Gava, De Luca, Renzi: è il Paese dei figli di papà

I tengo famiglia sono un raggruppamento sociale specialissimo, un sottogruppo demografico di antiche radici, specie umana che non vive mai la paura dell’estinzione.

Figli di papà, plurale. In politica formano una squadriglia potentissima che dura negli anni anche se con alterne fortune. Certo, ci sono figli e figli e questo tempo fa sorridere di fronte agli onori delle cronache del Novecento. Ed è impari il confronto tra Giorgio La Malfa, figlio di Ugo, oppure Massimo D’Alema, figlio di Giuseppe, per dirne solo due, con la proposta familistica dei decenni successivi, con il talento del Trota, al secolo Renzo Bossi, incubo dell’indimenticato Umberto, il senatur leghista, che gli concesse, nonostante ogni evidenza, la possibilità di correre in Lombardia, troncando lì, per fortuna del padre, ogni residua ambizione di carriera.

Oppure la breve e irrilevante galoppata di Cristiano Di Pietro, rampollo di Antonio, sparito dopo una breve e abbastanza sfortunata campagna elettorale a Campobasso, dove si cimentò. Ieri era un altro mondo, oggi è effettivamente serie b.

Vero, ancora si allunga in cielo il duo Letta, zio Gianni e nipote Enrico, con carriere indiscutibili e di prima fila. E se vogliamo dirla tutta un altro figlio di papà, Matteo Renzi, ha superato di gran lunga babbo Tiziano, fonte di guai più che di onori. Resistono – in forme piuttosto sbiadite per la verità, i Mastellas, moglie senatrice e marito sindaco (e ricandidato) di Benevento. Come, per dovere di cronaca, è da riferire l’evanescenza di Davide Casaleggio, figlio del visionario e carismatico Gianroberto. In pochi mesi Davide ha mangiato tutta l’eredità paterna.

Resta poco, o pochissimo da rilevare. Possiamo dire di Luigi Cesaro, noto invero con il soprannome macchiettistico di “Giggino ’a purpetta”, parlamentare napoletano appena fatto oggetto di una richiesta di arresti domiciliari per via di sospettati legami con un clan camorristico, e segnalare che suo figlio Armando, in virtù della dote paterna, è consigliere regionale della Campania. Che Vincenzo De Luca, il conducator della Campania, ha piazzato il primogenito Piero alla Camera dei deputati restituendo però l’altro diletto figlio Roberto, già assessore di Salerno, alla società civile.

I figli so’ piezze ’e core. E anche fonte di grande orgoglio. Ricordate Silvio Gava? Esponente importante della Dc del dopoguerra, crebbe il suo Antonio così bene che il figliolo divenne ancora più potente di lui e si laureò in politica come ministro dell’Interno, carica in qualche modo eccentrica per uno che portava al dito un particolare anello (il ciciniello) segno assoluto di un potere libero dai vincoli di legge, assai popolare nei rioni di Napoli. Gava figlio si era persino dotato di un cubicolo dove far sostare tutta la sua schiera di fedeli, ciascuno impegnato nelle sotto-postazioni politiche, in modo che la squadra allargata gavianea potesse essere convocata ed entrare in campo, nei momenti di più intenso confronto politico, con speditezza ed efficacia, tipo la celere.

La famiglia, a dire il vero, non è una specialità solo italiana. Ricordare che gli Usa sono stati governati dai Clinton, dai Bush, e dai mille altri triangoli familistici (il figlio di Biden è stato potente lobbista del Senato al tempo in cui il papà, oggi presidente, era potente senatore), ci fa quasi esultare per la differenza cosmica del peso che oltreoceano hanno avuto mogli e fratelli e figli.

Resta una breve notazione di cronaca di questi giorni che inquadra invece il figlio di papà, al singolare, come il predestinato per antonomasia. Buffa e chiassosa la vicenda di Roman Pastore, giovane candidato in un municipio della Capitale, che ha pensato di proporsi alla politica esibendo l’enorme lusso concessogli dai soldi del babbo. Ha iniziato con un orologio da 30mila euro. L’esibizione, per fortuna, è durata qualche giorno, poi Carlo Calenda, il suo padrino politico, temendo seri effetti collaterali gli ha detto: “Basta esibire questo pataccone al polso”. Patacca di famiglia.

Zii, figli e nipoti: il candidato tiene famiglia

La storia delle Amministrative del 3 e 4 ottobre è anche una storia di famiglia. E di famiglie, soprattutto di quelle a cui è capitata la fortuna di uno zio, un cugino o un nonno ben conosciuto dentro le segreterie dei partiti. E allora ecco che le liste dei candidati nelle principali città e alle Regionali in Calabria sono zeppe di parenti illustri, laddove illustre è più che altro il padrino politico dell’aspirante consigliere.

Calabria. “Il fatto che non si possa fare politica perché un familiare ha fatto politica prima mi sembra inconcepibile”. Parola del candidato del centrodestra a governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, l’ex capogruppo di Forza Italia alla Camera ritenuto favorito per le Regionali di ottobre. Col fratello Mario, sindaco di Cosenza, Occhiuto di parenti in politica se ne intende. La verità, però, è un’altra: a queste latitudini il posto di consigliere regionale è ritenuto un bene di famiglia da far rientrare nel “lascito” per i figli e affini. Gli stessi partiti, pur di non perdere punti percentuali, continuano il festival dell’ipocrisia spacciando per lusinghieri risultati elettorali quei voti che, in realtà, sono il frutto delle linee ereditarie del consenso.

