I tengo famiglia sono un raggruppamento sociale specialissimo, un sottogruppo demografico di antiche radici, specie umana che non vive mai la paura dell’estinzione.
Figli di papà, plurale. In politica formano una squadriglia potentissima che dura negli anni anche se con alterne fortune. Certo, ci sono figli e figli e questo tempo fa sorridere di fronte agli onori delle cronache del Novecento. Ed è impari il confronto tra Giorgio La Malfa, figlio di Ugo, oppure Massimo D’Alema, figlio di Giuseppe, per dirne solo due, con la proposta familistica dei decenni successivi, con il talento del Trota, al secolo Renzo Bossi, incubo dell’indimenticato Umberto, il senatur leghista, che gli concesse, nonostante ogni evidenza, la possibilità di correre in Lombardia, troncando lì, per fortuna del padre, ogni residua ambizione di carriera.
Oppure la breve e irrilevante galoppata di Cristiano Di Pietro, rampollo di Antonio, sparito dopo una breve e abbastanza sfortunata campagna elettorale a Campobasso, dove si cimentò. Ieri era un altro mondo, oggi è effettivamente serie b.
Vero, ancora si allunga in cielo il duo Letta, zio Gianni e nipote Enrico, con carriere indiscutibili e di prima fila. E se vogliamo dirla tutta un altro figlio di papà, Matteo Renzi, ha superato di gran lunga babbo Tiziano, fonte di guai più che di onori. Resistono – in forme piuttosto sbiadite per la verità, i Mastellas, moglie senatrice e marito sindaco (e ricandidato) di Benevento. Come, per dovere di cronaca, è da riferire l’evanescenza di Davide Casaleggio, figlio del visionario e carismatico Gianroberto. In pochi mesi Davide ha mangiato tutta l’eredità paterna.
Resta poco, o pochissimo da rilevare. Possiamo dire di Luigi Cesaro, noto invero con il soprannome macchiettistico di “Giggino ’a purpetta”, parlamentare napoletano appena fatto oggetto di una richiesta di arresti domiciliari per via di sospettati legami con un clan camorristico, e segnalare che suo figlio Armando, in virtù della dote paterna, è consigliere regionale della Campania. Che Vincenzo De Luca, il conducator della Campania, ha piazzato il primogenito Piero alla Camera dei deputati restituendo però l’altro diletto figlio Roberto, già assessore di Salerno, alla società civile.
I figli so’ piezze ’e core. E anche fonte di grande orgoglio. Ricordate Silvio Gava? Esponente importante della Dc del dopoguerra, crebbe il suo Antonio così bene che il figliolo divenne ancora più potente di lui e si laureò in politica come ministro dell’Interno, carica in qualche modo eccentrica per uno che portava al dito un particolare anello (il ciciniello) segno assoluto di un potere libero dai vincoli di legge, assai popolare nei rioni di Napoli. Gava figlio si era persino dotato di un cubicolo dove far sostare tutta la sua schiera di fedeli, ciascuno impegnato nelle sotto-postazioni politiche, in modo che la squadra allargata gavianea potesse essere convocata ed entrare in campo, nei momenti di più intenso confronto politico, con speditezza ed efficacia, tipo la celere.
La famiglia, a dire il vero, non è una specialità solo italiana. Ricordare che gli Usa sono stati governati dai Clinton, dai Bush, e dai mille altri triangoli familistici (il figlio di Biden è stato potente lobbista del Senato al tempo in cui il papà, oggi presidente, era potente senatore), ci fa quasi esultare per la differenza cosmica del peso che oltreoceano hanno avuto mogli e fratelli e figli.
Resta una breve notazione di cronaca di questi giorni che inquadra invece il figlio di papà, al singolare, come il predestinato per antonomasia. Buffa e chiassosa la vicenda di Roman Pastore, giovane candidato in un municipio della Capitale, che ha pensato di proporsi alla politica esibendo l’enorme lusso concessogli dai soldi del babbo. Ha iniziato con un orologio da 30mila euro. L’esibizione, per fortuna, è durata qualche giorno, poi Carlo Calenda, il suo padrino politico, temendo seri effetti collaterali gli ha detto: “Basta esibire questo pataccone al polso”. Patacca di famiglia.