho chiesto aiuto a mio fratello con la morte nel cuore e la paura di non farcela.
Prima di arrivare a Roma, non sapevo cosa significasse la paura. Ero cresciuta con la piena consapevolezza delle mie capacità. La determinazione e gli ideali guidavano i miei passi. All’improvviso tutto ciò per cui avevamo lottato è svanito in poche ore. L’unico pensiero di noi donne era mettersi in salvo.
Avevo anche un visto per l’India e mio fratello come alternativa mi aveva fatto i biglietti, ma i voli civili erano ormai bloccati. Poi grazie a mio fratello, all’Italia, al Governo e agli sforzi di Angelo Argento, presidente di “Cultura Italiae”, sono qui ora nel vostro Paese e mi sento considerata, dopo anni di paura, per la prima volta una persona anche se donna. Un sollievo per me, certo. Ma non posso dimenticare i bambini, le donne e gli uomini rimasti nel mio Paese senza possibilità di uscire. Sento di fare poco per il mio Paese, ed è terribile.
Un popolo intero è in lacrime. Abbiamo già conosciuto il regime dei talebani per sei anni e sappiamo di cosa sono capaci, nonostante vogliano provare a mostrare un’altra faccia. Per strada non si vede più una donna. Tutti vivono nel terrore e non escono di casa. C’è paura e incertezza, soprattutto per la mia generazione che ha imparato a cominciare a camminare sotto lo scudo di protezione dell’Occidente. È su questa generazione che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Loro sono la speranza del Paese. Sono il nostro futuro. E con “nostro” intendo della comunità internazionale, che in questo momento ha perso un Paese, un alleato, un interlocutore, anche se non è detto che la storia non riservi alla fine un futuro eccellente per l’Afghanistan, glorioso come il suo passato. Abbiamo i talenti, abbiamo le competenze! Molti giovani sono formati, pronti e desiderosi di costruire un Paese democratico. È su di loro che bisogna scommettere. Non possiamo pensare che un Paese con un passato di arte e poesia sprofondi nell’ignoranza e condanni le donne a essere sepolte in casa e trattate come oggetti.
Allora guardo avanti, penso al futuro e mi pongo anch’io un obiettivo per il 2030. “#Afghanistan2030 – Next Leaders”. Lo chiamerò così. Auspico che nel 2030 realmente le potenze internazionali ottemperino agli impegni presi con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. L’obiettivo, fra i tanti, è costruire una società pacifica e sviluppare istituzioni egualitarie a tutela dei diritti civili, umani, al diritto all’istruzione, alla parità di genere.
Penso a me stessa, alle mie colleghe, alle amiche e ai tanti intellettuali, artisti, attivisti, giornalisti costretti alla fuga oggi dall’Afghanistan. Li immagino riprendersi il Paese e lottare per l’autodeterminazione del popolo afghano. Perché accada è necessario che tutti, compresi i governi dei Paesi europei e la società civile che ci stanno ospitando oggi come rifugiati aiutino la crescita di questa giovane classe di next leaders. Con “Culture Italiae” e lo spin-off “Solidarietà Italiae” stiamo lanciando il progetto “Afghanistan 2030 – Next Leaders” che punta a mettere in salvo e dare accoglienza dignitosa a chi come me sta lottando per il futuro del nostro Paese. Un progetto innovativo, giovane, agile, basato su un importante partenariato fra istituzioni e privati, che si proponga come nuovo modello possibile di accoglienza, offrendo a questa generazione di esuli talentuosi adeguate opportunità di inserimento e formazione.
Sono un’imprenditrice e sento che possiamo creare qualcosa di grande e giusto che renderà più ricca l’Italia stessa. In una seconda fase, attraverso l’attivazione di visti speciali e corridoi umanitari, speriamo di riuscire a continuare il nostro sogno, uniti anche in esilio, costruendo l’Afghanistan del 2030. Bisogna che nel frattempo il mondo, coeso, faccia pressione sui talebani per approvare un governo che rappresenti tutti, che garantisca l’emancipazione femminile e i diritti basilari, oggi a rischio.
La resistenza è un tema che mi sta molto a cuore. Una parte del Paese sta lottando, guidata da Ahmad Massoud, mio coetaneo, figlio del leone del Panshir, formatosi in Europa. Immagino che anche lui e i suoi uomini si sentano abbandonati. Ai tempi di suo padre, i talebani erano osteggiati anche dall’Occidente. Ora non mi è chiaro quale sia la posizione internazionale nei loro confronti. Mi riferisco agli attori che stanno facendo accordi con loro: Russia, Cina, Pakistan, Iran, Arabia Saudita.