Lo stesso Occhiuto ha candidato nella lista Forza Azzurri un familiare acquisito: Piercarlo Chiappetta, cognato di suo fratello Mario. Il Partito democratico candida l’uscente Graziano Di Natale, sposato con la figlia dell’ex assessore ed europarlamentare Mario Pirillo, ma anche Aquila Vilella che sosterrà la cognata candidata a presidente del centrosinistra Amalia Bruni.

Sorella dell’ex consigliere regionale Giuseppe Pedà, l’imprenditrice Carmela Pedà di Gioia Tauro si candida con Forza Italia, che a Catanzaro schiera un “Parente” di nome e di fatto: l’avvocato Silvia Parente, infatti, è figlia di Claudio, l’ex capogruppo di FI al consiglio regionale.

Come sempre, però, sono le famiglie Gentile e Morrone di Cosenza e Sculco di Crotone che fanno scuola. L’uscente Flora Sculco si candida con l’Udc dopo 7 anni in Consiglio regionale, dove ha preso il posto del padre Enzo, nel 2011 condannato in via definitiva per concussione a 4 anni di carcere. Nel toto-parenti, la dinastia dei Morrone è toccata a Fratelli d’Italia che candida Luciana De Francesco, moglie del consigliere uscente Luca Morrone che non poteva ripresentarsi perché rinviato a giudizio per corruzione nell’inchiesta “Passepartout”. La De Francesco è, quindi, nuora di Ennio Morrone, ex deputato dell’Udeur, consigliere regionale per diverse legislature.

All’interno della sua coalizione, la new entry della Morrone-family si scontrerà con un altro cognome altisonante: Katya Gentile, figlia di Pino Gentile che in provincia di Cosenza conta più di Forza Italia. Non rieletto nel 2020 dopo 35 anni consecutivi a Palazzo Campanella, l’evergreen Pino Gentile a 78 anni abdica in favore della figlia Katia che è anche la nipote dell’ex sottosegretario forzista Tonino Gentile. Anche lui è della partita: se Occhiuto dovesse diventare governatore, vedrà il figlio Andrea Gentile prendere il suo posto alla Camera come primo dei non eletti alle ultime elezioni politiche. Come dire: i Gentile votano un parente e ne eleggono due.

Napoli. La presenza di una “figlia di” in una lista a sostegno del giallorosa Gaetano Manfredi è stata la causa di un litigio politico nel centrosinistra di Napoli. Due produttori seriali di appelli, il senatore Sandro Ruotolo e lo scrittore Maurizio De Giovanni, hanno scritto a Manfredi per stigmatizzare la scelta di accogliere in coalizione Romina Moretto, figlia dello storico consigliere comunale Vincenzo Moretto, ora nella Lega dopo decenni di militanza nella destra ex Msi. “Non è un bel vedere”, hanno detto i due. Delusi perché dallo staff del candidato sindaco ad agosto – quando circolarono indiscrezioni sull’ingresso di Moretto in “Azzurri per Napoli Viva” – erano arrivate rassicurazioni che “Moretto non sarà candidato”. Si riferivano solo al padre.

Sempre per Manfredi e in “Azzurri per Napoli Viva” scendono in campo Chiara Tuccillo, la moglie del noto imprenditore napoletano Riccardo Maria Monti, a lungo in predicato di candidarsi sindaco, e Anna Maria Maisto, la compagna del consigliere uscente Gabriele Mundo, trascorsi in Forza Italia, poi in maggioranza arancione con Luigi de Magistris, infine passato all’opposizione e a Italia Viva.

Nelle liste dell’outsider Antonio Bassolino si candida Simona Russo, che si occupa di diritti umanitari al Parlamento europeo, figlia di Peppe Russo, ex capogruppo Pd nel consiglio regionale campano. In Fratelli d’Italia ci prova Alessandra Caldoro, sorella dell’ex governatore azzurro della Campania, Stefano Caldoro.

Da Roma a Milano.I cognomi noti non mancano neppure nel resto d’Italia. A Torino con Giorgia Meloni ecco Giovanni Crosetto, nipote di Guido, storico volto di Fratelli d’Italia. Sempre a sostegno di Paolo Damilano, aspirante sindaco del centrodestra nel capoluogo piemontese, c’è Andrea Cantore, figlio del socialista di lunga data Daniele, vicinissimo a Bettino Craxi. A proposito di Psi, a Milano nella lista del sindaco Beppe Sala è candidato Emmanuel Conte, figlio del socialista Carmelo che fu gran protagonista del partito in Campania, soprattutto negli anni 80. Federico, fratello di Emmanuel, siede in Parlamento con Liberi e Uguali. Curioso anche il caso di Emilia Bossi, più conosciuta come Milly Moratti, moglie di Massimo e dunque cognata di Letizia (vicepresidente della giunta lombarda con il centrodestra), che cercherà la riconferma nel Consiglio comunale di Milano con il Pd.

A Roma c’è invece Rachele Mussolini, sorella di Alessandra e nipote del Duce, da anni impegnata in Fratelli d’Italia e ora con l’obiettivo di mantenere il seggio in Comune. Nel Municipio I della Capitale Carlo Calenda punta su Giosi Mancini: il padre Giacomo fu indimenticato esponente del Partito Socialista, più volte ministro ed eletto in Parlamento per più di quarant’anni.

A Bologna, Fratelli d’Italia ha corteggiato a lungo Tommaso Gazzoni Frascara, figlio del noto imprenditore, ma senza successo. Ci sarà invece Giulio Venturi, nipote di Marco Biagi oggi in lista con la Lega. Per l’aspirante sindaco giallorosa Matteo Lepore corre poi Davide Celli, già attore e da anni impegnato con i Verdi come già il padre Giorgio, a sua volta consigliere comunale a Bologna ed eurodeputato.

Un “Mattarella bis” sarebbe un’anomalia. Come Draghi al Colle

Ancora prima che il mandato del Presidente Mattarella entrasse nel semestre bianco, si è cominciato a parlare dell’ineludibilità di un suo bis. Per capire se davvero siamo in una situazione di impasse istituzionale, abbiamo chiesto lumi a Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale all’Università di Padova. Che in premessa dice: “Mattarella è stato un ottimo presidente. E teoricamente io sarei felice di vederlo restare al suo posto, soprattutto pensando ai nomi che circolano per la sua successione. Da Casini a Berlusconi: non voglio nemmeno pensarci. Queste però sono considerazioni politiche. Ci sono argomenti di metodo contrari, e naturalmente nessuno riguarda la persona del Presidente”.

Professoressa, facciamo un salto indietro nel tempo. Come si è arrivati in Costituente a definire il settennato?

Molto presto, già nell’ottobre 1947, un emendamento proponeva un mandato di sei anni, con possibilità di rielezione. Un altro emendamento prevedeva la durata di sette anni, con divieto di rielezione. La non rieleggibilità dunque è stata ventilata, se ne è discusso, ma non è passata. Nitti invece voleva un mandato di quattro anni, richiamando il sistema americano. Ma negli Stati Uniti, è stato osservato, il Presidente non è solo capo dello Stato ma anche capo del governo: una circostanza che esige un continuo confronto con la volontà popolare. La cosa importante era differenziare la durata del mandato parlamentare rispetto a quello, più lungo, del Presidente per garantire continuità e stabilità. Questo significa svincolare il Capo dello Stato dalle Camere da cui deriva. È un organo di garanzia. La Corte lo definisce con queste precise parole: “Un organo estraneo a quello che viene definito indirizzo politico governativo”. Il ruolo del Presidente, che non è espressione dalla maggioranza, è neutrale.

Anche le modalità del voto vanno in questo senso?

Certo: sia lo scrutinio segreto sia la maggioranza qualificata servono a impedire alla maggioranza di eleggere da sola il Presidente. L’obiettivo è quello dell’imparzialità. La rielezione non urta di per sé contro questi principi. Ma, come è stato notato durante il dibattito in Costituente, sette anni sono molti, 14 sarebbero un’enormità.

Ecco: lasciare, com’è accaduto con il secondo mandato del presidente Napolitano, la decisione sul quando dimettersi all’arbitrio dell’interessato non è questione da poco.

Non è possibile che un organo resti in carica “a piacere”, perché la stabilità delle istituzioni dipende anche dalla precostituzione dei tempi. L’obiettivo dei Costituenti era svincolare il Capo dello Stato dalle contingenze politiche: il secondo mandato va nell’opposta direzione. E credo che il presidente Mattarella si voglia sottrarre proprio in ossequio a questi principi.

Sarebbe poi la seconda volta, consecutiva.

Non si può far entrare in vigore la regola del secondo mandato per via consuetudinaria. Sarebbe una forzatura costituzionale. Purtroppo siamo di fronte a una serie di anomalie istituzionali.

Molti opinionisti presentano questa situazione come l’unica alternativa possibile.

Non è pensabile: in democrazia c’è sempre un’alternativa. L’impasse nasce dalla crisi dei partiti, ormai senza peso politico e identità. Ciò che rende allarmante la situazione è la progressiva incapacità delle forze politiche di assumersi le proprie responsabilità istituzionali. In questo clima, i partiti sono sempre più delegittimati e deboli, ma attenzione perché i partiti sono il tramite attraverso cui si attua la democrazia rappresentativa. Senza di loro nessun sistema democratico può funzionare. Ed è una crisi ormai cronicizzata che si trascina da decenni.

I più importanti giornali scrivono che Mario Draghi dovrebbe restare anche oltre la fine della legislatura, perché lo vogliono i mercati e l’Europa. Tra un po’ diranno che il voto è superfluo?

Per fortuna non siamo arrivati a esiti così spaventosi. Molti, com’è noto, da vario tempo parlano addirittura di post-democrazia considerando fra gli altri fattori il peso crescente dell’economia e dei mercati nella vita degli Stati.

La corsa per il Colle è diventata nel dibattito pubblico “una partita a due” tra Mattarella e Draghi: di un prolungamento del mandato dell’attuale inquilino del Colle abbiamo già parlato. Ma anche la seconda ipotesi – un trasloco diretto da Palazzo Chigi al Quirinale – non è priva di incognite. Sarebbe una prima volta: anche in questo caso saremmo davanti a un’anomalia istituzionale?

Il passaggio diretto dalla Presidenza del Consiglio – di solito ricoperta da un esponente della maggioranza, scelto appunto per la sua posizione politica – alla Presidenza della Repubblica, che dev’essere caratterizzata invece dall’imparzialità, ha come rischio inevitabile la politicizzazione di quest’ultima. Di solito, sottolineo. Rischio che appare oggi poco consistente data la posizione di Draghi, posto alla guida del governo per ragioni molteplici e complesse, e comunque estranee da una qualificazione politica. Non si può però dire che la ‘politica’ sia stata del tutto estranea alla vicenda complessiva. Troppo forte era il desiderio di alcuni di togliere di mezzo Conte e le sue aperture sociali: anche l’elevato consenso dei cittadini nei suoi confronti li preoccupava. È comunque pericolosa l’idea di avvicinare due ruoli – il capo del governo e il capo dello Stato – che svolgono funzioni costituzionalmente tanto diverse.

FdI vola nei sondaggi. Anche Durigon si offre

Si aspettava la promozione lunedì scorso, durante la segreteria federale. Perché così gli aveva promesso il capo e perché per quel motivo aveva accettato – seppure a malincuore – di dimettersi da sottosegretario all’Economia. Ma non è successo. Perché la nomina di Claudio Durigon a vicesegretario con delega al centro-sud piace a pochi, a partire da quel Giancarlo Giorgetti che dovrebbe trattarlo da suo pari grado. E dunque lunedì Salvini ha deciso di buttare la palla in tribuna e rinviare tutto ai prossimi giorni quando dovrà sciogliere anche la questione di chi dovrà prendere il posto di Durigon al Tesoro.

Al coordinatore regionale della Lega nel Lazio, costretto alle dimissioni per aver proposto di intitolare il parco di Latina al fratello di Mussolini, però la mancata promozione non è andata giù. “Si è messo a fare il pazzo” dice un fedelissimo del segretario. Cioè, come ha rivelato ieri Il Foglio, ha iniziato a minacciare di passare a Fratelli d’Italia. Una mossa da fine del mondo perché Salvini sa benissimo che nel Lazio, e nel centro-sud, senza Durigon la Lega vale pochissimo. È lui che gli porta i voti, le tessere e gli ha fornito la sede a Roma (quella dell’Ugl). E per i leghisti romani l’avvicinamento del coordinatore di Latina a Fratelli d’Italia non è solo un pourparler perché sanno benissimo che Durigon con Meloni e con i vertici del suo partito ha ottimi rapporti ormai da tempo. Per questo Salvini gli ha promesso che la promozione arriverà e intanto lo porta in giro per il Lazio ai suoi comizi con tanto di torta di compleanno venerdì sera a Ostia per i suoi cinquant’anni. L’ex sottosegretario vuole mettere bocca anche su chi sarà il suo successore – in pole ci sono Massimo Bitonci ed Edoardo Rixi ma nelle ultime ore si fa il nome di Silvana Comaroli – e per questo anche quella nomina è bloccata. La sua promozione e il nuovo sottosegretario devono arrivare insieme.

Nel frattempo Fratelli d’Italia si può permettere il lusso di fare la selezione all’ingresso. Dire sì a Lucio Malan e no a Renato Schifani. Durigon chissà. Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare anche un paio di amministratori di Forza Italia in Lombardia. Il partito di Giorgia Meloni lo può fare anche perché i sondaggi sorridono: secondo la rilevazione Ipsos di ieri di Nando Pagnoncelli sul Corriere la Lega è ancora primo partito al 20,5% ma ha perso lo 0,6% in due mesi mentre Fratelli d’Italia è passato dal 19 al 18,8%. A impressionare di più però è il trend degli ultimi due anni: il Carroccio ha quasi dimezzato il suo consenso dal 2019 passando dal 34 al 20% di oggi. Tutto a favore del partito di Giorgia Meloni che invece ha quasi triplicato i suoi voti dal 6,5 al 18,8. Cresce dell’1,2% invece Forza Italia che in due mesi sale dal 7 all’8,2%. Nel partito di Meloni sono molto ottimisti anche in vista delle Amministrative, considerate come una sorta di primarie anticipate per la leadership del centrodestra: anche se la coalizione potrebbe perdere in molte città, la lista di FdI dovrebbe superare quella della Lega a Roma, Milano, Napoli e forse anche in Calabria. A quel punto Meloni potrà rivendicare la leadership del centrodestra per puntare a Palazzo Chigi.

Il conto “sospetto” di Centemero: aperto il giorno degli arresti

L’ultimo conto del tesoriere della Lega, Giulio Centemero. È questo uno dei fronti su cui lavora la Procura di Milano dopo aver chiuso in parte il fascicolo sulla fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Nel mirino vi è un conto corrente aperto dal fedelissimo di Matteo Salvini presso la dipendenza di Montecitorio il 9 settembre 2020, giorno in cui vengono arrestati i commercialisti del partito Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba coinvolti (e poi condannati in primo grado) nel caso Lfc. Coincidenze annotate in una recente segnalazione per operazioni sospette (Sos) depositata agli atti dell’indagine sui commercialisti del Carroccio. Centemero non è indagato. I movimenti finanziari che ruotano attorno alla Lega si dimostrano una miniera per gli esperti dell’Unità antiriciclaggio di Banca d’Italia. Emergono così episodi legati a polizze sulla vita fatte per nascondere la provenienza del denaro o auto di lusso da acquistare con caparre a quattro zeri. L’inedito pacchetto di segnalazioni è ora sul tavolo dei magistrati milanesi che indagano sui presunti fondi neri del partito, collegati anche alla sparizione dei 49 milioni di rimborsi pubblici.

Si legge in una prima segnalazione: “Il 9 settembre 2020 in concomitanza con gli arresti di Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, il Centemero, già socio nella Mdr di Andrea Manzoni, ha acceso presso la dipendenza di Roma Montecitorio il conto corrente (…) non ancora movimentato alla data del 18 settembre 2020”. Inoltre “il cliente ha chiesto la surroga di un mutuo di 377mila euro in cointestazione con la moglie (…) proveniente dal banco Bpm, richiesta (…) non accolta”. Comportamento “analogo”, sottolineano gli esperti della Banca d’Italia, è stato tenuto da Andrea Manzoni con “una recente richiesta di accensione di conto in capo alla compagna con lo scopo dichiarato di trasferire un rapporto intrattenuto presso banco Bpm (…). La domanda non è stata accolta in considerazione dell’atteggiamento dello stesso Manzoni apparso interessato a utilizzare (…) il rapporto per fini propri”. Non meno rilevanti alcuni flussi di denaro che riguardano Alberto Di Rubba, già presidente di Lfc e condannato per peculato a 5 anni. Il 18 dicembre 2018, con l’indagine ancora sotto traccia, alla sua banca il professionista “chiede di cointestare il conto aggiungendo il nome della moglie”. Inoltre vengono sottoscritte “tre polizze assicurative (intestate ai figli, ndr) per 600mila euro (…) stipulate dalla moglie con fondi che però erano del marito”. Prosegue la nota: “I due atti in sequenza possono aver avuto la finalità di sottrarre fondi, o tentare di nasconderli da eventuali interventi della magistratura”. Il denaro per le polizze arriva da “accrediti per 1,1 milioni ordinati da Cafin spa per acquisto quote Darfin”, quest’ultima società è riferibile a Di Rubba, mentre Cafin fa parte del gruppo dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara. L’acquisito di quote, spiegherà a verbale il terzo commercialista Michele Scillieri, altro non sarebbe che il pagamento a Di Rubba per prestazioni di mediazione nell’operazione che nel 2018 ha portato nelle casse di Carrara una plusvalenza di 24 milioni per la vendita del Nuovo istituto italiano arti grafiche (comprato in precedenza da Carrara per 5 milioni) al gruppo Pozzoni. L’Antiriciclaggio ha riletto il risiko societario del gruppo Carrara annotando come le “operazioni societarie con scambi incrociati di denominazioni” rendono “pressoché impossibile una puntuale ricostruzione della movimentazione (…). Tale modus operandi è ascrivibile (…) alla regia del commercialista Alberto Di Rubba”. Del resto Di Rubba e Carrara sono legati da antichi rapporti. Nell’elenco delle segnalazioni finiscono anche 72mila euro. La cifra, risulta dalla nota, è per l’acquisito di una supercar modello Audi Sq5 3.0 V6. Nel giugno 2019 Di Rubba fa un bonifico sul conto della Autobiography srl riconducibile a Carrara. Sei mesi dopo da un altro conto la società di Carrara dispone un bonifico a Di Rubba con causale: “Restituzione caparra mancato acquisto auto”. Conclude la nota agli atti dei pm di Milano: “Si ritiene che la restituzione della caparra (di ben 72mila euro) da conto diverso da quello di accredito, a distanza di sei mesi fra due soggetti legati da amicizia e rapporti professionali a fronte di un bonifico che non menzionava la caparra, possa considerarsi sospetto”.

Ora il Nord vuole il congresso per silurare Salvini dopo il voto

Matteo Salvini ha provato a silenziare il dissenso ma questo, alla prima occasione, è emerso lo stesso. Nella Lega però dicono che la pentola non sia ancora scoppiata. Succederà dopo le Amministrative quando non ci saranno solo i sondaggi – “li guardiamo poco”, fanno spallucce in via Bellerio – a certificare il crollo del partito dal 34% delle Europee del 2019 al 20% di oggi. A quel punto a pesare saranno i voti. Quelli persi, soprattutto al nord. Perché di fronte a una débâcle nei grandi centri – Milano, Bologna e Varese su tutti – è pronta la riscossa dei colonnelli in Veneto e Lombardia: chiederanno prima i congressi regionali e poi quello nazionale. O federale, come si dice nel Carroccio dai tempi di Umberto Bossi.

Con quale obiettivo? Ufficialmente per “capire qual è la linea e dove stiamo andando”, ufficiosamente per provare a rovesciare il monarca. Nessuno ancora lo dice così apertamente perché si aspettano le elezioni e perché, al momento, un aspirante al trono ancora non c’è. Eppure i nomi per sostituire Salvini girano sempre più con insistenza: Luca Zaia, ma soprattutto Massimiliano Fedriga che avrebbe il merito di unire il mondo del Nord con l’idea di partito nazionale impressa da Salvini. In Veneto i fedelissimi di Zaia – che ieri sul Corriere ha sfidato il leader dicendo che sul Green pass “ha vinto la linea dei governatori” – di congressi parlano da giorni. Basta sentire Roberto Marcato, uomo vicino al presidente del Veneto: “Nella Lega ci sono tante anime, ora servono i congressi”. È stato lui il primo a prendere le distanze dal nostalgico Claudio Durigon e dai No Green pass (“Roba da medioevo”): si candiderà a capo della Liga Veneta.

Con lui ci sono Marzio Favero, consigliere regionale, Fulvio Pettenà, ex presidente della Provincia di Treviso molto vicino a Zaia e soprattutto Mario Conte, sindaco di Treviso di cui si parla un gran bene nel Carroccio. Il primo obiettivo sarà destituire il commissario regionale Alberto Stefani, molto vicino a Salvini, a cui viene attribuita la colpa di non essere riuscito a incassare un esponente di governo veneto (tranne Erika Stefani). Dopo chissà: dal Veneto assicurano che partirà la riscossa nazionale.

Poi c’è la Lombardia, dove comanda il commissario salviniano Fabrizio Cecchetti. Ma questo è il regno di Giancarlo Giorgetti che qui ha cresciuto una cantera di amministratori e parlamentari: da Guido Guidesi a Raffaele Volpi, da Dario Galli a Massimo Garavaglia fino al capogruppo al Senato Massimiliano Romeo. Anche qui la richiesta di cambiamento è forte. Soprattutto se a Milano a ottobre la Lega sarà superata da FdI. Sotto la Madonnina si gioca molto del futuro politico di Salvini perché è da quella sconfitta che i “nordisti” sperano di trarne vantaggio: “Mettiamo che Fratelli d’Italia prenda più voti di noi – spiega un colonnello lombardo – a quel punto sarà chiaro a tutti che la leadership di Salvini non basta più. E inizierà la corsa a scendere dal suo carro”.

Di fronte alla richiesta del congresso però c’è un ostacolo: i tempi. Salvini vuole posticiparlo a dopo le elezioni politiche, i “nordisti” vogliono celebrarlo prima. Per questo il segretario spinge per eleggere Mario Draghi al Quirinale e andare a votare la prossima primavera così da fare lui le liste elettorali magari escludendo i fedelissimi dei governatori del Nord con la scusa del taglio dei parlamentari.

Il leader, che ha il polso del ventre leghista sopra il Po, questa settimana si è preoccupato. Ha avuto uno scontro durissimo con il capogruppo piemontese alla Camera Riccardo Molinari sul Green pass e si è sentito tradito dagli 87 assenti al voto finale. Quasi tutti eletti al nord. E così prova a dare qualche contentino ai dissidenti: ieri ha annunciato che si batterà per un’altra rottamazione delle cartelle fiscali fino a 20 mila euro. Un altro condonino. E, dopo aver ottenuto la sostituzione di Claudio Durigon e il voto favorevole al Green pass, ora saranno proprio l’autonomia e l’abbassamento delle tasse le prossime battaglie dell’ala “nordista”. Magari facendo affidamento su un loro uomo al Tesoro: per questo i veneti stanno spingendo il padovano Massimo Bitonci per sostituire Durigon. Salvini permettendo.

Cartabia&referendum nel mirino dell’Ocse: Italia osservata speciale

Ce lo chiede l’Europa”: ce lo ripetono spesso, quasi sempre a vanvera, per tentare di farci digerire cattive scelte e pessime leggi imposte dai governi italiani. Anche della riforma Cartabia ci hanno detto che era una richiesta del- l’Europa. Ma che cosa ci chiedono, davvero, l’Europa e più in generale gli organismi internazionali, in materia di Giustizia? Innanzitutto di non far morire i processi, né con la vecchia prescrizione, né con la nuova “improcedibilità”. Lo dimostrano i lavori del Wgb (Working Group on Bribery), il gruppo di lavoro sul contrasto alla corruzione dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

In questo momento, l’Italia è sotto verifica da parte del Wgb. Materie d’esame saranno, necessariamente, anche i referendum di Radicali e Lega, i processi Eni, i conflitti interni alla magistratura, la prescrizione in parte trasformata in improcedibilità dalla Cartabia. È uno dei controlli periodici che l’Ocse realizza con il modello delle “valutazioni reciproche” o “tra pari” che i Paesi accettano con la loro adesione all’organizzazione. Nel 2020 il Wgb ha inviato al governo italiano un questionario, cui il ministero della Giustizia ha risposto coinvolgendo i magistrati, le organizzazioni delle imprese, alcuni ordini professionali. Ora è in corso la seconda parte dell’esame, che prevede anche la visita in Italia dei quattro valutatori del Gruppo, che incontreranno rappresentanti del governo, delle istituzioni, della magistratura, degli imprenditori, delle ong. Questa fase è stata bloccata per oltre un anno dalla pandemia che ha fatto rinviare la visita al gennaio 2022. Allora i valutatori incontreranno anche i magistrati della Procura e del Tribunale di Milano, che sono stati coinvolti nei processi (finiti con assoluzioni) per le presunte corruzioni di Eni in Algeria, Nigeria, Congo.

La pagella finale dell’Italia, se tutto andrà senza altri rallentamenti, sarà pronta nell’ottobre successivo. Il metodo della valutazione reciproca ha portato il nostro Paese, in coppia con la Svizzera, a fare l’esame nel 2012 alla Francia e nel 2018, in coppia con la Finlandia, alla Corea. La valutazione finale della Francia fu severa: soprattutto per la mancanza d’indipendenza dal potere politico dei magistrati d’accusa francesi. Questa volta tocca a noi essere valutati e gli esaminatori saranno gli Stati Uniti e la Germania. Il nostro esame precedente avvenne nel 2011 (giudici l’Australia e la Germania) e il giudizio fu critico: proprio a causa della prescrizione che azzerava migliaia di processi, anche per corruzione internazionale.

Qual è l’oggetto della valutazione? L’attuazione della Convenzione Ocse del 1997, che impegna gli Stati membri a perseguire la corruzione attiva internazionale, cioè quella commessa da propri cittadini nei confronti di funzionari stranieri, nell’ambito di transazioni d’affari internazionali. Entrando nell’Ocse, ogni Stato s’impegna a indagare e condannare i propri cittadini e le persone fisiche e giuridiche che pagano tangenti all’estero, in modo tale che nessun Paese possa avere negli scambi internazionali un indebito “vantaggio competitivo” criminale. È sulla spinta dell’Ocse che l’Italia ha introdotto la legge 231 che punisce anche le aziende i cui funzionari compiono atti di corruzione.

I risultati delle valutazioni del Wgb sono spesso sorprendenti: il gruppo Ocse ha bacchettato Paesi considerati a basso tasso di corruzione interna, come la Svezia, la Finlandia, il Canada, il Giappone, perché il giudizio è, appunto, sulla corruzione negli affari con l’estero. La nostra pagella riguarderà la quarta fase delle valutazioni previste dal Gruppo di lavoro sulle tangenti. Nella prima, si appura l’esistenza di leggi nazionali utili a contrastare la corruzione internazionale. Nella seconda, si valuta la messa in atto di quelle leggi. Nella terza, si constatano le attività concrete che i Paesi hanno sviluppato per bloccare le tangenti negli affari all’estero. La quarta fase, quella finora più matura, verifica lo stato dell’arte in ciascuno dei Paesi valutati. Ora tocca all’Italia.

Una pagina del “Corriere” per gli 80 anni di Dell’Utri

“Un omaggio a un vecchio amico”, che prende la forma di un’intera pagina sul Corriere della Sera, perché quello di ieri non era un compleanno qualunque. Marcello Dell’Utri, ex dirigente di Publitalia, ex fondatore di Forza Italia, ex senatore con nel curriculum una condanna definitiva (e già scontata) per concorso esterno, ha compiuto 80 anni.

E proprio da coloro che lo hanno conosciuto e ne hanno condiviso una parte del percorso in Publitalia è arrivata l’iniziativa: un augurio che ha preso le sembianze di un avviso a pagamento sul quotidiano di via Solferino. Circa 200 firme intorno alla scritta “Auguri caro Marcello” a caratteri cubitali.

L’idea è partita da una pagina Facebook che raccoglie ex dirigenti e lavoratori di Publitalia. “Sono tutti ex dipendenti dell’azienda rimasti amici di Marcello – spiega uno dei firmatari –. Sono vecchi dirigenti, impiegati e qualche segretaria che hanno deciso di fargli gli auguri in maniera abbastanza visibile”. Ma, viene ribadito più volte, “l’azienda non c’entra nulla e allo stesso modo il partito”. E quanto è costato questo regalo? “La cifra da versare non mi è stata ancora comunicata. Mi risulta che costi parecchio, però sono sempre 200 firme, eh”. E via dunque con la colletta, ma ci tiene a sottolineare chi ha firmato “è solo una cosa fra amici, non c’è bisogno di strumentalizzare”. Non è la prima volta che il Corriere pubblica avvisi a pagamento (come quello di ieri) su Dell’Utri. Era già successo nel giugno del 2014 quando era apparsa una pagina “Al tuo fianco, Marcello”, costellata da messaggi. All’epoca l’ex senatore era detenuto a Parma e ci fu una reazione del Comitato di redazione, con i giornalisti che criticarono la scelta della direzione di accettare la pagina. Ieri di nuovo, e tra tra i firmatari del “tanti auguri” non sono mancati Giancarlo Galan, ex governatore veneto ed ex ministro (che ha patteggiato una pena a due anni e 10 mesi nell’inchiesta Mose). E ancora: l’ex sottosegretario Giancarlo Innocenzi Botti e l’ex senatore Massimo Palmizio. Volevano far sentire la propria vicinanza a Dell’Utri, il quale – racconta chi lo sente spesso – “da tempo non ha rapporti né con il partito né con l’azienda”. Condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno, a dicembre 2019 l’ex senatore è tornato in libertà dopo aver scontato poco meno di sei anni grazie alla liberazione anticipata. Ora vive a Milano, “si occupa solo delle vere passioni: i libri antichi. È un vero collezionista e lo hanno anche assolto…” racconta un ex collega di partito facendo riferimento a un’indagine napoletana: Dell’Utri accusato di una presunta appropriazione di tredici volumi della Biblioteca dei Girolamini di Napoli a gennaio è stato assolto. C’è poi la grana della condanna a 12 anni in primo grado nell’ambito del processo sulla Trattativa. La sentenza d’appello è attesa per il 20 settembre, nel frattempo l’ex senatore ha potuto trascorrere un compleanno sereno.

Il rapporto Aifa eventi gravi: 13 casi ogni 100 mila dosi

L’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato l’ottavo Rapporto di Farmacovigilanza sui Vaccini Covid-19. I dati raccolti e analizzati riguardano le segnalazioni di sospetta reazione avversa registrate tra il 27 dicembre 2020 e il 26 agosto 2021 per i quattro vaccini in uso. Nel periodo considerato, spiega l’Aifa, sono pervenute 91.360 segnalazioni su un totale di 76.509.846 dosi somministrate (tasso di segnalazione di 119 ogni 100.000 dosi), di cui l’86,1% riferite a eventi non gravi, come dolore in sede di iniezione, febbre, astenia/stanchezza, dolori muscolari.

Le segnalazioni gravi corrispondono al 13,8% del totale, con un tasso di 13 eventi gravi ogni 100.000 dosi somministrate. Come riportato nei precedenti Rapporti, indipendentemente dal vaccino, dalla dose e dalla tipologia di evento, la reazione si è verificata nella maggior parte dei casi (80% circa) nella stessa giornata della vaccinazione o il giorno successivo e solo più raramente oltre le 48 ore successive. Pfizer è il vaccino attualmente più utilizzato nella campagna vaccinale italiana (71%), seguito da AstraZeneca (16%), Moderna (11%) e Johnson & Johnson (2%). In linea con i precedenti Rapporti, la distribuzione delle segnalazioni per tipologia di vaccino ricalca quella delle somministrazioni (Pfizer 67%, AstraZeneca 24%, Moderna 8%, Johnson & Johnson). (Segue).

Per tutti i vaccini, gli eventi avversi più segnalati sono febbre, stanchezza, cefalea, dolori muscolari/articolari, reazione locale o dolore in sede di iniezione, brividi e nausea. In relazione alle vaccinazioni cosiddette eterologhe a persone al di sotto di 60 anni che avevano ricevuto AstraZeneca come prima dose sono pervenute 248 segnalazioni, su un totale di 604.865 somministrazioni (la seconda dose ha riguardato nel 76% dei casi Pfizer e nel 24% Moderna), con un tasso di segnalazione di 41 ogni 100.000 dosi somministrate.

Secondo il rapporto nella fascia di età compresa fra 12 e 19 anni, al 26 agosto 2021 sono pervenute 838 segnalazioni di sospetto evento avverso su un totale di 3.798.938 dosi somministrate, con un tasso di segnalazione di 22 eventi avversi ogni 100.000 dosi somministrate.

Grasso, il sicario del “Corriere” con licenza di parlare a vanvera

Sul Corriere (della Sera, non dello Sport) di ieri, a pagina 55 (ma solo perché a pagina 26 c’è un paginone a pagamento di auguri a Marcello Dell’Utri), è comparso uno sputacchio a firma dell’esperto di televisione Aldo Grasso contro il prof. Alessandro Barbero, colpevole di averlo deluso: “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente” (i critici di vaglia sono così: le cose che noi consegniamo gratis al compagno d’ascensore loro le scrivono a pagamento sul maggiore quotidiano italiano). In realtà risulta che Grasso amava Barbero fino al dicembre 2020 (“Crede nella sua missione. E poi è molto preparato”) e ha smesso di amarlo dopo l’intervista sulle foibe e sugli attacchi subiti da Tomaso Montanari rilasciata alla sottoscritta (“Vanitoso, superficiale, ridanciano”).

Grasso è un’autorità indiscussa nel suo campo (il sarcasmo fine a sé stesso poggiato su fondamenta teoriche traballanti e arbitrarie), ma il pezzo di ieri è un tentativo di doppia character assassination clamorosamente rabberciato. Vediamone qualche passo: “Il prof. Barbero ha avallato le teorie di Montanari sulla ‘falsificazione storica’ delle foibe”. No: Barbero ha argomentato, da storico, la sua posizione, concorde con quella di Montanari, il quale a sua volta non ha affatto espresso sue strampalate “teorie” sulle foibe, ma si è avvalso delle conclusioni della storiografia più seria, quella rappresentata da studiosi come Angelo d’Orsi e Angelo Del Boca. Ma evidentemente Grasso è contento di pensarla come gli illustri studiosi di Fratelli d’Italia, Italia Viva e CasaPound. Forse il problema è avallare quel che dice Montanari, “un rettore agit-prop”, secondo il Grasso di qualche giorno fa, autore di “una mascalzonata sulle foibe” (è che gli elzeviri dei critici sono di necessità brevi, come rutti o pernacchie, altrimenti chissà con quale dovizia e perizia avrebbe accoppato l’impudente!). Sistemate le foibe, si passa all’altra fonte di delusione: l’adesione di Barbero all’appello degli accademici contro il Green pass: “I professori firmatari, quando hanno potuto accedere ai vaccini per una corsia riservata, si sono ben guardati dal lanciare appelli”. E non si vede perché avrebbero dovuto, visto che Barbero non solo è favorevole al vaccino, ma addirittura all’obbligo vaccinale.

Qualunque approfondimento critico è interdetto al critico. È che questo Barbero comincia a disturbare un po’ troppo: finché parlava del “passato” da Piero Angela andava bene, ora pretende di mettere bocca sul “presente” (sic) contestando una misura del governo, e questo al Corriere non possono accettarlo (auguri, Marcello!). L’occasione, per il simpatico sicario massmediologo, era troppo ghiotta: colpire con una palla sola Barbero, Montanari e chiunque non sia allineato all’oligarchia benedetta dall’establishment per cui lavora.

Ps: Lettura consigliata: Sull’ignoranza delle persone colte di William Hazlitt: “Le cose nelle quali eccelli veramente non contano perché non le possono giudicare. La forza intellettuale non è come la forza fisica. Certe persone non le batti mai”.

Pps: Sappiamo di esserci fatti nemico Grasso, che in quanto tuttologo è temuto da tutte le categorie di lavoratori di concetto, che perciò lo considerano un maestro di pensiero. Pazienza, ci scanseremo per tempo.